Non chiamiamoli delitti passionali

Ripensavo ad un modo tutto giornalistico di definire alle volte nella maniera peggiore le cose. Li chiamano “delitti passionali” – omicidi, per altro spesso eseguiti con una violenza tremenda, nell’ambito di relazioni (finite) di natura sentimentale (nel senso che la natura sentimentale, se c’era, c’era prima). È bene chiarirlo, per non offendere la parola “passione”, per non toccare nemmeno marginalmente i tanti che vivono una relazione autentica, che in sé ha anche momenti “non gradevoli” ma nondimeno hanno altre strade solutive, e per non offendere l’autenticità dei sentimenti. Solo delitti, efferati. Che non hanno nulla di passionale. Se non cominciamo a declinare certe cose per ciò che sono, rischiamo di tornare molto indietro, anche se solo di pochi decenni. Ve lo ricordate? Si chiamava “delitto d’onore” e quando fu abrogato io avevo sei anni! Per chi era assente, o ha scarsa memoria, facciamo un riassunto.


In Italia, sino a pochi decenni fa, la commissione di un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (ad esempio l’uccisione della coniuge adultera o dell’amante di questa o di entrambi) era sanzionata con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, poiché si riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” valeva di gravissima provocazione, e la riparazione dell’onore non causava riprovazione sociale. L’art. 587 del codice penale consentiva quindi che fosse ridotta la pena per chi uccidesse la moglie (o il marito, nel caso ad esser tradita fosse stata la donna), la figlia o la sorella al fine di difendere “l’onor suo o della famiglia”. La circostanza prevista richiedeva che vi fosse uno stato d’ira (che veniva in pratica sempre presunto). La ragione della diminuente doveva reperirsi in una “illegittima relazione carnale” che coinvolgesse una delle donne della famiglia; di questa si dava per acquisito, come si è letto, che costituisse offesa all’onore. Anche l’altro protagonista della illegittima relazione poteva dunque essere ucciso contro egual sanzione.


Dopo il referendum sul divorzio (1974), a dopo la riforma del diritto di famiglia (legge 151/1975), dopo il referendum sull’aborto, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate con la legge n. 442 del 5 agosto 1981. Il punto è che dietro ad una facile (perché no, anche efficace) definizione giornalistica, è facile far passare anche la semplice percezione di un’idea di attenuante – laddove dovrebbe più civilmente essere considerata invece un’aggravante. Il luogo – la relazione affettiva – lo stato comunque di affidamento e di conoscenza dell’altro, il ricordo, il sentimento che c’era stato, i ricordi condivisi, invece di essere comunque un patrimonio su cui semmai costruire qualcos’altro, vengono usati per compiere un delitto. Poco vale – per quanto grave e serio – che molti psicologi stiano esaminando questa straordinaria escalation di delitti di questo genere anche sulla base di un quadro che rende precario tutto nella vita delle persone.


Laddove prima almeno alcuni punti fermi restavano, anche alla fine di una relazione, oggi “la persona” è circondata da momenti e ambiti di precarietà – che di certo affievoliscono le barriere inibitorie, accentuano l’esigenza di auto-salvaguardia, e creano una percezione anche del dolore della fine della relazione affettiva anche “oltre” la sua reale dimensione. Certo tutto questo è vero, crudamente reale, e oggettivamente percepito da tutti noi, ma guai a far passare, anche attraverso una semplice circumlocuzione verbale un’accezione anche solo percettivamente attenuante. Ed in questo – ancora una volta – chi fa informazione, non può sentirsi privo di responsabilità e autoassolversi, perché esercitare una professione deve significare assumersi il peso di una scelta, e non cercarne l’attenuante.