Perché gli studenti italiani hanno smesso di credere nei propri studi?

Ahi, serva Italia, direbbe Dante.

Intenso è il dibattito che divide l’Italia in questi ultimi giorni e che vede la crisi delle istituzioni scolastiche e del loro insegnamento.
È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana“, scrivono 600 docenti universitari in una lettera al Presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità.
A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi. Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti. Dobbiamo dunque porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti“.

In sostegno di ciò, ecco le proposte d’intervento dei docenti universitari:
– una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base
– l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano
– l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico

Perché, però, gli studenti italiani hanno smesso di credere nei propri studi?

La risposta risiede in una mancata partecipazione emotiva che dovrebbe essere alimentata dai docenti italiani durante il periodo adolescenziale.
L’istituzione scolastica, sempre più in crisi, non riesce a comunicare se non con rigide soluzioni accademiche che spingono i nuovi studenti a non credere nei propri obiettivi e a rifugiarsi, invece, in un’accettazione apparente di sé data da piattaforme sociali sul web.
Il non-riconoscersi non può essere più colmato attraverso l’intervento diretto della cultura ormai relegato a statici modelli accademici, trova spazio così nei momenti d’aggregazione sempre più virtuali.
Basti pensare a quanti dibattiti avvengano ogni giorno in un gruppo Whatsapp con il solo intermediario dell’apparecchio telefonico, a quante riflessioni condivise sul proprio profilo Facebook con il solo intento di suscitare un confronto e non sentirsi mai soli e lontani rispetto al sistema dei like, delle views, delle condivisioni.
Interessante è ancora il livello di interazione con l’altro.
Gli studenti italiani non hanno smesso di voler raccontare di sé, che sia a un milione di follower su Youtube (basti vedere il caso di Sofia Viscardi) o attraverso delle immagini postate su Instagram.
Perché hanno smesso, però, di raccontarsi in un tema durante le ore di Italiano?
Perché hanno smesso di costruire la propria identità attraverso gli studi che hanno deciso di intraprendere?
Non è forse un rifiuto nei confronti di un sistema che non incentiva i loro sogni, le loro capacità e le loro speranze?
Ecco cosa manca loro nell’era della solitudine social, ecco cosa manca loro durante le ore scolastiche: l’ascolto.
Una canzone diceva: “i professori non chiedevano mai se eravamo felici“.

Dopo il bambino autistico, gita negata a un’altra ragazzina disabile

La scuola è il primo luogo di socializzazione, dove si impara il rispetto reciproco, la collaborazione, la lealtà, la vita insieme a una comunità di individui tutti diversi. Stupisce allora aver scoperto, in questi giorni, casi di gravi discriminazioni avvenute all’interno della scuola e a volte, sembra, anche giustificate dalla stessa. Pochi giorni fa la storia di Giulio ha scosso e turbato tutta Italia. Al bambino autistico la gita è stata preclusa prima ancora di parlarne: né Giulio né la sua famiglia sono stati avvisati della gita organizzata per la sua classe, una terza media di Livorno. Così il ragazzino è arrivato a scuola e ha trovato l’aula vuota. Niente compagni e niente professori: tutti in gita, tranne lui. L’amarezza dei genitori e il dispiacere di Giulio, espressi in un post su facebook, hanno fatto scoppiare un caso. Uomini, donne, ragazzi si sono fatti ritrarre con in mano il cartello “Io sono Giulio” per protestare contro l’ingiusta esclusione. L’istituto si difende, sostenendo che si sia trattato di un equivoco, «E’ stato sempre fatto tutto in accordo con la famiglia del bimbo». Ma la mamma si dice indignata. «La scuola ha deciso per me e per mio figlio ed è inammissibile – ha dichiarato – Mi hanno detto la mattina stessa che Giulio sarebbe stato da solo in classe perché i suoi compagni erano in gita».


Matteo Renzi ha espresso la sua solidarietà a Giulio e alla sua famiglia in un tweet, ma purtroppo non sembra trattarsi di un caso isolato. Sull’onda dell’indignazione, il papà di Luigi da Isernia ha raccontato la sua storia: un altro ragazzino autistico a cui è stata negata la gita. «Ieri – ha detto – mia moglie ha portato Luigi a scuola trovando in classe solo l’insegnante di sostegno. Ha chiesto spiegazioni e ha appreso che gli altri erano in gita nella vicinissima Venafro per visitare alcuni luoghi di interesse storico e che noi, la famiglia di Luigi, non eravamo stati avvisati. Questo fa molto male. Parlo da genitore, da uomo e a nome di mio figlio che, purtroppo, non può esprimere le sue emozioni. Se ho deciso di raccontarlo è perché voglio che non accada più in futuro, né a mio figlio né agli altri».


Episodio simile per certi versi quello che ha colpito una ragazzina in una scuola media di Legnano, in provincia di Milano. Disabile ma autonoma (è negli scout e partecipa regolarmente alle gite in tenda), i compagni di classe hanno deciso per lei che non avrebbe partecipato alla gita in Austria. Nessuno voleva dormire con lei. Sarebbe stata «una responsabilità troppo grande», hanno letto i genitori sul gruppo di classe di whatsapp. Disperata, la mamma della ragazzina ha parlato con gli insegnanti e, non ottenendo risposta, si è rivolta anche al Miur. «Ancora non abbiamo avuto il coraggio di dare la notizia a nostra figlia» ha dichiarato la mamma. Questi casi hanno un elemento in comune: il concetto di disabilità come ostacolo insormontabile, per il ragazzo stesso e per chi lo circonda. Così è preferibile ferirne i sentimenti che parlare con i genitori, cercare insieme una soluzione, integrare il ragazzo e permettergli di vivere un’esperienza importante ed esaltante come quella della gita con i compagni di classe. Un comportamento che non è giustificabile o accettabile dall’istituzione che dovrebbe educare gli uomini di domani.