Talosa, l’anima verticale del Nobile

TALOSA, L’ANIMA VERTICALE DEL NOBILE

Nelle gallerie sotterranee di Palazzo Tarugi, dove la pietra serena custodisce secoli di storia enologica, si compie ogni anno un piccolo miracolo di pazienza e intuizione. La cantina Talosa non è semplicemente un luogo dove il vino “riposa” (metafora soporífera) – ma un laboratorio alchemico dove il tempo diventa materia.

La famiglia Jacorossi, alla terza generazione, ha capito ciò che molti produttori contemporanei sembrano dimenticare: che il Nobile di Montepulciano non si fa, si attende. E nell’attesa risiede tutta la sua nobiltà.


2019 Riserva Nobile di Montepulciano Docg Toscana: la promessa mantenuta
Quest’annata possiede quella qualità rara che definirei “solare in differita”. La frutta è piena, quasi gravida di possibilità, ma non straborda. C’è una radiosa compostezza che tradisce anni davanti a sé. Il Sangiovese qui non grida, sussurra promesse che sa di poter mantenere. Chi ha fretta, passi oltre. Gli altri scopriranno che l’attesa è già parte del piacere.

2018 Riserva Nobile di Montepulciano Docg Toscana: l’equilibrista
Se il 2019 è una promessa, la 2018 è un fatto compiuto che però non chiude porte. È quella rara annata che concilia gli opposti: appagante oggi, migliorabile domani. Una sorta di Giano bifronte enologico che guarda simultaneamente al presente e al futuro. Per chi cerca risposte immediate senza rinunciare alla complessità evolutiva.

2017 Filai Lunghi Vino Nobile di Montepulciano Docg: la geometria del gusto
A 55 euro, questo vino porta nel nome la sua filosofia produttiva. I filari lunghi non sono solo un’indicazione topografica, ma una dichiarazione d’intenti: privilegiare l’estensione alla concentrazione, la finezza alla potenza. È il vino di chi ha compreso che l’eleganza è sempre una questione di proporzioni, mai di volume.

2017 Riserva Nobile di Montepulciano Docg Toscana: le radici profonde
Quando un vigneto del 1970 parla attraverso un’annata come la 2017, il risultato è inevitabilmente una conversazione tra epoche. Qui non c’è solo memoria ampelografica, c’è memoria territoriale. Le viti vecchie conoscono ogni segreto di quella terra cretosa, ogni sussurro di quel microclima sospeso tra Valdichiana e Val d’Orcia.


E poi c’è l’Occhio di Pernice

Ma il vero colpo di scena, il gioiello segreto custodito nelle viscere cinquecentesche di Palazzo Tarugi, è l’Occhio di Pernice 1996. Qui non siamo più nel territorio del vino. Siamo nell’algebra del tempo.

Ventiquattro bottiglie di Sangiovese sacrificate per produrne una sola da 37,5 cl. Un’evaporazione che è un atto di fede enologica: più della metà del liquido si dissolve nell’aria durante gli anni di affinamento nei caratelli. Ciò che resta non è vino, è essenza.
La “madre” – quel lievito centenario tramandato dai primi del Novecento come un segreto di famiglia – trasforma il Sangiovese in qualcosa di radicalmente altro. Il colore ambrato-bruno, quasi cerasuolo scuro, è già un manifesto: questo nettare ha attraversato decenni, non stagioni. Al naso è un’esplosione controllata: prugne secche che conversano con datteri, propoli che incontra panpepato, tabacco che corteggia la malaga. E poi quella nota di nocciola affumicata, quel richiamo alla caramellatura, quel sottofondo di spezie natalizie che evoca focolare e attese pazienti. In bocca è denso, quasi vellutato, con una persistenza che non finisce mai. Non è dolcezza melensa, è concentrazione filosofica. È quel tipo di persistenza che ti costringe al silenzio, alla meditazione, al ripensamento.

L’Occhio di Pernice chiude ogni conversazione e ne apre mille altre. È la prova vivente che in Toscana, nelle cantine giuste, il tempo si stratifica, si addensa, si fa sostanza.


Dal 1972, i Jacorossi hanno trasformato quello che Angelo – l’imprenditore romano in fuga dal caos urbano – definì “un angolo di terra” in 33 ettari di coerenza vitivinicola. Una storia vera, di chi ha capito che Montepulciano non si conquista, si ascolta.

E il vino che ne deriva parla la lingua verticale dei cipressi, quella stessa verticalità che attraversa ogni calice di Talosa.

Perso un altro simbolo del Made in Italy. Identità e Cultura addio

Perso un altro simbolo del Made in Italy. Identità e cultura addio
La fine del Panno del Casentino: un’altra eccellenza che muore nell’indifferenza

C’è qualcosa di profondamente doloroso, oltre che sbagliato, in un paese che lascia morire la propria storia. E oggi quella storia ha un colore preciso: l’arancione inconfondibile del panno del Casentino, quel tessuto di lana che ha vestito Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany“, i cavalli delle scuderie reali dei Savoia, le creazioni di grandi stilisti come Roberto Capucci e Givenchy.

La Manifattura del Casentino ha chiuso. Definitivamente. La Cgil lo ha annunciato in questi giorni: tredici lavoratori licenziati, le macchine ferme, la corrente elettrica staccata. Fine. Una liquidazione che suona come una condanna a morte per un pezzo di Made in Italy che il mondo ci invidiava.

Un’agonia annunciata

Le abbiamo tentate tutte“, spiega Alessandro Mugnai della Filctem Cgil. Dal luglio 2022 il sindacato aveva lanciato l’allarme, cercato soluzioni, coinvolto istituzioni. Nel 2023 era stato organizzato persino un convegno per proporre il riconoscimento del panno come prodotto DOP, un patrimonio artistico, storico e culturale da tutelare. Promesse, tanta eco mediatica, qualche tentativo. Poi il nulla.

Il problema? Niente più commesse. La crisi del settore moda, gli scenari geopolitici, l’incapacità di fare sistema tra imprese. L’azienda, che lavorava come contoterzista, è stata spazzata via dalle oscillazioni del mercato. Gli amministratori Roberto Malossi e Andrea Fastoni hanno resistito fino all’ultimo: “Abbiamo tenuto duro fino a giugno, con un fatturato ridotto a 300mila euro. Poi la cassa integrazione, i tentativi di cessione che non si sono concretizzati. Non restava che la liquidazione“.

L’eccellenza che nessuno vuole salvare

Questa è la storia di un tessuto che gli abitanti di Stia pagavano come tributo ai Medici. Di una lavorazione centenaria, unica al mondo, fatta con macchinari che non esistono più da nessuna parte. Di un’identità territoriale che si cancella con un tratto di penna.

Tredici famiglie senza lavoro. Cento famiglie coinvolte se consideriamo l’indotto. Un’intera valle che perde un pezzo della sua economia e della sua anima. E il Casentino, e con lui l’Italia intera, che perdono un prodotto d’eccellenza riconosciuto in tutto il mondo.

Siamo di fronte all’incapacità di fare sistema“, ammonisce il segretario provinciale Cgil Alessandro Tracchi. “Alla mancanza di una strategia di lungo periodo, all’ennesimo smantellamento del patrimonio industriale nazionale“.

Se non ora, quando?

È facile parlare di Made in Italy quando conviene. Quando si tratta di vendere l’immagine dell’Italia all’estero, di attirare turisti, di riempirsi la bocca con le nostre eccellenze. Ma poi, quando queste eccellenze hanno bisogno di essere difese, protette, rilanciate? Dove sono gli investitori? Dove sono i grandi marchi della moda italiana che su quei tessuti hanno costruito imperi? Dove sono le istituzioni?

L’azienda ha dato un ultimatum: trenta giorni prima di smontare definitivamente le macchine. Trenta giorni per trovare qualcuno disposto a credere che il panno del Casentino meriti di continuare a esistere. Gli amministratori sperano ancora nell’interesse di investitori pronti a salvare posti di lavoro e rilanciare il prodotto sui mercati internazionali.

Ma se non ci muoviamo ora, sarà troppo tardi. Non solo per questi tredici lavoratori. Non solo per il Casentino. Ma per tutti i piccoli artigiani, le manifatture storiche, le botteghe che custodiscono saperi antichi e che, una dopo l’altra, stanno tirando giù le saracinesche.

È ora di fare qualcosa. Chi ha la possibilità, chi ha i mezzi, chi ha la visione: si faccia avanti. Perché un paese che non sa difendere la propria eccellenza è un paese che ha scelto di non avere futuro. E noi italiani, un futuro, ce lo meritiamo ancora.

BITE 2025: Quando l’alta cucina diventa una festa

BITE 2025: Quando l’alta cucina diventa una festa

Immaginate oltre 20 chef stellati e giovani talenti che cucinano fianco a fianco con il pubblico. Bartender che reinventano la mixology tra un dj set e l’altro. Pizzaioli, panificatori e gelatieri d’autore che trasformano Villa Spalletti Trivelli in un laboratorio del gusto a cielo aperto. È successo davvero, nel cuore della Food Valley, al BITE 2025.

BITE 2025 non è stato un semplice festival enogastronomico, ma la magia che accade quando uno chef visionario come Salvatore Morello decide di abbattere le barriere tra alta ristorazione e convivialità popolare, invitando tutti gli amici conosciuti in vent’anni di carriera a cucinare insieme.
Ogni volta ci dicevamo ‘prima o poi cucineremo insieme‘”, racconta Morello. “BITE è nato così, come una festa di fine estate“.

Il risultato? Un’esperienza dove l’eleganza dell’alta cucina incontra il divertimento, dove si assaggia un “bite” firmato da uno chef stellato mentre un dj set accompagna la serata, dove si discute di sostenibilità tra un cocktail d’autore e un gelato artigianale. Benvenuti nell’evento che ha ridefinito il concetto stesso di “stare bene all’italiana“. Viva!

Lo Chef Salvatore Morello con Francesca Poli

Il Manifesto di BITE: alta Cucina che incontra il pubblico

È il primo di questo genere in Emilia Romagna e anche in Italia è unico nel suo genere, sia per metodologie che per lo spirito che lo anima“, ha dichiarato Salvatore Morello. “Con BITE vogliamo raccontare lo star bene all’italiana, che non è solo cibo ma anche eleganza, condivisione e stile di vita. È un’occasione per valorizzare la Food Valley e l’innovazione gastronomica, ma anche un punto d’incontro tra colleghi“.

L’evento ha visto la partecipazione di 20 chef stellati Michelin e altrettanti giovani talenti della cucina italiana, tutti riuniti per cucinare dal vivo insieme al pubblico, abbattendo le barriere tra alta ristorazione e fruizione popolare.

Gli chef stellati protagonisti

BITE 2025 ha riunito un parterre d’eccezione di chef, ognuno dei quali ha creato in esclusiva per l’evento un “bite” – un piccolo piatto pensato appositamente per l’occasione, interpretando con il proprio stile i valori del festival.

Caterina Ceraudo (Dattilo, Strongoli – Crotone) – Una stella e una stella verde Michelin, la chef calabrese è stata più volte premiata come “Donna Chef dell’Anno” (2015 per Identità Golose, 2017 per la Guida Michelin). La sua cucina equilibrata e leggera valorizza il territorio calabrese con ingredienti della tenuta di famiglia, un’azienda pioniera dell’agricoltura biologica.
Isa Mazzocchi (La Palta, Borgonovo Val Tidone – Piacenza) – Chef Donna 2021 per la Guida Michelin, ha trasformato una vecchia tabaccheria in un ristorante stellato dove la tradizione piacentina incontra la creatività contemporanea. Il suo segno distintivo: una goccia di latte che “macchia” ogni piatto, simbolo delle origini.
Daniele Lippi (Acquolina, Rocca di Papa) – Chef che porta alta cucina e innovazione nel cuore dei Castelli Romani.
Dario Fisichella (Villa Naj Torrazza Coste PV) – Rappresentante dell’eccellenza siciliana con la sua cucina contemporanea.
Jacopo Malpeli (Osteria del Viandante, Rubiera) – Interprete della tradizione emiliana in chiave moderna.
Mattia Trabetti (Alto, Milano) – Giovane talento della scena milanese che ha conquistato critica e pubblico.
Salvatore Iuliano (St Georges by Heinz Beck, Taormina) – Portavoce dell’alta cucina beckiana in Sicilia.
Maurizio Bufi (Il Fagiano, Spoltore) – Chef abruzzese di grande esperienza e tecnica.
Massimo Spigaroli e Lorenzo Chierici (Antica Corte Pallavicina, Polesine Parmense) – I maestri della tradizione parmense, custodi della Razza Mora e della cultura del culatello.
Salvatore Morello (Inkiostro, Parma) – L’ideatore dell’evento, chef visionario che ha voluto creare un punto d’incontro tra alta ristorazione e pubblico.
Raffaele Lenzi (Sereno al Lago, Torno – Como) – Chef che interpreta il territorio lariano con eleganza e tecnica.
Luca Marchini (L’Erba del Re, Modena) – Uno dei pilastri dell’alta ristorazione modenese, custode della tradizione emiliana rivisitata.
Fabio Ingallinera (Il Nazionale, Vernasca) – Chef che valorizza il territorio piacentino con creatività.
Giacomo Sacchetto (Iris, Verona) – Talento veneto in ascesa nella scena gastronomica nazionale.
Ariel Hagen (Saporium Borgo San Pietro, Montescudo) – Chef che porta innovazione e sostenibilità nella sua cucina. La sua filosofia è radicata nei principi di biodiversità e agricoltura rigenerativa, con il desiderio di condividere una cucina elegantemente creativa, rispettando ed esaltando il ritmo della natura e i sapori autentici del territorio 
Giuseppe Biuso (Vite, Castelvetrano) – Rappresentante della cucina siciliana contemporanea.
David Weigang (Verbene, Settimo Torinese) – Chef di origini brasiliane che porta contaminazione internazionale.
Alexander Robles L. (Azotea, Chiclana de la Frontera) – Presenza internazionale con la sua cucina andalusa.
Bruno Tassone (San Domenico, Imola) – Parte della brigata di uno dei ristoranti storici dell’Emilia-Romagna.
Dimitri Harding (La Valle, Segrate) – Chef emergente della scena milanese.
Manuel Castillo (La Ca di Sass, Milano) – Interprete della cucina contemporanea nel cuore di Milano.
Marco Stagi (Metodo, Milano) – Chef che porta innovazione e sostenibilità al centro della sua proposta.
Martino Latella e Rocco Bonanno (Osteria Zero, Bra) – Duo di chef che reinterpreta la tradizione piemontese.
Massimo Raimondo (Cura, Campobasso) – Portavoce della cucina molisana d’autore.
Simeone Larosa, Simone Devoti e Diego Sales (Cotex, Milano) – Trio di chef che propone una cucina di ricerca.
Manuel Tropea (Concezione, Milano) – Chef della nuova generazione milanese.
David Fiordigiglio e Simone Falsaperla (Mano, Torino) – Duo che porta la contaminazione giapponese in Piemonte.
Adrien Hurnungee e Alberto Toe – Chef che completano il roster d’eccellenza dell’evento.

I maestri Pizzaioli, Panificatori, Pasticceri e Gelatieri

L’arte bianca è stata rappresentata da quattro maestri pizzaioli di grande talento:

  • Gianni Di Lella (La Bufala, Maranello) – Figura chiave nell’organizzazione del festival
  • Giulia Zanni – Tra le poche donne che si sono affermate nell’arte della pizza
  • Mirko Ciccio (Il Golosone) – Maestro della pizza tradizionale
  • Roberto Davanzo (Bob Alchimia a Spicchi) – Pizzaiolo innovativo che ha partecipato anche al talk “Cucinare sotto pressione”
  • Carlos Silva (Copacapaba) – Maestro panificatore
  • Stefano Guizzetti (Ciacco Lab) – Gelatiere d’autore che ha anche partecipato al talk sul Parmigiano Reggiano
Umberto Oliva, Direzione Artistica Mixology BITE 2025

La Mixology d’Autore: Una Rivoluzione nel Festival

Una delle grandi innovazioni di BITE 2025 è stata l’integrazione totale della mixology nell’esperienza gastronomica. Come sottolineato da Salvatore Morello: “Credo fortemente che la mixology debba essere valorizzata e integrata con l’alta ristorazione“.

La direzione artistica della sezione cocktail è stata affidata a Umberto Oliva, bartender di grande esperienza che ha selezionato personalmente i professionisti:

Ho scelto bartender da tutta Italia, non per notorietà o per il locale in cui lavorano, ma per lo stile e la visione che portano. Volevo un gruppo eterogeneo, capace di raccontare la miscelazione con identità diverse“.

I Bartender Guest

All’interno della villa, un’area dedicata ha visto protagonisti i grandi bartender italiani. Una scelta volta non solo alla professionalità dei singoli, ma all’approccio ospitale che li contraddistingue, come eccellenze di un’attitudine prettamente italiana:

  • Umberto Oliva – Direttore artistico della sezione mixology
  • Damara Lanzone (Il Circolino – Monza)
  • Giuliana Giancano (Pout Pourry – Torino)
  • Marella Batkovic (freelance)
  • Andrea Pomo (Brand Ambassador Santa Teresa 1796)
  • Gregory Camillo (Jerry Thomas Speakeasy)
  • Christian Costantino (Marina Del Nettuno Lounge Bar – Messina)
  • Peppe Doria (Volare – Bologna)
  • Francesco Bonazzi (Mag Café)
  • Rama Redzepi (lounge all’interno del Grand Hotel Fasano)
  • Julian Biondi (consulente beverage)
  • Gianni Zottola (freelance)

I bartender si sono alternati al bancone presentando la propria visione del cocktail in totale libertà creativa, senza linee guida rigide, permettendo a ciascuno di esprimere la propria firma personale.

Un modello da replicare

Come diceva Gualtiero Marchesi, “la cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla diventare arte“.
BITE 2025 ne è la dimostrazione: un festival che trasforma il cibo in racconto, la mixology in visione, e l’intrattenimento in cultura. L’augurio è che questo appuntamento diventi il nostro rito di fine estate: un brindisi corale alla bellezza del gusto italiano, tra eleganza, innovazione e soprattutto condivisione.

Il Modello “Vedi Oggi, Compri Oggi” trasforma l’Industria della Moda

La Rivoluzione del Pronto Moda: Bologna e la Nuova Era del Fashion

L’era delle lunghe attese nel mondo fashion sta finendo. Il Bologna Fashion Festival è l’appuntamento imperdibile che rivoluziona il metodo moda avvicinando le creazioni stilistiche al consumatore finale attraverso il concetto del “See Now, Buy Now“.

Mentre l’industria tradizionale mantiene ancora il divario temporale di sei mesi tra presentazione e vendita, il capoluogo emiliano inaugura un approccio rivoluzionario: gli articoli mostrati sulle passerelle diventano immediatamente reperibili nei punti vendita fisici e digitali. Questa strategia rappresenta un cambio paradigmatico che valorizza l’esperienza del pubblico, creando un sistema equo e partecipativo.

Centergross: Il Gigante del Fashion Hub Italiano

The finest made in Italy Fashion Hub – così si definisce Centergross, la realtà imprenditoriale che guida questa trasformazione. Il più grande e importante polo europeo del pronto moda made in Italy ospita oltre 450 aziende del settore fashion, costituendo un ecosistema completo della filiera tessile italiana.

Sotto la guida di Piero Scandellari, Presidente e Legale Rappresentante Centergross, l’organizzazione sta orchestrando una strategia ambiziosa per posizionare Bologna come nuova capitale della moda mondiale, puntando su un alto tasso di innovazione dei processi dell’intero sistema produttivo per ottenere cambiamenti concreti e duraturi.

Winter Melody 2025/26: Undici Brand, Infinite Visioni

L’evento Winter Melody presenta le creazioni Autunno/Inverno 2025/26 di undici marchi selezionati che hanno sfilato in città: Barbara Alvisi, Gil Santucci, Sophia Curvy, HAVEONE, J.B4, Giorgia & Johns, Roberta Gandolfi, SUSY MIX, SUSY STAR-Curvy, Motel e Tensione In. Ogni brand interpreta l’immediato futuro della moda attraverso linguaggi stilistici differenti, creando un mosaico di identità che riflette la pluralità dell’espressione contemporanea.

Innovazione Tecnologica e Sostenibilità: Il Bollino Blu

Il progetto introduce il “Bollino Blu“, un sistema di certificazione digitale tramite QR code che traccia la sostenibilità multipla di ogni capo: dimensione etica, sociale, economica ed ecologica. Questa iniziativa, sviluppata in collaborazione con Città Metropolitana Bologna e Regione Emilia-Romagna, rappresenta un caso concreto di economia circolare applicata al fashion system.

Parallelamente, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la creazione di contenuti originali, realizzati da FuoriZona Studios, e le tecnologie di mapping 3D curate da Bee Entertainment, trasformano la presentazione tradizionale in un’esperienza immersiva che anticipa virtualmente le collezioni prima della loro apparizione fisica.

Le Collezioni: Viaggio Attraverso Identità e Stili

Giorgia & Johns reinterpreta i codici formali dell’eleganza femminile attraverso “Urban Heritage”, fondendo blazer maschili e capispalla sartoriali con elementi urbanwear. La collezione dialoga tra rigore tradizionale e libertà contemporanea, rappresentando la fluidità identitaria della donna metropolitana. J.B4 costruisce un universo narrativo dove l’energia urbana incontra la raffinatezza artigianale. Ricami tradizionali si contrappongono a effetti spray e grafiche street, creando un equilibrio dinamico tra romanticismo e ribellione, sportività e raffinatezza.
SUSY STAR-Curvy e Sophia Curvy celebrano l’universo femminile a 360 gradi, proponendo collezioni che valorizzano ogni silhouette attraverso mix audaci di tessuti, pattern e texture.
Il leitmotiv di Haveone è rappresentato da ricami e applicazioni, che impreziosiscono jeans, capispalla e borse in tessuto, aggiungendo profondità materica e dettagli sartoriali.
Motel si ispira al ritmo frenetico della metropoli, alla sua energia, alla sua eleganza spontanea e alla sua audace libertà.
Le maxi e mini bag di Roberta Gandolfi si fanno preziose nella scelta dei tessuti: vitelli lisci, suede vellutati, pellami martellati, cavallino stampato, pitone e uno shearling vintage che aggiunge calore e autenticità alle superfici.

Tecnologia e Tradizione: Il Futuro del Made in Italy

Il Festival non si limita a celebrare la moda, ma la intreccia con cultura, arte, economia e turismo, trasformando la città in un vero e proprio epicentro di tendenze all’avanguardia. La strategia di Centergross combina innovazione tecnologica e maestria artigianale italiana, creando un modello replicabile che potrebbe ridefinire gli standard globali dell’industria fashion.

L’integrazione di intelligenza artificiale, sostenibilità certificata e distribuzione immediata configura un paradigma industriale che risponde alle esigenze del consumatore contemporaneo senza compromettere i valori della tradizione manifatturiera italiana.

Prospettive Future

La visione di Scandellari e Centergross punta a costruire un ecosistema integrato dove moda, cultura e innovazione convergono in un modello sostenibile e internazionalmente competitivo. Il Festival si configura come un potente catalizzatore che alla moda unisce cultura, arte, economia e turismo, posizionando Bologna non solo come hub produttivo ma come laboratorio creativo per il futuro dell’industria fashion globale.

Questa trasformazione rappresenta più di un semplice evento: è la manifestazione concreta di come l’Italia stia reinventando il proprio ruolo nell’economia globale della moda, coniugando tradizione, innovazione e sostenibilità in un modello unico e replicabile.

l’omaggio a Giorgio Armani

Proposta indecente, la rottura dei tabù senza retorica

È scomparso uno degli ultimi giganti. Robert Redford non è stato solo una star di Hollywood, ma anche un convinto ambientalista e sostenitore dei diritti civili; per decenni ha usato la sua voce e il suo prestigio per difendere il pianeta e promuovere un’idea di cultura libera, indipendente, coraggiosa.

Interpretazioni carismatiche che non hanno bisogno di presentazioni, da “La stangata” a “Spy game“, da “La mia Africa” a “Leoni per agnelli“, Redford è stato anche un regista sensibile (Gente comune, Oscar 1981) e fondatore del Sundance Film Festival, portando alla luce nuovi talenti e nuove storie del cinema indipendente. Elegante simbolo di un cinema che forse non esiste più, scelse di proteggere la propria vita privata, allontanandola dai riflettori. Scelse il silenzio.

Un film sottovalutato, ma che ha sbancato il botteghino

Proposta indecente” è stata forse una delle sue prove attoriali più controverse, ma anche una delle più sottili e intelligenti. Quando uscì nel 1993, “Proposta indecente” venne accolto da un coro di polemiche. Il pubblico urlò allo scandalo, i critici si divisero. Eppure, mentre si discuteva se fosse un film scandaloso o profondamente romantico, il box office faceva bingo: oltre 265 milioni di dollari incassati nel mondo. Come “9 settimane e ½“, è stato liquidato come un film “di superficie”, quando in realtà mette in scena dilemmi esistenziali profondi e attuali.


Proposta Indecente

Il film è ambientato durante la crisi economica dei primi anni ’90. Una coppia tutta “un cuore e una capanna, bellissimi, poveri e romanticissimi, sull’orlo del fallimento economico si trova a dover scegliere tra dignità e sopravvivenza.

Nella loro casa piena di sogni e bollette, fanno l’amore ovunque, come se ogni angolo fosse sacro, vivendo un’intimità autentica, complice, di un desiderio che non ha bisogno di essere comprato. È quel tipo di passione feroce, forse chiave della longevità di una storia d’amore, perchè quando si perde il desiderio, spesso si perde tutto.

In crisi e spaventati dalla perdita della casa dei loro sogni, tentano la fortuna al casinò.
Loro come pesci fuor d’acqua, una Demi Moore in pantaloncini corti e una grande borsa troppo datata, e il terzo incomodo Gage, un miliardario interpretato da Robert Redford che vive il casinò come una seconda casa, punta milioni di dollari al banco, si rivolge al croupier come fosse un dipendente e la osserva da lontano già convinto di averla nella sua tana.
La storia poi la conosciamo tutti, il ricco proporrà alla coppia un milione di dollari per una notte con la donna.


I poveri ricchi: uomini che credono di poter comprare l’impossibile

Che cosa ci mostra il film? Ci rivela con chiarezza un archetipo maschile più diffuso di quanto si creda e soprattutto piuttosto attuale: quello dell’uomo convinto che il denaro sia sufficiente a colmare ogni lacuna emotiva, culturale, affettiva. Ma nella vita reale, questi uomini sono ben lontani dall’essere John Gage. Non hanno il sorriso gentile di Redford, né il suo sguardo carico di storie, né quel savoir-faire antico che sfiora la galanteria senza mai diventare possesso, uomini che scambiano il corteggiamento con la pretesa, il desiderio con il contratto.

Sono piuttosto uomini che si illudono di poter comprare le persone, come si compra un’auto o un vestito. Che non sanno cosa significhi corteggiare, ascoltare, desiderare con eleganza. Uomini rimasti prigionieri di un’adolescenza viziata, convinti che basti sbattere i piedi — come un figlio di papà — per ottenere ciò che vogliono. E se il mondo non si piega, si offendono.
Sono i “poveri ricchi“, quelli che credono che l’amore abbia un prezzo e non un valore.

Ma qui Gage ci conquista, perchè riesce a conquistarla.
E una volta vissuto il sogno, quando capisce che lei non lo avrebbe mai guardato come guardava lui, prende la decisione più nobile: lasciarla andare. Si fa da parte. Rinuncia. E in quella rinuncia, Redford ci regala la lezione del film: non tutto si può avere.



Diana e l’irresistibile seduzione dell’attenzione

Diana dunque accetta la notte con il ricco belloccio per salvare il futuro della coppia. O almeno questo è quello che ci dice. Non quello che sente. Dunque si lascia sedurre, sì — ma non dal milione di dollari. Il denaro è solo il pretesto, è la scusa morale con cui giustificare ciò che in fondo è più umano: il desiderio di sentirsi vista, scelta, adorata.
Questo è il punto fondamentale del film, che viene superficializzato per semplificazione, e dove lei, senza questa analisi, ne uscirebbe come una “donna senza dignità”.

È nella scena dentro al casinò, mentre Diana si prova un abito che non può permettersi (un meraviglioso black dress firmato Thierry Mugler) che accade qualcosa. Lo sguardo di Redford – magnetico, attento, bramoso – è il primo regalo che le fa. Poi vengono le parole, calibrate con precisione chirurgica: “Se fossi mia, non ti dividerei con nessuno.” Una frase che oggi qualcuno potrebbe tacciar di possessività tossica. Eppure, vi diamo una notizia: le donne – le donne vere – non disprezzano affatto l’idea di essere desiderate con assolutezza. Non è maschilismo, è eros.

Poi ci sono i gesti. I regali non come oggetti, ma come simboli. Non è la collana o l’auto che conta, ma il messaggio sotteso: sei al centro del mio mondo. E questo, in un tempo in cui anche l’amore si consuma in chat frettolose e attenzioni distratte, ha il sapore di una dipendenza.
Diana si lascia conquistare dall’attenzione continua, dalla premura lussuosa ma mai volgare. Niente “Cinquanta sfumature”, qui l’erotismo passa per l’ascolto, per la presenza, per l’arte – rara – di far sentire una donna importante, desiderata, unica.

Nella storia con David, il regista ci mostra che è Diana ad invitare il compagno al gioco dell’eros: mentre lui è concentrato sui suoi sogni, mente disegna la loro casa, è lei che posa la mano di David sul suo seno, è lei a prendere l’iniziativa.
Con Cage il gioco invece si ribalta, e Diana si lascia sedurre dall’ebbrezza di essere oggetto del desiderio, un piacere ancestrale che appartiene alla natura femminile.



Adrian Lyne dirige con eleganza e tensione, non c’è mai eccesso né mai compiacimento. Addirittura la scena di sesso della “notte comprata” è negata allo spettatore, rimane nella sua fantasia, nella sua idea di corteggiamento, di fantasiosa apertura allo sconosciuto. Ci viene solo rivelato che Cage è uno stallone, durante un litigio della coppia, quando torna a vivere insieme, con un milione di dollari in banca che nessuno dei due ha avuto il coraggio di spendere, fino a quando la gelosia di Davide (Woody Harrelson) sfocia in rabbia e risentimento.

Ogni inquadratura è al servizio della psicologia dei personaggi; Demi Moore è struggente e autentica. Woody Harrelson è vulnerabile ed umano, e Robert Redford — immobile, distaccato e sofisticato — rappresenta l’enigma di un potere che può tutto tranne che amare.

Sarà Diana a pronunciare una frase a David, prima della notte con lo sconosciuto, che romperà uno dei tabù più duri della cultura patriarcale:
solo il mio corpo, non la mia mente e il mio cuore”.
Un tentativo di separare il corpo dall’anima, di razionalizzare il compromesso. Ma dietro quella frase si nasconde una verità che il film esplora senza retorica: la donna può vivere la sessualità in modo pragmatico, come l’uomo. Il tradimento non è sempre emozione. Ma questo merita un articolo a parte.

Il finale (l’amore vince, forse)

Proposta Indecente è un film onesto, non ci vende l’illusione di coppie invincibili. Il marito di Diana lo dice con lucidità quando, separati, va a trovarla durante un’asta di beneficienza, lei in total white, come una giovane sposa elegantissima con ombrellino chinese, sorridente e seduttiva come un’adolescente, accanto a quell’uomo ricco che le dona favole che diventano realtà, David partecipa all’asta e le regala un ippopotamo da un milione di dollari (quel denaro rimasto fino ad allora nel cassetto):
non si dimentica, ma si può perdonare“.

E forse è proprio qui che la storia tocca la sua verità più profonda: nell’ammettere che l’amore non è fatto di perfezione, ma di resistenza, che le relazioni non sono forti quando non si spezzano, ma quando sanno rinascere.

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Il lusso non ha bisogno di etichette: nel cuore del Pollino si celebra l’eccellenza autentica

Il lusso non ha bisogno di etichette: nel cuore del Pollino, in Calabria, si celebra l’esperienza autentica

Questa estate il Parco Nazionale del Pollino ha ospitato il Pollino Cocktail Camp: un raduno eccezionale sulla botanical mixology con bartender da tutta Italia. Party, degustazioni, foraging per riscoprire verità spesso dimenticate.

Viviamo nell’epoca di quello che il sociologo Pierre Bourdieu definiva la “distinzione”: la costante ricerca di segni esteriori che separano l’eccellenza dall’ordinario. Eppure, esiste una falsa dicotomia nel nostro immaginario collettivo tra ciò che è genuinamente eccellente e ciò che appare lussuoso.
Il lusso contemporaneo, specialmente nel food and beverage, non risiede più nell’ostentazione di costi proibitivi o nella ricerca dell’esotico fine a se stesso. Si colloca invece, seguendo l’intuizione di Walter Benjamin sulla “aura” dell’opera d’arte, nell’unicità irripetibile di un’esperienza autentica. È tutto ciò che si trova alla punta della piramide dell’eccellenza: purezza, integrità delle materie prime, rarità non artificiale ma naturale, semplicità che nasconde complessità di saperi millenari.

Parco del Pollino – Il regno delle meraviglie nascoste

Il Parco del Pollino, con i suoi 192.565 ettari di estensione, è la più grande area protetta di nuova istituzione in Italia. Dal 2015 fa parte della Rete europea e globale dei Geoparchi sotto l’egida dell’UNESCO, un riconoscimento che suggella quello che chi lo conosce sa già: questo è un arcobaleno di eccellenze paesaggistiche, storiche, antropologiche, culturali, ambientali, una biodiversità che il mondo ci invidia.

Eppure dovremmo essere tutti più bravi nel valorizzarlo e comunicarlo. A partire da chi nel settore ci lavora, dato che le diversità gastronomiche regionali sono il nostro punto di forza, una personalità per ogni area italiana, che sulla tavola, per colori, cucine, ricette e gusti, potrebbe insegnare a ogni altra cucina dell’emisfero.

È qui che nascono il peperone di Senise IGP, dalla forma allungata e dal colore che va dal verde al rosso intenso; qui cresce la melanzana rossa di Rotonda DOP, piccola e tonda come una mela ma dal sapore intenso e leggermente piccante; qui si coltiva il poverello bianco, un fagiolo prezioso spesso utilizzato in una pasta fresca simile a tagliatelle rustiche, accompagnato da una generosa pioggia di pecorino stagionato. E ancora il paddaccio, formaggio a pasta filata dalla forma particolare, e la ricotta infornata che profuma di tradizione secolare.

Quando l’altitude diventa attitudine – Pollino Cocktail Camp

Ogni anno, a mille metri di altitudine, tra le montagne di questa meraviglia italiana, si tiene il Pollino Cocktail Camp, esattamente a Campotenese una reunion dei migliori bartender d’Italia che ha trovato nella seconda edizione estiva 2025, la sua dimensione più autentica. Oggi capitanati dalla direzione artistica di Umberto Oliva, firma calabrese entrato nella rosa dei rappresentanti della miscelazione contemporanea italiana.

Un raduno di bartender per la maggior parte provenienti da questa terra, che hanno fatto il giro del mondo per poi ritornarvici. Come quelli che dopo esperienze tra Australia e Londra hanno aperto locali spinti dal desiderio di portare alto il nome del loro territorio, ne è un esempio Francesco Vocaturo del Blacksheed di Cosenza; o Peke Bochicchio che con la sua Barmacia di Potenza ha fatto dell’ironia una firma distintiva; o come Ivan Francesco Filippelli, oggi Bar Manager di The Spirit a Milano sito in Porta Romana, locale milanese di prestigio, con un curriculum d’eccellenza che forse, intimamente, vorrebbe togliersi guanti e giacca per buttarsi in un locale vero, nudo e crudo, dove la spontaneità è il distillato più richiesto.

L’autenticità come filosofia di vita

Tre giorni di festa, esplorazioni sensoriali, degustazioni, escursioni e live set con miscelazioni che celebrano il patrimonio botanico del Parco Nazionale del Pollino. Perché questo evento non è solo una convention di settore: è il vero specchio di un’organizzazione che è anzitutto un ritrovo tra amici veri, che attorno a un tavolo cantano e suonano la chitarra, bevono il vino locale rosso come la terra che lo genera, tra una fetta d’nduja che farebbe bruciare il naso a Grisù e una di caciocavallo che sa di pascoli d’alta quota.

Umberto Oliva, nerd della miscelazione e tecnico sopraffino della mixology, ha scelto una comunicazione fondata sull’essenza più che sull’apparenza. La sua è una filosofia che rifiuta i fronzoli e punta dritto al cuore delle cose: un’occasione unica per celebrare la cultura del cocktail in una cornice naturale mozzafiato, promuovendo la valorizzazione del territorio.

Ospitalità ed Esperienza

Bartender professionisti e appassionati possono partecipare a masterclass, degustazioni e competizioni, esplorando nuove tecniche e sperimentazioni. Ma qui il vero lusso non è sedersi sul sofà all’ultima moda, vivere per primi la tendenza dell’ultima nuova apertura, nè dell’ ingrediente più esotico. È nell’aria pura che riempie i polmoni, nel silenzio rotto solo dal vento tra i pini loricati, nella genuinità di un momento condiviso senza filtri né sovrastrutture, nell’ospitalità di una Calabria che ha bisogno di voci (quelle anche dei giornalisti), ma che è piena di cuori, dei Giovanni Gagliardi, Donato Sabatella, Sergio Senatore e Manuela Laiacona, padroni di casa che ci hanno fatto sentire in famiglia.

Il Pollino Cocktail Camp dimostra che il lusso autentico non ha bisogno di griffe o di prezzi proibitivi. Ha bisogno di passione, di territorio, di storie da raccontare. Ha bisogno di quella rara combinazione di eccellenza tecnica e autenticità emotiva che solo chi ha radici profonde sa esprimere.

In un mondo che spesso confonde il valore con il prezzo, eventi come questo ci ricordano che la vera ricchezza sta nella capacità di trasformare la semplicità in straordinario, l’ordinario in memorabile. Perché alla fine, il lusso più grande è quello di essere semplicemente, profondamente, autenticamente se stessi.

Il Giornalismo nell’Era dell’Intelligenza Artificiale – IL PENSIERO DEL DIRETTORE

IL PENSIERO DEL DIRETTORE – DA OGGI, PER TUTTE LE DOMENICHE

L’Ultima Resistenza: Il Giornalismo nell’Era dell’Intelligenza Artificiale

Quando le macchine scrivono, chi ancora pensa?

Iersera a cena con amici, davanti ad un’anatra troppo fredda ed un vino troppo caldo, ci si domandava chi utilizzasse l’AI e per quali scopi. ChatGPT, Claude, Leonardo, tutti assistenti personali pronti per fare il lavoro al posto tuo. È l’alba di una rivoluzione silenziosa che sta ridisegnando il panorama del lavoro intellettuale, la promessa di liberarci dalle fatiche del pensiero sostituendo con algoritmi, ciò che per millenni è stato il privilegio esclusivo della mente umana.
I primi a morire saranno i copywriter” – diceva, dopo un sorso troppo tannico, i redattori (già assenti da decenni dalle scrivanie delle redazioni a lavorar da casa tra la pasta e l’abbacchio) delegano alle macchine la ricerca delle parole giuste, spesso del pensiero giusto, ma la domanda che mi faccio è, io che ho fatto quel che noi Millennial chiamiamo “la gavetta”, in una redazione vera dove c’era l’omino titolista (sì sì, un essere umano penna alla mano che prendeva uno stipendio per scrivere titoli e didascalie): Cosa accadrà quando l’ultimo custode della cultura deporrà la penna?

Il Grande Fraintendimento

L’errore fondamentale dell’epoca contemporanea è confondere l’informazione con la conoscenza, il dato con la sapienza, il fascino con il bisturi, la fama con il numero di like. Le intelligenze artificiali, per quanto raffinate, operano in un universo binario dove tutto è riducibile a pattern statistici e correlazioni matematiche. Possono assemblare frasi eleganti, produrre testi grammaticalmente perfetti, persino imitare stili letterari con precisione sconcertante (Proust si starà ribaltando nella tomba), ma quando un giornalista osserva l'”Allegoria della Pittura” di Vermeer, in quel drappo che cade come un sipario e ci rende tutti vojeuristi, riconosce anche l’anticipazione della fotografia, quella scelta di luce che arriva sempre da sinistra, sempre dalla solita finestra. Intravede, la tessitura degli arazzi e la mappa dettagliata dei Paesi Bassi, un quadro dentro un quadro; questo non è solo spirito di osservazione, è la visione alimentata da decenni di letture, di contemplazione, di anni passati a studiare, di ricerche incessanti, di vita vissuta.

Il giornalista autentico, quello bravo per intenderci e che merita di esser chiamato tale, non si limita a descrivere i fatti: li attraversa con la propria sensibilità, li filtra attraverso un prisma culturale costruito pagina dopo pagina, libro dopo libro, viaggio dopo viaggio, emozione dopo emozione.

Allegoria della Pittura (L’atelier) Jan Vermeer, 1666 – Kunsthistorisches Museum di Vienna  

L’Architettura Invisibile del Pensiero

Ciò che distingue il vero giornalismo dalla mera cronaca è la capacità di costruire ponti invisibili tra mondi apparentemente distanti. Quando Oriana Fallaci intervistava i potenti della terra (Intervista con la storia, prefazione di Federico Rampini – Best BUR) non si limitava a porre domande: convocava al tavolo dell’interrogatorio secoli di letteratura, filosofia, storia, la storia della sua vita, a fare da staffetta insieme al padre partigiano, appena quattordicenne, durante la Resistenza). Ogni sua domanda era il frutto di una biblioteca personale sedimentata nelle notti insonni passate a decifrare i geroglifici della politica internazionale.

L’intelligenza artificiale può elencare le caratteristiche del neorealismo cinematografico, ma non può intuire la differenza tra la passione virile che Hitchcock prova quando fa sciogliere lo chignon delle sue attrici rigorosamente bionde, rigorosamente glaciali – rispetto al trasporto erotico che Truffaut rivela con grazia ed eleganza estremamente femminile. Questo lo si comprende con la comprensione dell’essere umano, del mondo maschile, osservando, studiando, amando.

La Sindrome della Superficie e l’Arte di raccontare Emozioni

Il pericolo più insidioso non è la sostituzione totale del giornalista con la macchina, bensì l’impoverimento progressivo della professione, la sua riduzione a mero assemblaggio di contenuti preconfezionati (sì ne leggo tutti i giorni).

È il trionfo di una “sindrome della superficie”: notizie tutte uguali, contenuto accessibile, nessun approfondimento, niente collegamenti. Come osservava Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, “La conoscenza non è fatta solo di libri, ma anche del silenzio che li circonda“. L’intelligenza artificiale può divorare biblioteche intere in frazioni di secondo, ma non conosce il silenzio, non sa dell’emozione di una prima volta davanti L’isola dei morti (Die Toteninsel) di Arnold Böcklin, quella volta al Moma, e le lacrime trattenute per tutti quegli anni.

Arnold Böcklin – L’isola dei morti 1880 – Moma, N.Y.

La Biblioteca Vivente e La Ricerca Proustiana

Ogni vero giornalista è una biblioteca vivente, è la somma dei libri che ha letto, di quelli che lo hanno formato, di quelli che ha amato e quindi lo hanno plasmato, e quelli detestati, che quindi lo hanno affinato nella ricerca.
Quando Marcel Proust scrive “La Recherche“, sta lasciandovi non solo un romanzo, non la storia della sua vita, sta donandovi la storia del costume, un libro sul design e sulla moda, un catalogo per esperti psicologi con i profili di tutte le specie umane, sta confessandovi del gossip, i retroscena dei più importanti salotti parigini, sta aprendovi il manuale delle infinite emozioni, spiegate in maniera così vera e dettagliata, che non si può che piangere di fronte a tanto talento. Costatogli una vita intera.

Se l’algoritmo può assemblare citazioni appropriate e collegamenti plausibili, manca di “grano della voce“, quella che Roland Barthes descriveva come esperienza vissuta, passione autentica, dolore della conoscenza.
Perché conoscere è anche soffrire.


Il Tempo Della Sedimentazione. Il Tempo

Nell’era della velocità assoluta, della notizia che invecchia nel tempo di un click, il vero giornalismo oppone la resistenza della sedimentazione. Come il vino che acquista corpo negli anni, il pensiero giornalistico di qualità ha bisogno di tempo per maturare, di silenzio per depositarsi, di contemplazione per cristallizzarsi in forma compiuta.

Non chiedete a un giornalista un pezzo in venti minuti, vi prego, l’elaborazione emotiva è fondamentale in questo mestiere; c’è bisogno di attingere dal serbatoio di malinconia e meraviglia che alimenta ogni autentica vocazione intellettuale.

La Resistenza Necessaria – Il Vero Giornalista

Di fronte a questa marea di automi, il giornalista autentico deve rivendicare con orgoglio la propria specificità umana, la propria irriducibilità algoritmica. Non si tratta di opporsi al progresso tecnologico per nostalgia reazionaria (tutt’altro, viva la chirurgia robotica che permette di operare a distanza), ma di preservare quello spazio sacro dove la conoscenza si fa sapienza, dove la comprensione dei fatti della vita diventano poesia.

Il futuro del giornalismo sta nella più naturale capacità di emozionare ed emozionarsi di fronte al bello, di indignare e indignarsi di fronte all’ingiustizia, di commuovere e commuoversi di fronte alla fragilità umana.
Perché quando l’ultimo giornalista avrà ceduto la penna all’algoritmo, quando l’ultima biblioteca sarà stata digitalizzata e indicizzata, quando l’ultimo pensiero sarà stato classificato e archiviato, rimarrà ancora una domanda senza risposta:

Chi si ricorderà di sognare?


(In copertina, Biblioteca Abbazia di Admont, Austria – foto @Pinterest)

Giulio Greco: “tutte le arti sviscerano la natura più profonda”



Ho sempre pensato che la versatilità fosse un grande pregio ed un bel talento da sfruttare, in barba ai piccini invidiosi che pensano ancora alla specializzazione della specializzazione.
Giulio Greco è l’esempio calzante di una generazione curiosa (bene, ne esistono ancora), che ha il coraggio di mettersi in gioco, non senza studiare.

Attore, editore, musicista, non ha mai pensato di rinunciare ad una di queste arti, proprio perchè crede che l’una sia di nutrimento all’altra, e che ogni mestiere che interpreta, gode delle conoscenze dell’altro.
Lo avrete visto in “Gangs of Milano” su Sky, in “SuperSex” su Netflix e nel film “Prophecy” su Disney+. Due film internazionali, uno con Andy Garcia, e nella serie che racconta la genesi di “Gomorra“; ma Giulio Greco nel frattempo scrive prefazioni, legge i miti greci, regista il suo nuovo EP, e basta una lettura veloce a questa sua intervista, per capire che la profondità emotiva e culturale, lo porterà sicuramente lontano.


Foto di Alessandro Rabboni
Styling di Alex Sinato
Grooming di Romina Carancini
Press Office Sara Battelli


Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda.

Total look Falconeri

– Come combaciano il mestiere di editore con quello di attore?

Uno rende vivo l’altro. Un punto è statico, tra due punti si crea energia, nel mio caso anche attrazione. Non sopporto questa tendenza nel voler “isolare” una forma d’arte. 
Sono cresciuto in una famiglia che mi ha fatto conoscere la musica, a partire dalla classica grazie a mio nonno che è stato primo violino dell’orchestra di camera del Belgio, mi ha portato a teatro, al cinema, nei musei, a mostre d’arte. Mia madre ha studiato e lavorato come attrice, mia zia è pittrice, mia sorella ha danzato. L’arte ha forme di espressione sempre nuove e in continua evoluzione.

L’incontro con Giuliano Ladolfi, mio socio che considero padre artistico e spirituale, e la conseguente costituzione della casa editrice che porta il suo nome, mi hanno completamente cambiato la vita. Il mondo dei libri mi ha permesso di tuffarmi nella conoscenza della poesia, narrativa, filosofia, nella tecnica della traduzione, dell’esposizione, del linguaggio.
Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda comunicando in modi diversi e alimentandosi l’un l’altro.

– Cosa è necessario cambiare del settore editoriale secondo te?

Soffermandomi sul panorama italiano, posso dire che la sovrapproduzione ha indubbiamente inciso sulla qualità.
Certo, le pubblicazioni settoriali hanno permesso l’approfondimento di molte tematiche per lo più sconosciute, ma ritengo che il legame “emporiocentrico” della nostra società ci stia, in realtà, impoverendo. 
Una società poco coesa viaggia in tutte le direzioni, ma ci dimentichiamo di chiederci quale sia una “direzione comune”. L’avvento dei social ha dato ad ognuno ciò che Warhol lanciava come una provocazione. Oggi mi chiedo: a cosa serve la notorietà senza calibrare un messaggio universale? A che scopo vomitare infiniti contenuti che poi scompaiono in un battito d’ali?

Bisogna lavorare per creare dei punti di incontro per discernere la nostra società, mettere basi solide per poter andare avanti.
Giuliano Ladolfi e Marco Merlin hanno iniziato a farlo nel 1996 con la rivista Atelier. Un lavoro mastodontico che vive di poesia, ma a mio parere coinvolge tutte le forme d’arte. Bisogna delineare una proposta forte, corroborata dallo studio approfondito dei testi più rilevanti e combattere la tendenza di avere più scrittori che lettori.

– Quali sono le somiglianze, se esistono, tra il ruolo dell’attore e quello dell’editore?

In una prima fase, la ricerca. Continua nelle luci e oscurità dell’essere umano. L’editore cerca prima lo scrittore attraverso i suoi testi, l’attore cerca il personaggio attraverso la curiosità, la sperimentazione e la relazione con gli altri. 
Successivamente, dopo aver fatto un lavoro di raccolta, di confronto e di scelta ponderata, arriva il tempo della rielaborazione e della condivisione con il pubblico dei lettori e degli spettatori.
Infine, importantissimo è il momento della risposta di questi ultimi. È sempre importante decifrare ciò che ha colpito e ha funzionato rispetto a ciò che si può migliorare per toccare corde sempre più profonde dell’animo umano.

Total look Grifoni

– Qual è il tuo personaggio di romanzo preferito?

Premetto che leggo principalmente filosofia, poesia e saggistica. Ho letto molta narrativa quando ero bambino e ragazzo e certamente mi ha fatto sognare. I romanzi che più mi hanno colpito sono quelli di avventura in paesi lontani e a tratti fantastici. Jules Verne mi ha rapito. Forse, però, oggi indico Robison Crusoe di Daniel Defoe. Un uomo che grazie all’ingegno, la volontà, la cultura è riuscito a sopravvivere e vivere con dignità combattendo contro la solitudine e i demoni della paura che si nascondono nelle profondità della nostra anima. Al personaggio di Robinson aggiungo eroi della mitologia greca a cui sono molto legato: Ulisse e Achille. Ragione, intuizione, ira, mente, fisico, creatività, potenza, amore sono spesso agli antipodi in questi due eroi mitologici ma combaciano nella loro grandezza d’animo. 

– Quale protagonista di un grande classico ti piacerebbe interpretare?

Il conte di Montecristo, Gatsby, Dorian Gray, Siddharta, Enea, Orfeo, Ettore… troppe sono le peculiarità che amo in ognuno di questi e troppe ne trovo in tanti altri. Il bello di questo mestiere è la metamorfosi

– Pensi ci sia un pregiudizio nel mondo del cinema, per chi arriva da altri settori?

Penso che ci siano pregiudizi enormi nella nostra società, a partire dall’aspetto fisico, alla provenienza territoriale, all’esperienza di vita, alle capacità particolarmente sviluppate. 

I social hanno appiattito la profondità culturale, anestetizzando attraverso vista e udito le menti critiche dell’essere umano. 
Credo sia importante rifondare un sistema critico basato su empatia, conoscenza, coscienza e tecnica.
Questo sia trampolino per coloro che valgono e dia loro la possibilità di suscitare emozioni e stimolare pensieri in coloro che partecipano portando la società ad un livello più elevato. Agli artisti è stato strappato l’onore e l’onere di essere traghettatori nella nostra epoca. Viviamo di pulsioni effimere che decadono e non conducono a niente.

– Come può aiutare il tuo mestiere nell’editoria, sul set? 

Per me è stato fondamentale per due aspetti principali: il primo è quello creativo. Grazie alla casa editrice ho potuto sperimentare sul campo, leggere, imparare da persone più grandi ed esperte di me.
Il secondo è quello espositivo: negli scorsi quindici anni ho avuto centinaia di occasioni per migliorare ed allenare la mia comunicazione e la mia capacità di espressione durante presentazioni e conferenze.
Ci sono grandi progetti in arrivo.
Non sarò mai sufficientemente grato a Giuliano Ladolfi.

– Qual è la tua caratteristica (di attore) principale?

La metamorfosi, ossia la trasformazione dell’aspetto esteriore e delle attitudini in cui mantengo inalterata la mia identità. 
Sono cresciuto in una famiglia con esempi molto distanti tra di loro. Grazie alla grande curiosità che ho coltivato sin da bambino, ho sempre cercato di raccogliere e sperimentare le diverse facce di coloro che mi accompagnavano nel percorso di crescita. Piccoli dettagli del corpo, della voce, dello sguardo, dell’abbigliamento, del modo di pensare, del rapporto interpersonale mi hanno plasmato attraverso un lato attivo e passivo, attraverso un’attività e la sua negazione.
Credo oggi di conoscere una importante pluralità di situazioni e personalità perché vi ho sempre posto molta attenzione. Non vedo l’ora di scoprirne altre affascinanti e di poterle un giorno metterle in pratica.

– Vedi questo come il tuo mestiere per la vita? 

Sì. Ma non solo. Il percorso mi sta portando sempre di più “dietro” la macchina da presa perché amo plasmare con gli altri artisti, gli altri esseri umani qualcosa di comune e meraviglioso. Credo nelle squadre, nel “tutto che è superiore alla somma delle parti”, nei giovani.
A questo aggiungo la musica, perché tra poco uscirò con il mio primo EP a cui ho lavorato con Francesco Arpino e di cui sono molto felice. La musica mi emoziona e mi sta insegnando a vivere in un modo diverso. E poi c’è il mistero, l’imponderabile… la magia.

– Cosa cambieresti delle dinamiche nel mondo del cinema italiano?

Non mi piace fare politica e nemmeno critica in questo senso. Domando solamente: siamo veramente in ascolto? Vogliamo veramente creare progetti di qualità che possano lasciare un messaggio importante?

Total look Dolce&Gabbana 

“Deep water”, storie vere di sadomasochismo

“Deep water”, guai a chiamarlo thriller erotico

È doveroso iniziare citando i numerosi commenti dei numerosi critici cinematografici che molto sanno sulle tecniche di ripresa e poco sull’erotismo.
Cito letteralmente – “Senso di delusione per la mancanza di scene di sesso.” – “Lyne non girava film da 20 anni, i suoi film erotici erano sempre eccitanti, ma qui il sesso è davvero insignificante.” – “Melinda più che un personaggio sembra un insieme di caratteristiche e resta uno stereotipo“.
Qualcuno addirittura arriva a dire “Melinda resta essenzialmente un incubo di castrazione per tutta la durata del film“.

Ebbene, chi ha espresso questi pareri dovrebbe limitarsi a esprimerli sui vari “Mary Poppins” e “La carica dei 101” di cui si saranno occupati finora anziché addentrarsi in scenari a loro ignoti e incomprensibili. Perchè “Deep water” (Acque profonde) film di Adrian Lyne del 2022, è un capolavoro dell’erotismo. Chi non lo comprende, fa probabilmente parte di quel 99% della popolazione che vive una sessualità mediocre. Cioè assente.


Categorizzare “Deep water” come thriller erotico è limitativo. Il film, come tutti quelli di Adrian Lyne inzialmente sottovalutati, è un esame attento e chirurgico sulla sessualità e le sue dinamiche all’interno della coppia.
Qui Lyne ci descrive una donna, la femme fatale che ammalia perchè disturbata (Hitchcock ce lo insegna in “Vertigo” che le nevrosi si fanno seducenti), Melinda, libera (gira nuda in casa anche in presenza della babysitter), frivola e leggera (beve e balla senza curarsi dei giudizi altrui), e ipersessuata (tradisce il marito e seduce in maniera reiterata).

Ma cosa rende particolare questi tradimenti? Non sono taciuti.
Melinda prova eccitazione solo nella gelosia, sia essa indotta che passiva. Lo capiamo quando invita i suoi amanti alle feste in casa di amici di Vic, il marito, che lo intimano ad essere più riservati e discreti, e quando balla con il terzo incomodo sotto i suoi occhi.
Ma quello di Vic, che la osserva “affascinato” (di una fascinazione luciferina), è uno sguardo ambiguo, che parla di una complicità sofferta, dove la rabbia cova e l’eccitazione sale. Capiamo sin da questa prima scena della festa, che siamo di fronte ad una relazione sadomasochistica.
Il regista, per i più gnucchi, regala anche una postilla, la scena in cui Vic, prima dell’uscita, entra nella camera della moglie (dormono separati, sappiamo quindi che stanno attraversando una crisi coniugale) che lo prega di non guardare il disordine (della stanza? dentro se stessa?), ma di “guardare lei” (narcisismo tipico dei nevrotici) e scegliere l’abito per la festa, insieme alle scarpe che vediamo accompagnate dalle mani di Vic in ginocchio, in una sorta di atto da schiavo devoto, un Severin diVenere in pelliccia“.



Se nella quotidianità e nella noia della routine Melinda non si concede, pur provocando Vic con l’espressività di tutto il suo corpo, ecco che si riaccende quando vede il marito ballare con un’altra, proprio lui che odia stare al centro dell’attenzione, proprio lui che viene incolpato per apatia e mancanza di sentimento e passione. Lo vediamo quando in auto, di rientro verso casa, gli regala una fellatio mentre lo mordicchia in un misto di rabbia, gelosia e piacere.

Un equilibrio disequilibrato, faticoso e pericolosissimo, che però tiene viva la coppia e che fa credere a Melinda, insicura della sua intelligenza, (più volte lei dirà “odio quando sei convinto di essere più intelligente di me“) e terrorizzata all’idea di diventare una donna noiosa (“Se tu stessi con la maggior parte delle donne lì fuori, ti saresti già ammazzato per la noia”) di avere il coltello dalla parte del manico. Un legame a doppia mandata che segue il gioco del gatto e della volpe, ma dove prima o poi qualcuno si fa male.

Non è difficile capire chi, Lyne ce lo svela quasi subito, quando Vic, per spaventare il nuovo amichetto della moglie invitato a casa loro per cena, gli confessa in un ghigno di aver ammazzato l’ex amico di Melinda. E’ in quella sua serafica espressione che percepiamo un certo godimento.

La nevrosi sessuale di Melinda si riassume nella pellicola con una sequenza di atti voyeuristici, Vic spia la moglie mentre flirta in casa sua con il nuovo insegnante di pianoforte o con lo stupido biondo dall’aria da surfista; quando rientra ubriaca in casa il mattino seguente dopo aver passato la notte fuori, quando incontra un nuovo conoscente mentre passeggia noncurante per le strade della città.
E ci mostra soprattutto l’ossessione di Vic nei confronti di Melinda, tra le fotografie che ha scattato durante gli anni della loro lunga relazione: un autoreggente caduto sulle scale di casa, le sue gambe in movimento, calici di vino sulla tavola, il ritratto da sposa, lei distesa sul letto; immagini che lasciano intendere ed immaginare. L’autoreggente è stato sfilato dall’amante o la coppia si era ritrovata su quelle scale a far l’amore? Quei calici portano il segno di quali bocche? Melinda riposa nuda dopo essersi concessa a chi?

C’è tutta la tensione di un erotismo suggerito eppure devastante ed aggressivo come l’ossessione e la malattia. Ferisco per essere amato, scappo per essere preso, se non è erotismo questo, consiglio ai signori critici di fare qualche ripassino, partendo da “Venere in pelliccia” di von Sacher-Masoch; “Les liaisons dangereuses” di de Laclos e La mia droga si chiama Julie (La Sirène du Mississipi) di François Truffaut. Ma è sempre vera la teoria che consta il poter comprendere un’emozione solo quando la si è vissuta, per questo vi auguro di diventare dei nevrotici erotomani.



Ma il colpo da campione ci arriva solo alla fine del film, quando Melinda trova il portafoglio di uno dei suoi numerosi amanti nella stanza dove Vic alleva lumache, scoprendo quindi che è stato il marito ad uccidere Tony, l’ultimo amante.
Vic rientra in bici dopo aver occultato il cadavere in un fiume, lei lo attende fuori casa. Si scambiano un lungo sguardo. E poi il silenzio.

Che c’è?
Niente” (sulle labbra di Melinda una leggere soddisfazione, la stessa che scopriamo in Vic attraverso lo specchietto retrovisore quando aveva ucciso Tony).
Melinda, prima di lasciare la scena ed entrare in casa, incalza:
Ho visto Tony” – (e qui il regista ci mostra la donna mentre brucia le fototessera e i documenti dell’amante ammazzato.)

Cosa vuole dirci? Che lei, anziché lasciarlo come avevamo dedotto dalle valigie pronte, decide di restare, resta nella violenza (profondamente, la desiderava da tempo, la istigava nei comportamenti e nelle coatte accuse a Vic di passività), sceglie, ancora una volta, la complicità malata, che pare essere l’unica a farla sentire viva.

Acque profonde (Deep Water) film del 2022 diretto da Adrian Lyne



(foto Pinterest)

Cà Rugate, il vino che nasce dalla cura

Ci sono due modi per far andar bene le cose: con la disciplina, e con l’ossessione.
Ed il primo modo è l’elaborazione del secondo, per cui sono destinati a viaggiare a braccetto.
Per Cà Rugate, azienda agricola che si trova a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, questo è il timbro di famiglia, un albero genealogico antico cento anni e che culla ben quattro generazioni.

A suggello di radici profonde e radicate, come quelle delle piante che amano e coltivano, Cà Rugate ha quale simbolo una casa, il luogo dove tutto ha avuto inizio e dove l’identità della famiglia e dell’azienda hanno preso forma.

750.000 bottiglie per gli oltre 90 ettari tra Soave Classico, Valpolicella e Lessini Durello, dove si coltivano varietà autoctone come Garganega, Trebbiano di Soave e Durella per i bianchi, Corvina, Rondinella e Corvinone per i rossi, ed un percorso importante di agricoltura biologica, salute per la vigna e soprattutto per il consumatore finale.
All’interno dei vigneti ad esempio, si è rivelato strategico l’inserimento di boschetti naturali: offrono rifugio e habitat a insetti utili che, in modo naturale, agiscono come antagonisti dei parassiti indesiderati. Un equilibrio biologico che contribuisce alla salute della vigna.


Museo del Vino – Fattoria Didattica della Regione Veneto – Fattoria Sociale

Il 50% del mercato di Cà Rugate è internazionale, esportando i propri vini in ben 45 paesi, ma l’azienda continua ad investire e credere fortemente nell’enoturismo come motore culturale: il consumatore vuole emozionarsi, essere coinvolto, vivere il vino.

Tutto, dal paesaggio, all’accoglienza in Cà Rugate, partecipa a questa narrazione immersiva, in uno scenario che ospita la Fattoria Didattica della Regione Veneto, con percorsi per istituti scolastici; una Fattoria Sociale, sede di un parco faunistico di oltre 3.000 mq. per la valorizzazione del turismo inclusivo e laboratori creativi per persone con emotività diverse; ed un bellissimo Museo del Vino, sito di interesse regionale dove è stata fedelmente riprodotta l’abitazione di un contadino inizi ‘900, gli attrezzi del mestiere (oltre 150 strumenti), la radio che manda le notizie dell’epoca, la tavola apparecchiata con tovaglia a quadri rossa e bianca e l’immancabile fiasco di vino, un tempo succedaneo alimentare, vera fonte di sostentamento nei momenti di scarsità.
Le foto della famiglia Tessari appese al muro, ricordano la fatica e il duro impegno di chi tutti i giorni combatte con qualcosa che non può controllare: natura e tempo. E allora inizia ad imparare che le cose buone vanno attese, come il buon vino.

Museo del Vino

La Storia del Vin Santo di Brognoligo
Tradizione, cultura e identità di un territori
o

Nel cuore di Brognoligo, piccola frazione di Monteforte d’Alpone — il comune più vitato d’Italia — nasce una delle espressioni più autentiche della viticoltura veneta: il Vin Santo. Una tradizione profondamente radicata, tramandata di padre in figlio, che affonda le sue origini nel tardo Settecento, quando la scarsità di uva spinse le famiglie locali a produrre un vino dolce, raro e prezioso.

Prodotto inizialmente per uso medicamentoso e come moneta di scambio, il Vin Santo veniva offerto alle puerpere per rafforzarsi e utilizzato dai fittavoli come dono al proprietario terriero durante il rinnovo dei contratti agrari. Il suo valore simbolico e sociale era altissimo, e ancora oggi è celebrato con fierezza durante la Sagra del Vin Santo, giunta alla 73ª edizione, che si tiene ogni anno la prima domenica di giugno.

Solo cinque famiglie a Brognoligo lo producono ancora, e Cà Rugate non poteva che distinguersi con un metodo rigoroso: vendemmia solo nelle annate eccezionali. Anzitutto vengono appassite le uve nei picai, si vinifica a dicembre, e il vino viene lasciato in botti di rovere sigillate per sette anni senza interventi; ogni barrique è un racconto a sé, chiusa con mosaico e datata – una vera cassaforte gioiello – fino a ottenere una tiratura limitatissima: circa 300 bottiglie da 375 ml per annata.

E poiché la cultura va scritta, tramandata e celebrata, Cà Rugate ha curato tre pubblicazioni sulla storia del Vin Santo, sul Museo di Cà Rugate e su Fulvio Beo Tessari, figura chiave dell’azienda.

Barricaia



Fulvio Beo Metodo Classico

L’espressione del metodo classico firmato Cà Rugate è tutt’altro che convenzionale: si distingue per una notevole acidità, una tensione vibrante e un carattere soave. Esplorando tutto il potenziale della Garganega, vitigno iconico del territorio, e interpretandolo in una veste diversa come base spumante, si ottiene un metodo classico non canonico che nasce da una scelta coraggiosa ed eclettica.

Fulvio Beo Metodo Classico è una bollicina dedicata al padre storico di Cà Rugate, in occasione del suo centenario e celebrato nel 2015; è una Garganega spumantizzata, affinata 24 mesi sui lieviti e proposta in versione extra brut: una cuvée elegante, pensata per raccontare la longevità e la versatilità del vitigno.

San Michele Soave Classico

Accanto a questa etichetta speciale, resta immancabile il grande classico: il San Michele. Un Soave classico, garganega in purezza, vinificato in acciaio, fresco, armonico e perfetto per l’aperitivo. È il vino bandiera di Cà Rugate, esportato in oltre 45 paesi nel mondo, che ha contribuito in maniera decisiva a farne conoscere il nome a livello internazionale.


Il tempo, la cura e il rispetto della materia

Il metodo classico richiede pazienza. E passione. Al dodicesimo mese, mentre i lieviti continuano il loro lavoro silenzioso trasformando zuccheri in bollicine attraverso la fermentazione in bottiglia, il processo che ogni bottiglia segue è totalmente manuale, posizionate, spostate e monitorata a mano, perchè ogni gesto è parte di un rituale collettivo che richiede dedizione e precisione.

In cantina, il tempo è una variabile fondamentale. La geometria delle file, l’ordine, la pulizia visiva e strutturale – tutto a Cà Rugate viene fatto con rigore, non per estetica, ma per convinzione, perchè la precisione è forma di rispetto.
Il loro motto è: “La cura è il principio dell’esistere”: prendersi cura significa riconoscere valore, restituire senso, dare dignità anche alle cose. Qui ogni bottiglia ne è testimone.



Amarone – La forza dell’altitudine

Accanto alle bottiglie, anche le botti raccontano un altro volto del tempo. Amarone, Valpolicella, Recioto e Passito riposano in grandi botti di rovere austriaco da 20 ettolitri. Le botti sono firmate da Franz Stockinger, un maestro bottaio austriaco riconosciuto per la qualità e l’affidabilità delle sue creazioni, botti piegate a vapore e non a fuoco, per evitare la dispersione tipica del legno “affumicato” e lasciare che il vitigno esprima al meglio il frutto e la sua tipicità.
Il legno in questi casi, quando il tempo in cui liquido e contenitore sono a stretto contatto, diviene interlocutore vivo del vino, lo accompagna nell’evoluzione, ne scolpisce l’anima.

Esempio d’eccellenza è il Cima Caponiera, un Amarone della Valpolicella Classico Riserva Docg che riposa per cca 4 anni, i cui 600 metri di altitudine della vigna giocano un ruolo essenziale, accentuando sapidità, eleganza, linearità, e una complessità di beva che sprigiona tutti i richiami dell’uva appassita. Mora, ribes e ciliegia, sentori speziati, un vino evocativo e coerente, un vero e proprio lieu-dit, come direbbero in Borgogna.

Ogni cru di Cà Rugate è segnalato da un cippo evocativo in pietra, dove vengono incisi nome e altitudine del vigneto, ispirandosi ai modelli francesi. È un gesto simbolico, ma potente: valorizza il territorio, l’identità del cru, e conferisce ulteriore prestigio alla denominazione della Valpolicella.

Matteo Calcagno vince la “PiùCinque Competition 2025”

MATTEO CALCAGNO È IL NUOVO “LOCAL TRADITION BARTENDER OF THE YEAR”

Poco tempo fa durante un talk mi è stato chiesto “cosa manca alle aziende che si occupano di beverage, in fatto di comunicazione“. Se avessi vissuto prima l’esperienza alla “PiùCInque Competition“, avrei risposto più esaustivamente. Perchè qui ho trovato ciò che molto spesso manca alle aziende, l’umanità.

PiùCinque di fatto non è solo un gin, ma una famiglia formata da persone che lavorano e si impegnano in maniera corale per un progetto in cui credono fervidamente, dove non c’è solo la volontà di far star bene il cliente finale, ma l’intera filiera che ogni giorno elabora progetti, si ingegna per crescere e insieme (forse a loro insaputa), seminano altri seguaci e sostenitori.

La PiùCinque Competition, alla stessa stregua, non si pone come unico obiettivo quello di eleggere un vincitore, piuttosto risulta un escamotage per fare squadra, per rivedere amici, per ridere insieme, per imparare, per sostenersi.
Per questo motivo ogni finalista è accompagnato da un tutor, che li sostiene, li consiglia, li supporta in quella che ogni tanto fa tremar la voce e le mani, una gara dove ad emergere non è solo il cocktail, ma la personalità del bartender, le sue radici, le fragilità, gli affetti, la memoria.

E quale migliore luogo se non il mare, per accogliere un evento così carico di energia e buoni propositi?
Il mare di Senigallia fa da sfondo alla finale dove Matteo Calcagno, Christian Costantino, Federica Di Lella, Daniele De Angelis e Asia Abballe hanno raccontato la loro storia in un bicchiere.

I finalisti



GIURIA TECNICA 2025

A giudicare i 5 finalisti, una giuria tecnica di cui faccio parte e che mi permette di ringraziare il team PiùCinque per questa esperienza speciale, esempio per chi vuole tornare ad una comunicazione fatta di persone e non solo di numeri.
Nel dettaglio:

LUCA BRUNI (Presidente di giuria)
Tra i volti più premiati della miscelazione italiana, è vincitore di titoli come Altos Bartender dell’Anno ai Barawards, Best Bartender Under 35 ai Food & Wine Italia Awards, e campione italiano e globale di World Class 2024. Conquista anche la scena narrativa, vincendo la finale italiana di The Vero Bartender by Amaro Montenegro.
Giudice tecnico e severo, Luca Bruni ha messo il pepe alla gara con richieste “out of the box“.

GIULIA CASTELLUCCI (Rem Trastevere, Dude Pigneto, Led Dragon – Roma)
Imprenditrice e bar manager, guida progetti di successo nella capitale ed è volto televisivo Gambero Rosso / La7.
Esperienza davanti e dietro il bancone, Giulia è stata lo spirito empatico della giuria, sottolineando che un professionista deve sì essere preparato, ma senza mai dimenticare che dietro quella station ci sono uomini e donne che stanno lavorando anche sulle proprie emotività.

MIRIAM DE NICOLÒ
Fondatore e Direttore di SNOB Magazine, Marketing Director, sommelier AIS, Formatrice in Art Direction ed Editoria.
La mia è volutamente stata una visione da “cliente”, perchè alla fine è il cliente che sceglie, il cliente che torna. E quando torna vuol dire che si è lavorato bene.
Convinta che gli italiani siano i numeri uno in fatto di ospitalità, sono felice di aver ascoltato storie di nonne e madeleine proustiane, che mi hanno permesso di fare un viaggio nelle terre di questi ragazzi così pieni di sogni e speranze, nella Sicilia più vera e nei riti scaramantici del Sud Italia, tutto nel sorso di un bicchiere.

GIUSEPPE CAMUNCOLI
Fumettista Marvel/DC (Batman, Spider-Man, Darth Vader), co-fondatore di Foodmetti, festival che unisce fumetto e F&B.
La conoscenza di chi oltre, ai cocktail, ama la compagnia più vera, quella fatta ancora di “Come stai” “Ci vediamo per un drink?

PAOLO GORI
Chef della storica Trattoria Da Burde (Firenze), custode della cucina popolare toscana e sostenitore delle filiere locali.
Poche parole, molta conoscenza. Uno chef che riconosce nella mixology, una cucina liquida.

La Giuria

TUTOR

Nella grande community, i tutor che hanno animato la due giorni tra le colline di Mondavio, in una serata distensiva pre-gara che ha aiutato a stemperare le tensioni e a radicare amicizie e conoscenze:
Umberto Oliva (Bartender e Consulente freelance), l’anima della festa e simpatizzante di tutti i concorrenti; Francesco Bonazzi (Farmily Group — Milano), che si è cimentato in un’apparizione déshabillé come spalla di Calcagno; Antonio Tittoni (Depero — Rieti) con Costantino; Nicolas Di Maria (Move On — Firenze), tutor di De Angelis; Leonardo Scorza (Serre Torrigiani — Firenze), braccio di Asia Abballe del MAG La Pusterla, ed in primis Giorgio Lupi, ideatore, voce, animatore, moderatore, leader e trascinatore di questa grande festa, inflessibile e rigoroso durante la gara, ma capace di dosare grande generosità nei momenti conviviali. Giorgio Lupi è il Brand Development Manager PiùCinque.

Finalisti e Tutor

LA FINALE

A giocarsi la finale Matteo Calcagno (Cogo. Drink Food & Burger — Cogoleto GE) con il drink manifesto “Essenza Genovese”, uno scrigno di rosa e tradizioni della Valle Scrivia; e Christian Costantino (Marina del Nettuno Lounge Bar — Messina) con “Briscola in Cinque (E PIÙ)“, tutta la grinta e la simpatia dell’Isola dei mori; una Speed Challenge con 5 classici eseguiti in sequenza (di cui uno alla cieca) e una Mystery Box con foglie di olivo, fico, pomodoro, alloro, finocchietto e rosmarino da utilizzare tutti in miscelazione o come garnish.

Matteo Calcagno ha convinto tutti con “Adamo ed Eva +3”, un cocktail che racchiude un ingrediente preso dalle preparazioni dei 3 finalisti non più in gara, aggiudicandosi il titolo di LOCAL TRADITION BARTENDER OF THE YEAR 2025. Calcagno volerà ora per una guest night internazionale, a scelta tra New York, Dubai o Hong Kong, omaggiati da Gin PiùCinque.

Il risultato è un cordiale ricco e stratificato, vegetale e intenso, che accoglie foglie, erbe, spezie e note inedite con base Gin PiùCinque, accompagnato da succo di lime e un olio extravergine d’oliva infuso con polvere di rosmarino e rametto d’olivo bruciato. Tocco finale, una soda alle foglie di alloro e basilico, per chiudere con un accento erbaceo e luminoso, l’unione di tutte le regioni della nostra amata Penisola.

PiùCinque segna quest’anno un’ulteriore punto a favore dell’ospitalità, la Competition è un segnale forte che vuole ricordarci l’importanza di un mestiere volto a farci star bene, a far sorridere chi entra in un bar perchè ha avuto una giornata storta, a regalarci una parola gentile, un consiglio a tornare ai contatti umani, al ritrovarsi intorno a un tavolo per chiacchierare. Il drink è da accompagnamento, che ora si fa eccelso, si imbelletta, si veste a festa, vero, ma quel che conta non è solo il suo contenuto, ma quel che ci sta intorno.


Matteo Calcagno, il vincitore