Con Barilla Al Bronzo, la scarpetta diventa gourmet
Ci sono piatti che hanno assolutamente bisogno della scarpetta per essere gustati a pieno. In primis, la pasta con la salsa, quella che, rimasta nel piatto, ci chiama a sé per esser raccolta con un pezzo di pane. L’abbiamo fatta tutti, la scarpetta, tra le mura domestiche, quando il gesto non è additato, quando anzi è richiesto perchè la nonna approva, perchè significa che hai apprezzato. Ma in un ristorante, le “comodità” e le abitudini di casa, devono essere contenute, e allora il pane rimane nel piatto, così come la salsa. Ed è qui che subentra ancora il genio di Barilla, con Barilla al Bronzo, la pasta che fa la scarpetta.
La sua lavorazione è grezza e raffinata, ed è ottenuta tramite la trafilatura al bronzo che disegna sulla superficie della pasta una “rete di microincisioni”, per una consistenza ruvida che cattura la salsa. Questo design permette infatti un’eccellente tenuta del sugo, valorizzando la ricetta nel suo insieme e perchè no, evitando anche gli sprechi.
Barilla Al Bronzo è realizzata con una selezione di grani duri pregiati 100% italiani che regalano alla pasta una tonalità ambrata unica; ha un contenuto proteico superiore al 14%, che la rende più robusta, pù elastica e che aumenta la capacità di trattenere l’amido durante la cottura, per un risultato sempre “al dente”.
Se la pasta è tradizione, e tra le grandi passioni culinarie degli italiani, lo è certamente anche la scarpetta, e con l’aumento di clienti sempre più esigenti ed attenti al mangiar bene, che scelgono e selezionano ristoranti fine dining, con Barilla al Bronzo non sarà più un problema, perchè la pasta farà la scarpetta al posto tuo!
Lo conferma anche Davide Oldani, che durante la serata di presentazione della nuova campagna, in anteprima assoluta italiana, ha affermato: “Per gli amanti della pasta il rito della scarpetta è un piacere irrinunciabile: nella nuova campagna, Barilla Al Bronzo riesce a unire gusto e raffinatezza, valorizzando un gesto della tradizione, rendendolo possibile anche nei contesti più formali”.
Il Galateo ci imporrebbe un grande “no” per la raccolta del sugo nel piatto, con un pezzo di pane, ma se per gustare il piatto, fino all’ultimo boccone, abbiamo Barilla al Bronzo, non dovremmo preoccuparcene.
Lo conferma anche l’esperta di bon tonElisa Motterle che evidenzia: “sulla tavola, proprio come accade nella Moda, si incontrano – e a volte si scontrano – regole tradizionali e tendenze contemporanee: da questa dialettica nascono nuovi modi di interpretare gesti classici e conviviali, come raccogliere il sugo con un boccone di pane, a fine pasto. Barilla al Bronzo rinnova la tradizione informale della “scarpetta” e la presenta in un dettaglio gourmet, mettendo così d’accordo gusto e galateo”.
Fu un tempo luogo di preghiera, tra le spesse mura che portano 500 anni di storia, il Chiostro dei Domenicani, appena fuori dal centro di Lecce, oggi rivive in una struttura di hospitality unica nel suo genere. Le arcate a stella del cortile interno regalano imponenza a questo palazzo dove il silenzio sopravvive nei secoli. Nelle celle dove riposavano gli uomini di Chiesa, oggi vi sono le stanze degli ospiti, 18 in totale, alcune con affaccio sul giardino e le colonne, che i giochi di luce ed ombra trasformano in un dipinto hopperiano.
Soggiornare al Chiostro dei Domenicani è un’esperienza ricca, nell’accezione del termine forse perduto che riguarda la sostanza delle cose. Qui è possibile dedicarsi alla pratica meditativa dello yoga, e regalarsi un’ora di benessere ed uno spazio tutto per sè; oppure partecipare ad una lezione di grafia, tornando all’importanza del tempo, alla bellezza della pratica e dello scambio di pensieri che, scritti a mano, assumono un significato profondo e personale, una full immersion insieme a Marta Lagna, esperta calligrafa e decoratrice d’interni.
Per grandi eventi e momenti speciali, come il giorno del proprio matrimonio, il Chiostro dei Domenicani, vero gioiello architettonico, possiede tutti gli spazi da trasformare nel luogo dei sogni, a partire dai grandi saloni affrescati, fino alla cappella privata, che testi storici narrano quale luogo di pellegrinaggio.
È negli alberghi che si è consumata la travagliata ed appassionante storia di Zelda e Francis Scott Fitzgerald, nelle notti di fuoco dei ruggenti ’30, quando l’alcol scorreva a fiumi nonostante il proibizionismo. Una coppia amata invidiata eppur dal finale triste, che ci ha portato “Tenera è la notte” come opera letteraria tre le più intense del XX secolo. Lei bella talentuosa e tormentata, lui follemente innamorato della sua pazzia, che si trasformerà poi in una diagnosi di schizofrenia. Tutto questo è possibile riviverlo nelle sale del palazzo al Chiostro dei Domenicani, messo in scena da una compagnia teatrale, capace di rendere la drammaticità dei personaggi in uno spettacolo passivo eppure così travolgente. Chiostro dei Domenicani vi stupirà con le innumerevoli attrattive culturali, adatte anche al pubblico colto ed appassionato di letteratura.
Gimmi è il ristorante guidato dall’executive chef Donato Episcopo, un altro gioiello incastonato all’interno delle spesse mura di Chiostro dei Domenicani. Qui è possibile veder arrivare un’elegante coppia inglese, lui in completo tweed e cravatta Oxford, lei in un lucente raso, in una conversazione sommessa, dopo aver assaggiato i cocktail di Ilaria De Filippis, barlady e sommelier, che rende giocoso e non solo gioioso il momento dell’aperitivo.
Il benvenuto a tavola è un tamburello fatto di pane, al cui interno si scoprono taralli e altri lievitati locali, come la focaccia al pomodoro fresco. A seguire una millefoglie di Shiso, sedano, tapioca croccante e riso venere, pallotta di gambero rosso accompagnato da estratto di oliva nera “Cellina”.
A riprova che in cucina lo chef omaggia le sue radici, il polpo lardato accompagnato da fagioli bianchi di Zollino, con funghi porcini e tartufo nero. La cucina di Donato Episcopo, chef salentino in passato al fianco di Heinz Beck a “La Pergola” di Roma; Chef Executive presso “Marennà”, dell’azienda Feudi di San Gregorio; “Casa del Nonno 13” a Sant’Eustachio (Sa), “Hotel Risorgimento”*****L a Lecce e Ristorante “La corte” a Follina (TV)* Michelin, racchiude un’identità forte con una salda matrice del territorio, ma ricca di contaminazione.
Padrone di casa del Chiostro dei Domenicani, Giovanni Fedele, imprenditore salentino, dal 2018 nel settore dell’accoglienza, ha oggi preso le redini di una struttura prestigiosa e complessa, con l’intento di valorizzare, tutelare e promuoverne la storia facendone un polo attrattivo per ospitalità, grandi eventi e ristorazione.
Vivere una città così barocca significa anche conoscerne le magnificienze. Quale luogo più suggestivo della Basilica di Santa Croce per immergersi nella preghiera? Potrete avere il privilegio di percorrerla totalmente al buio, seguendo solo le luci che illuminano gli angoli più rappresentativi, accolti dalla voce di Artwork, anima promotrice del territorio leccese e dei luoghi più sacri. Dal dipinto incastonato sul soffitto a cassettoni all’altare, sino al rosone della Chiesa, il più grande d’Italia, al centro di due santi e della porticina che apre al Paradiso, si potrà ammirare Lecce dall’alto e farsi trasportare dal vero senso di spiritualità.
Ma Lecce è anche territorio, buon cibo e buon vino, e la famiglia Guarini, quarta generazione dei duchi Guarini, porta, nelle figure di Roberto e Carlo, rispettivamente agronomo ed enologo, e commerciale, il progetto Castello Frisari, con creatività e coraggio. Azienda vitivinicola dove la coltivazione del Negramaro fa del vitigno il protagonista assoluto; nel cuore, il grande sogno di nobilitarlo testando le sue peculiarità in diversi terreni, per poter meglio esprimere le particolarità, nelle differenze. Oggi il Castello, un tempo fortezza amministrativa del feudo, lascia il posto ad una cantina dal fascino antico, dove tenere degustazioni, verticali ed eventi legati al mondo del vino. L’aranceto, con i suoi profumi ottobrini che ancora portano con sé il calore dell’estate appena passata, è perfetto per un aperitivo salentino, così come il giardino segreto, dove pranzare con piatti tipici fatti di olive nere di loro produzione, parmigiana di melanzane, patè di olive, verdure e salvia fritte, cime di rapa e fagioli, e Negramaro vinificato in bianco.
Altra eccellenza gastronomica leccese, Primo Restaurant, una stella Michelin; la chef Solaika Marrocco propone una cucina regionale che esalta le materie prime, una cucina di gusto carica di sapori. Per iniziare una rivisitazione di riso patate e cozze; servito su una pietra, carpaccio di podolica (bovino dal manto grigio tipico dell’alta Puglia), aromatizzato con caffè arabica e rosmarino; pan di caciocavallo con miele di acacia; bignè salato con ripieno purea di fave e cicorie; tartelletta con crema di melanzana affumicata e menta; gel di pomodoro, sfrisa sbrisolata e cappero caramellato; gazpacho con perle di melone; orecchietta soffiata con marmellata di pomodoro. Piatto iconico di Primo, la parmigiana di melanzane, una melanzana leggermente tostata, servita con besciamella al grano arso tostato, olio aromatizzato al basilico, coperta da un velo di pomodoro 100% datterino. Contrasto caldo freddo con l’animella e il gambero crudo; serviti con un Negramaro rosa, i ravioli fatti in casa e alici, grigliate precedentemente, e finiti con afferano e aceto; per chiudere in bellezza un tiramisu con cialda di biscotto croccante, mousse di mascarpone, crema di caffè, disco di meringa al cacao, accompagnato da un Primitivo di Manduria D.o.c.g. La Dolce Vita.
Si è appena conclusa l’Esposizione “Mercante in Fiera” di Parma, il più grande evento europeo dell’Antiquariato, Modernariato, Collezionismo dove trovare tutto, ma proprio tutto quel che cercate.
Collezionisti e appassionati di tutto il mondo si sono contesi pezzi unici, circa 60.000 gli ingressi, 1000 le presenze espositive, e migliaia gli oggetti che racconteranno la loro storia in case differenti dalle loro radici, questo è l’obiettivo di chi ama gli oggetti senza per questo possederli, ma lasciandoli a nuova vita.
Scatole in radica fine ‘700 porta bottiglie e servizi di cristallo Baccarat; porta calici da champagne in ottone, con cestelli intarsiati in abbinato, trovati su una nave da Crociera lusso; banconi da sarta in rovere; litografie giapponesi d’autore inizi ‘800; boccette in vetro ambrato da farmacia; porta sigarette in argento provenienza Birmingham, la città dei Peaky Blinders. E ancora delle deliziose giacche in tweed Chanel che trovate da Angelo Vintage, colui che ha nobilitato ilvintage e lo ha fatto diventare tendenza. Lo stand di Angelo offre anche una selezione accurata di cravatte di seta e di bracciali in smalto gran fuoco con dettagli oro, ultimi pezzi unici in stile orientale.
Mercante in Fiera non è una semplice Fiera, ma un evento culturale dove trovare mostre (come quelle dei Beatles e del mondo profumi) e tavole rotonde, contenuti ideati da Ilaria Dazzi, Exhibition director e mente diFiera Parma, che da anni porta alto il nome del nostro Made in Italy.
L’abbiamo incontrata in Fiera:
Quali sonole novità di quest’anno?
Quest’anno abbiamo 3 collaterali con 3 temi suggestivi, da un lato la grande collezione portata dal Museo di Brescia dedicato ai Beatles, per gran parte oggetti appartenuti a collezionisti di questo mondo, autografi, documenti d’epoca, manifesti.
Una dedicata ai porta profumo, ce ne sono circa 180 in esposizione e che coprono una fascia temporale che va da circa il 1600 fino al agli anni ’20-’30 in cui si scopre qual era la funzione storica del profumo, e cioè che veniva utilizzato come porta sali, per permettere alle signore di riprendersi perchè i bustini e i costumi costrittivi spesso facevano perdere i sensi, oltre al fatto che l’igiene della persona non era così accurata e in alcuni contesti il fetore era così forte da far svenire le signore. I sali e i profumi servivano quindi per rianimare ed avevano una funzione più medica che cosmetica.
Ed una collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea, che ci ha mandato alcuni macchinari utili a comprendere che tipo di percorso stanno facendo non solo per le ricerche sulla Luna, ma per lo sbarco su Marte nel 2040; comprendere quanto possiamo abitare questi mondi e cosa imparare da essi. Tommaso Ghidini, Direttore del Dipartimento di Meccanica dell’ESA, in un talk tenutosi qui in Fiera, ha dato visione della loro vera missione, ha presentato il suo libro Homo Caelestis edito da Longanesi in cui racconta la sua passione per il volo che si è trasformata in passione per l’astrofisica.
Chi sceglie le tematiche di Mercante in Fiera?
Di anno in anno ci sono avvenimenti di prestigio di interesse internazionale, vicini all’antiquariato o vicini alle nuove generazioni. Io stessa mi occupo e mi prendo cura della gestione dei contenuti, per presentare la filiera collezionista anche in una prospettiva futura, perchè anche nel 2040, quando qualcuno volerà su Marte e vi resterà per qualche tempo, molti oggetti che noi usiamo nella quotidianità e oggetti di collezionismo, non ultimi la chiave o il lucchetto, saranno anche su Marte. Alcuni pezzi nel 2050 saranno un premodernariato delle future generazioni. Il collezionismo progredisce, la temporalità si allontana, ma il collezionismo è in divenire.
Cambia l’utilizzo degli oggetti, ma come cambia la clientela del collezionismo?
Noi veniamo da generazioni che avevano capacità di spesa e abitazioni diverse, oggi abbiamo spazi più ristretti e capacità economica inferiore e si riesce ad arrivare ad una indipendenza economica molto più tardi rispetto alle generazioni precedenti. Questo incide dal punto di vista economico, ma avvicinarsi al mondo del collezionismo con una intelligenza e preparazione culturale che le generazioni precedenti non avevano, significa fare scelte ponderate e cercare determinati oggetti di valore nei cassetti della memoria. Oggi si selezionano meno oggetti ma investendo di più in quelli che porteranno valore nel tempo. In questi ultimi 5 anni ho visto, con mia grande soddisfazione, aumentare la fascia intorno ai 30 anni, quella del collezionista curioso e appassionato.
Anche i media stanno approcciando al mondo del collezionismo, “Cash or Trash”, il programma in onda su La Nove, sta democratizzando il collezionismo, rendendolo accessibile e di più facile fruizione, come in passato fece Masterchef per la cucina. Sei d’accordo?
Esattamente. La missione di Mercante in Fiera e la filiera collezionista si declina in tanti modi, non necessariamente devi essere miliardario per iniziare una collezione. Il giornalismo sensazionalistico del tipo “Mi sono ritrovato un Picasso in cantina“, non fa più notizia; oggi culturalmente abbiamo più strumenti, ma potremmo imbatterci in un interlocutore meno onesto, per questo motivo mettiamo a disposizione il servizio “L’esperto risponde durante il week end“: gratuitamente è possibile chiedere un parere verbale, qui tra i padiglioni.
La visione internazionale di Fiera Parma.
L’internazionalità è sempre stato obiettivo dell’Amministratore Delegato di MIF che ha fortemente voluto ricoprissi questo ruolo. Abbiamo guidato il percorso di ospitalità per circa 70 unità di perosne che vengono dal Centro Europa e Stati Uniti, (in passato anche dalla Russia), con obiettivo prossimo il Qatar e gli Emirates, dove ci sono delle frange del nostro commercio. L’ internazionlalizzazione di Mercante in Fiera è iniziata 10 anni fa con professionisti del settore che ci hanno permesso una cassa di risonanza su mercati esteri, quelli che vengono autonomamente, anche se c’è ancora tantissimo lavoro da fare, perchè il Made in Italy di fatto è un brand, e permette in America di vendere un oggetto comprato qui a Mercante, 4 volte tanto, in Australia addirittura 5, nel mondo asiatico Cina e Giappone idem. L’unico ostacolo è di questione legale, perchè tutti i pezzi che hanno più di settant’anni, hanno bisogno di certificazioni. Il nostro perito e la sovrintendenza si rendevano disponibili in passato, oggi le leggi restrittive non so quanto tutelino i beni che dovrebbero rimanere; in casa d’aste vengono battute grandi opere del nostro panorama, che arrivano all’estero non si sa bene come. Il commerciante onesto che segue la procedura e l’acquirente onesto che non evade le dogane, si chiedono come mai devono attendere 4 mesi per ricevere un oggetto che hanno comprato, che non è certamente un dipinto di Leonardo. Nell’ottica di una crescita economica del nostro Paese andrebbe affrontato un cambiamento.
Come fare?
Credo serva una revisione di questa legge, quello che è commerciabile non è vergognoso, avere e commerciare opere d’arte di autori italiani che hanno avuto intuizioni importanti, non è da nascondere- la vergogna è che l’Italia venga privata in maniera illegittima di opere importanti che la contraddistinguono, non rendere legittimo un mercato che di fatto esiste lo stesso. Allora riparametriamo questa legge, non facciamo pruderie di argomento importante per tutti e ricordiamo che l’arte è nata per essere circolarizzata. Io non credo che Leonardo pensasse che la sua Gioconda fosse destinata soltanto a una sola persona, credo che come paese che ha più background culturale e bellezza di tutti, negando la possibilità di valorizzare ed esportare, si uccida una parte di economia e si fa la figura della serie B,del tutto fuori dal tempo.
Quante volte abbiamo desiderato, in un ristorante, più privacy, per godere oltre che dell’esperienza della tavola, anche della compagnia di chi abbiamo di fronte, e della possibilità di conversare liberamente in uno spazio più intimo?
Non tutti i ristoranti oggi, possiedono queste Private Dining Room, mentre Villa Elena è esattamente il Paradiso della riservatezza e dell’eleganza.
E’ qui che lo chef italiano tra i più influenti a livello internazionale, Enrico Bartolini, ha scelto la seconda vita del ristorante Casual.
Villa Elena possiede fascino, storia e charme, è come una bellissima donna destinata a qualcosa di più grande; un tempo castello pronto a difendere la città di Bergamo dall’alto, poi dimora settecentesca di nobili famiglie, per essere infine destinata alle mani esperte dell’accoglienza e del food. Oggi capitanata dal Resident Chef Marco Galtarossa e dal Restaurant ManagerFilippo Casè, Villa Elena è l’edificio storico più prestigioso di Bergamo, tutelato dalla Soprintendenza alle Belle Arti.
La sala più imponente e preziosa è quella della Musica, un angolo di Versailles all’italiana, dorati stucchi decorativi, d’ispirazione barocca, alle pareti sete pregiate e oggetti di design minimalisti in totale contrapposizione e così perfettamente accostati.
L’accoglienza è la più desiderabile oggi, per una clientela abituata alla formalità, ma più in simbiosi e a proprio agio con la professionalità di un team giovane seppur esperto e amichevole, di cui Filippo Casè ne è portavoce per classe e calore del servizio.
A omaggiare Villa Elena, il benvenuto dalla cucina, il rosone, suo simbolo storico, un Oreo salato, biscotto al malto d’orzo e al centro una pasta di anacardi.
In condivisione al centro del grande tavolo ovale, su un cucchiaino dorato, uno stracchino delle Valli Orobiche glassato con tartufo nero e petali di tartufo nero, fiore di ibisco ripieno con amarena, foie gras e tartare di pecora, (varietà tipica di quelle valli); frittella con granseola e coniglio marinato; meringa salata, battuto di gambero insieme a caviale di trota, lime; in una piccola coppa, melanzana con spuma di tuorlo leggermente affumicata al whisky con olio di zucca; in una coppa di cristallo macedonia a sfere, anguria, melone, cetriolo, alga kombu (che da’ nota di sapidità); carpione con mandorla fresca, caviale di aringa e sfera (un gelato di fiori di ciliegio).
In un piatto che sembra l’amplificazione di quello che vi sta al centro, spuma di diverse varietà di basilico tra cui il rosso che conferisce colore e aromaticità, alla base more di gelso accompagnate da ombrina leggermente scottata in brace; e il mondo meraviglioso dei panificati con una focaccia che crea dipendenza, fatta con germogli di semi di papavero e accompagnata da un olio dei Monti Iblei (provincia di Ragusa), un pane di grani integrali (semi di lino e di girasole), burro demi-sel, infine grissini leggermente piccanti con Pimenton, una tipologia di paprica dolce spagnola affumicata.
Piatto iconico dal menu estivo (che cambia identità ogni 4 mesi fino ad arrivare ad un massimo di 10 menu l’anno), “Metamorfosi d’estate”, zucchina verde e gialla, alla base una cagliata di arachidi e accompagnata da un gel all’olivello spinoso e caviale, e foglioline di tagete per il gelato. Si sposa con una insalatina di zucchine, trombetta, patisson, arachidi caramellate e ceviche di pomodoro verde, zenzero e olio di levistico. La cialda è un fiorellino di zucchina croccante essiccato glassato con salsa di arachidi.
Piuttosto comune nel bergamasco, la tartare di cavallo, così come per la città d’origine dello chef Marco Galtarossa che serve con una melassa di peperoni di Carmagnola e prugne, per un balance di dolcezza, acidità e freschezza.
Vengono in mente sole e spiaggia con lo spaghetto al limone, cotto per ultimo terzo in succo di limone, mantecato con crema del frutto, limone candito e spolverata di scorze di limone passata in brace. On top, erbe limonate come melissa, verbena, basilico e origano greco.
Spinta estrema sul gusto da Villa Elena, dove ci si diverte a tavola, come lo chef in cucina, e dove anche il sommaco, l’infiorescenza del cipresso, ha una sua identità e riesce ad essere co-protagonista nel risotto mantecato con rafano, anguilla e nasturzio.
Un dipinto primaverile, dai colori pastello, il merluzzo cotto a bassa temperatura, peperone crusco, fagiolini, composta di fragole albine leggermente grigliate, acetosella, tubero di Oxalis, e salsa di ostriche.
Il palato ha messo la sesta già dalla prima entrée, una cucina di grande coraggio e destinata a palati allenati a gusti stellati. Questo è un Luna Park di sapori e azzardi, dove si passa da un giro di giostra all’altro senza mai annoiarsi, e il divertimento arriva quando stai cercando di decifrare cos’hai nel piatto, degustandolo ad occhi chiusi, per poi prendere un altro boccone e aprirsi un nuovo ed esplosivo arcobaleno di sapori.
Coccola prima dei saluti, la piccola patisserie, un lollipop alla fragola, cioccolatini con caramello salato e spezie indiane, e il dessert ai tre ingredienti: cioccolato fichi e porcini, una composta di fichi freschi, spuma di foglie di fico, gelato di funghi porcini, crumble di cioccolato e lamelline di porcino crudo, un tocco di sapidità. In abbinato, un omaggio al territorio, Moscato di Scanzo al frutto rosso elegante, una carezza finale che ci farà ricordare l’esperienza da Villa Elena come un Risveglio dei Sensi.
(Villa Elena si trova in Via S.Vigilio 56 a Bergamo)
La natura dell’amore, “Simple comme Sylvain“, il film di Monia Chokri
Sophia è una quarantenne che insegna filosofia all’Università della Terza Età, in attesa di un posto fisso. Ha una relazione con Xavier da molti anni, apparentemente felice quando stanno con gli amici, apparentemente soddisfacente quando stanno insieme, ma realmente priva di passione e totalmente piatta, fatta di routine, frasi non dette, sorrisi secchi. Dormono in stanze separate e sembrano ironizzare su loro possibili flirt clandestini, fino a quando accade sul serio. A Sophia.
Nella loro casa dei sogni, uno chalet in ristrutturazione sulle sponde del lago, l’annoiata Sophie incontra l’aitante tuttofare dell’impresa edile. Lui, Sylvain, un cumulo di cliché su cui la regista Monia Chokri gioca al parossismo: camicia da boscaiolo, barba incolta ma di bell’aspetto, collana a catena di metallo, occhiali da sole sopra il berretto da baseball, braccia possenti, insomma il tipo di maschio che ispira una notte erotica seguita da un grande addio, ma che ci rimette in vita. E la borghese Sophia, nella sua camicetta di seta e orecchini di perla, ci casca con tutte le mutande.
È il desiderio che prende il sopravvento, insieme alla noia, alla monotonia della vita di coppia, alla voglia di sentirsi di nuovo viva e desiderata, pur nella banalità dei complimenti di un sempliciotto come Sylvain (da cui prende il titolo originale “Simple comme Sylvain“). Perchè Sylvain è quel tipo di maschio che racconta d’essersi ubriacato con un amico e aver fatto sesso a tre con la cameriera, è quello che ti prende in braccio e ti accompagna alla porta di casa per poi consumarti fino al mattino, quello che ti assicura sempre “Ti proteggo io“, quello per cui “la frutta è per le femmine“; ma anche romantico impegnato a dedicarti poesie, fare dichiarazioni in ginocchio, prolisso di banalità ed errori grammaticali, una vera frana a scuola capace solo di usare i muscoli, insomma la trivialità che tanto piace quando ci imborghesiamo troppo.
Nel mezzo, le lezioni su Schopenhauer che sull’amore afferma “Tutto è fisico e quello che pensiamo siano sentimenti nobili, sono in realtà espressioni dell’istinto sessuale. Semplicemente è il corpo che parla”. E su Platone che asserisce “In amore si desidera ciò che non si può avere, e l’amore finisce quando si è persa la paura di perdere l’altro“. È attraverso queste massime che parla la coscienza di Sophia, s’interroga sul desiderio, sulla felicità, sulla trama delle relazioni durature e quando ricade nel letto dell’ex, ciascuno a spogliarsi da sé, tristemente, mollemente, senza la foga della novità, della carne, della passione erotica, torna all’ignoto, a Sylvain, guinzaglio al collo, schiava del suo stesso corpo che chiama come fosse stato imprigionato per troppo tempo, e felice e languida si concede al piacere.
“La natura dell’amore” è la fotografia di tante coppie, i personaggi sono caricature di volti che abbiamo altre volte ascoltato o visto o vissuto, estremizzate con ironia; a tratti grottesco ma mai banale nell’intento, tocca il conflitto sociale intellettuale (un razzismo diffuso tra gli snob), esplora non senza profondità le emotività femminili, celebra i grandi pensatori come Spinoza, che porta egregiamente i suoi 392 anni, più moderno dei moderni, quando distingue l’Amore dal Desiderio:
“Possiamo amare senza desiderare” E ricordando che “Il desiderio è energia ed è all’origine della nostra capacità di agire“.
Come a casa, film, poltrona e cena. Da oggi al cinema Anteo nella Sala Nobel di Miro Osteria del Cinema
Un po’ come a casa, film, divano e cena, però oggi è possibile farlo davanti al maxi schermo del Cinema Anteo, nella Sala Nobel dedicata, e con il servizio in poltrona.
E’ la nuova idea di MIRO – Osteria del Cinema, che propone serata all’insegna del cinema, con pochi posti prenotatili, poltrone comodissime, un piccolo tavolino illuminato da una lampada per non disturbare la visione, ed un servizio che si fa ancora più gentile di quello al ristorante, perchè deve essere necessariamente trasparente e silenzioso. E in questo i ragazzi di MIRO sono eccezionali.
I tempi della cena sono scanditi perfettamente, dalla pubblicità iniziale ai titoli di coda, dal pane al caffè; andare al cinema diventa così ancora più divertente e si uniscono l’utile al dilettevole.
Il menu è leggero, semplice e poco elaborato; a pranzo solo nel week end, e la cena dal martedì alla domenica, propone un vegetariano – Burton – ed un Philips, con 3 portate salate, un dolce, pane, acqua e vino. Noi abbiamo scelto una tartare di manzo al coltello con senape in grani ed erba cipollina; un risotto con zucchine, fiori di zucca e menta; un roastbeef con fondo di manzo, ed un gelato al caramello salato.
Il film? Beh non poteva che essere Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton (con una Monica Bellucci bella anche da morta), il sequel di Beetlejuice – Spiritello porcello dell’88.
C’è anche l’opzione all’orario dell’aperitivo. Il costo del biglietto è di 43€ a cena, 30€ a pranzo e 25€ per l’aperitivo. Per prenotare: www.anteo.spaziocinema.18tickets.it
Credo che unbuon film possa definirsi “riuscito” solo quando il regista si mette a nudo. Senza pregiudizi. Succede la stessa cosa in fotografia, può esistere un ottimo scatto, tecnicamente perfetto, ma se non parla in qualche modo dell’autore, sarà un’immagine senz’anima e non racconterà nulla.
I registi che nella storia del cinema hanno o stanno lasciando il segno, sono esattamente queste figure coraggiose, che ci hanno aperto le porte del loro passato, o della loro mente, o delle loro curiosità, spesso parlandoci di perversioni, di ossessioni, di manìe, di complesso edipico, con una verità che può aver causato repulsione da parte del pubblico; mi viene in mente “Salò o le 120 giornate di Sodoma“, 1975 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Un’opera su-bli-me che meriterebbe centinaia di volumi per poter essere esplicitata, una geografia dantesca dell’Inferno, governato dai violenti. Scatologia, l’orrore del fascismo, il potere del sesso, sadomasochismo, necrofilìa, sono solo alcuni dei temi trattati dal regista; nell’estremizzazione della brutalità dei De Sade protagonisti, c’è tutto un codice societario che i telegiornali ci sbattono in prima pagina tutti i giorni.
“Il Portiere di notte” di Liliana Cavani (1974) segue il filone di quello che venne definito, insieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma, il cinema nazi-erotico, un amore per il mostro, è la storia di una ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, che incontra il suo aguzzino (finito a fare il portiere di notte) per venirne di nuovo risucchiata e sedotta, perdendosi in un rapporto morboso sadomasochistico.
Ma di attrazioni e dello svelamento delle proprie ossessioni, Roman Polański è in cima alla lista con “Venere in pelliccia” (2013), perchè credo che quando la spinta e il desiderio di esprimere un concetto, una idea, sullo schermo o sulle pagine di un libro, sia così forte e così ben riuscito, allora quel pensiero è così radicato dentro di noi da rappresentarci. E sul regista la cronaca ha scritto di cause in attesa di giudizio (fissate per il 4 agosto 2025) per abuso su minori (ma questa è un’altra storia e non possiamo scriverla noi). Ci limitiamo ad esprimere giudizi sul mestierante, non sull’uomo, anche se ci chiediamo: “Possono essere scisse le due cose?”
Sempre sull’onda del feticcio non posso non citare Alfred Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte) del 1958, il regista vojeuristico per eccellenza, attratto dalle bionde glaciali ma soprattutto da quell’acconciatura a spirale che scopre della donna, la parte più vulnerabile: il collo. In una scena del film il protagonista chiede alla figura femminile di raccogliere i capelli in uno chignon, ecco il totem del regista che più di chiunque altro è riuscito a mettere su pellicola patologie, schizofrenie, fantasmi.
E per chiudere una prima parte dei registi che si sono messi a nudo, Lars von Trier in “Melancholia” del 2011 ci ha permesso di partecipare ad una seduta psicanalitica, perchè Melancholia è la vivisezione della depressione in immagine cinematografica. In una scena Kirsten Dunst, la protagonista, in un rallenty che dura oltre i cinque minuti, cerca di camminare ma viene ostacolata dalle radici che escono dal terreno, viene attratta verso il basso, bloccata (la perdita del piacere, il declino psico-fisico), l’aria si fa rarefatta (l’ansia, il panico), sulle note del Tristano di Wagner, e non poteva esserci colonna sonora più calzante, d’altronde von Trier non ne sbaglia una. Un genio? No, ha solo avuto la grande sfortuna di conoscere la depressione. Solo chi ha vissuto, può spiegare.
Una donna dalla vita affascinante come quelle che si leggono nei libri di Giuseppe Scaraffia, un’esistenza sociale come solo nei salotti di Madame Verdurin, il personaggio proustiano de “La Recherche”, esempio di snobismo ottocentesco, fautrice di eventi mondani, finestre di importanti connessioni artistiche e politiche.
Lei è Chiara Boni, figlia dell’aristocrazia fiorentina e madre di una grande rivoluzione della moda: il jersey per gli abiti da sera. Dalla castità morale dell’Italia in cui è nata, vola in una Londra folle e irriverente; tornerà alla terra d’origine in minigonna e stivali in latex alti al ginocchio, un nuovo stile anticonformista e tante idee, compresa quella di aprire una boutique.
Tra amori intellettuali come quello con Vittorio Sgarbi che la portava nei Musei a notte fonda, a quelli più maturi con Angelo Rovati, politico e imprenditore italiano, allora consigliere di Romano Prodi, a cui Chiara Boni farà da infermiera fino alla fine dei suoi giorni, la stilista italiana fondatrice dell’omonima casa di moda, scrive un pezzo di storia e decide di imprimerla in un’autobiografia al compimento di 50 anni di carriera, “Io che nasco immaginaria”, un libro a cura di Daniela Fedi, sua carissima amica. Perchè le amicizie, per Chiara Boni, sono come le stelle comete, le indicano il cammino e l’accompagnano nei giorni più bui.
Oggi il brand Chiara Boni (La Petite Robe) veste Ophra Winfrey, prima grande fan degli abiti stretch che vestono e illuminano ogni tipo di corporatura femminile, dalle più magre alle più formose; lo abbiamo visto sui set di The Loudest Voice con Naomi Watts e Russell Crowe, sui red carpet più importanti, indossato agli eventi della NBA dall’ex cestista del Maryland Monica McNutt, scelto da figure politiche ed imprenditoriali, Chiara Boni non è solo il sogno di chi l’ha creato, l’abito del millennio, leggero, che occupasse poco spazio in valigia, da non stirare e iperfemminile, ma anche il desiderio di ogni donna, che regala grazia ed eleganza a qualunque taglia e qualunque età, una specie di bacchetta magica per ogni occasione.
La incontro nello showroom di Milano, dove disegna e crea le collezioni che portano il suo nome, inizia a raccontarmi di lei bambina, con ricordi così nitidi e dettagliati, che si fanno più cristallini quando parla dei tessuti che indossava e dei modelli che collezionava.
Chiara Boni and Eleonora Gardini in 1999
Cosa ricorda della sua infanzia?
Sono nata per scelta. Di una donna. Mia madre si sposò a vent’anni, vergine, continuando a rifiutare mio padre fino al giorno in cui s’accorse di desiderare una figlia. Tornò da lui, si fece mettere incinta, si separò nel ‘49, ed eccomi qui. Si risposò in seguito due volte.
Cosa indossava da bambina?
Solo il bianco era concesso, banditi i colori che mia madre trovava meno eleganti. Nell’armadio solo cappottini color neve, vestitini di lana color batuffolo di cotone, ghette al massimo panna.
E sua madre come vestiva?
In sartoria, a Parigi da Balenciaga, da Givenchy, da Philippe Venet, il fidanzato di Givenchy che all’epoca aveva un atelier, e da Mila Schon a Milano. Anche io avevo tanti abiti firmati Mila Schon.
E i colori quando sono iniziati?
Sono passata dal bianco al blu allo scozzese; solo d’estate mi portava dal marchese Emilio Pucci nel suo palazzo a Firenze dove mi faceva confezionare completino in popeline turchesi o gialli. Sarà poi Fiorucci a rivelarmi il mondo del colore, aveva un fantastico negozio a Milano, il paese dei balocchi dove acquistai dei cuissard in latex alti fino al ginocchio, che mia madre mi proibirà severamente d’indossare. Con la scusa di perfezionare le lingue partii per Londra, accompagnata dalla tata, una Mary Poppins in carne ed ossa che mi voleva molto bene, ma che facevo disperare perchè Londra mi si offriva in tutta la sua bellezza, perdizione, stranezza e soprattutto mi faceva scoprire le tendenze più strambe in ambito stilistico. Proprio qui, nel ‘67, frequentai Biba, il negozio di una donna polacca dallo stile Maleficent; le clienti sembravano tutte dei personaggi di Tim Burton, le commesse avevano gli occhi viola e grandi ciuffi di ciglia, la pelle diafana e la bocca dipinta di vino. Io, arrivata in kilt, gemello di cachemire, borsa di Gucci e foulard di Hermes, dopo tre giorni ebbi la trasformazione.
Il primo periodo di ribellione?
Sì, ribellione, ero irriconoscibile. Infatti al mio ritorno, boa in struzzo, minigonna, cappello a fiori, stivali sopra il ginocchio, mia madre si vergognava così tanto che mi camminava dietro, per poi riportarmi tutti i commenti dei passanti. A cui non facevo minimamente caso, per me era importante il messaggio di quel pezzo di stoffa che si era accorciato grazie a Mary Quant, cosa rappresentava realmente per la società: la libertà.
Cosa porta con sé di quel periodo?
Le cene a San Lorenzo, un ristorante italiano gestito da due bagnini di Forte dei Marmi, Mara e Lorenzo, i cui clienti erano i Rolling Stones, Marianne Faithfull, Twiggy, Gigi Rizzi che allora aveva un flirt con Brigitte Bardot, un parterre di playboy italiani e un gruppo di ragazze ancora vergini, quando ancora la verginità era un valore. Loro la notte andavano a caccia di inglesi, più spregiudicate, e noi italiane uscivamo con due amici gay fantastici, eravamo una compagnia affiatata e ci divertivamo moltissimo.
Chaira Boni with Roberto D’Agostino presenting her first fashion show
Com’ è cambiata la moda dagli anni ‘70 a oggi?
I veri cambiamenti non sono stati tanti. Chanel ha liberato le donne dal busto e da tutti quegli ammennicoli sui cappelli, inserendo nella moda il tailleur con tessuti maschili; nei ‘70 Mary Quant si fa portavoce di un grande movimento femminista attraverso l’uso della minigonna, vera grande rivoluzione non solo stilistica ma politica; la prima vera passerella fu Kings Road di Londra, dove nel ‘67 gli stravaganti sfilavano per farsi fotografare dai turisti, e dove David Bowie prendeva ispirazione per i suoi look eccentrici. Erano davvero anni diversi, potevi scontrarti con Julie Christie che aveva appena vinto l’Oscar, vedere una Bentley con due enormi alani e uomini dai lunghi capelli vestiti di fiori.
Erano gli anni del fermento artistico intellettuale e culturale. Allora anche Milano poteva essere definita una città europea, dove alle feste a cui partecipavo con mio padre (anche se non ho mai avuto un grande legame affettivo con lui) potevo incontrare Gio’ Pomodoro, scultore e fratello minore di Arnaldo; Giorgio Bocca, grande scrittore e giornalista; dove al bar Oreste che stava in Piazza Verdi giocavamo a biliardo con Umberto Eco, chiacchieravamo con Tobia Scarpa e un gruppo di giovani architetti; dove incontrai un sessantottino rivoluzionario radicale, Vittorio Maschietto che sposai, con cui ingabbiai il Duomo di Firenze in un gonfiabile, prima ancora di Christo, insieme al gruppo di sperimentazione radicale Ufo, object di un momento irripetibile della storia culturale fiorentina e internazionale. Milano cresceva ed aveva le braccia aperte.
Intende dire che oggi Milano è una città chiusa?
Molto di più. Oggi è diventato più importante il denaro, come a New York la prima volta che ci misi piede e la prima persona che incontrai mi chiese “Quanto guadagni al mese”?
Che volgarità.
In quella città non lo è, è un modo di presentarsi, e Milano ha preso un po’ la stessa brutta abitudine. Ci si frequenta per ceti sociali.
Quindi si è amici per interesse?
Secondo me sì. Un tempo gli amici si riunivano ai Cafè des Artists, o a Firenze al Caffè Letterario Le Giubbe Rosse, luoghi di cultura dove autori diversi si impregnavano delle idee di altri artisti, per poi immergersi nella loro arte, con quel filo d’Arianna. Oggi gli artisti lavorano in solitaria e mancano i vasi comunicanti che hanno fatto di quei periodi, i più prolifici della storia dell’arte e del pensiero.
Perché ognuno pensa al proprio orticello?
Perchè i social network hanno sostituito il rapporto interpersonale. Mia nipote Bianca ha otto anni, una bambina molto intelligente a cui stiamo insegnando l’importanza delle relazioni, molti suoi coetanei però passano la giornata a guardare la tv o davanti ad un cellulare. Un giorno mi ha detto una cosa molto interessante sul futuro della moda “Nonna, la moda sarà sicuramente una seconda pelle, e ognuno di noi potrà ornarsi di tatuaggi e collane come nelle tribù africane”. Un senso di inversione causato dai disastri climatici che percepisce già anche lei.
Viviamo un periodo di grandi brutture culturali e la modanesubiscele conseguenze?
Sì. Credo che nella moda ci sia una grande confusione in questo momento. Non ci sono vere rivoluzioni dopo la nascita del prèt-a- porter, che ha reso in un certo senso democratico un certo modo di vestire, prima destinato solo agli aristocratici. Ora la moda è per i narcotrafficanti, me lo raccontava un amico che ha fatto le vendite per tre giorni ai top clients di brand super loggati, gente che fa un poco paura.
E chi sono?
Un pò narco, personaggi dei cui denari non si conosce la provenienza, gente che spende 500 mila euro in due giorni per dimostrare di aver raggiunto un certo successo.
Fiction e Reality della moda.
La moda è un mondo che si frequenta molto poco. Ci si incontra alle grandi feste con i giornalisti, amici, addetti al settore, ma tra stilisti non si è mai fatto squadra. In passato sono stata una grande amica di Enrico Coveri e amica d’infanzia di Egon von Fürstenberg, ma oggi sembra una cosa impossibile. Una Milano disunita insomma, tanto è vero che non c’è più la Fiera, luogo perfetto per sfilare.
Me la ricordo molto bene, era così comodo dover solo salire e scendere le scale mobili e ritrovarsi tutti i brand nello stesso spazio, evitandoci così il traffico e i ritardi obbligatidei ping pong in Fashion Week.
Esattamente, le giornaliste sono stressate, non hanno il tempo di farti una domanda vera, i taxi sono pieni, si corre da una parte all’altra della città nelle solite dieci location. Noi quest’anno siamo tornati a sfilare alla Scuola Militare Teulié in Corso Italia, uno spazio che contiene mille persone, ma in questo modo si toglie il tempo agli addetti di confrontarsi, concentrarsi, elaborare pensieri su ciò che hanno appena visto. Si è un po’ perso il sapore di un tempo.
Chiara Boni
Per Gianni Berengo Gardin una buona foto è una foto che è riuscita a rappresentare la realtà, congelandola nel tempo. Per lei cosa rappresenta un buon abito?
Ho sempre pensato che un buon abito potesse essere più terapeutico di una seduta dallo psicologo. Quando ci si sente belle e confident, la vita risulta meno dura.
Cosa la rende veramente felice?
Il mio lavoro mi rende felice. Mi ha aiutato a superare momenti di grande dolore, la morte di mio marito, il fallimento di GTF (Gruppo Finanziario Tessile) da cui ho ricomprato il mio marchio, e la libertà di espressione, che ho portato in passerella già nei ‘90 facendo sfilare transessuali, ragazze curvy e una Moana Pozzi vestitissima.
Tiziano Terzani scrive “La natura ci dà spettacoli gratis meravigliosi”, come un bel tramonto e paesaggi fioriti. Mi rendono felici i miei cani, esseri dall’animo puro, come i bambini. Sono una donna senza pregiudizi, capace di guardare oltre l’apparenza delle cose, e per questo libera. Una libertà che devo a mia madre, che per me è stato un grande esempio di etica e dolcezza, fermezza ed educazione.
Quanto è SNOB Chiara Boni?
Snobbissima. In questo le radici fiorentine sono assai profonde, come per l’usanza di non indossare niente che sia di tendenza, rimandi delle famiglie nobili che facevano portare le scarpe al cameriere perchè guai a metterle nuove. Se a Firenze si annuncia un regista internazionale, non importa a nessuno, lo snobismo lì è essere disinteressati ad ogni strabilia che fa gola a tutti gli altri, tranne allo snob, per l’appunto.
VISTERIA, IL RISTORANTE FINE DINING DELL’HOTEL ROYAL VICTORIA
Era il 1838 quando la Regina Victoria decise di soggiornare all’Hotel Royal, lontana dagli impegni di corte, per fare lunghe passeggiate sulle sponde del lago e sorseggiare il migliore dei tè nella sua stanza prediletta. Da quella data, la struttura situata nel centro di Varenna, decise di rendere omaggio alla regina e ribattezzarlo così Royal Hotel Victoria.
Un edificio storico del XIX secolo che conserva ancora il fascino di quel tempo, preservando i preziosi elementi architettonici dopo un attento lavoro di restauro, la magia del lago che ha abbagliato personaggi illustri come il musicista Charles Gounod, più volte ospite, e il romanticismo del panorama unico, l’affaccio diretto sul noto Lago di Como.
Il Royal Hotel Victoria è un elegante hotel che offre i migliori servizi in fatto di accoglienza, comfort, eleganza e cucina, perchè con Visteria, il suo ristorante fine dining, oggi diviene punto d’incontro per appassionati e curiosi.
La brigata è capitanata dallo Chef Francesco Sarno, origini campane e, buon sangue non mente, una ricerca costante del gusto al centro di ogni piatto.
Il menù à la carte propone una raffinata selezione di piatti o percorsi di menù degustazione da 4 o 6 portate, tra i quali anche una esclusivamente vegetariana. La materia prima è di altissima qualità e dialoga con il territorio con scelte di ingredienti mediterranei a base di carne, pesce o verdure. Tra i piatti rappresentativi dello Chef Sarno, il risotto limone, scampi e bufala, il bottone bufala e melanzana, il carciofo parmigiano e tartufo o lo scenografico cotto e crudo di verdure. Le composizioni sono dei dripping pollockiani quando la ricerca e le contrapposizioni di sapori si fanno più intense ed azzardate, mentre permane semplicità quando il piatto racconta le radici dello chef, piatti di grande gusto e dove la materia prima rappresenta le eccellenze italiane, come nello spaghetto ai quattro pomodori.
28 coperti, un design moderno ma caldo con scelte interessanti dei materiali, che combinano marmo e legno per i tavoli, velluto dai toni terrosi per le sedute, vetrate luminose che regalano una vista del lago piena e un’atmosfera romantica.
Visteria (in inglese wisteria) significa glicine, e omaggia la cornice che rende unico e caratteristico questo luogo, il pergolato reso vivace dai colori della pianta, toni pastello del lilla, del bianco e del rosa, un angolo pittoresco dove è possibile prendere un aperitivo, sull’unico tavolino a disposizione, obbligatoriamente per 2, il luogo poetico per eccellenza dove fare rivelazioni, confessioni e proposte di… a voi la scelta!
Il ristorante 28 Posti inaugura una collaborazione tra arte, cucina e design con le creazioni firmate Esperia di Luisa Bertoldo e Ramiro di Alessandra Modarelli.
L’eleganza qui ha il nome della semplicità, da 28 posti, ristorante di Milano sito in via Corsico 1, l’ambiente intimo e accogliente del locale si fa ancora più caloroso con le creazioni di Ramiro ed Esperia.
Collaborazioni tutte al femminile, delicate quanto l’ambiente e la mise en place fatta di ceramiche Esperia firmate Luisa Bertoldo. Progetto ispirato al nome con cui greci e latini indicavano l’Italia, Esperia crea oggetti unici e in quanto tali imperfetti, realizzati totalmente a mano nel laboratorio milanese.
Piatti piani e fondi del colore della terra, dal Siena bruciata per esaltare il piatto con “linguina, brodetto di lische, alloro”, al bianco panna con sfumature di beige per il “pesce bianco, rrbette, molluschi, cipollotto in carpione”, un colore neutro base perfetta per sottolineare il verde della salsa e quella croccantezza della pelle di pesce che richiama i puntini dell’oggetto. Insomma tutta la mise en place parla lo stesso linguaggio della cucina, firmata per l’occasione speciale di presentazione della collab, dagli chef Andrea Zazzara e Franco Salvatore.
Le tovaglie firmate Ramiro di Alessandra Modarelli, sono l’abito perfetto per vestire una tavola che ha il calore di casa, di un cotone pregiato, ricami del passato, inamidata ma comodamente stropicciata, in perfetta sintonia con un artigianato forse purtroppo dimenticato, puro e non artefatto.
Dai piatti alla cucina, dal tovagliato al vino (un interessante bianco non filtrato del piacentino, fatto con uve Ortrugo al 90% e Chardonnay, il Foglianella di Marinferno), tutto viene celebrato con amore del mestiere.
L’ssparago verde con latte di rafano e olio al dragoncello, rimane il nostro piatto preferito, potrete gustarvelo da giugno per tutta l’estate e scoprire questa bellissima collaborazione tutta al femminile, nella location che fa di 28 posti non un semplice ristorante, ma una tavola creativa sostenitrice di piccole realtà artigianali.
Se “le amicizie non si scelgono per caso, ma secondo le passioni che ci dominano“, come affermava il grande scrittore Alberto Moravia, questo trio colorato ne è certamente l’esempio. Nina Zilli, Alvin e King Raptuz, sono tre amici che hanno fatto del sentimento più nobile, l’amicizia, un progetto artistico: Miracolo a Milano! Una mostra itinerante che toccherà diverse tappe delle più importanti città italiane dove esporranno le loro opere, così diverse eppure così accomunate dalla passione e dall’entusiasmo per la vita, che il successo popolare della tv non poteva raccontare. E siamo così abituati a collegare l’immagine mondana che lo schermo riflette, da dimenticarci che dietro quella parete si celano esseri umani con paure, fragilità, e sogni! Percepisco immediatamente che in Nina, Alvin e Raptuz, qualcosa di importante li accomuna: l’umiltà. Ah, quale piacere conversare con persone che vestono solo i panni della loro vitalità, i colori che li descrivono, che rispettano le loro radici, abbracciandole, ma soprattutto che conservano quella parte fanciullesca dal fascino esotico. E’ la scintilla che non muore mai, la si legge dallo sguardo, dal sorriso onesto, dalla bonarietà di concedersi agli altri; è una dote superiore, imparagonabile ad altri talenti.
Nina Zilli, pseudonimo di Maria Chiara Fraschetta, cantautrice dalla voce potente, veejay, conduttrice televisiva, disco di platino con il brano “Per sempre”, è influenzata dalle sonorità dei ’40, Nina Simone, Etta James; l’immagine di una pin-up che ha sempre qualche dettaglio rock e deliziosamente femminile, la grinta di una vichinga e l’aria di chi guarda solo alla sostanza. Nina Zilli è l’elemento magnetico del trio.
Alvin, pseudonimo di Alberto Bonato, amato dal grande pubblico italiano per aver ricoperto il ruolo di inviato nel noto programma televisivo “L’Isola dei Famosi”, è un presentatore e conduttore radiofonico. Un passato da cantante e compositore, Alvin è di quelle personalità che non possono non piacere, è il perfetto vicino di casa, è il prediletto della maestra, il cocco di mamma, insomma possiede quell’aria da bravo ragazzo a cui non si riesce mai a dire “NO”. Doti innate? Io credo piuttosto che dietro quel sorriso generoso ci sia un lavoro enorme di autodisciplina, che ha alla base educazione e grande senso civico. Scusate se è poco!
King Raptuz, pseudonimo di Luigi Maria Muratore, il più affermato tra i writer italiani, fonda la TDK (The Damage Kids, 1990), il più importante collettivo della disciplina. Più di 30 anni di carriera alle spalle, Raptuz è membro della storica crew di West Hollywood “CBS”; amico dei rapper J-Ax e Space One, fonda il collettivo Spaghetti Funk, con Gemelli Diversi, DJ Enzo e Chief. Espone nelle più importanti gallerie del mondo e collabora con importanti aziende sia in performance live che in qualità di grafico. Il suo stile è diretto e apparentemente caotico, proprio come la sua personalità; gioca sugli accostamenti di colori e grafiche, non mi stupisce abbia scelto il writer come mestiere, la timidezza è forse il lato che prova a celare dietro grandi e scuri occhiali da sole, lavora quando tutti dormono, lascia il segno con bombolette spray, vernici, smalti, è un grande osservatore, parla solo la mattina, la notte gli è sacra. Ah, è un purista dell’arte.
Che cosa vi accomuna, oltre l’amicizia?
A: Le colazioni a casa di Nina. Tutto è partito da lì.
NZ: E Milano, la città delle grandi opportunità, quella che realizza i sogni dei giovani ragazzi come in “Miracolo a Milano”, il film di Vittorio De Sica. “La storia si ripete, ma cambia il contesto“, lo diceva anche Giambattista Vico.
Milano come le Americhe?
NZ: Arriviamo tutti e tre dalla provincia, quella cosa noiosissima, si sa.
A: Una provincia che può schiacciare o lanciare. La capacità è sapersi aggrappare a tutto ciò che luccica in qualche modo. E così Milano diviene il sogno americano di tre ragazzi che hanno la stessa passione per l’arte e per la musica.
E la tua passione per l’arte quando è nata?
A: Intorno al 2018 ho sentito l’esigenza di circondarmi di colore tra le mura di casa, vivevo un momento molto difficile della mia vita. Quelle tele mi hanno riportato ai 12 anni, i primi pastelli, gli aerografi, la creatività istintiva e naturale.
Difficoltà che possiamo raccontare?
A: Il Covid che ha intaccato gli equilibri lavorativi, la scomparsa prematura di persone a me care, sono stati anni di grande dolore, ma che hanno portato in seguito anche grande gioia, una personale a Modena e molte collaborazioni, anche se il mio principale lavoro rimane quello del presentatore.
Il rimando delle tue opere è Banksy. Ti ispiri a lui?
A: Diciamo che lui è il più riconosciuto e facilmente riconoscibile, ma esistono numerosi street artist a cui mi ispiro. A questo proposito mi è parso d’obbligo creare un quadro che recita così “Assomiglia a Banksy, ma non lo è”.
In una tua serie c’è un cuore che cola…
A: Il cuore che cola è un po’ il centro di tutta la mia idea dell’arte, richiama il dolore, la passione, è interpretabile a seconda della propria storia, e tutti ne possediamo uno.
Nina, qual è invece il tuo concetto artistico?
NZ: Da bambina disegnavo, scrivevo canzoni, suonavo il pianoforte, fino a quando il rock’n’roll si è impossessato di me, ma quelle passioni non le ho mai perse, pensa che tutte le grafiche dei miei dischi le firmo io. Un bel giorno una giornalista che lavora per la casa Editrice Rizzoli, mi ha detto “Dobbiamo fare un libro di illustrazioni”. Io ho pensato fosse pazza e ho risposto “I miei disegnini?” Ne è nato un volume bellissimo, si chiama “Dream city”, una città con le distruzioni per l’uso dove si possono scardinare le leggi della fisica di Einstein, viaggiare nello spazio, acquistare boule de neige nel negozio di una certa Amy Winehouse che le riempie delle sue lacrime.
“Dream city”, ma tu hai un sogno non realizzato che hai impresso in questo libro?
NZ: Ho volato per la prima volta all’età di cinque anni, da quel momento ho sempre sognato di mangiare le nuvole, quelle che potevo guardare dal minuscolo finestrino senza poterle toccare. In “Dream City” quindi esiste una gelateria, e il gusto più delizioso è ovviamente quello alla nuvola!
C’è una parte fanciullesca fortissima in te.
NZ: Io credo in tutti noi.
A: La difficoltà sta nel mantenerla viva.
NZ: La vita talvolta ti tira bastonate. Sta a noi metabolizzarle e trasformarle in qualcosa di buono e sano. La noia è qualcosa di sano.
A: Non ci si annoia più oggi, si entra direttamente in depressione.
NZ: Mi chiedo spesso:”Avrei studiato così tante ore pianoforte a otto anni se avessi avuto a disposizione la Pay tv, Internet, un cellulare?” All’epoca era una conquista andare a cercare il film che volevi vedere, lo daranno al cinema? Me lo presterà un amico? C’era il piacere dell’attesa.
A: Il mio sogno di dj era invece avere tutta la musica con me, senza trasportare scatole di dischi pesantissimi.
Un sogno realizzato con l’avvento del digitale. In merito a questo, ha ancora senso l’arte oggi?
KR: Lo ha sempre, anche se è cambiato il modo di fruirne e le gallerie d’arte si sono dovute adattare.
Oggi anche le opere d’arte sono divenute digitali.
KR: Gli NFT, hanno cambiato il mercato dell’arte, ma non la spinta e la passione di chi la crea, di chi vuol dipingere a colori la propria vita.
Raptuz, qual è il messaggio delle tue opere?
KR: Dipingo da che ho memoria, ma il grafit artist un tempo era considerato solo un vandalo, non un professionista, era un mestiere non ancora riconosciuto.
Perché hai iniziato dalla strada?
KR: Perché i muri delle città sono i fogli bianchi più grandi dove far conoscere velocemente la tua arte, condividendola con chiunque. E’ per tutti. Poi lo ammetto, ero un po’ scapestrato; ci si nascondeva, si faceva arte sui treni, nelle metropolitane; con il tempo sono arrivate le prime commissioni, le prime mostre, le illustrazioni, i lavori per la Disney con i titoli di Topolino, e i lettering che adoravo, perchè oltre alla Scuola del fumetto ho frequentato l’Accademia Disney con il maestro Giovan Battista Scarpa. Oggi invece vedo solo marchette tra street artist. Dov’è finita quella forza vitale che ci spingeva per le strade la notte? Dove, la voglia di comunicare e farsi sentire? E’ deludente, e quando oggi mi definiscono “street artist” mi incazzo.
Come vuoi essere definito?
KR: Artista urbano, pittore, imbianchino, ma non street artist. Ho vissuto tutte le varie fasi di questa evoluzione, e so riconoscere chi lo fa per vocazione e chi per business.
Alvin: E’ questa la nostra fortuna, sceglierci per passione, non per dovere.
La vostra prima mostra “Miracolo a Milano” nella bellissima location “Cittadella degli Archivi”. In quali case sperate arrivino le vostre opere?
A: In quella di Bill Gates. Sempre puntare in alto (ride).
KR: Io spero sempre tra le mura di chi apprezza veramente quello che facciamo, non destinato a chi manda il proprio architetto che vuole tappezzare i muri perché “fa figo”.
A: Io in casa di chiunque. Anche se uno manda l’architetto va bene. (risate)
NZ: Un amico durante il vernissage ha nascosto un mio quadro e mi ha detto “Ue’ Nina, va che ti hanno rubato il quadro” e io non ho sclerato, ho subito pensato “Eh, che buon gustaio“. Voleva farmi uno scherzo e mi dice: “Ma non sei impazzita? Guarda che gli artisti perdono la ragione per molto meno“.
Raptuz, c’è un’opera a cui sei particolarmente legato?
KR: “Just Love”. Rappresenta il mio cane, è l’unico quadro della mostra non in vendita. Sulla tela c’è sempre la mia vita, i miei sentimenti, le mie città, Los Angeles e Milano, perchè alla fine faccio giri immensi ma torno sempre qui.
Perché torni sempre a Milano?
KR: C’è l’ho dentro, Milano. I miei sono di zona Loreto, via Popoli Uniti, Greco, quando sono nato hanno deciso di trasferirsi a Pioltello, vissuta fino alle superiori, poi sono passato in una zona migliore, via Padova (ride), e ci sono rimasto per quindici anni, da un ghetto all’atro, me li sono fatti tutti. Ma Milano è Milano, ogni volta mi ripromettevo “stavolta non torno più” e invece eccomi qua. E’ questo il vero Miracolo di Milano, una nostalgia che ti si attacca dentro.
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