Le emozioni tattili e concrete di Hermès

Nella sua collezione di ready-to-wear femminile primavera-estate 2021 per Hermès la stilista Nadège Vanhée-Cybulski propone armature contemporanee legate a una visione surreale e astratta dell’antica Ellade. “Dobbiamo riscoprire la seduzione del tatto, sono affamata di contatto a pelle; è necessario introdurre una nuova modalità per comunicare la moda oggi” spiega nel video backstage della sfilata parigina svoltasi al Tennis Club-la stessa location cara a Céline all’epoca di Phoebe Filo- la creatrice formatasi alla scuola di Anversa, la stessa dove hanno studiato i leggendari Antwerp Six, demiurghi dell’estetica anni’90. Difatti Nadège ha collaborato anche con Martin Margiela che non per niente è stato anch’egli al timore creativo di Hermès nel passato. Il suo tratto avanguardista sposa il classico di una maison squisitamente francese che è una delle ultime, insieme a Chanel, a poter legittimamente issare il vessillo del lusso vero in un momento di caos estetico e di massificazione disperata come quello in cui viviamo. E che cos’è il lusso puro se non il ‘superfluo necessario’e anche timeless?

Così in omaggio al suo credo la stilista si rivela un’amante delle emozioni autentiche derivanti da pellami pregiati declinati in linee severe ma anche estremamente sensuali per abiti desiderabili e molto ‘wearable’, elaborati nella lavorazione ma elementari nelle forme e nei tagli. I nuovi accessori must della maison, le clogs ( i confortevoli zoccoli originariamente in legno e con tallone nudo) in pelle lucida come pure le tote e le tracolle dalle forme squadrate, accompagnano i look calibrati dal giorno alla sera. Il fattore più camaleontico del guardaroba primaverile made in Hermès è indubbiamente il grembiule o ‘tablier’, che evoca un clima familiare e domestico molto ‘smartworking’ e che nel corso del défilé si converte prima in top e poi in sensuale pantalone per poi tradursi in morbido coat. La stilista ha inoltre commissionato ad alcuni artisti delle interpretazioni interessanti dei codici iconografici dell’antica Grecia: così le colonne vengono digitalizzate e i soggetti della ceramica ellenica compaiono sui body lavorati a maglia. La stilista ha dovuto annullare la sfilata resort che era stata programmata ad aprile a Londra ma non ha gettato la spugna. La sua è una collezione resiliente e adatta ai tempi correnti in cui non manca però il fashion touch.

Così le giacche si abbreviano mostrando una vocazione alla costruzione cropped (adoriamo) mentre il gilet adotta una forma singolare mutuando dal look safari il suo stile chic ma funzionale al tempo stesso molto Nicole Kidman in ‘Australia’. Divertente la cage di pelle a quadri da portare secondo la stilista su un minidress di maglia in tinta, un’idea che sembra strizzare l’occhio al concetto moderno di armatura urbana e che si porta da mane a sera. Al crepuscolo la tuta in nero di cadì si apre a sorpresa su body in raso scarlatto. La palette sobria e morigerata, talora illuminata da sprazzi di colori strong come il rosso lacca, riflette lo spirito della collezione rassicurante e pragmatica. Hermès si conferma, anche grazie a quest’ultimo statement di stile, un marchio che a differenza di tanti altri, non punta affatto sulla comunicazione fine a sé stessa e su un deplorevole storytelling arcitrito e molto ‘social’, bensì su contenuti solidi e perennial e su un heritage importante che ne definisce l’incommensurabile valore. Zero fuffa quindi e tanti fatti e bellissimo prodotto di cui abbiamo davvero bisogno, una ricetta che non può che convincere. I tempi di Gaultier, ohimé, sono ormai archiviati perché forse quella grandeur sartoriale e quella eclatante inventiva in un momento come questo non hanno più ragion d’essere, anche se la creatività è sempre stata un potente paracadute in tutte le crisi. Ma tant’é. Per noi avanti tutta anche così.

Robotizzati porta a Roma il nuovo tecno-glamour

Chi non ha mai sognato di conoscere Banjo di Daitarn Tre o di salire sull’astronave di Capitan Harlock alzi la mano. Il mondo dei robot ha definito il nostro immaginario collettivo attraverso forme, fogge e colori che hanno affascinato i ragazzi e gli adulti di mezzo mondo, partendo dal Giappone. Ed è appunto dal Sol Levante, dove ha vissuto per cinque mesi a Nagoya, che Stefano Dominella, patron di Gattinoni Couture e studioso di comunicazione, ha tratto spunto per la sua ultima, suggestiva mostra romana: ‘Robotizzati. Esperimenti di moda’ promossa da Regione Lazio, ideata da Laziocrea e patrocinata da Unindustria con la direzione artistica dello stilista Guillermo Mariotto.

L’esposizione, di scena fino al 24 gennaio 2021 nelle sale dell’arioso spazio capitolino Wegil ristrutturato recentemente grazie alla giunta Zingaretti, esplora l’impatto estetico dell’iconografia dei cyborg come Goldrake e Mazinga ma anche Jeeg Robot, sulla moda degli ultimi cinquant’anni. I robot o mecha, pilotati da una cabina interna, sono una fusione di uomo e macchina. L’intelligenza artificiale è un tema che ha sempre ispirato registi, scrittori e artisti: già negli anni’20 il cineasta tedesco Fritz Lang ha ipotizzato scenari futuribili in cui i robot diventano protagonisti, un mondo al quale si ispirò anche Stanley Kubrick per il suo ‘2001 Odissea nello spazio’. Un film all’avanguardia che ha indubbiamente esercitato un ascendente enorme sul fotografo Peter Lindbergh.

Il mago dell’obbiettivo, nel 1990 per un redazionale pubblicato da Vogue Italia, allora diretto dalla mitica Franca Sozzani, immaginò una bellissima top model (Helena Christensen) che si aggirava nel deserto in compagnia di un piccolo marziano. Spesso nei suoi scatti improntati a un ‘realismo da backstage’, gli abiti di alta moda sono accostati ad algide ma seducenti scenografie fatte di lamiere metalliche e di piramidi di acciaio.

Nel frattempo Isaac Asimov e Philip Dick nella loro produzione letteraria di science fiction hanno raccontato universi paralleli ai nostri appartenenti alla fantascienza e all’utopia tecnocratica, mentre George Orwell si spinse più in là nel terreno della fantapolitica con il romanzo corrosivo ‘1984’, opera estremamente profetica e molto attuale. Agli inizi degli anni’80 poi Ridley Scott con ‘Blade Runner’ e i sequel di ‘Alien’ ha immaginato il destino dell’umanità all’epoca dei replicanti. Ma facciamo un passo indietro: già nel 1969 in occasione del primo sbarco sulla luna con l’astronauta Neil Armstrong il mondo intero immaginò come sarebbe stata la vita su altri pianeti. Molti couturier come André Courrèges e Pierre Cardin cominciarono a sperimentare materiali insoliti come il pvc, il lurex e il rodoid per mise avveniristiche ‘stregate dalla luna’ e dal design decisamente inconsueto, mentre lo spagnolo Paco Rabanne, il ‘Nostradamus della haute couture’, già assistente di Balenciaga, elaborò le prime collezioni di ‘moda profetica’ basandosi su materiali hi-tech come maglie metalliche, plexiglass e trame di alluminio assemblate con strumenti degni di un ferramenta e forgiate sul corpo femminile, tanto che Coco Chanel, invidiosa del suo successo, lo definì in tono sprezzante ‘il metallurgico’.

A lui dichiararono eterno amore molte star dello spettacolo come Françoise Hardy, Amanda Lear, Audrey Hepburn e Jane Fonda che sfoggiò i suoi modelli space age nel film ‘Barbarella’ (1968) di Roger Vadim. Negli anni’70 Emilio Pucci pensò all’era spaziale nella collezione ‘Apollo 15’ mentre la sarta milanese Germana Marucelli intrecciò una feconda collaborazione con l’artista OP Getulio Alviani per una serie di tuniche illuminate da dischi di alluminio simili a navicelle spaziali. Fino ad arrivare alla rivoluzione tecnologica introdotta da Gianni Versace, re del tecno-glamour, a partire dal marzo 1982 con il suo oroton con il quale modellò sensuali pepli di maglia metallica simili alle corazze di Giovanna D’Arco, molto apprezzati da Milva, Fanny Ardant, Ornella Vanoni e Candice Bergen. Era l’epoca di Excalibur e di Star Wars e il geniale stilista prefigurò il futuro usando il laser per eliminare le cuciture, e la gomma al posto della pelle ricorrendo al computer per tracciare i pattern jacquard della sua maglieria ‘archeologica’. E fu subito avanguardia. In epoche recenti anche Alexander McQueen e Gareth Pugh hanno plasmato silhouette palesemente ispirate al mondo cyber, con spalle imponenti e vita sottile.

Ma sono soprattutto le linee e le forme dei robot dei cartoni animati giapponesi, che hanno tenuto incollati al tubo catodico intere generazioni (compresa quella di chi scrive), ad aver influenzato le creazioni dei più famosi fashion designer internazionali presenti nell’esposizione: da Thierry Mugler a Jean Paul Gaultier, da Prada ad Antonio Marras, da Giorgio Armani a Paco Rabanne, da André Courrèges a Yohji Yamamoto. E ancora Gianfranco Ferré, Martin Margiela, Alexander McQueen, Enrico Coveri e Mila Schӧn, Philipp Plein e Max Mara fino a Raniero Gattinoni, Gucci, Kansai Yamamoto, estroso costumista di David Bowie negli anni’70, e Guillermo Mariotto, direttore creativo di Gattinoni Couture e irriverente personaggio televisivo che ha ideato vari abiti nati per la mostra. Come la tunica nera rivestita di cubi di gomma piuma o le mise siderali ricoperte di maglia metallica che sembrano uscite dal film ‘ex machina’ con Alicia Vikander.

Accanto alle creazioni dei big in mostra trovano spazio anche le sperimentali invenzioni dei giovani talenti della moda selezionati da Dominella e Mariotto: fra gli altri Antonio Martino, Francesca Nori e Andrea Lambiase, assistente di Iris van Herpen, stilista olandese all’avanguardia nel gotha della moda. Lo spazio Wegil ospita anche una vera e propria mastodontica scultura realizzata da Silvio Tassinari con una stampante 3D e una serie di 50 chogokin, robot in metallo destinati agli adulti, nonché le opere del brillante e talentuoso artista pluripremiato Federico Paris che presenta nell’esposizione la sua originale versione della donna robot. Il futuro è già qui con ‘Robotizzati’.

Filippo Gualandi, l’adone della porta accanto

Filippo Gualandi, l’adone della porta accanto

Per i Greci, ma soprattutto per Platone, bellezza e virtù erano sinonimi. Tanto che nel mondo antico esisteva l’endiade ‘kalòs kaì agathòs’. Dalla mia intervista con Filippo Gualandi, vincitore de ‘Il più bello d’Italia 2020’ , il prestigioso concorso di bellezza maschile istituito dai fratelli Fasano nel 1979 che ha lanciato talenti come Gabriel Garko, Ettore Bassi, Giorgio Mastrota, Beppe Covertini, Massimiliano Morra e Raffaello Balzo, emerge chiaramente l’attualità di questo binomio. A 20 anni questo adone bolognese nato nel segno della Bilancia, nuotatore professionista e amante degli action movies, ha già una visione del mondo molto chiara e inequivocabile. Il suo sogno è fare l’attore anche se, nonostante la febbre da social che ha contagiato molti suoi coetanei, Filippo non ha troppi grilli per la testa ed è anzi disposto a lavorare sodo per realizzare i suoi obbiettivi, come è giusto che sia. Noi lo abbiamo intervistato.

Complimenti Filippo per il tuo meritato titolo. Come e quando ti sei avvicinato al prestigioso concorso ‘Il più bello d’Italia’? 

Tutto è cominciato quando Marco Galizia e una sua amica, titolare di un importante shop di Forlì, mi hanno avvicinato in spiaggia in Romagna. In quell’occasione ho vinto il concorso ‘Fascino’ e sono stato selezionato come nuovo talento. Successivamente sono approdato alla finale de ‘Il più bello d’Italia’ di quest’anno mediante Paolo Zaccaria che mi ha selezionato in Emilia Romagna. Un’esperienza stimolante che non dimenticherò facilmente.

Perché secondo te la giuria del concorso ti ha premiato?

Non so, forse perché sono un tipo solare che affronta la vita col sorriso, nella prova ‘talento’ ho raccontato una spassosa barzelletta e la giuria ha riso di gusto. Probabilmente hanno apprezzato la mia spontaneità e il mio atteggiamento positivo e spigliato.

Quanto tempo passi allo specchio in media ogni giorno?

Non amo guardarmi allo specchio. Piuttosto mi alleno nella mia stanza per fare i miei video per Tik Tok in cui ho modo di sperimentare la mia vena per la recitazione.

Ti piace la moda? Qual è il tuo look ideale?

Sì, moltissimo. Per me la moda è un’arte, una forma di espressione altamente creativa e fra gli stilisti prediligo Giorgio Armani per la sua giacca destrutturata, per me lui è il numero uno. Mi piacerebbe diventare un modello professionista e sfilare per lui, sarebbe un grande onore per me. Privilegio un look semi formale e dégagé, uno smart tailoring diciamo.

Come curi il tuo corpo?

Oltre a praticare il nuoto (Filippo è istruttore certificato n.d.r.) scio da quando avevo 3 anni. Inoltre amo la palestra a corpo libero. Per me l’alimentazione è fondamentale, evito il junk food come la peste e cerco di impormi una grande disciplina perché credo che oggi la presenza fisica sia e resti il principale biglietto da visita di una persona. 

Quali sono le tue passioni maschili?

Adoro le vetture di lusso e le gare di Formula Uno, ritengo che il nostro paese possa vantare un primato anche nell’industria automobilistica.

Colore preferito?

Il verde acqua. 

Ultimo libro letto?

‘Le vostre zone erronee’ di Wayne Dyer, un testo illuminante anche per chi voglia apprendere le tecniche di comunicazione.

Quali sono i tuoi attori preferiti, i tuoi modelli?

Ammiro e seguo Raul Bova anche perché è un nuotatore come me. Ma amo molto anche gli attori degli action movies come i protagonisti della saga ‘Fast & Furious’.

Cosa pensi dell’impatto sociale della bellezza, in special modo quella maschile? Ti sei mai sentito un ‘uomo oggetto’?

Credo che in una civiltà dell’immagine come quella in cui viviamo la bellezza sia un valore fondamentale. Sentirsi a proprio agio nel proprio corpo è un punto di forza, anche per l’uomo. Oggi la bellezza, e il caso della modella armena di Gucci lo dimostra, è diventata più relativa e soggettiva. Mi capita di essere guardato da tante donne mentre passeggio per strada ma questo non mi disturba, anzi mi lusinga. No, non mi sono mai sentito un uomo oggetto. Penso però che una bellezza avulsa dalla personalità possa rivelarsi effimera a lungo andare: è un po’ come un bel vaso vuoto. 

Cosa pensi della sovraesposizione del corpo maschile? Poseresti nudo se te lo chiedessero?

Mi ha molto divertito lo spot di ‘Idealista’ in cui il ragazzo si spoglia mentre gli mostrano una casa, di certo lo farei anche io se me lo chiedessero. La nudità di per sé non è un problema, dipende sempre da come viene contestualizzata e dal regista e dal fotografo che mi chiede di posare nudo e perché no? Anche dal cachet che mi propongono. L’attuale rivalutazione del corpo maschile per me è assolutamente legittima: è giusto che anche gli uomini imparino a valorizzare la propria bellezza come per secoli hanno fatto le donne. E un maschio ha diritto a esibire il proprio corpo se lo ritiene opportuno. In questo senso la moda e l’etica comune sono evolute sullo stesso versante. 

Come vedi la ‘identità fluida’?

Approvo in pieno la teoria no gender, oggi non è necessario definirsi sessualmente, ciò che conta a mio avviso è stare bene con sé stessi. 

Quale è la tua posizione sul massacro di Colleferro? Come si può evitare che fatti simili si ripetano?

E’ una tragedia orripilante. Gli assassini di Willy Monteiro sono individui incapaci di comunicare in modo civile e, come giustamente ha dichiarato il noto psichiatra Vittorino Andreoli, ‘hanno il buio nella mente’. L’unica via di salvezza di fronte a un degrado morale di queste dimensioni è la cultura. Gli influencer oggi dovrebbero educare i ragazzi a ripudiare il ricorso all’aggressività.

Che consigli dai a un ragazzo che condivide le tue stesse aspirazioni?

Di seguire sempre il proprio istinto e di non mollare mai, gli ostacoli devono rafforzarci nel perseguimento dei nostro obbiettivi.

Come ti vedi fra dieci anni? Aspiri a costruirti una famiglia?

Per me la famiglia non è una priorità. Attualmente sono single e vorrei dedicarmi ai miei impegni professionali nello spettacolo studiando seriamente recitazione. Ritengo difficile conciliare la carriera e la vita affettiva per chi come me ambisce ad affermarsi nel mondo dello showbiz.

Lo charme contemporaneo di Valentino

Lo charme contemporaneo di Valentino

Una grazia leggiadra volteggia in passerella. Lo spirito di Valentino rivive in creazioni palpitanti e romantiche fatte di pizzo e chiffon, di seta e di pelle in una sinfonia di stile che evoca in parte la dolce giovinezza di Brooke Shields, icona di Valentino nei primi anni’80. Per l’estate 2021 Pierpaolo Piccioli, direttore creativo della maison fondata nel 1959 da Valentino Garavani, e oggi consigliere di stile di Jennifer Lopez, Lady Gaga, e Mika, riformula il lessico del marchio con la prima sfilata offline a Milano dopo anni di assenza della maison dall’Italia. Era il 1989 quando Valentino decise di lasciare la passerella di Roma per presentare la sua couture a Parigi, mentre dagli anni’70 la ville lumière è la cornice d’eccezione del ready to wear femminile; solo il menswear, insieme alla linea valentino Night, invece veniva svelato a Milano soprattutto negli anni’90. Il ritorno di Valentino, oltretutto con una sfilata in presenza, è un segnale: “Credo che, in questo periodo storico, sia di fondamentale importanza rimanere concentrati sul lavoro da compiere. È stimolante poter pensare a nuove idee, e questo è il tempo, in cui le idee possono crescere e diffondersi. Milano è una nuova opportunità, un grande progetto che sto sviluppando con i miei team, sul concetto di identity”, parola di Piccioli. E la sfilata coed, che è stata ospitata negli spazi post-industriali di un’acciaieria meneghina trasformata in un grande open space fiorito allietato da una performance musicale live, è un esempio di come questa nuova identità, egualitaria e plurima, ibrida ma decisa, possa moltiplicarsi in passerella attraverso un casting fatto di individui visti attraverso un prisma di forme e colori.

Il nuovo normcore imposto dall’austerity imperante, si affaccia nel nuovo guardaroba proposto da Valentino fin dal mattino e dal daywear: gli orli sono succinti o lunghi fino ai piedi, le linee fluide e danzanti accarezzano il corpo, le fantasie macro e squillanti si alternano a colori saturi che bruciano la retina, ingentiliti da un tourbillon di rouche e volant, dettagli decorativi cari al civettuolo e spumeggiante linguaggio stilistico della maison.

Le trine, realizzate anche in paglia e in forma di crochet, imperversano ovunque in omaggio a una nuova gentilezza di cui abbiamo un urgente e disperato bisogno. Giacche destrutturate in versione fustellata e gonne traforate effetto macramé nobilitano gli outfit apparentemente più basici guidati da un’idea della semplificazione generale delle fogge suggerita anche dall’ubiquità del denim.

Anche le bluse maschili sono declinate in aereo chiffon. E la couture diventa craft, artigianalità da vivere nel quotidiano. Gli accessori di punta del brand capitolino soffrono di gigantismo: la rose bag, che ha esordito nel défilé autunno-inverno 2020-21, assume dimensioni maxi, le bags di collezione hanno una allure materica, grandi fiori sbocciano sui sandali, le ormai iconiche rockstud, assurte a talismani di eleganza moderna, si alternano ai boots dalla presenza assertiva. La sera si accende di una luce che fende le tenebre. 

Il raffinato intimismo di Fendi

Il raffinato intimismo di Fendi

Gruppo di famiglia in un esterno per Fendi. La storica maison romana, oggi controllata da LVMH, rilegge il presente in un’ottica aggregante che rilancia il valore della memoria nel segno di un neoromanticismo legittimato da lavorazioni trionfanti e da un uso virtuosistico dei pellami. Preceduto da un video realizzato da Nico Vascellari in cui si alternano le varie generazioni di questa meravigliosa dinastia della moda, lo show si snoda sulle note di una colonna sonora assemblata dal vivo dal musicista italiano Lorenzo Senni e accompagnata da un quartetto d’archi, in attesa del ‘battesimo del fuoco’ di Kim Jones. Il nuovo direttore creativo della maison e osannato stilista di Dior Men debutterà come delfino di Karl Lagerfeld nel febbraio del 2021.

Nel suo ultimo défilé coed affidato alla direzione creativa globale di Silvia Venturini Fendi (riconfermata come stilista degli accessori e del menswear) e ambientato in un’enorme stanza ideale inondata da un sole radioso che penetra nel salone attraverso finestre digitali, le creazioni del marchio pongono l’enfasi sulla naturalezza intimistica dei capi impreziositi da lavorazioni inusitate, come sempre all’altezza delle aspettative. E così l’à-jour crea trasparenze inattese sulla pelle baciata dal sole, i ricami jour d’echelle si fondono con le piume che rendono le mise estive più evanescenti e vaporose,  i dettagli sartoriali si “imprimono” sulla maglieria trompe l’oeil, le vestaglie brodée e le tuniche svasate elevano il comfort della vita domestica.

La purezza del lino ha un ruolo essenziale nel guardaroba assemblato da Fendi: accarezzato dal cotone, dalle piume, dalla pelliccia e dalle trapunte in piumino, evoca immagini di biancheria da letto e da tavola ricamata, ricordi tramandati di madre in figlia. La palette respira nelle naturali sfumature del grano, del latte e del miele, tra i riflessi dell’azzurro del cielo e del rosso cardinale, mentre un bianco e nero cinematografici brillano come riflettori puntati sul tessuto. Leggerezza e profondità si fondono nella biancheria con pattern floreale délavé, nelle pellicce fustellate, nelle trapunte in satin boutis, nell’intricata lavorazione dei grembiuli in duchesse di seta, tulle ricamato e gazaar. Gli abiti raccontano le storie del rigore artigianale italiano e l’emozione della nostra esperienza universale: il savoir-faire di Fendi applicato a un momento surreale come quello che nel bene e nel male stiamo vivendo.

Anche il cast della sfilata, modulato nel segno dell’inclusione, racconta il senso di appartenenza a una community trasversale espresso dal mood della collezione in cui il candore luminoso del bianco lattiginoso è mitigato da lampi di rosso rubino, di arancio e di giallo limone: i top model più giovani si alternano in passerella ai perennial come Mark Vanderloo e Penelope Tree, icona della Swinging London, di Avedon e di David Bailey, senza dimenticare Edie e Olympia Campbell, Cecilia e Lucas Chancellor, Philippe e Dries Haseldonckx, mentre le modelle curvy come Ashley Graham incedono fra luci e ombre che esaltano la bellezza timeless delle lavorazioni.

Gli accessori sono come al solito un exploit creativo: . la baguette fatta a mano in Abruzzo è realizzata in merletto a tombolo aquilano inamidato nello zucchero, una tecnica perfezionata dalle monache benedettine sin dal XV secolo. La Baguette strutturata, proveniente dalle Marche, è tessuta in fili di salice naturale, ispirata alle ceste dei pescatori locali. Eterei veli di seta ricamati fluttuano sulle borse Baguette e Peekaboo in pelliccia floreale e cotone ajouré o il logo doppia effe in pelle trapuntata.

Proliferano le texture intrecciate: panieri in PVC riciclato, tote con struttura stretch traforata, cestini da picnic e valigie in tela diventano soluzioni pratiche e spensierate per la vita quotidiana. La seconda capsule collection Fendi x Chaos vede protagoniste cinture “grembiule” laser-cut e ajouré che contengono “tech jewellery” nei colori pastello, e orecchini a catena impreziositi da perle e da impertinenti dadi logati Fendi. Donne con stivali intrecciati, décolleté stretch e slide da piscina in rattan evocano un’eleganza primaverile. Per l’uomo, le scarpe da vela sling-back e le low-top T-bar sono i nuovi classici.

La valle delle bambole di Moschino

La valle delle bambole di Moschino

Partire dal piccolo pensando in grande. E siccome una sfilata non poteva farla senza pubblico, quel geniaccio discolo e vulcanico di Jeremy Scott, che una ne pensa e cento ne fa, si è inventato una trovata davvero brillante: una sfilata bonsai con bambole al posto delle modelle e un pubblico di marionette con le fattezze degli opinion leader della moda. Così Moschino si è messo in scena a Milano, perché una risata ci seppellirà. Il concetto è semplice: cosa può esserci di più attuale di un mondo a soqquadro o ‘sotto sopra’? Tutto questo deve e può tradursi in abiti che svelano tutti segreti della loro elaborata e sofisticata costruzione surreale. Il nostro mondo è sempre più surreale? E allora perché non esibire le cuciture interne degli abiti, lusso supremo da sempre prerogativa della haute couture che si basa su imbastiture e cuciture? Bordi, nervature, stecche da corsetteria, pannelli, pince e rifiniture occhieggiano sulla parte esterna dei capi. Le tasche dei pantaloni sventolano liberamente come drappeggi a petalo. Una cerniera su un abito scollato è applicata esternamente, per terminare in un risvolto in jacquard dorato cucito sul retro mentre una gradevole stampa piume evoca il clima ovattato dei défilé confidentiel degli atelier parigini degli anni’50.

Gli abiti sono accuratamente realizzati inside-out, mentre le sottogonne di tulle a ruota si allungano oltre gli orli per creare silhouette e proporzioni non convenzionali. Nelle fogge delle creazioni in pedana è all’età aurea dell’alta moda francese che guarda Scott chez Moschino con la sua galleria di abiti in miniatura che ricordano ‘Le Theatre de la mode’ del secondo dopoguerra evocando anche il glamour delle poupée che all’epoca del Re Sole erano le uniche mannequin che la moda aulica conoscesse. La palette è simile a quella della precedente collezione, un en plein ispirato ai fasti della corte di Marie Antoinette.

Tanti i dolci toni pastello molto ancien régime come il rosa confetto, il crema, il verde acqua, l’azzurro cielo, il cremisi, tutti stemperati da una verve ironica e graffiante che riproduce, nel parterre, i tratti iconici di Anna Wintour e di Hamish Bowles, di Chiara Ferragni e di tutte le icone della moda attuale. Da Dior a Fath, da Balenciaga a Patou fino a Pierre Balmain e Charles James, la lezione dei grandi couturiers parigini viene rivissuta da Jeremy Scott con il suo tipico gusto per lo sberleffo ma anche con una notevole perizia tecnica e uno styling sempre cool e accattivante.

Il grande spettacolo delle bambole glamour allestito per lo show digitale è il risultato pregevole e dissacrante di The Jim Henson Creature Shop in un tripudio di oro e broccato, di tulle e organza, di morbide princesse e curve burrose con una panoplia di accessori divertenti ed eleganti che sembrano simulare il capitonné dei divani ottocenteschi. Ancora una volta il bad boy della scena fashion ha fatto centro con una collezione spiritosa e dall’elevato contenuto moda, moderna e timeless ma senza mai prendersi sul serio.

Il Dolce Stil Novo di Alberta Ferretti – PE 2021

Il Dolce Stil Novo di Alberta Ferretti

Quando pensiamo alla femminilità il riferimento ad Alberta Ferretti è immediato. Per la primavera-estate 2021 la stilista romagnola porta in passerella a Milano nei maestosi cortili del Castello Sforzesco una donna gentile ma forte, una ninfa botticelliana dall’allure dégagée dalla mattina alla sera. Tutto scivola sul corpo come una vestaglia di seta baciata dal sole, o come un soffio di primavera e la sua musa, allergica all’esibizionismo gratuito, sembra più una dama rinascimentale che non una hippy, come è stata a nostro avviso erroneamente e troppo frettolosamente definita.

La bellezza classica delle icone di Leonardo, delle statue di Canova e dei dipinti di Alma Tadema come anche la sensualità leggiadra di Nicole Kidman in ‘Australia’ rivivono in silhouette flessuose e allungate dove il daywear, in coerenza con la magistrale collezione dell’autunno-inverno 2020-21, assume una nuova rilevanza rispetto al percorso storico della maison. Declinando un linguaggio neoromantico che affida a una galvanizzante gentilezza un ruolo primario nel definire il suo stile, la carismatica signora della moda forgia un guardaroba fatto di morbide giacche doppiopetto, di soavi bluse di suède, di carezzevoli denim stinti e ritinti, di preziose combinaison di dentelle, di sofisticati e piccanti reggiseni e bustier da maliarda soft che, in omaggio a un’estetica collaudata negli anni’90, diventano la panoplia della seduzione della donna di oggi.

La palette è suadente come le linee degli oufit di collezione: dal pistacchio al melone, dall’ambra al terra di siena, dall’albicocca al giallo limone. Nonostante il lodevole e palese impegno profuso dalla designer nelle mise da mattino e negli accessori-desiderabili i nuovi sandali flat- è nel cocktail e nell’eveningwear che il talento e la sensibilità creativa della stilista continuano a esprimersi al meglio. E’ evidente nei lunghi abiti ajouré dai colori ammalianti, nelle sontuose lavorazioni lingerie che occhieggiano alla vera couture, nelle fogge lineari e romantiche che ricordano le fanciulle vittoriane di ‘Picnic a Hanging Rock’ e di certi film di Sofia Coppola come pure le attrici di ‘Piccole donne’, negli effetti tie and dye dei lievi slipdress dalla insostenibile leggerezza.

Un’ode a una raffinatezza assolutamente timeless. E per l’inverno alle porte la talentuosa e raffinata stilista di Cattolica punta su sfiziose e romantiche maglie in cashmere ecosostenibile caratterizzate da quattro slogan dedicati alla vita: Life is desire, Life is passion, Life is a dream e Life is joy. Per il lancio ufficiale del progetto, Alberta Ferretti ha voluto raccontare la vita nelle sue sfumature più belle attraverso le testimonianze video di alcun fashion talent che hanno condiviso le proprie emozioni: Coco Rebecca Edogamhe, Beatrice Vendramin, Linda Tol e Renwe Jules, Gilda Ambrosio e Niki Wu.

La collezione Life is è disponibile nelle boutique monomarca, sul sito albertaferretti.com e presso una rete esclusiva di multibrand italiani e internazionali.

L’importanza di pensare in Grande

L’importanza di pensare in Grande

Anton Giulio Grande è l’ultimo dei romantici, e soprattutto un vero, inguaribile esteta. Difficile incontrare nella moda uno come lui, un dandy mediterraneo amante del classicismo ma anche aperto alla trasgressione. Colto, curioso e cosmopolita, Anton Giulio è grato alla sua Roma che lo ha adottato negli anni’90 e che gli ha regalato la magia delle passerelle nelle location più esclusive e scenografiche. Come la spettacolare scalinata di Trinità dei Monti che ha accolto le creazioni sexy e raffinate del couturier ben quattro volte verso la fine degli anni’90 nella cornice dell’indimenticabile rassegna di alta moda ‘Donna sotto le stelle’ trasmessa in mondovisione. Formatosi nelle ‘humanae litterae’ e con una passione irriducibile per l’arte in tutte le sue forme, da Raffaello a Francis Bacon, Anton Giulio ha appreso le tecniche della couture al Polimoda di Firenze e al prestigioso FIT di New York, frequentato anche da uno dei suoi idoli, Tom Ford. Nel suo atelier si è fatto le ossa anche Massimiliano Giornetti, fashion designer di portata internazionale.

La sua alta moda emana brividi e vere emozioni ma soprattutto dà la percezione di quello che dovrebbe essere il ruolo sociale di uno stilista: rendere più belle le persone. Image maker ma anche interprete del suo tempo, Anton Giulio Grande, coccolato nei suoi 20 anni di carriera da dive, maliarde del jet set e icone dello stile, da Rita Levi Montalcini a Sophia Loren, da Asia Argento a Claudia Cardinale fino a Dalila di Lazzaro, è stato definito il ‘delfino di Gianni Versace’ con la benedizione di Santo, fratello del mito della moda italiana e stratega del suo impero miliardario. Non per niente dalla Magna Grecia e dalla ridente e selvaggia Calabria immortalata nel magnifico film di Mimmo Calopresti ‘Aspromonte’ una delle pellicole più belle del 2020, proviene anche Anton Giulio, grande di nome e di fatto. Devoto alla lezione dei grandi maestri della haute couture come Valentino Garavani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré, Emanuel Ungaro, ma anche Yves Saint Laurent, Karl Lagerfeld e Cristobàl Balenciaga, lo stilista lametino è in realtà assolutamente calato nella contemporaneità. Non a caso il suo profilo Instagram è seguito da più di 65.000 persone in tutto il mondo. Ma dall’alto della sua cultura e della sua passione per il bello, Grande non si scompone mai senza perdere un filo di politesse da gentleman latino, affrontando la sua vita con garbo, senza sbavature e senza mai calcare i toni, fedele alla sua missione di valorizzare il corpo femminile e maschile e di coltivare ed esaltare la bellezza come valore estetico e come vocazione onde ricomporre l’antico dualismo fra apollineo e dionisiaco, fra ésprit de geometrie ed ésprit de finesse. Lo abbiamo incontrato per un dialogo intimo con uno dei protagonisti dell’alta moda italiana, quell’alta moda che oggi purtroppo rischia di scomparire, immemore della sua ormai remota grandeur. Per Anton Giulio Grande la moda è aspirazionalità e sogno a occhi aperti, un elemento che emerge esplicitamente dalla nostra conversazione. 

Anton Giulio quali sono le sue icone, i suoi fattori distintivi? 

Sono cresciuto a contatto con le donne del Sud, mia nonna paterna era una sarta molto creativa ed elaborava sofisticate coperte di macramé. Da lei ho ereditato la mia passione per gli abiti di pizzo, per gli scialli finemente ricamati che avvolgono il corpo in un sinuoso abbraccio, per le sottili trasparenze, per le lievi plissettature, per il nero e per i corpetti sensuali. Per me la sensualità è il linguaggio espressivo della libertà, una libertà che appartiene a tutte le donne e le rende più attraenti e più desiderabili. E la seduzione è una liturgia complessa legata all’anima e alla testa più che alla mera corporeità. Molte delle mie clienti oltre a un corpo sensuale possiedono talento e professionalità, sono donne impegnate in vari ruoli sociali di rilievo e tutte vogliono sentirsi a loro agio nei propri panni, senza abiurare alla loro innata femminilità.

Cosa ha significato per lei la quarantena

L’ho sfruttata come un’opportunità per riflettere sul mondo e sulla vita, per rileggere i classici ma anche per scoprire nuovi scrittori, perché l’alta moda è cultura. Adoro leggere autori come Goethe, Proust, Oscar Wilde, Baudelaire, Apollinaire ma anche Pirandello, Kafka e fra i moderni Isabel Allende e Garcia Marquez. Mentre disegno mi piace ascoltare la musica classica ma anche il pop e il rock, da Mina a Milva, da Freddy Mercury al ‘duca bianco’ David Bowie di cui apprezzo il raffinato camaleontismo. In questa pausa forzata ho continuato ad alimentare la mia vena creativa anche se ho percepito il disagio di non poter passeggiare per le strade per osservare lo ‘street style’, visitare i musei e per frequentare i miei amici. Uno stilista deve essere sempre connesso col mondo e in parte direi che mi sono sentito ‘disconnesso’ in questa delicata fase storica, un momento epocale che può essere l’occasione per una rinascita autentica anche nel nostro stile di vita, perché come diceva Einstein “dopo il buio viene sempre la luce” e le crisi  possono essere provvidenziali a volte. Ecco, io mi sento positivo e ho mille progetti. Come per esempio una linea di accessori, dagli occhiali alle clutch, fino ai profumi e gli scialli di pizzo e cachemire che si addicono a qualunque mise.

Qual è secondo lei il futuro del Made in Italy? 

Non dico che dobbiamo dimenticare la dimensione globale dei nostri interessi ma sicuramente dovremmo riscoprire il genius loci perché noi italiani di bellezze e di eccellenze possiamo vantarne tantissime. Il pizzo per esempio non è nato, come erroneamente si ritiene, in Francia ma viene bensì da Venezia. Ci sono magnifici merletti e pizzi italiani che non hanno nulla da invidiare a quelli francesi, belgi e fiamminghi. La nostra italianità deve essere la base da cui ripartire, il nostro cavallo di battaglia. E per affrontare le sfide future non possiamo rinnegare le nostre radici perché in fondo come diceva Giambattista Vico la storia è ciclica e non così lineare.

Lei ha dedicato la sua carriera all’esaltazione della bellezza femminile, nel segno di un erotismo decorativo che ha incantato molte delle sue più celebri clienti e amiche. Quali sono le sue muse? 

Ne ho diverse e prediligo le ‘belles dame sans merci’, le femmes fatales: Greta Garbo, Rita Hayworth, Gloria Swanson e Lana Turner. Per il suo stile inimitabile ho sempre amato Maria Callas, grande icona di stile, la magnetica Silvana Mangano che Roberto Capucci vestì nel 1970 per il set di ‘Teorema’ e la straordinaria Valentina Cortese. Ho un debole per la conturbante Corinne Cléry che esordì nel 1977 con ‘Histoire d’O’ di Just Jaeckin ed è oggi una delle mie più care amiche, fino all’ineguagliabile Dalila di Lazzaro consacrata da Andy Warhol, che ha indossato un mio impalpabile abito bianco a Cannes, e Joan Collins che è un inossidabile mito di glamour e ironia. Ho il privilegio di conoscere fra le dive di nuova generazione la carismatica Isabella Ferrari, la meravigliosa Violante Placido e la bellissima Miriam Leone, una rivelazione ormai molto ricercata e affermata che ho ammirato nella trilogia ‘1992-93-94’. A mio avviso con la sua personalità assertiva e la sua esuberante malia è l’interprete ideale del mio stile wilde e raffinato calato nella realtà di oggi. Sono attratto anche dallo charme irresistibile di Anna Magnani che per me resta un’epitome di prorompente femminilità abbinata a un incredibile talento.

Fra i vari materiali che impiega per realizzare le sue creazioni ce n’è uno che più si adatta oltre al pizzo a esprimere al meglio i suoi ideali estetici? 

Beh, direi le piume perché conferiscono brio e libertà a qualunque mise sdrammatizzando l’eleganza più aulica e autoreferenziale soprattutto dal cocktail alla sera. Adoro il movimento che le piume creano intorno al corpo con la loro aggraziata e spumeggiante leggerezza mettendo le ali alla femminilità.

Quale consiglio si sente di dare a una donna che vuole sempre essere impeccabile e insieme stylish? 

Non inseguire le mode più effimere perché, come diceva Coco Chanel, “la moda passa ma lo stile resta”. Essere fedeli alla propria personalità quando si sceglie un guardaroba o anche solo un singolo capo. Ridurre al minimo gli orpelli e puntare sulla qualità e non sulla moda ‘mordi e fuggi’. E poi credere in sé stesse, perché senza personalità anche il più magnifico degli abiti diventa uno strofinaccio. Bisogna interpretare un abito, renderlo vivo con il proprio inconfondibile stile e con un’allure che è fondamentalmente innata. Ogni donna è speciale e il suo abito deve dimostrarlo. Il guardaroba ideale deve prevedere capi di qualità, realizzati con tessuti pregiati e rigorosamente naturali come lino, cotone, seta, raso anche rigenerati se necessario. Nell’armadio di una donna non devono mai mancare a mio avviso: una giacca tuxedo dal taglio sartoriale in cady con revers di raso, una camicia candida e vaporosa in organza, un tubino che è un immancabile passepartout, e un fourreau. Must have fatti per durare.

E l’uomo di Anton Giulio Grande come si definisce?

In passato ho creato anche capi maschili e tornerò a farlo molto presto. L’uomo che vesto è il partner ideale della mia musa ispiratrice, un vate dannunziano redivivo amante di velluti e sete per languide vestaglie che scivolano sensualmente sul corpo. Virile ma sofisticato, alterna i pullover in cachemire ai jeans gioiello e perché no? Anche a piccanti bluse trasparenti, perché il sex appeal non ha sesso né età.

Il Nuovo Rinascimento di Max Mara – PE 2020

Il Nuovo Rinascimento di Max Mara

Beatrice D’Este e Isabella Gonzaga, Eleonora di Toledo e Lucrezia Borgia fino alla Fornarina, a Caterina Dé Medici e alla Gioconda. Sono queste le eroine di Ian Griffiths chez Max Mara per la primavera-estate 2021. Max Mara è stata fondata da Achille Maramotti in un periodo di transizione e di fervida rinascita. Nella stagione del boom della moda del dopoguerra l’Italia ha reinventato i classici del guardaroba universale con perizia artigianale e uno sguardo attento al design. Max Mara ha sempre creduto nel concetto di “Bella figura” che esprime l’importanza di presentarsi al meglio. Quel mantra non è mai sembrato più valido di ora. E quindi, come ci si veste per ricostruire il mondo e fare “bella figura”? Con un morbidissimo spolverino in cashmere, un tailleur perfettamente costruito, un trench meticolosamente curato, una impeccabile camicia abbinata a pantaloni plissettati; e dulcis in fundo una grande “Ippolita” bag e occhiali oversize.

Nel segno di una alchimia di chic e funzionalità che da sempre definisce lo stile del brand di ready to wear, pioniere nella democratizzazione del lusso. Il coat iconico di Max Mara rilegge magistralmente il prototipo della mantella rinascimentale con le maniche doppie e pendenti che partono dalle spalle ibridandolo con il parka più moderno che ci sia. Le scollature invece ricordano quelle arricciate o dritte dei ritratti del XVI secolo: lo stilista rivisita con patch applicate damascate il costume del paggio che ispirò già Gianni Versace nel 1981.

La palette pittorica armonizza l’ocra, la terra d’ombra, la terra di siena, il nero e il bianco a tocchi di colori delicati come i toni pastello tipici degli affreschi umbri. Il nuovo Rinascimento genera anche nuove silhouette: brevi ed eleganti, lunghe e svasate. Un’altra zampata di stile di Griffiths per una collezione che rende omaggio all’installazione dell’artista Corrine Sworn ispirata alla Commedia dell’arte. La Sworn ha vinto il Max Mara Art Prize for Women nel 2015. Onore a lei e a questo marchio che fa un bel prodotto, sano e portabile senza essere tedioso.

La palingenesi estetica di Genny

La palingenesi estetica di Genny

Genny rinasce come l’araba fenice e porta in scena per la primavera-estate 2021 un mondo di bellezza pura e di raffinata sensualità in omaggio al DNA del brand. Memore dei grandi successi raggiunti dal marchio grazie a Donatella Girombelli dal geniale Gianni Versace negli anni’ 80 e nei primi ’90, la collezione sfila a Verona in una cornice incantata: il laghetto con le variopinte ninfee del Parco Giardino Sigurtà. I 42 look della collezione del marchio che negli anni’80 sfilò al Palazzo di vetro dell’Onu a New York, inneggiano a una bellezza neoclassica ispirata alle statue di Antonio Canova, l’artista prediletto di Sara Facchini direttore creativo del brand fondato dai Girombelli di Ancona negli anni’70 e attualmente prodotto dalla veronese Swinger. Il guardaroba della donna di Genny per la prossima estate prevede mini giacche nei toni degli iris viola e glicine coordinate agli shorts, abiti ravvivati da stampe giallo osmanto e verde lime mentre rosso carminio e bianco begonia si alternano ai basici del nero e nudo, oltre a una nutrita galleria di giacche trasformiste. La giacca infatti da Genny diventa saggia e si converte in spolverino, vestaglia, pigiama, camicia per offrire alle donne di oggi una comfort zone di gran lusso. I top sono corpetti dalla costruzione sartoriale ma leggeri e grafici nella elaborazione finale. Gli accessori si fanno notare per le loro misure: micro zainetti o maxi shopping bag in tessuto o trasparenti.

Borse a mano dall’effetto trapuntato esibiscono nel manico il logo metallico. La sagoma di un violino sul lato di un vestito da sera rosso fiamma che sarebbe piaciuto a Gianni Versace, e un trench stampato con note dorate introducono l’omaggio alla musica classica. Dopo l’ouverture della “Cenerentola” di Rossini arriva il più profondo “Va’ Pensiero”, celebrazione perfetta del nostro “Bel Paese”. Gran finale tricolore, dove un serie di abiti lunghi dai colori vibranti della nostra bandiera, sfilano nel delicato e suggestivo labirinto green di Parco Giardino Sigurtà in cui ogni donna trova la sua personale via dell’eleganza e di una sofisticata femminilità. Siamo fiduciosi che il marchio, sulla scia di un heritage glorioso, possa chiarire e definire con maggiore precisione e grinta la sua identità attuale senza snaturare la lezione di stile e glamour ereditata dalla gestione Girombelli rinnovando le inflessioni stilistiche suggerite da un ricco archivio iconografico. L’abito del finale con cut out sul fianco a forma di violino è l’input giusto a nostro avviso per delineare un percorso sempre più sexy e consapevole, audace e sperimentale per questo glorioso marchio storico del made in Italy.

Maison Celestino e il lusso della qualità

Maison Celestino e il lusso della qualità

Riscoprire il genius loci e le eccellenze regionali è la nuova partita che si gioca oggi nello scacchiere della moda italiana. Fra gli alfieri del bello e ben fatto tricolore, e soprattutto della moda sostenibile per antonomasia, svettano in Calabria Caterina Celestino e Francesco Mercogliano che, insieme, guidano oggi la maison Celestino. Entrambi avvocati, giovani e affiatati sul lavoro e nella vita, Caterina e Francesco sono fra coloro che ancora credono nei sani valori etici su cui poggia un ricco patrimonio artigianale tutto italiano, tramandato in Calabria dall’età paleocristiana e purtroppo in via di estinzione. La loro azienda, basata a Rossano Corigliano, a pochi chilometri da Cosenza, nella culla della ridente Magna Grecia, è il ‘WWF della qualità’. Parliamo di un fecondo laboratorio di idee che, partendo dalle trame e dalle armature tessili più ricercate, elabora creazioni di grande impatto e di squisita eleganza mai fine a sé stessa, resa possibile da maestranze più uniche che rare alle prese ogni giorno con antichi telai manuali.

Quella dei Celestino è una bella storia italiana che affonda le radici nell’epica genealogia dell’Italian Style. Quando a Roma la Hollywood sul Tevere furoreggiava con i suoi inossidabili miti nelle vie più chic della città eterna, eleggendo Via Veneto come il fulcro della ‘Dolce vita’ di felliniana memoria, Eugenio Celestino, nonno di Caterina, già creava favolosi tessuti finemente ricamati per le Sorelle Fontana che li utilizzavano per celebrare le forme sinuose di un’irresistibile Ava Gardner, all’epoca legata a Walter Chiari. Erano anni eroici di entusiasmo e di palingenesi artistica e culturale. Anni in cui perfino le teste coronate si affacciavano nei grandi atelier per promuovere il ‘genio nazionale’: è il caso di Maria José di Savoia, regina d’Italia, che spesso si rivolgeva al Cavaliere Eugenio, grande patriarca della maison, per i tessuti più belli e preziosi che si possa immaginare, abbelliti da motivi stilizzati mutuati dalla tradizione tessile calabrese. Lo stesso Alcide De Gasperi, fine statista e artefice della Repubblica Democratica, rimase sbigottito visitando gli operosi laboratori dei Celestino in Calabria. Senza contare Madame Fernanda Gattinoni, pioniera della haute couture tricolore e signora di stile, che spesso ricorreva alla collaborazione di don Eugenio per sperimentare creazioni sempre più innovative e fantasiose. Ma la maestria di questi tessitori arriva da lontano.

Il bisnonno dell’attuale titolare infatti era proprietario di un’azienda che lavorava la ginestra, in quanto la coltura di questa pianta è localizzata sulla Sila. Oggi Caterina, dolce ma risoluta, continua con determinazione il retaggio familiare avvalendosi della complicità e del supporto del marito, giovane gentleman latinista, figlio di un famoso critico letterario espertissimo di Leopardi, e amante del pianoforte che sa suonare con la stessa eleganza che lo definisce nel foro e nella vita. Dopo aver sfilato sulle prestigiose passerelle di Roma e Milano durante le fashion week internazionali, i Celestino hanno deciso di tornare alle loro radici sfruttando la rigogliosa e a tratti selvaggia bellezza dei loro paesaggi, inondati dal sole e brulicanti di uliveti, per presentare nella loro Calabria a un pubblico selezionato, la collezione di alta moda per la primavera-estate 2021 che ha sfilato nel lussureggiante giardino della Vaccheria Foti, amena magione rustica ristrutturata con gusto moderno. Tema del défilé è l’inconscio freudiano, perché come spiega Caterina, “l’abito estrinseca la nostra anima; inoltre abbiamo scelto il Bolero come colonna sonora perché Maurice Ravel è stato l’interprete in musica della visione di Freud.

La fine della sfilata l’abbiamo affidata alla nostra ambasciatrice Alina che indossa una redingote di lino ricamato accompagnandosi a un magnifico barboncino col pedigree. Un quadro che è soprattutto la sublimazione dell’Eros”. Forme lineari e fluide silhouette, condensate in modelli di ieratica ricercatezza, esaltano la preziosa complessità delle lavorazioni tessili della maison, che ha scelto come suo emblema la cicogna, epitome di grazia e femminilità. Nell’effigie prescelta da Celestino questo uccello, che nidifica solo in Australia e in Calabria, pare quasi spiccare un balzo verso il futuro. Perché chez Celestino la tradizione è solo la testa di ponte per affrontare un orizzonte modernista per essenza, e talora futuribile. “Quando sento parlare di sostenibilità, oggi invocata spesso a sproposito da vari brand, mi viene da sorridere perché penso che in realtà per noi non si tratta di una novità o di una sfida, ma di una innata vocazione che coltiviamo da sempre perché il nostro è un upcicling naturale in quanto radicato nel nostro DNA-spiega Caterina-i nostri tessuti, assolutamente italiani, sono naturali effortless perché sono le materie più nobili e più pure che si possa immaginare: lino, canapa, cotone e fibra di ginestra. Per uno dei corpetti che avete visto sfilare nell’eveningwear, sono occorsi 20 giorni di lavoro, e spesso per nobilitare ulteriormente i nostri blend di cachemire e seta, impieghiamo fili di oro zecchino: questo è il senso dell’alta moda oggi.

La sapienza manifatturiera delle nostre sarte, che crea un valore inestimabile nel territorio, appare evidente in ogni dettaglio delle creazioni che escono dai nostri laboratori. Qui le nostre 15 lavoranti tutte altamente qualificate, sulla base dei disegni del nostro ufficio stile, spesso riprendono i motivi decorativi dell’iconografia greco-bizantina tipici dello heritage locale. Penso al tema del ‘krités’, il giudice antico, oppure al cosiddetto ‘toro cozzante di Sibari’ o al tema della favola di La Fontaine sulla cicogna e il lupo, icone originali e stilizzate che vengono poi trasposti con perizia in abiti e accessori essenziali, volutamente privi di orpelli, che forse, come mi piace pensare, il mio mito, Coco Chanel, avrebbe approvato”. Il linguaggio minimalista della maison, vicina al teatro e al mondo della danza- dato che il direttore artistico dell’azienda è Giovanni Scura, talentuoso ballerino- si traduce in un mondo di lifestyle completo che spazia dal menswear agli accappatoi, dalla biancheria pregiata per la tavola fino ai corposi e sontuosi plaid, ai teli mare e al beachwear dove sono utilizzati solo sete e e altri tessuti pregiatissimi. “Detesto la spugna perché è quanto di meno ecologico possa esistere; difatti è scientificamente provato che è una fonte perenne di batteri. Le nostre stoffe invece sono assolutamente sostenibili. Come il lino, certificato dal Linificio Nazionale, che è essenzialmente antibatterico. Infatti un asciugamano in lino è un peeling naturale”, tiene a sottolineare Caterina. L’ovattato store di Rossano è un piccolo scrigno di tesori. Qui trovano spazio tutti i prodotti della maison, comprese le mascherine realizzate con fili dorati e trame delicate e femminili. E a coronamento di un percorso che è ancora tutto da scrivere, l’azienda è stata insignita anche del ‘Premio alla legalità’ conseguito anche da Nicola Gratteri che è impegnato in Calabria nella lotta alla N’Drangheta. Perché non c’è mai bellezza senza virtù.