Venezia 77 – “Le sorelle Macaluso”

“Le sorelle Macaluso”, Mostra Internazione del Cinema di Venezia 77


Per descriverlo in due parole, carne e ossa, “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante sono al primo posto della mia lista “preferiti” di questa 77ma edizione del Festival veneziano. 
Siamo negli anni ’80 nella periferia siciliana, cinque sorelle vivono orfane in una casa scarrupata, come direbbero invece a Napoli, muri imbrattati e vecchi como’, credenze datate e i servizi di piatti “buoni” della domenica. 

La più grande delle sorelle ha 18 anni, Pinuccia, la più piccola nove, Antonella, che la osserva con adorazione mentre si trucca labbra, guancia e occhi con un unico rossetto. Le sorelle vivono dell’affitto di colombe che allevano sopra il tetto di casa, per cerimonie matrimoniali, battesimi, cresime, condividendo talvolta gli spazi domestici con gli stessi volatili, simbolo forse augurale di salvezza e di pace. 
Pinuccia, colei che nel gruppo fa le veci del capofamiglia, si concede un po’ d’amore come unico balsamo alla croce della sua esistenza; ma gli uomini nella pellicola della Dante sono solo una goccia in un mare di donne, i loro volti non si vedono, nemmeno in lontananza quando in estate le ragazze vanno al bagno Charleston dove si recavano con i genitori. Una storia al femminile che un poco mi ricorda “8 donne e un mistero” di François Ozon, ma con la forza tipica delle donne del sud, quelle per cui “si sta unite ad ogni costo”, con la dignità dell’andare avanti in un oceano di difficoltà, che raccontano lo spirito di sacrificio e la tenacia, la virtu’ che solo le donne posseggono.

Le sorelle Macaluso” è un film italiano fino all’osso, c’è tutta la poesia della nostra terra e della voglia di coltivarla, la poesia, e allo stesso modo la terra, e in questo la Dante riesce a realizzarlo nella fotografia, quando le colombe libere nel cielo si alzano in volo e si allontanano formando un’immagine astratta che rimanda alla Venezia in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin del 1960.

C’è la fragilità dell’essere umano e la transitorietà dell’esistenza, metafora quel piatto “buono” dove la più piccola versa il mangime per gli uccelli, perchè “anche loro hanno il diritto di godere delle cose belle”, quel piatto che si rompe e che viene incollato, come fanno in Cina ma con una particolare colla color oro, perchè ciò che ha vissuto porta con sé un valore più alto e più potente.

C’è anche l’elemento disturbante, i primi piani della più stramba di famiglia, mentre mangia come un’ossessa cannoli e paste ruminando e sporcandosi il volto, mentre legge come una posseduta le poesie come fossero preghiere. Lì a due spanne di camera, per spiattellarci tutta la drammaticità della vita, senza fronzoli, senza ricami, senza buonismo o finta pietà. E nella tragedia della vita si riconoscono i veri pilastri, tra chi va e chi rimane, chi scappa e chi rinuncia, nonostante il fuoco che li accende. 


Tra le malinconiche note di Eric Satie che escono dai carillon e l’inquadratura artistica che rimanda al Cristo Morto del Mantegna, “Le sorelle Macaluso” si scopre carico di simboli, icone, connessioni poetiche, e anche questo è il dna italiano, meritevole certamente del Leone d’Oro. 

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“MAINSTREAM” DI GIA COPPOLA AL FESTIVAL DEL CINEMA DI VENEZIA 77

“Mainstream” di Gia Coppola al Festival del Cinema di Venezia 77


“Mainstream” – Venezia 77

Altra Coppola dei Coppola cineasti, Gia racconta al pubblico di questo 77mo Festival del Cinema di Venezia la nostra società ai tempi dei social network. Un film per tutti che è specchio del disagio sociale, della vanità inutile e vuota, della corsa ad una felicità che dura il tempo di un like. 
Attraverso i due protagonisti “Link” e “Frankie”, Gia Coppola ci racconta la vorace energia creatrice e distruttiva, quella di Link, e la lucida introspezione della malinconica Frankie, che incontra Link per caso mentre, travestito da animale peloso, si guadagna da vivere fuori da un centro commerciale. 
In Link vede anzitutto una ricerca di verità, senza compromessi, senza mezzi termini. Sarà lui nelle prime scene a urlare “Eat Art” al pubblico passante, “Mangiate Arte”, anziché acquistare sciocchezze in un fast fashion. E’ a lui che chiederà di “posare” nei suoi video naturali che posta su Youtube, video che ottengono visualizzazioni grazie alla spontaneità e all’attitudine diretta e sprezzante del protagonista, interpretato da un vulcanico Andrew Garfield, un misterioso ragazzo che denuncia la piccineria a cui i social ci avvicinano. 


Vorreste avere tutto e non capire niente, o capire tutto e non avere niente?”, questa è la domanda che pone ai suoi follower. “Il tuo telefono o la tua dignità?” Contrasti forti che espone worldwide mentre i suoi numeri crescono esponenzialmente e mentre la trasformazione avviene, anche in lui che tanto disprezzava la corsa alla fama e ai like. Il sistema lo inghiottisce, diviene vittima della spazzatura che allontanava, la vanità prende il sopravvento, fino a quando un tragico episodio mette tutti di fronte al reale problema dei social network, degli haters, dei bulli da tastiera. 

Interessante spaccato dei tempi moderni, “Mainstream” di Gia Coppola si pone volutamente grottesco, utile per spiegare la generazione kitsch di buonannulla, volgari perchè ignoranti, satiricamente rappresentati nel film da generi disparati di influencer tra cui compare un trans make up artist, un bambino travestito da donna, una sciocca esibizionista che inneggia alla vanità nel nome del signore. Nessun bagaglio culturale, nessun ideale, solo puro materialismo ed esasperazione dell’ego. Una serie di influencer che dibattono con Link senza riuscire ad argomentare le loro risposte, ma solo sbandierando enormi unghie colorate o alzandosi dal posto con sprezzo e distacco. Una vita fasulla rinchiusa in un iphone, mentre il vero godimento è lì fuori, dove la vita vera respira di alberi, amicizie, amori, debolezze di cui non vergognarsi, sconfitte e gioie vere. 
Chi recita sui social e chi è il vero purista? “Mainstream” lascia la risposta a tutti noi fruitori di social network. 

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Zhenia è un massaggiatore ucraino, possente nel fisico, lo vediamo allenarsi nella sua nuova casa spoglia in Polonia. Ha le sopracciglia arcuate tipiche di chi sente il peso dei pensieri eppure, nei modi, questo omone muscoloso pare gentile. Zhenia entra nelle case della gente, di quella più benestante, grazie al suo dono, un dono che arriva dalle mani, che ha la capacità di guarire, di allontanare lo stress, l’ansia, i turbamenti. In silenzio, il ragazzo impone le mani e la sua virtù divina e regala quella che sembra essere energia vitale. In un paese fatto di tante case bianche una identica all’altra, Zhenia incontra le anime tristi di chi le abita: un uomo malato di cancro che cerca disperatamente ogni rimedio alla sua malattia; una donna soffocata dal ruolo di madre e moglie incompresa e inascoltata; una vedova intollerante che accusa gli altri di inesperienza, cieca della propria ignoranza; un’amante dei cani che si circonda del loro amore fedele per sentirsi meno sola; un ex soldato che porta ancora addosso dal campo rabbia e ferocia. Zhenia, anche se solo per un’ora, allevia le sofferenze di queste anime in pena con l’imposizione delle mani e talvolta con l’ipnosi; ascolta le loro lacrime, accoglie le loro verità più profonde e cerca, con reale empatia, di diffondere amore e speranza, fiducia e compassione. Ma quando qualcuno, un padre di famiglia, si azzarda a chiedere qualcosa a Zhenia, questo sembra perdere il controllo. Come sta Zhenia? Perchè questo estremo bisogno di salvare gli altri? 


Con una colonna sonora di grande eleganza e una fotografia che ricorda i freddi colori di Erwin Olaf, “Never gonna snow again” di Malgorzata Szumowska e Michal Englert si rivela una pellicola di grande grazia ed eleganza, la stessa che hanno cucito sul protagonista, un ragazzone dagli occhi dolci e carichi di amore materno.

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Può il luogo in cui viviamo, cambiare le nostre sensazioni e i nostri sentimenti? 
Proviamo a pensare a una coppia mondana che vive nella città di New York, fatta di incontri, serate social, mille impegni, e paragoniamola ad una che invece tira a campare mungendo mucche, spalando letame, tosando pecore e che si guadagna da vivere con i proventi del latte e del burro. La prima avrà infinite distrazioni ed occasioni di incontro, la seconda molto probabilmente vivrà una vita fatta di fantasie, dove i luoghi che visita saranno solo quelli che incontra sui libri, sempre che i libri se li possano permettere. Ecco questa seconda coppia è la protagonista di “The world to come”, il film di Mona Fastvold in concorso al 77mo Festival del Cinema di Venezia. 


Abigail è una donna remissiva, pratica, arresa alla sua vita di contadina e di moglie che deve accontentare il marito con l’unico piatto di patate bollite che possono portare a tavola. Da quando hanno acquistato la fattoria, una casa isolata nelle lande rurali del Midwest nella metà ‘800 tiene, dietro richiesta del marito Dyer, un diario con tutte le note spese, le entrate e le uscite ma nulla, si lamenta lei, sulle loro sensazioni, sulle perplessità, i problemi, le angosce, le inquietudini o le afflizioni. Nulla che abbia a che fare con i sentimenti. Vive in questa triste e desolata arresa alla vita e alla gioia da quando ha perso la loro unica figlia per difterite, l’unico tesoro che pensava potesse colmare il vuoto che non riesce a spiegare. Fino a quando arriva nel paese una coppia con cui tenteranno di stringere amicizia, Finney e Tallie, un uomo ruvido e aggressivo e una donna dai lunghi e vaporosi capelli ramati sul cui volto si legge la passione e la voglia di vivere. Una di quelle che sembrano più fortunate delle altre, ma la cui espressione denuncia più una sfortuna. 


Tra panoramici long take innevati e frastornanti bufere distruttive, “The world to come” racconta con femminile introspezione la ricerca della felicità, quella che le due donne, ignare del mondo esterno alle loro piccole mura, sentono di aver trovato, trovandosi. Un amore lesbo che non ha niente dell’erotico, ma che nella tragedia del silenzio forzato dall’ignoranza, esplode con una drammaticità alla Austen.

La regista Mona Fastvold esamina l’infinito universo femminile, quando l’una si accorge della vanità dell’altra consapevole della propria bellezza, quando l’altra ascolta con dolcezza le infantili poesie che vengono dal cuore e dalla solitudine, quando insieme scoprono che lasciarsi andare all’istinto di cercarsi, potrebbe sollevare i loro spiriti dal dolore di un’esistenza che vorrebbero, ma non possono cambiare. 


Gioia e stupore sono i sentimenti esplosi nella seconda parte del film, fino a quando il destino busserà alla porta. 
Valido candidato a vincere il Leone d’Oro, “The world to come” è ispirato al romanzo omonimo di Jim Shepard. 

77mo Festival del Cinema di Venezia, “Miss Marx”




Miss Marx 77mo Festival del Cinema di Venezia

Essere figlia è un difficile mestiere, essere figlia di un grande uomo politico ha l’aggravio della responsabilità d’esserne all’altezza, soprattutto quando questo padre si chiama Karl Marx. 
Se tutti conoscono le sue filosofie politiche, pochi sanno delle sue filosofie private, quelle della sfera sentimentale e familiare che, nel film di Susanna Nicchiarelli “Miss Marx” vengono alla luce attraverso la straordinaria interpretazione di Romola Garai. La Garai interpreta Eleanor Marx, quartogenita di Karl e Jenny von Westphalen, una donna che ha dedicato la sua esistenza agli altri, seguendo la scia del capofamiglia che per lei aveva una evidente predilezione “Tussy sono io”, diceva. 



Tussy, così affettuosamente chiamata dagli amici, era colta, amava il teatro shakespereano, possedeva uno spirito forte tendente al sacrificio “Ho dedicato la mia vita agli altri”, dirà in una scena “ora è il momento che mi goda anche la mia”, ma soprattutto aveva innato il senso di giustizia ed empatia, che l’hanno spinta, fino alla fine dei suoi giorni, a lottare per la classe operaia, per il suffragio universale, per l’abolizione del lavoro minorile nelle fabbriche.



Nella lotta al cambiamento, Eleanor lotta anche con se stessa, cercando di trasformare abitudini e pensieri; quando incontra Edward, suo complice nella vita politica e in quella privata, Eleanor si trova costretta a fare i conti con il carattere egoista e privo di morale del compagno. Un uomo che non può sposare perchè già precedentemente ammogliato, un farfallone, un menzognero che non ha alcun senso del denaro e che sperpera comprandole mazzi di fiori e viaggiando lontano da casa con qualche amante di turno.



Con la sua apparente incongruenza tra dimensione pubblica e privata, la storia di Eleanor Marx apre un abisso sulla complessità dell’animo umano, sulla fragilità delle illusioni e sulla tossicità di certe relazioni sentimentali”, spiega la Nicchiarelli. “Raccontarne la vita vuol dire parlare di temi talmente moderni da essere ancora oggi, oltre un secolo dopo, rivoluzionari. In un momento in cui la questione dell’emancipazione è più che mai centrale, la vicenda di Eleanor ne delinea tutte le difficoltà e le contraddizioni: contraddizioni, credo, più che mai attuali per cercare di afferrare alcuni tratti dell’epoca che stiamo vivendo”. 


In Concorso per il Leone d’Oro di questa 77ma edizione del Festival del Cinema, “Miss Marx” parla a tutte le donne che hanno subìto ingiustizie, nel lavoro, nella vita privata, in ambito familiare; a quelle donne che hanno dovuto accettare, per amore, la degradazione e la mancanza di rispetto, a chi, allo stesso modo, ha dovuto abbassarsi a tanto per portare a casa il pezzo di pane. E’ dedicato a chi ha lottato e chi ha creduto che qualcosa sarebbe cambiato, a quelle donne che, nell’unione, si sono fatte forza per migliorare non solo la propria posizione, ma quella di tutte noi presenti, oggi.