Il lusso non ha bisogno di etichette: nel cuore del Pollino si celebra l’eccellenza autentica

Il lusso non ha bisogno di etichette: nel cuore del Pollino, in Calabria, si celebra l’esperienza autentica

Questa estate il Parco Nazionale del Pollino ha ospitato il Pollino Cocktail Camp: un raduno eccezionale sulla botanical mixology con bartender da tutta Italia. Party, degustazioni, foraging per riscoprire verità spesso dimenticate.

Viviamo nell’epoca di quello che il sociologo Pierre Bourdieu definiva la “distinzione”: la costante ricerca di segni esteriori che separano l’eccellenza dall’ordinario. Eppure, esiste una falsa dicotomia nel nostro immaginario collettivo tra ciò che è genuinamente eccellente e ciò che appare lussuoso.
Il lusso contemporaneo, specialmente nel food and beverage, non risiede più nell’ostentazione di costi proibitivi o nella ricerca dell’esotico fine a se stesso. Si colloca invece, seguendo l’intuizione di Walter Benjamin sulla “aura” dell’opera d’arte, nell’unicità irripetibile di un’esperienza autentica. È tutto ciò che si trova alla punta della piramide dell’eccellenza: purezza, integrità delle materie prime, rarità non artificiale ma naturale, semplicità che nasconde complessità di saperi millenari.

Parco del Pollino – Il regno delle meraviglie nascoste

Il Parco del Pollino, con i suoi 192.565 ettari di estensione, è la più grande area protetta di nuova istituzione in Italia. Dal 2015 fa parte della Rete europea e globale dei Geoparchi sotto l’egida dell’UNESCO, un riconoscimento che suggella quello che chi lo conosce sa già: questo è un arcobaleno di eccellenze paesaggistiche, storiche, antropologiche, culturali, ambientali, una biodiversità che il mondo ci invidia.

Eppure dovremmo essere tutti più bravi nel valorizzarlo e comunicarlo. A partire da chi nel settore ci lavora, dato che le diversità gastronomiche regionali sono il nostro punto di forza, una personalità per ogni area italiana, che sulla tavola, per colori, cucine, ricette e gusti, potrebbe insegnare a ogni altra cucina dell’emisfero.

È qui che nascono il peperone di Senise IGP, dalla forma allungata e dal colore che va dal verde al rosso intenso; qui cresce la melanzana rossa di Rotonda DOP, piccola e tonda come una mela ma dal sapore intenso e leggermente piccante; qui si coltiva il poverello bianco, un fagiolo prezioso spesso utilizzato in una pasta fresca simile a tagliatelle rustiche, accompagnato da una generosa pioggia di pecorino stagionato. E ancora il paddaccio, formaggio a pasta filata dalla forma particolare, e la ricotta infornata che profuma di tradizione secolare.

Quando l’altitude diventa attitudine – Pollino Cocktail Camp

Ogni anno, a mille metri di altitudine, tra le montagne di questa meraviglia italiana, si tiene il Pollino Cocktail Camp, esattamente a Campotenese una reunion dei migliori bartender d’Italia che ha trovato nella seconda edizione estiva 2025, la sua dimensione più autentica. Oggi capitanati dalla direzione artistica di Umberto Oliva, firma calabrese entrato nella rosa dei rappresentanti della miscelazione contemporanea italiana.

Un raduno di bartender per la maggior parte provenienti da questa terra, che hanno fatto il giro del mondo per poi ritornarvici. Come quelli che dopo esperienze tra Australia e Londra hanno aperto locali spinti dal desiderio di portare alto il nome del loro territorio, ne è un esempio Francesco Vocaturo del Blacksheed di Cosenza; o Peke Bochicchio che con la sua Barmacia di Potenza ha fatto dell’ironia una firma distintiva; o come Ivan Francesco Filippelli, oggi Bar Manager di The Spirit a Milano sito in Porta Romana, locale milanese di prestigio, con un curriculum d’eccellenza che forse, intimamente, vorrebbe togliersi guanti e giacca per buttarsi in un locale vero, nudo e crudo, dove la spontaneità è il distillato più richiesto.

L’autenticità come filosofia di vita

Tre giorni di festa, esplorazioni sensoriali, degustazioni, escursioni e live set con miscelazioni che celebrano il patrimonio botanico del Parco Nazionale del Pollino. Perché questo evento non è solo una convention di settore: è il vero specchio di un’organizzazione che è anzitutto un ritrovo tra amici veri, che attorno a un tavolo cantano e suonano la chitarra, bevono il vino locale rosso come la terra che lo genera, tra una fetta d’nduja che farebbe bruciare il naso a Grisù e una di caciocavallo che sa di pascoli d’alta quota.

Umberto Oliva, nerd della miscelazione e tecnico sopraffino della mixology, ha scelto una comunicazione fondata sull’essenza più che sull’apparenza. La sua è una filosofia che rifiuta i fronzoli e punta dritto al cuore delle cose: un’occasione unica per celebrare la cultura del cocktail in una cornice naturale mozzafiato, promuovendo la valorizzazione del territorio.

Ospitalità ed Esperienza

Bartender professionisti e appassionati possono partecipare a masterclass, degustazioni e competizioni, esplorando nuove tecniche e sperimentazioni. Ma qui il vero lusso non è sedersi sul sofà all’ultima moda, vivere per primi la tendenza dell’ultima nuova apertura, nè dell’ ingrediente più esotico. È nell’aria pura che riempie i polmoni, nel silenzio rotto solo dal vento tra i pini loricati, nella genuinità di un momento condiviso senza filtri né sovrastrutture, nell’ospitalità di una Calabria che ha bisogno di voci (quelle anche dei giornalisti), ma che è piena di cuori, dei Giovanni Gagliardi, Donato Sabatella, Sergio Senatore e Manuela Laiacona, padroni di casa che ci hanno fatto sentire in famiglia.

Il Pollino Cocktail Camp dimostra che il lusso autentico non ha bisogno di griffe o di prezzi proibitivi. Ha bisogno di passione, di territorio, di storie da raccontare. Ha bisogno di quella rara combinazione di eccellenza tecnica e autenticità emotiva che solo chi ha radici profonde sa esprimere.

In un mondo che spesso confonde il valore con il prezzo, eventi come questo ci ricordano che la vera ricchezza sta nella capacità di trasformare la semplicità in straordinario, l’ordinario in memorabile. Perché alla fine, il lusso più grande è quello di essere semplicemente, profondamente, autenticamente se stessi.

Il Giornalismo nell’Era dell’Intelligenza Artificiale – IL PENSIERO DEL DIRETTORE

IL PENSIERO DEL DIRETTORE – DA OGGI, PER TUTTE LE DOMENICHE

L’Ultima Resistenza: Il Giornalismo nell’Era dell’Intelligenza Artificiale

Quando le macchine scrivono, chi ancora pensa?

Iersera a cena con amici, davanti ad un’anatra troppo fredda ed un vino troppo caldo, ci si domandava chi utilizzasse l’AI e per quali scopi. ChatGPT, Claude, Leonardo, tutti assistenti personali pronti per fare il lavoro al posto tuo. È l’alba di una rivoluzione silenziosa che sta ridisegnando il panorama del lavoro intellettuale, la promessa di liberarci dalle fatiche del pensiero sostituendo con algoritmi, ciò che per millenni è stato il privilegio esclusivo della mente umana.
I primi a morire saranno i copywriter” – diceva, dopo un sorso troppo tannico, i redattori (già assenti da decenni dalle scrivanie delle redazioni a lavorar da casa tra la pasta e l’abbacchio) delegano alle macchine la ricerca delle parole giuste, spesso del pensiero giusto, ma la domanda che mi faccio è, io che ho fatto quel che noi Millennial chiamiamo “la gavetta”, in una redazione vera dove c’era l’omino titolista (sì sì, un essere umano penna alla mano che prendeva uno stipendio per scrivere titoli e didascalie): Cosa accadrà quando l’ultimo custode della cultura deporrà la penna?

Il Grande Fraintendimento

L’errore fondamentale dell’epoca contemporanea è confondere l’informazione con la conoscenza, il dato con la sapienza, il fascino con il bisturi, la fama con il numero di like. Le intelligenze artificiali, per quanto raffinate, operano in un universo binario dove tutto è riducibile a pattern statistici e correlazioni matematiche. Possono assemblare frasi eleganti, produrre testi grammaticalmente perfetti, persino imitare stili letterari con precisione sconcertante (Proust si starà ribaltando nella tomba), ma quando un giornalista osserva l'”Allegoria della Pittura” di Vermeer, in quel drappo che cade come un sipario e ci rende tutti vojeuristi, riconosce anche l’anticipazione della fotografia, quella scelta di luce che arriva sempre da sinistra, sempre dalla solita finestra. Intravede, la tessitura degli arazzi e la mappa dettagliata dei Paesi Bassi, un quadro dentro un quadro; questo non è solo spirito di osservazione, è la visione alimentata da decenni di letture, di contemplazione, di anni passati a studiare, di ricerche incessanti, di vita vissuta.

Il giornalista autentico, quello bravo per intenderci e che merita di esser chiamato tale, non si limita a descrivere i fatti: li attraversa con la propria sensibilità, li filtra attraverso un prisma culturale costruito pagina dopo pagina, libro dopo libro, viaggio dopo viaggio, emozione dopo emozione.

Allegoria della Pittura (L’atelier) Jan Vermeer, 1666 – Kunsthistorisches Museum di Vienna  

L’Architettura Invisibile del Pensiero

Ciò che distingue il vero giornalismo dalla mera cronaca è la capacità di costruire ponti invisibili tra mondi apparentemente distanti. Quando Oriana Fallaci intervistava i potenti della terra (Intervista con la storia, prefazione di Federico Rampini – Best BUR) non si limitava a porre domande: convocava al tavolo dell’interrogatorio secoli di letteratura, filosofia, storia, la storia della sua vita, a fare da staffetta insieme al padre partigiano, appena quattordicenne, durante la Resistenza). Ogni sua domanda era il frutto di una biblioteca personale sedimentata nelle notti insonni passate a decifrare i geroglifici della politica internazionale.

L’intelligenza artificiale può elencare le caratteristiche del neorealismo cinematografico, ma non può intuire la differenza tra la passione virile che Hitchcock prova quando fa sciogliere lo chignon delle sue attrici rigorosamente bionde, rigorosamente glaciali – rispetto al trasporto erotico che Truffaut rivela con grazia ed eleganza estremamente femminile. Questo lo si comprende con la comprensione dell’essere umano, del mondo maschile, osservando, studiando, amando.

La Sindrome della Superficie e l’Arte di raccontare Emozioni

Il pericolo più insidioso non è la sostituzione totale del giornalista con la macchina, bensì l’impoverimento progressivo della professione, la sua riduzione a mero assemblaggio di contenuti preconfezionati (sì ne leggo tutti i giorni).

È il trionfo di una “sindrome della superficie”: notizie tutte uguali, contenuto accessibile, nessun approfondimento, niente collegamenti. Come osservava Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, “La conoscenza non è fatta solo di libri, ma anche del silenzio che li circonda“. L’intelligenza artificiale può divorare biblioteche intere in frazioni di secondo, ma non conosce il silenzio, non sa dell’emozione di una prima volta davanti L’isola dei morti (Die Toteninsel) di Arnold Böcklin, quella volta al Moma, e le lacrime trattenute per tutti quegli anni.

Arnold Böcklin – L’isola dei morti 1880 – Moma, N.Y.

La Biblioteca Vivente e La Ricerca Proustiana

Ogni vero giornalista è una biblioteca vivente, è la somma dei libri che ha letto, di quelli che lo hanno formato, di quelli che ha amato e quindi lo hanno plasmato, e quelli detestati, che quindi lo hanno affinato nella ricerca.
Quando Marcel Proust scrive “La Recherche“, sta lasciandovi non solo un romanzo, non la storia della sua vita, sta donandovi la storia del costume, un libro sul design e sulla moda, un catalogo per esperti psicologi con i profili di tutte le specie umane, sta confessandovi del gossip, i retroscena dei più importanti salotti parigini, sta aprendovi il manuale delle infinite emozioni, spiegate in maniera così vera e dettagliata, che non si può che piangere di fronte a tanto talento. Costatogli una vita intera.

Se l’algoritmo può assemblare citazioni appropriate e collegamenti plausibili, manca di “grano della voce“, quella che Roland Barthes descriveva come esperienza vissuta, passione autentica, dolore della conoscenza.
Perché conoscere è anche soffrire.


Il Tempo Della Sedimentazione. Il Tempo

Nell’era della velocità assoluta, della notizia che invecchia nel tempo di un click, il vero giornalismo oppone la resistenza della sedimentazione. Come il vino che acquista corpo negli anni, il pensiero giornalistico di qualità ha bisogno di tempo per maturare, di silenzio per depositarsi, di contemplazione per cristallizzarsi in forma compiuta.

Non chiedete a un giornalista un pezzo in venti minuti, vi prego, l’elaborazione emotiva è fondamentale in questo mestiere; c’è bisogno di attingere dal serbatoio di malinconia e meraviglia che alimenta ogni autentica vocazione intellettuale.

La Resistenza Necessaria – Il Vero Giornalista

Di fronte a questa marea di automi, il giornalista autentico deve rivendicare con orgoglio la propria specificità umana, la propria irriducibilità algoritmica. Non si tratta di opporsi al progresso tecnologico per nostalgia reazionaria (tutt’altro, viva la chirurgia robotica che permette di operare a distanza), ma di preservare quello spazio sacro dove la conoscenza si fa sapienza, dove la comprensione dei fatti della vita diventano poesia.

Il futuro del giornalismo sta nella più naturale capacità di emozionare ed emozionarsi di fronte al bello, di indignare e indignarsi di fronte all’ingiustizia, di commuovere e commuoversi di fronte alla fragilità umana.
Perché quando l’ultimo giornalista avrà ceduto la penna all’algoritmo, quando l’ultima biblioteca sarà stata digitalizzata e indicizzata, quando l’ultimo pensiero sarà stato classificato e archiviato, rimarrà ancora una domanda senza risposta:

Chi si ricorderà di sognare?


(In copertina, Biblioteca Abbazia di Admont, Austria – foto @Pinterest)

Giulio Greco: “tutte le arti sviscerano la natura più profonda”



Ho sempre pensato che la versatilità fosse un grande pregio ed un bel talento da sfruttare, in barba ai piccini invidiosi che pensano ancora alla specializzazione della specializzazione.
Giulio Greco è l’esempio calzante di una generazione curiosa (bene, ne esistono ancora), che ha il coraggio di mettersi in gioco, non senza studiare.

Attore, editore, musicista, non ha mai pensato di rinunciare ad una di queste arti, proprio perchè crede che l’una sia di nutrimento all’altra, e che ogni mestiere che interpreta, gode delle conoscenze dell’altro.
Lo avrete visto in “Gangs of Milano” su Sky, in “SuperSex” su Netflix e nel film “Prophecy” su Disney+. Due film internazionali, uno con Andy Garcia, e nella serie che racconta la genesi di “Gomorra“; ma Giulio Greco nel frattempo scrive prefazioni, legge i miti greci, regista il suo nuovo EP, e basta una lettura veloce a questa sua intervista, per capire che la profondità emotiva e culturale, lo porterà sicuramente lontano.


Foto di Alessandro Rabboni
Styling di Alex Sinato
Grooming di Romina Carancini
Press Office Sara Battelli


Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda.

Total look Falconeri

– Come combaciano il mestiere di editore con quello di attore?

Uno rende vivo l’altro. Un punto è statico, tra due punti si crea energia, nel mio caso anche attrazione. Non sopporto questa tendenza nel voler “isolare” una forma d’arte. 
Sono cresciuto in una famiglia che mi ha fatto conoscere la musica, a partire dalla classica grazie a mio nonno che è stato primo violino dell’orchestra di camera del Belgio, mi ha portato a teatro, al cinema, nei musei, a mostre d’arte. Mia madre ha studiato e lavorato come attrice, mia zia è pittrice, mia sorella ha danzato. L’arte ha forme di espressione sempre nuove e in continua evoluzione.

L’incontro con Giuliano Ladolfi, mio socio che considero padre artistico e spirituale, e la conseguente costituzione della casa editrice che porta il suo nome, mi hanno completamente cambiato la vita. Il mondo dei libri mi ha permesso di tuffarmi nella conoscenza della poesia, narrativa, filosofia, nella tecnica della traduzione, dell’esposizione, del linguaggio.
Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda comunicando in modi diversi e alimentandosi l’un l’altro.

– Cosa è necessario cambiare del settore editoriale secondo te?

Soffermandomi sul panorama italiano, posso dire che la sovrapproduzione ha indubbiamente inciso sulla qualità.
Certo, le pubblicazioni settoriali hanno permesso l’approfondimento di molte tematiche per lo più sconosciute, ma ritengo che il legame “emporiocentrico” della nostra società ci stia, in realtà, impoverendo. 
Una società poco coesa viaggia in tutte le direzioni, ma ci dimentichiamo di chiederci quale sia una “direzione comune”. L’avvento dei social ha dato ad ognuno ciò che Warhol lanciava come una provocazione. Oggi mi chiedo: a cosa serve la notorietà senza calibrare un messaggio universale? A che scopo vomitare infiniti contenuti che poi scompaiono in un battito d’ali?

Bisogna lavorare per creare dei punti di incontro per discernere la nostra società, mettere basi solide per poter andare avanti.
Giuliano Ladolfi e Marco Merlin hanno iniziato a farlo nel 1996 con la rivista Atelier. Un lavoro mastodontico che vive di poesia, ma a mio parere coinvolge tutte le forme d’arte. Bisogna delineare una proposta forte, corroborata dallo studio approfondito dei testi più rilevanti e combattere la tendenza di avere più scrittori che lettori.

– Quali sono le somiglianze, se esistono, tra il ruolo dell’attore e quello dell’editore?

In una prima fase, la ricerca. Continua nelle luci e oscurità dell’essere umano. L’editore cerca prima lo scrittore attraverso i suoi testi, l’attore cerca il personaggio attraverso la curiosità, la sperimentazione e la relazione con gli altri. 
Successivamente, dopo aver fatto un lavoro di raccolta, di confronto e di scelta ponderata, arriva il tempo della rielaborazione e della condivisione con il pubblico dei lettori e degli spettatori.
Infine, importantissimo è il momento della risposta di questi ultimi. È sempre importante decifrare ciò che ha colpito e ha funzionato rispetto a ciò che si può migliorare per toccare corde sempre più profonde dell’animo umano.

Total look Grifoni

– Qual è il tuo personaggio di romanzo preferito?

Premetto che leggo principalmente filosofia, poesia e saggistica. Ho letto molta narrativa quando ero bambino e ragazzo e certamente mi ha fatto sognare. I romanzi che più mi hanno colpito sono quelli di avventura in paesi lontani e a tratti fantastici. Jules Verne mi ha rapito. Forse, però, oggi indico Robison Crusoe di Daniel Defoe. Un uomo che grazie all’ingegno, la volontà, la cultura è riuscito a sopravvivere e vivere con dignità combattendo contro la solitudine e i demoni della paura che si nascondono nelle profondità della nostra anima. Al personaggio di Robinson aggiungo eroi della mitologia greca a cui sono molto legato: Ulisse e Achille. Ragione, intuizione, ira, mente, fisico, creatività, potenza, amore sono spesso agli antipodi in questi due eroi mitologici ma combaciano nella loro grandezza d’animo. 

– Quale protagonista di un grande classico ti piacerebbe interpretare?

Il conte di Montecristo, Gatsby, Dorian Gray, Siddharta, Enea, Orfeo, Ettore… troppe sono le peculiarità che amo in ognuno di questi e troppe ne trovo in tanti altri. Il bello di questo mestiere è la metamorfosi

– Pensi ci sia un pregiudizio nel mondo del cinema, per chi arriva da altri settori?

Penso che ci siano pregiudizi enormi nella nostra società, a partire dall’aspetto fisico, alla provenienza territoriale, all’esperienza di vita, alle capacità particolarmente sviluppate. 

I social hanno appiattito la profondità culturale, anestetizzando attraverso vista e udito le menti critiche dell’essere umano. 
Credo sia importante rifondare un sistema critico basato su empatia, conoscenza, coscienza e tecnica.
Questo sia trampolino per coloro che valgono e dia loro la possibilità di suscitare emozioni e stimolare pensieri in coloro che partecipano portando la società ad un livello più elevato. Agli artisti è stato strappato l’onore e l’onere di essere traghettatori nella nostra epoca. Viviamo di pulsioni effimere che decadono e non conducono a niente.

– Come può aiutare il tuo mestiere nell’editoria, sul set? 

Per me è stato fondamentale per due aspetti principali: il primo è quello creativo. Grazie alla casa editrice ho potuto sperimentare sul campo, leggere, imparare da persone più grandi ed esperte di me.
Il secondo è quello espositivo: negli scorsi quindici anni ho avuto centinaia di occasioni per migliorare ed allenare la mia comunicazione e la mia capacità di espressione durante presentazioni e conferenze.
Ci sono grandi progetti in arrivo.
Non sarò mai sufficientemente grato a Giuliano Ladolfi.

– Qual è la tua caratteristica (di attore) principale?

La metamorfosi, ossia la trasformazione dell’aspetto esteriore e delle attitudini in cui mantengo inalterata la mia identità. 
Sono cresciuto in una famiglia con esempi molto distanti tra di loro. Grazie alla grande curiosità che ho coltivato sin da bambino, ho sempre cercato di raccogliere e sperimentare le diverse facce di coloro che mi accompagnavano nel percorso di crescita. Piccoli dettagli del corpo, della voce, dello sguardo, dell’abbigliamento, del modo di pensare, del rapporto interpersonale mi hanno plasmato attraverso un lato attivo e passivo, attraverso un’attività e la sua negazione.
Credo oggi di conoscere una importante pluralità di situazioni e personalità perché vi ho sempre posto molta attenzione. Non vedo l’ora di scoprirne altre affascinanti e di poterle un giorno metterle in pratica.

– Vedi questo come il tuo mestiere per la vita? 

Sì. Ma non solo. Il percorso mi sta portando sempre di più “dietro” la macchina da presa perché amo plasmare con gli altri artisti, gli altri esseri umani qualcosa di comune e meraviglioso. Credo nelle squadre, nel “tutto che è superiore alla somma delle parti”, nei giovani.
A questo aggiungo la musica, perché tra poco uscirò con il mio primo EP a cui ho lavorato con Francesco Arpino e di cui sono molto felice. La musica mi emoziona e mi sta insegnando a vivere in un modo diverso. E poi c’è il mistero, l’imponderabile… la magia.

– Cosa cambieresti delle dinamiche nel mondo del cinema italiano?

Non mi piace fare politica e nemmeno critica in questo senso. Domando solamente: siamo veramente in ascolto? Vogliamo veramente creare progetti di qualità che possano lasciare un messaggio importante?

Total look Dolce&Gabbana 

“Deep water”, storie vere di sadomasochismo

“Deep water”, guai a chiamarlo thriller erotico

È doveroso iniziare citando i numerosi commenti dei numerosi critici cinematografici che molto sanno sulle tecniche di ripresa e poco sull’erotismo.
Cito letteralmente – “Senso di delusione per la mancanza di scene di sesso.” – “Lyne non girava film da 20 anni, i suoi film erotici erano sempre eccitanti, ma qui il sesso è davvero insignificante.” – “Melinda più che un personaggio sembra un insieme di caratteristiche e resta uno stereotipo“.
Qualcuno addirittura arriva a dire “Melinda resta essenzialmente un incubo di castrazione per tutta la durata del film“.

Ebbene, chi ha espresso questi pareri dovrebbe limitarsi a esprimerli sui vari “Mary Poppins” e “La carica dei 101” di cui si saranno occupati finora anziché addentrarsi in scenari a loro ignoti e incomprensibili. Perchè “Deep water” (Acque profonde) film di Adrian Lyne del 2022, è un capolavoro dell’erotismo. Chi non lo comprende, fa probabilmente parte di quel 99% della popolazione che vive una sessualità mediocre. Cioè assente.


Categorizzare “Deep water” come thriller erotico è limitativo. Il film, come tutti quelli di Adrian Lyne inzialmente sottovalutati, è un esame attento e chirurgico sulla sessualità e le sue dinamiche all’interno della coppia.
Qui Lyne ci descrive una donna, la femme fatale che ammalia perchè disturbata (Hitchcock ce lo insegna in “Vertigo” che le nevrosi si fanno seducenti), Melinda, libera (gira nuda in casa anche in presenza della babysitter), frivola e leggera (beve e balla senza curarsi dei giudizi altrui), e ipersessuata (tradisce il marito e seduce in maniera reiterata).

Ma cosa rende particolare questi tradimenti? Non sono taciuti.
Melinda prova eccitazione solo nella gelosia, sia essa indotta che passiva. Lo capiamo quando invita i suoi amanti alle feste in casa di amici di Vic, il marito, che lo intimano ad essere più riservati e discreti, e quando balla con il terzo incomodo sotto i suoi occhi.
Ma quello di Vic, che la osserva “affascinato” (di una fascinazione luciferina), è uno sguardo ambiguo, che parla di una complicità sofferta, dove la rabbia cova e l’eccitazione sale. Capiamo sin da questa prima scena della festa, che siamo di fronte ad una relazione sadomasochistica.
Il regista, per i più gnucchi, regala anche una postilla, la scena in cui Vic, prima dell’uscita, entra nella camera della moglie (dormono separati, sappiamo quindi che stanno attraversando una crisi coniugale) che lo prega di non guardare il disordine (della stanza? dentro se stessa?), ma di “guardare lei” (narcisismo tipico dei nevrotici) e scegliere l’abito per la festa, insieme alle scarpe che vediamo accompagnate dalle mani di Vic in ginocchio, in una sorta di atto da schiavo devoto, un Severin diVenere in pelliccia“.



Se nella quotidianità e nella noia della routine Melinda non si concede, pur provocando Vic con l’espressività di tutto il suo corpo, ecco che si riaccende quando vede il marito ballare con un’altra, proprio lui che odia stare al centro dell’attenzione, proprio lui che viene incolpato per apatia e mancanza di sentimento e passione. Lo vediamo quando in auto, di rientro verso casa, gli regala una fellatio mentre lo mordicchia in un misto di rabbia, gelosia e piacere.

Un equilibrio disequilibrato, faticoso e pericolosissimo, che però tiene viva la coppia e che fa credere a Melinda, insicura della sua intelligenza, (più volte lei dirà “odio quando sei convinto di essere più intelligente di me“) e terrorizzata all’idea di diventare una donna noiosa (“Se tu stessi con la maggior parte delle donne lì fuori, ti saresti già ammazzato per la noia”) di avere il coltello dalla parte del manico. Un legame a doppia mandata che segue il gioco del gatto e della volpe, ma dove prima o poi qualcuno si fa male.

Non è difficile capire chi, Lyne ce lo svela quasi subito, quando Vic, per spaventare il nuovo amichetto della moglie invitato a casa loro per cena, gli confessa in un ghigno di aver ammazzato l’ex amico di Melinda. E’ in quella sua serafica espressione che percepiamo un certo godimento.

La nevrosi sessuale di Melinda si riassume nella pellicola con una sequenza di atti voyeuristici, Vic spia la moglie mentre flirta in casa sua con il nuovo insegnante di pianoforte o con lo stupido biondo dall’aria da surfista; quando rientra ubriaca in casa il mattino seguente dopo aver passato la notte fuori, quando incontra un nuovo conoscente mentre passeggia noncurante per le strade della città.
E ci mostra soprattutto l’ossessione di Vic nei confronti di Melinda, tra le fotografie che ha scattato durante gli anni della loro lunga relazione: un autoreggente caduto sulle scale di casa, le sue gambe in movimento, calici di vino sulla tavola, il ritratto da sposa, lei distesa sul letto; immagini che lasciano intendere ed immaginare. L’autoreggente è stato sfilato dall’amante o la coppia si era ritrovata su quelle scale a far l’amore? Quei calici portano il segno di quali bocche? Melinda riposa nuda dopo essersi concessa a chi?

C’è tutta la tensione di un erotismo suggerito eppure devastante ed aggressivo come l’ossessione e la malattia. Ferisco per essere amato, scappo per essere preso, se non è erotismo questo, consiglio ai signori critici di fare qualche ripassino, partendo da “Venere in pelliccia” di von Sacher-Masoch; “Les liaisons dangereuses” di de Laclos e La mia droga si chiama Julie (La Sirène du Mississipi) di François Truffaut. Ma è sempre vera la teoria che consta il poter comprendere un’emozione solo quando la si è vissuta, per questo vi auguro di diventare dei nevrotici erotomani.



Ma il colpo da campione ci arriva solo alla fine del film, quando Melinda trova il portafoglio di uno dei suoi numerosi amanti nella stanza dove Vic alleva lumache, scoprendo quindi che è stato il marito ad uccidere Tony, l’ultimo amante.
Vic rientra in bici dopo aver occultato il cadavere in un fiume, lei lo attende fuori casa. Si scambiano un lungo sguardo. E poi il silenzio.

Che c’è?
Niente” (sulle labbra di Melinda una leggere soddisfazione, la stessa che scopriamo in Vic attraverso lo specchietto retrovisore quando aveva ucciso Tony).
Melinda, prima di lasciare la scena ed entrare in casa, incalza:
Ho visto Tony” – (e qui il regista ci mostra la donna mentre brucia le fototessera e i documenti dell’amante ammazzato.)

Cosa vuole dirci? Che lei, anziché lasciarlo come avevamo dedotto dalle valigie pronte, decide di restare, resta nella violenza (profondamente, la desiderava da tempo, la istigava nei comportamenti e nelle coatte accuse a Vic di passività), sceglie, ancora una volta, la complicità malata, che pare essere l’unica a farla sentire viva.

Acque profonde (Deep Water) film del 2022 diretto da Adrian Lyne



(foto Pinterest)

Cà Rugate, il vino che nasce dalla cura

Ci sono due modi per far andar bene le cose: con la disciplina, e con l’ossessione.
Ed il primo modo è l’elaborazione del secondo, per cui sono destinati a viaggiare a braccetto.
Per Cà Rugate, azienda agricola che si trova a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, questo è il timbro di famiglia, un albero genealogico antico cento anni e che culla ben quattro generazioni.

A suggello di radici profonde e radicate, come quelle delle piante che amano e coltivano, Cà Rugate ha quale simbolo una casa, il luogo dove tutto ha avuto inizio e dove l’identità della famiglia e dell’azienda hanno preso forma.

750.000 bottiglie per gli oltre 90 ettari tra Soave Classico, Valpolicella e Lessini Durello, dove si coltivano varietà autoctone come Garganega, Trebbiano di Soave e Durella per i bianchi, Corvina, Rondinella e Corvinone per i rossi, ed un percorso importante di agricoltura biologica, salute per la vigna e soprattutto per il consumatore finale.
All’interno dei vigneti ad esempio, si è rivelato strategico l’inserimento di boschetti naturali: offrono rifugio e habitat a insetti utili che, in modo naturale, agiscono come antagonisti dei parassiti indesiderati. Un equilibrio biologico che contribuisce alla salute della vigna.


Museo del Vino – Fattoria Didattica della Regione Veneto – Fattoria Sociale

Il 50% del mercato di Cà Rugate è internazionale, esportando i propri vini in ben 45 paesi, ma l’azienda continua ad investire e credere fortemente nell’enoturismo come motore culturale: il consumatore vuole emozionarsi, essere coinvolto, vivere il vino.

Tutto, dal paesaggio, all’accoglienza in Cà Rugate, partecipa a questa narrazione immersiva, in uno scenario che ospita la Fattoria Didattica della Regione Veneto, con percorsi per istituti scolastici; una Fattoria Sociale, sede di un parco faunistico di oltre 3.000 mq. per la valorizzazione del turismo inclusivo e laboratori creativi per persone con emotività diverse; ed un bellissimo Museo del Vino, sito di interesse regionale dove è stata fedelmente riprodotta l’abitazione di un contadino inizi ‘900, gli attrezzi del mestiere (oltre 150 strumenti), la radio che manda le notizie dell’epoca, la tavola apparecchiata con tovaglia a quadri rossa e bianca e l’immancabile fiasco di vino, un tempo succedaneo alimentare, vera fonte di sostentamento nei momenti di scarsità.
Le foto della famiglia Tessari appese al muro, ricordano la fatica e il duro impegno di chi tutti i giorni combatte con qualcosa che non può controllare: natura e tempo. E allora inizia ad imparare che le cose buone vanno attese, come il buon vino.

Museo del Vino

La Storia del Vin Santo di Brognoligo
Tradizione, cultura e identità di un territori
o

Nel cuore di Brognoligo, piccola frazione di Monteforte d’Alpone — il comune più vitato d’Italia — nasce una delle espressioni più autentiche della viticoltura veneta: il Vin Santo. Una tradizione profondamente radicata, tramandata di padre in figlio, che affonda le sue origini nel tardo Settecento, quando la scarsità di uva spinse le famiglie locali a produrre un vino dolce, raro e prezioso.

Prodotto inizialmente per uso medicamentoso e come moneta di scambio, il Vin Santo veniva offerto alle puerpere per rafforzarsi e utilizzato dai fittavoli come dono al proprietario terriero durante il rinnovo dei contratti agrari. Il suo valore simbolico e sociale era altissimo, e ancora oggi è celebrato con fierezza durante la Sagra del Vin Santo, giunta alla 73ª edizione, che si tiene ogni anno la prima domenica di giugno.

Solo cinque famiglie a Brognoligo lo producono ancora, e Cà Rugate non poteva che distinguersi con un metodo rigoroso: vendemmia solo nelle annate eccezionali. Anzitutto vengono appassite le uve nei picai, si vinifica a dicembre, e il vino viene lasciato in botti di rovere sigillate per sette anni senza interventi; ogni barrique è un racconto a sé, chiusa con mosaico e datata – una vera cassaforte gioiello – fino a ottenere una tiratura limitatissima: circa 300 bottiglie da 375 ml per annata.

E poiché la cultura va scritta, tramandata e celebrata, Cà Rugate ha curato tre pubblicazioni sulla storia del Vin Santo, sul Museo di Cà Rugate e su Fulvio Beo Tessari, figura chiave dell’azienda.

Barricaia



Fulvio Beo Metodo Classico

L’espressione del metodo classico firmato Cà Rugate è tutt’altro che convenzionale: si distingue per una notevole acidità, una tensione vibrante e un carattere soave. Esplorando tutto il potenziale della Garganega, vitigno iconico del territorio, e interpretandolo in una veste diversa come base spumante, si ottiene un metodo classico non canonico che nasce da una scelta coraggiosa ed eclettica.

Fulvio Beo Metodo Classico è una bollicina dedicata al padre storico di Cà Rugate, in occasione del suo centenario e celebrato nel 2015; è una Garganega spumantizzata, affinata 24 mesi sui lieviti e proposta in versione extra brut: una cuvée elegante, pensata per raccontare la longevità e la versatilità del vitigno.

San Michele Soave Classico

Accanto a questa etichetta speciale, resta immancabile il grande classico: il San Michele. Un Soave classico, garganega in purezza, vinificato in acciaio, fresco, armonico e perfetto per l’aperitivo. È il vino bandiera di Cà Rugate, esportato in oltre 45 paesi nel mondo, che ha contribuito in maniera decisiva a farne conoscere il nome a livello internazionale.


Il tempo, la cura e il rispetto della materia

Il metodo classico richiede pazienza. E passione. Al dodicesimo mese, mentre i lieviti continuano il loro lavoro silenzioso trasformando zuccheri in bollicine attraverso la fermentazione in bottiglia, il processo che ogni bottiglia segue è totalmente manuale, posizionate, spostate e monitorata a mano, perchè ogni gesto è parte di un rituale collettivo che richiede dedizione e precisione.

In cantina, il tempo è una variabile fondamentale. La geometria delle file, l’ordine, la pulizia visiva e strutturale – tutto a Cà Rugate viene fatto con rigore, non per estetica, ma per convinzione, perchè la precisione è forma di rispetto.
Il loro motto è: “La cura è il principio dell’esistere”: prendersi cura significa riconoscere valore, restituire senso, dare dignità anche alle cose. Qui ogni bottiglia ne è testimone.



Amarone – La forza dell’altitudine

Accanto alle bottiglie, anche le botti raccontano un altro volto del tempo. Amarone, Valpolicella, Recioto e Passito riposano in grandi botti di rovere austriaco da 20 ettolitri. Le botti sono firmate da Franz Stockinger, un maestro bottaio austriaco riconosciuto per la qualità e l’affidabilità delle sue creazioni, botti piegate a vapore e non a fuoco, per evitare la dispersione tipica del legno “affumicato” e lasciare che il vitigno esprima al meglio il frutto e la sua tipicità.
Il legno in questi casi, quando il tempo in cui liquido e contenitore sono a stretto contatto, diviene interlocutore vivo del vino, lo accompagna nell’evoluzione, ne scolpisce l’anima.

Esempio d’eccellenza è il Cima Caponiera, un Amarone della Valpolicella Classico Riserva Docg che riposa per cca 4 anni, i cui 600 metri di altitudine della vigna giocano un ruolo essenziale, accentuando sapidità, eleganza, linearità, e una complessità di beva che sprigiona tutti i richiami dell’uva appassita. Mora, ribes e ciliegia, sentori speziati, un vino evocativo e coerente, un vero e proprio lieu-dit, come direbbero in Borgogna.

Ogni cru di Cà Rugate è segnalato da un cippo evocativo in pietra, dove vengono incisi nome e altitudine del vigneto, ispirandosi ai modelli francesi. È un gesto simbolico, ma potente: valorizza il territorio, l’identità del cru, e conferisce ulteriore prestigio alla denominazione della Valpolicella.

Matteo Calcagno vince la “PiùCinque Competition 2025”

MATTEO CALCAGNO È IL NUOVO “LOCAL TRADITION BARTENDER OF THE YEAR”

Poco tempo fa durante un talk mi è stato chiesto “cosa manca alle aziende che si occupano di beverage, in fatto di comunicazione“. Se avessi vissuto prima l’esperienza alla “PiùCInque Competition“, avrei risposto più esaustivamente. Perchè qui ho trovato ciò che molto spesso manca alle aziende, l’umanità.

PiùCinque di fatto non è solo un gin, ma una famiglia formata da persone che lavorano e si impegnano in maniera corale per un progetto in cui credono fervidamente, dove non c’è solo la volontà di far star bene il cliente finale, ma l’intera filiera che ogni giorno elabora progetti, si ingegna per crescere e insieme (forse a loro insaputa), seminano altri seguaci e sostenitori.

La PiùCinque Competition, alla stessa stregua, non si pone come unico obiettivo quello di eleggere un vincitore, piuttosto risulta un escamotage per fare squadra, per rivedere amici, per ridere insieme, per imparare, per sostenersi.
Per questo motivo ogni finalista è accompagnato da un tutor, che li sostiene, li consiglia, li supporta in quella che ogni tanto fa tremar la voce e le mani, una gara dove ad emergere non è solo il cocktail, ma la personalità del bartender, le sue radici, le fragilità, gli affetti, la memoria.

E quale migliore luogo se non il mare, per accogliere un evento così carico di energia e buoni propositi?
Il mare di Senigallia fa da sfondo alla finale dove Matteo Calcagno, Christian Costantino, Federica Di Lella, Daniele De Angelis e Asia Abballe hanno raccontato la loro storia in un bicchiere.

I finalisti



GIURIA TECNICA 2025

A giudicare i 5 finalisti, una giuria tecnica di cui faccio parte e che mi permette di ringraziare il team PiùCinque per questa esperienza speciale, esempio per chi vuole tornare ad una comunicazione fatta di persone e non solo di numeri.
Nel dettaglio:

LUCA BRUNI (Presidente di giuria)
Tra i volti più premiati della miscelazione italiana, è vincitore di titoli come Altos Bartender dell’Anno ai Barawards, Best Bartender Under 35 ai Food & Wine Italia Awards, e campione italiano e globale di World Class 2024. Conquista anche la scena narrativa, vincendo la finale italiana di The Vero Bartender by Amaro Montenegro.
Giudice tecnico e severo, Luca Bruni ha messo il pepe alla gara con richieste “out of the box“.

GIULIA CASTELLUCCI (Rem Trastevere, Dude Pigneto, Led Dragon – Roma)
Imprenditrice e bar manager, guida progetti di successo nella capitale ed è volto televisivo Gambero Rosso / La7.
Esperienza davanti e dietro il bancone, Giulia è stata lo spirito empatico della giuria, sottolineando che un professionista deve sì essere preparato, ma senza mai dimenticare che dietro quella station ci sono uomini e donne che stanno lavorando anche sulle proprie emotività.

MIRIAM DE NICOLÒ
Fondatore e Direttore di SNOB Magazine, Marketing Director, sommelier AIS, Formatrice in Art Direction ed Editoria.
La mia è volutamente stata una visione da “cliente”, perchè alla fine è il cliente che sceglie, il cliente che torna. E quando torna vuol dire che si è lavorato bene.
Convinta che gli italiani siano i numeri uno in fatto di ospitalità, sono felice di aver ascoltato storie di nonne e madeleine proustiane, che mi hanno permesso di fare un viaggio nelle terre di questi ragazzi così pieni di sogni e speranze, nella Sicilia più vera e nei riti scaramantici del Sud Italia, tutto nel sorso di un bicchiere.

GIUSEPPE CAMUNCOLI
Fumettista Marvel/DC (Batman, Spider-Man, Darth Vader), co-fondatore di Foodmetti, festival che unisce fumetto e F&B.
La conoscenza di chi oltre, ai cocktail, ama la compagnia più vera, quella fatta ancora di “Come stai” “Ci vediamo per un drink?

PAOLO GORI
Chef della storica Trattoria Da Burde (Firenze), custode della cucina popolare toscana e sostenitore delle filiere locali.
Poche parole, molta conoscenza. Uno chef che riconosce nella mixology, una cucina liquida.

La Giuria

TUTOR

Nella grande community, i tutor che hanno animato la due giorni tra le colline di Mondavio, in una serata distensiva pre-gara che ha aiutato a stemperare le tensioni e a radicare amicizie e conoscenze:
Umberto Oliva (Bartender e Consulente freelance), l’anima della festa e simpatizzante di tutti i concorrenti; Francesco Bonazzi (Farmily Group — Milano), che si è cimentato in un’apparizione déshabillé come spalla di Calcagno; Antonio Tittoni (Depero — Rieti) con Costantino; Nicolas Di Maria (Move On — Firenze), tutor di De Angelis; Leonardo Scorza (Serre Torrigiani — Firenze), braccio di Asia Abballe del MAG La Pusterla, ed in primis Giorgio Lupi, ideatore, voce, animatore, moderatore, leader e trascinatore di questa grande festa, inflessibile e rigoroso durante la gara, ma capace di dosare grande generosità nei momenti conviviali. Giorgio Lupi è il Brand Development Manager PiùCinque.

Finalisti e Tutor

LA FINALE

A giocarsi la finale Matteo Calcagno (Cogo. Drink Food & Burger — Cogoleto GE) con il drink manifesto “Essenza Genovese”, uno scrigno di rosa e tradizioni della Valle Scrivia; e Christian Costantino (Marina del Nettuno Lounge Bar — Messina) con “Briscola in Cinque (E PIÙ)“, tutta la grinta e la simpatia dell’Isola dei mori; una Speed Challenge con 5 classici eseguiti in sequenza (di cui uno alla cieca) e una Mystery Box con foglie di olivo, fico, pomodoro, alloro, finocchietto e rosmarino da utilizzare tutti in miscelazione o come garnish.

Matteo Calcagno ha convinto tutti con “Adamo ed Eva +3”, un cocktail che racchiude un ingrediente preso dalle preparazioni dei 3 finalisti non più in gara, aggiudicandosi il titolo di LOCAL TRADITION BARTENDER OF THE YEAR 2025. Calcagno volerà ora per una guest night internazionale, a scelta tra New York, Dubai o Hong Kong, omaggiati da Gin PiùCinque.

Il risultato è un cordiale ricco e stratificato, vegetale e intenso, che accoglie foglie, erbe, spezie e note inedite con base Gin PiùCinque, accompagnato da succo di lime e un olio extravergine d’oliva infuso con polvere di rosmarino e rametto d’olivo bruciato. Tocco finale, una soda alle foglie di alloro e basilico, per chiudere con un accento erbaceo e luminoso, l’unione di tutte le regioni della nostra amata Penisola.

PiùCinque segna quest’anno un’ulteriore punto a favore dell’ospitalità, la Competition è un segnale forte che vuole ricordarci l’importanza di un mestiere volto a farci star bene, a far sorridere chi entra in un bar perchè ha avuto una giornata storta, a regalarci una parola gentile, un consiglio a tornare ai contatti umani, al ritrovarsi intorno a un tavolo per chiacchierare. Il drink è da accompagnamento, che ora si fa eccelso, si imbelletta, si veste a festa, vero, ma quel che conta non è solo il suo contenuto, ma quel che ci sta intorno.


Matteo Calcagno, il vincitore

SALI, il nuovo izakaya nel centro di Milano

Dove c’è il suo nome c’è personalità.
E salendo da SALI (sì il nome è proprio un invito), il nuovo izakaya sito al settimo piano del Radisson Collection Hotel Santa Sofia, si capisce che Alessandro Mario Cesario ha fatto centro. Anche questa volta.

Ma chi è Alessandro Mario Cesario?
Ex proprietario e ideatore di The Yard poi Doping Club, oggi a Casa Tobago che ripercorre lo stesso concept ma rinnovandosi, ed ora con SALI, ha ideato e timbrato a fuoco uno stile unico dei cocktail bar milanesi. Maximalisti con un gusto estremo ed una capacità di mixare arredo vintage con pezzi di design, stili esotici con l’essenzialismo Japan. Tant’è che qui da SALI ci si aspettava di “ritrovarlo”, invece ci stupisce per il “less is more“, seguendo lo stile “iki“, e aprendosi ad un pubblico internazionale.

Caldi gli ambienti nell’illuminazione che ricordano lanterne rosse e atmosfere alla Wong Kar-wai
, statuette souvenir di qualche viaggio nel Sol Levante, ritratti dove l’arte del tatuaggio prende forma su volti giapponesi con l’horimono.

E a spiazzarci, dei balconcini stile parigino che si fanno spazio tra i tetti, con una vista sulla città meneghina, un pot-pourri di richiami alle città più stylish del mondo.
A firmarlo insieme a lui, Christian Brigliadoro, socio del gruppo Sequoia, un passato nel settore della moda, un segno importante di riscrittura dello stile e dell’accoglienza, e la progettazione realizzata in
collaborazione con l’architetto Luca Piccinno di MaisonP, studio di interior design.

A capitanare SALI per la scelta F&B, Daniel Jonathan Selby (Operation Beverage Manager, già The Connaught di Londra) e la visione mixologica di Alessia Bellafante e Dario Baturi (Bar Manager).

I sapori sono umami, fermentati, con ritorno costante di cereali e sakè, tra i signature:

  • Hokkaido, in stile Old Fashion con Hibiki Japanese Harmony, sesamo,
    shiromiso, dal sapore Umami e accompagnato con cioccolato fondente;
  • Kansai, un punch con Casamigos Blanco, Bulleit Bourbon, Tè Matcha, yuzu e
    cocco, servito con Mochi a sorpresa;
  • Aomori, a base di Amazake, Sakura Bancha Cordial, profumo di cardamomo,
    per un drink dalle note maltate, in grado di riprodurre il rituale del Sakè
    giapponese.

La proposta gastronomica è guidata da Chiara di Salvo, giovane talentuosa Chef formatasi alla corte di Gordon Ramsey, e coadiuvata da Ulisses Sangalli (già Polpo Milano), seguendo il vero stile izakaya che vede il cibo in “sharing“:

  • Sando di Wagyu (Koji e yuzu e coleslaw di cavolo cinese) per esaltare la
    pregiatissima carne Wagyu, reinterpretandola in una forma moderna e
    accattivante, come un sandwich gourmet che esalta la tenerezza e il sapore
    unico della carne;
  • Yakitori (nelle versioni con pollo e cipollotto, friggitelli, mazzancolle e
    Wagyu), non semplici spiedini, ma un’esperienza scenografica;
  • Chirachi Crispy Rice, ovvero “bocconi bite” di tartare di tonno e salmone su
    riso croccante.

SALI è un piccolo viaggio in Giappone pur rimanendo in città, ma soprattutto un cocktail bar raccolto, intimo, dove “accoglienza” e “ospitalità” fanno da padroni, e un nuovo modo di vivere l’appuntamento del drink.


DOVE SI TROVA SALI
Settimo piano presso Radisson Collection Hotel Santa Sofia Milano
Ingresso da Corso Italia 29, Milano
M4 Santa Sofia
Mercoledì e giovedì, dalle 18.00 all’1.00
Venerdì e sabato, dalle 18.00 alle 2.00
Domenica, dalle 18.00 alle 0.00

Addio a Sebastião Salgado, il fotografo umanista che amava la Terra

L’ultimo suo grande progetto è stato “Amazônia”, allestito presso Fabbrica del Vapore a Milano nel 2023, immagini testimonianza di ciò che sopravvive prima di un’ulteriore progressiva scomparsa.

“Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra 50 anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto” affermava Sebastião Salgado, che oggi ci lascia all’età di 81 anni.
A darne l’annuncio l’Académie des Beaux-Arts di Parigi di cui era membro, la cause sono ancora ignote.

Ci lascia non solo il più grande fotografo umanista dei nostri tempi, ma un uomo che ha dedicato la sua vita ad una missione, quella di cambiare la visione delle cose e del mondo. Con la sua sensibilità e quel modo gentile di guardare attraverso l’obiettivo, Salgado è riuscito a riportare per immagini i cambiamenti climatici, sociali, economici del Pianeta. Il fine ultimo è sempre stato quello di porre l’accento sulle condizioni dei più deboli, sulla deforestazione, sulla miseria, sugli effetti devastanti delle disparità sociali.

Con “La mano dell’uomo“, il suo reportage più noto, il colossale progetto sulle condizioni dei lavoratori nelle miniere d’oro del Brasile, nei pozzi di petrolio del Golfo Persico, nelle miniere di zolfo Indonesiane, Salgado ci racconta una missione prima di una rappresentazione. La fotografia per lui è stata uno stile di vita, una vocazione.

Con “Genesi” ci ha fatto innamorare degli abitanti della Terra, un omaggio alla Grande Madre e ai suoi figli, pinguini, elefanti, balene vissuti nei luoghi più incontaminati, la meravigliosa biodiversità del Madagascar, della Papua Nuova Guinea e dell’ Emisfero Nord.

Ed è attraverso i video e le testimonianze degli amazzoni e dei loro ritratti in “Amazônia“, che Salgado ci invita ad “ascoltare” e a riflettere sulla situazione degli abitanti della foresta. La foresta, l’ecosistema fragile che le comunità indigene, che la vivono, rispettano e amano. Ma il riflettore, anche se sono loro i fotografati, è su di noi, su tutta l’umanità che ha la responsabilità di occuparsene, partendo dalle piccole cose.

Salgado lascia un vuoto immenso, ma ci lascia anche un grande insegnamento, amare e ripettare la Terra che viviamo. Facciamone buon uso.



(foto Ansa)

Bentley Home – Il futuro del lusso è lifestyle.

Intervista ad Andrea Gentilini, Ceo di Luxury Living Group

Luxury Living Group nasce da una visione d’insieme e dall’esigenza di soddisfare una clientela legata ad un particolare brand, per offrire l’esperienza di vivere la propria casa, immersi nello stile di quel marchio.
Versace, Dolce&Gabbana, Trussardi, Bentley Motors e Bugatti, sono solo alcuni dei brand con cui il gruppo collabora, diventando così leader nel settore dell’arredamento di lusso, con focus sulla progettazione e produzione di mobili e accessori esclusivi di particolare prestigio.

Bentley Home porta nell’ambito dell’interior design la stessa eleganza e la stessa attenzione al dettaglio che caratterizzano le auto Bentley. I prodotti, realizzati da noti designer in collaborazione con l’Ufficio Stile Bentley Home ed il team di design Bentley Motors, si distinguono per le linee accattivanti, per i materiali pregiati utilizzati, per le particolarità e il carattere che contraddistinguono il grande marchio inglese.

La collezione Bentley Home non è una semplice proposta di arredo lusso per clientela esigente, è oltremodo uno stile di vita, la conferma di una grande passione e la voglia di viverla in ogni momento della giornata, a partire dalla propria casa.

Andrea Gentilini, Ceo Luxury Living Group

Luxury Living Group è produttore e distributore da 30 anni dei più grandi brand internazionali del lusso, come si legano moda, design e automotive?

Il ragionamento non va ristretto alle categorie merceologiche, è principalmente una questione legata alla dimensione del brand. Per dimensione non intendo la grandezza o la riconoscibilità, intendo la capacità di quel marchio di interpretare un percorso lifestyle. Quando può farlo? Quando la sua storia è solida, credibile ed affidabile.

Il vostro legame con questi brand, i contratti di licenza, in cosa consistono?

Si trasporta la natura del brand con codici e linguaggi, nella categoria merceologica della licenza e poi si elabora un concetto più ampio di appartenenza. Il nostro macrocosmo è l’arredo, dove proponiamo il prodotto attraverso un marchio di design e lusso, che ha precedenti collaborazioni con volti noti, nomi di designer blasonati, grandi intellettuali, uomini che hanno cambiato la storia. Questo insieme fa dell’oggetto, un pezzo d’arredo sofisticato.

Come scegliete il brand con cui collaborare?

Valutiamo anzitutto la forza, la credibilità del marchio e la possibilità di traghettarlo nell’high-style. Il primo caso è stato con Fendi, poi Versace, Dolce&Gabbana, e il mondo dell’automotive.

Cos’è il lusso?

Il lusso ha attraversato una profonda evoluzione nel periodo del Covid. Si è spostato dall’oggetto al senso di appartenenza, alla condivisione di valori. Se acquisto un prodotto di Hermès, il brand con il posizionamento lusso più interessante al mondo, non sto acquistando una borsa, una Birkin, sto fondamentalmente condividendo dei valori, sto dichiarando che voglio far parte di quella storia e di quei canoni.
Molto spesso queste maison sono guidate da famiglie illuminate, da imprenditori visionari, perché non basta un manager per arrivare al successo, serve tenacia e coerenza, e soprattutto tempo, utile a consolidarsi e confermare la propria identità. Queste sono storie centenarie che si basano su regole inamovibili, che passano anche e soprattutto dalla comunicazione e dal marketing.

Cosa fa Luxury Living Group per aumentare la visibilità del brand?

Cerchiamo anzitutto di non creare delle situazioni che potrebbero essere distoniche rispetto al loro racconto, diamo tutte le garanzie condividendo ogni passaggio (dal layout alla cartella stampa), creiamo condizioni organizzative molto complesse. Ma soprattutto ascoltiamo, perchè la creazione è un bene strumentale durevole. Per quanto prezioso sia il materiale di un nostro tavolo, deve essere in grado di accogliere più persone, le sedie devono rispettare dei carichi di ergonomicità, deve esserci attenzione al dettaglio, deve avere la massima qualità artigianale e Made in Italy. Il risultato è un prodotto capace di emozionare, un gioco da equilibristi.

A quale di questi oggetti si sente più legato?

La scrivania del mondo Bentley Home, tutte le volte che ci passo davanti, mi fermo ad osservarla.

Che prezzo ha sul mercato una scrivania Bentley Home?

Dipende dalla configurazione, in media 70.000 euro la versione base.

Come giustificare questa cifra?

Se compro un abito posso anche accettare che lo indosserò due o tre volte ad una festa, l’abito è un bene intercambiabile. Se compro un divano, devo pensare che quel divano mi ospiterà quando mia moglie mi darà una bella notizia, quando mio figlio mi farà arrabbiare, quando il lavoro andrà male… quel divano sarà il mio migliore amico per tanti anni a venire.

Qual è il messaggio di Bentley Home?

La nostra è una rappresentazione scenografica di un concetto. In questi ambienti il cliente può vedere e vivere come interpretiamo il marchio Bentley all’interno di una casa.
Il nostro atelier è come un hotel di lusso: oggetti, boiserie, decori, tutto è pensato per vivere il film Bentley Home, una scena teatrale dove ogni prodotto suona in maniera armonica.

Com’è cambiato, se è cambiato, il mondo del lusso oggi?

È cambiato geograficamente e culturalmente, approdando ad una dimensione sempre più intima. Un tempo il lusso era solo concetto di appartenenza, l’essere presente a quella determinata lista elitaria, consolidandosi uno status, era ostentazione e possedimenti. Un dato importante ce lo dà il Medio Oriente, per cui l’esclusività identifica la preziosità del prodotto, la scarsità dell’articolo, il numero di pezzi ridotto, meglio ancora il pezzo unico. Per l’Europa, e soprattutto per l’Italia, un articolo diviene prezioso quando è customizzabile e pregiato il materiale, come un marmo Bianco Thassos Extra.
La pandemia ha trasformato un poco questi codici e ha spostato il consumatore verso una ricerca di benessere personale, ha maturato che gli oggetti di casa e l’atmosfera che creano, sono indispensabili per uno stile di vita sano e confortevole. La casa non è solo luogo di passaggio, dove dormire, ma un nido dove vivere ed emozionarsi.

“Quale bellezza salverà il mondo”? A rivolgere questo quesito al principe Myškin è il giovane tormentato Ippolit de “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij. Come si pone nei confronti di questa affermazione?

Il mondo salverà la bellezza, perchè è una bellezza lontana dagli stereotipi e lontana dal concetto classico, si parla piuttosto di una sacrale profondità etica, dove grazia e moralità sono indisgiungibili. Io credo che il mondo potrà essere salvato da ciascuno di noi, laddove il singolo individuo si impegni ad essere migliore. La mia visione è più zen che russa, credo nel contributo dell’essere umano attraverso la dedizione, la passione, l’impegno e soprattutto la volontà di fare quel passo in avanti, quel piccolo gesto, verso la gestione di ogni aspetto della vita, sia essa relazionale, lavorativa, sentimentale.

C’è una sorta di oggettività nella bellezza?

Leonardo da Vinci diceva che aveva a che fare con l’equilibrio e l’armonia. Io quando parlo con i ragazzi del nostro team parlo di “intonazione”.

Marilyn Monroe diceva “Se devo piangere preferisco farlosul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quello di un vagone del Metrò”.

Il lusso non è necessariamente legato al denaro, il lusso concede la possibilità di vivere con libertà alcune scelte. Ho conosciuto gente libera con patrimoni inesistenti. Il denaro regala qualche chance, non la forza di scegliere.

Oggi il lettore vuole sempre più sapere chi c’è dietro un’azienda, lei come si descriverebbe?

I ruoli come il mio sono necessariamente rappresentati da uomini votati. In assenza di passione, ogni impegno diventerebbe eccessivo, a qualunque retribuzione, per qualsiasi visibilità, per qualsiasi scelta egoica. Quando faccio selezione chiedo sempre: “Ma tu sei veramente disponibile a questo?
La mia priorità è il lavoro, pur amando la mia famiglia, se così non fosse, non funzionerei, non raggiungerei i risultati prefissatimi. Sento diversi manager parlare di nuovi metodi di gestione del tempo, io sono meno bravo di loro evidentemente, perchè “ho bisogno di stare sul pezzo”, più degli altri.

(tutte le foto sono state concesse da Luxury Living Group)

Alberto Rossi, “Il Gattopardo” è solo l’inizio

Alberto Rossi è il volto della serie Netflix più discussa del momento “Il Gattopardo”, l’adattamento del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, girato fra Catania, Siracusa e Palermo e prodotto da Indiana Production e Moonage Pictures, dopo ben 62 anni dal noto cult di Visconti.

Alberto Rossi, siciliano, 27 anni, interpreta Paolo Corbera di Salina, il figlio maggiore di Don Fabrizio. Un giovane attore di cui sentiremo ancora parlare perchè “Il Gattopardo” è solo l’inizio…

Talent: Alberto Rossi
Photographer: Luca D’Amelio
Stylist: Luigi D’Elia
Stylist Ass.: Paulos Bubbico
Grooming: Barbara Bertuzzi
represented by@production_link @wkgpcrew
Make-Up: Eleonora Juglair
Publicist: MPunto Comunicazione

Total look: Missoni
Mocassino: Santoni

L’abbiamo vista nella serie tv Netflix “Il Gattopardo” – Come ci si prepara ad un ruolo così importante, di un’epoca che non si è mai vissuta?

Credo sia molto importante entrare in relazione con il personaggio, io ho avuto la fortuna di amare Paolo fin da subito, mi sono trovato molto in sintonia perché ho rivisto molto di me in lui. È stato divertente soprattutto perché ci divide qualche secolo, mi sono sentito in una macchina del tempo.

Ha dichiarato in una intervista di aver fatto ricorso alla psicanalisi per addentrarsi meglio in un ruolo, è così? In che modo l’ha aiutata?

In realtà è da qualche anno che ho la fortuna di aver trovato un percorso psicologico che mi aiuta ad essere più centrato, a capire meglio chi sono. Paolo è però stato centrale durante molte sedute in cui ho capito, e fatto pace, con aspetti fino ad allora ancora non compresi, sia su me stesso che su di lui. Con questo non voglio dire che sia necessaria la terapia psicologica per affrontare un progetto, ma a mio parere tramite quella lo si fa con più consapevolezza; sarebbe bello se passasse il messaggio, soprattutto tra i ragazzi, che parlare con qualcuno professionalmente competente, è il regalo più bello che ci si possa fare.

Total look: Missoni
Mocassino: Santoni

Cos’ha scoperto di sé e del suo carattere, che prima di fare l’attore non sapeva?

Di avere molto coraggio, non che prima non lo fossi, coraggioso, ma forse non ne ero molto consapevole.

Cosa/Chi sognava di diventare da bambino?

Sognavo e sogno ancora di diventare tante cose, spesso da bambino ero convinto di essere già un veterinario e mi prendevo cura di tutti gli animali che trovavo, pero’ la mia ambizione era quella di esprimermi artisticamente, credo di essere nella giusta direzione.

Total look: Pence
Mocassino: Douclas

Cosa porta del suo dna siciliano, sullo schermo?

Io spero di portare tutto quello che amo, la forza, la passione, la fame e anche quella timida emotività che custodiamo noi siciliani per mostrarci forti. Soprattutto il coraggio di affrontare il mondo, lo stesso che mi ha insegnato questa magnifica terra.

Ha la passione del canto, ha progetti in questo campo?

Sono molto legato alla musica, è il mio sfogo giornaliero ed il mio nido sicuro, sto continuando a studiare e prometto di presentare presto qualcosa, adesso però sento l’esigenza di volermi dedicare al cinema.

Si riconosce nei nuovi cantautori suoi coetanei?

In alcuni sì, soprattutto coloro che non hanno paura di parlare di quello che amano, non curandosi di vendere o diventare popolari, bensì trasmettere emozioni.

Che si fa insieme ai colleghi dopo una giornata sul set?

Di solito ci ritroviamo per bere qualcosa o mangiare tutti assieme, parlare della giornata di lavoro o provare le scene del giorno dopo. Noi per esempio durante le riprese del Gattopardo ci incontravamo sempre al mare o al ristorante, abbiamo ancora un gruppo che si chiama “Gruppo Ristorante e basta“ oggi ancora attivo.

Ha stretto dei legami intimi e amicali con qualcuno di loro?

Si, siamo tutti molto legati, devo ammettere che mi piacerebbe ripetere tutto il set perché è stato quasi magico, caldo a parte. Con alcuni ho stretto di più è normale, ma tutti siamo rimasti amici dopo questo progetto e la sensazione è bellissima.

La città del cuore e perchè.

Sembrerà scontato ma Catania è la mia città del cuore, viaggio molto, vivo a Roma ed ho provato anche a cambiare città, ma la mia terra offre tutto quello di cui ho bisogno. Forse cambierei qualcosa, ma ne sarò sempre innamorato.

Concreta srl, tutti i sogni realizzati chiavi in mano

Livigno si appresta ad ospitare un evento importante, i Giochi Olimpici 2026 come sede delle gare di Freestyle e Snowboard. Scelta come meta per appassionati di tutte le età per la perfetta combinazione di strutture, posizione geografica e altitudine, Livigno si vestirà a nuovo, a partire dalle piste della società di impianti sciistici Mottolino, che ha riprogettato tutta la sede con biglietteria interna, zona shopping guidata, acquisti attrezzature second hand ed un prezioso ristorante fine dining, la Téa del Kosmo. Una proposta gourmet sotto la consulenza dello chef tristellato Norbert Niederkofler ed oggi guidato dallo chef Michele Talarico; un progetto sviluppato dall’architetto Anselmo Fontana dello studio LPS, l’interior design opera di Progetto CMR con la guida dell’architetto Massimo Roj e la realizzazione di arredi su misura a cura di Concreta Srl, l’ interior contractor che opera sul mercato nazionale ed internazionale specializzato nella realizzazione, produzione e fornitura di arredamento totalmente customizzato e con oltre 30 anni di esperienza.

Concreta Srl è stata guida di diversi altri progetti per la città che ospiterà le Olimpiadi, per le strutture alberghiere che hanno compreso l’importanza di un evento internazionale, e che si preparano al meglio per poter accogliere operatori, professionisti, appassionati da tutto il mondo.


PARADISE LODGE

ll Paradise Lodge è una di queste mete, il 4 stelle superior riaperto a Marzo di quest’anno con una nuova veste, la seconda generazione rappresentata dalla proprietà Riccardo Canepari, ha scelto un ambiente che al meglio possa confondersi e fondersi con la natura, prediligendo il legno come materiale predominante, dando spazio al salotto nella hall totalmente vetrato per godere al meglio della migliore vista di Livigno e delle sue montagne innevate. Un’area comune totalmente insonorizzata grazie all’applicazione di controsoffitti microforati che hanno un supporto fonoassorbente, favorendo così un ambiente confortevole e silenzioso, perfetto per il relax.


Fiore all’occhiello la Spa Soaria, 600 mq di benessere dove concedersi una sauna finlandese con rituali Aufguss, una biosauna o un bagno turco, la cascata di ghiaccio, docce emozionali, una piscina riscaldata, che prosegue fino all’esterno, per vivere l’esperienza in mezzo alla natura incontaminata di Livigno.


Il Paradise Lodge è davvero il paradiso verde della città, nei 6.000 mq di giardino sarà possibile vivere esperienze di benessere come sessioni di yoga, meditazione, su un palcoscenico boschivo incantevole, lo spazio aperto e la bellezza alpina che cerca chi sceglie la montagna.

Al rientro dalle attività sportive, al cocktail bar potrete farvi coccolare con un tagliere fatto di prodotti locali, come la slinzega e il culatello, e a tarda sera con un Taneda, il liquore digestivo preparato con erba Achillea Moscata dopo una degustazione di sigari nella cigar room dedicata.

Stile sobrio e moderno per le 39 camere totali del Paradise Lodge, bagno turco privato o vasca idromassaggio esterna per le family suite, per chi desidera soggiornare più a lungo e non pensare al tempo che passa.
La perfetta armonia del design e dei materiali di ricerca, sono frutto di un progetto dello studio di interior design Art Domus di Ortisei, nella figura dell’Arch. Daniele Bonato, e della realizzazione di Concreta, la società che riesce sempre a soddisfare ogni sorta di richiesta del cliente.


MO.HE BOUTIQUE HOTEL

Importante realtà sempre realizzata da Concreta per le aree comuni e per le 12 camere e suites, dietro progetto disegnato dallo studio di architettura Silvestri nella figura dell’Architetto Massimo Silvestri e Edoardo Silvestri Interior Design, il Boutique Hotel Mo.He.

Qui l’effetto “Wow “è assicurato, all’entrata vi darà il benvenuto un laghetto naturale che scorre come quelli di montagna, partendo dalla suite Dream, la speciale camera di 117mq con vista sul laghetto e sulle cascate del Diorama, spa in camera, angoli verdi circostanti, sauna, bagno turco, mini-piscina, cascata di ghiaccio, ed un maxi letto girevole che segue il panorama che preferite.


All’interno, pareti materiche ed un lounge bar che riprende le pareti rocciose, con un materiale bronzato totalmente martellato e modellato a mano. Design, originalità e coesione perfetta tra passato e futuro nella scelta di portare in struttura uno storico mulino ancora funzionante: potrete vederlo girare nell’area Experience, il cui passaggio è un’enorme botte di legno; il mulino macina ancora il grano che potrete apprezzare al ristorante dell’albergo, sotto forma di tagliatelle o polenta.
Nella stessa area, una grande sala wine tasting attorniata da prodotti del territorio; e per i clienti più esigenti una DIY cooking con erbe aromatiche a cui attingere per profumare i propri piatti, ed una Baita Federia, una casetta di legno accogliente ed intima, per una cena in perfetto stile montano.



Questa la filosofia di Mo.He, stupire, ed offrire un servizio attento e presente, per le 12 suites sui tre piani totali, ma soprattutto diversificato rispetto alle altre strutture ricettive, ricco di esperienze direttamente in loco, per regalarsi una vacanza di riposo ma con una vasta gamma di attività sportive, culinarie, esperenziali.

Con il supporto operativo di Concreta Srl, la società che realizza chiavi in mano ogni necessità di catene alberghiere, investitori privati o studi di architettura, i sogni si possono davvero realizzare.
Concreta si avvale di uno staff manageriale competente ed esperto, garantendo accuratezza per l’intero processo di realizzazione, ascoltando anzitutto il cliente in un primo briefing iniziale, fino alla produzione e posa in opera con la massima flessibilità. Ma l’esperienza trentennale dell’azienda, permette di assicurare due importanti punti che spingono l’ago della bilancia verso la fiducia e fidelizzazione di questa società: il rispetto delle tempistiche e dei budget. Punti fondamentali, parole chiave che gli hanno permesso la creazione di centinaia di progetti sul territorio nazionale ed internazionale, quale punto di riferimento per chi desidera customizzare la propria opera ad immagine e somiglianza.



(tutte le immagini sono state concesse dall’Ufficio Stampa OGS Communication)