De Gasperi, Discorso alla Conferenza di pace di Parigi, 10 agosto 1946

Alcide De Gasperi si presenta alla conferenza di pace di Parigi, a un anno dalla fine della seconda guerra mondiale, da primo presidente del consiglio dopo il fascismo.
L’Italia è una paese duplice agli occhi del mondo. È un paese sconfitto dagli alleati, che fu tra i più fieri alleati di Hitler e del nazismo. Ma è anche un paese che in gran parte si è liberato da solo, con circa due anni di lotte partigiane: una seconda guerra mondiale nella seconda guerra mondiale. Non senza ferite laceranti che resteranno nella storia del nostro paese.
De Gasperi gode del rispetto personale dei leader presenti alla conferenza, e del prestigio che il mondo gli riconosce. Lui e gli altri ministri sono consapevoli che la solidità della situazione istituzionale Italia dipende anche e soprattutto dal risultato di questa conferenza di pace, per evitare che nuovi sentimenti revanscisti spingano ad estremismi di qualsiasi tipo in un paese a metà tra cattolici e comunisti sul confine mediano di un’Europa che si annuncia divisa e fragile.
Il peso sulle spalle di De Gasperi è enorme, ed è consapevole che questo sarà solo uno dei momenti topici che nei mesi successivi caricheranno su di lui e sul suo governo le fragili sorti dell’Italia.


De Gasperi nacque e si formò nell’allora Tirolo Italiano, ovvero Trentino, regione che all’epoca era parte dell’Impero austro-ungarico. Dopo la laurea entrò a far parte della redazione del giornale Il Trentino e in breve tempo assunse la carica di direttore, scrisse una serie di articoli con cui difendeva l’autonomia culturale del Trentino a fronte del Tirolo tedesco, ma non mise mai in discussione l’appartenenza di tutto il Tirolo all’Impero austro-ungarico.
Nelle elezioni del Parlamento austriaco del 13 e 20 giugno 1911 venne eletto tra le file dei Popolari: nel suo collegio elettorale di Fiemme-Fassa-Primiero-Civezzano, di 4275 elettori, ottenne ben 3116 voti. Il 27 aprile 1914 ottenne anche un seggio nella Dieta Tirolese di Innsbruck. Anche il suo impegno di Parlamentare fu legato alla difesa dell’autonomia delle popolazioni trentine. La sua attività propagandistica finì con l’essere tenacemente avversata dagli organi polizieschi in seguito al precipitare degli eventi internazionali: l’attentato di Sarajevo che determinò lo scoppio della prima guerra mondiale e soprattutto l’adesione dell’Italia allaTriplice intesa.
Inizialmente De Gasperi sperò che l’Italia entrasse in guerra a fianco dell’Austria-Ungheria e della Germania sulla base della Triplice alleanza.
Nel maggio 1918, quando ormai l’impero austro-ungarico stava crollando, fu tra i promotori di un documento comune sottoscritto dalle rappresentanze dei polacchi, dei cechi, degli slovacchi, dei rumeni, degli sloveni, dei croati e dei serbi. Il successivo 24 ottobre partecipò alla formazione del Fascio nazionale, comprendente popolari liberali trentini e liberali giuliani e adriatici.
Dopo il passaggio del Trentino all’Italia nel 1919, accettò e prese la cittadinanza italiana.


Nel 1919 aderì al Partito Popolare Italiano promosso da don Luigi Sturzo; solo nel 1921 venne eletto deputato a Roma, in quanto il Trentino fino a quell’epoca era stato sottoposto a regime commissariale.
Nel 1922 si sposa con Francesca Romani. Nello stesso anno il 16 novembre a seguito del discorso del bivacco votò la fiducia al governo Mussolini. Al tempo delle dimissioni di Don Sturzo da segretario del PPI De Gasperi era capogruppo alla Camera. Il 20 maggio 1924 assunse la segreteria del Partito popolare, carica che manterrà fino al 14 dicembre 1925.
Dopo l’iniziale sostegno del suo partito nella prima parte del governo Mussolini, tanto che nel 1923 i popolari cercarono inizialmente di trovare un compromesso sulla legge Acerbo, De Gasperi tenne un discorso alla Camera dei Deputati il 15 luglio 1923 esplicando il suo atteggiamento verso quella legge. Successivamente si oppose all’avvento del fascismo finché, isolato dal regime, fu arrestato alla stazione di Firenze l’11 marzo 1927, insieme alla moglie, mentre si stava recando in treno a Trieste. Al processo che seguì venne condannato a 4 anni di carcere e a una forte multa.
Dopo la scarcerazione, alla fine del luglio 1928, venne continuamente sorvegliato dalla polizia e dovette trascorrere un periodo di grandi difficoltà economiche e isolamento sia morale che politico. Senza un impiego stabile, provò a presentare domanda presso la Biblioteca Apostolica Vaticana nell’autunno 1928, contando sull’interessamento del vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, e di alcuni amici ex popolari. L’assunzione – come collaboratore soprannumerario – venne il 3 aprile 1929, dopo la firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929).
Nel 1942-43, durante la Seconda Guerra mondiale, compose, insieme ad altri, l’opuscolo Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana in cui esprimeva le idee alla base del futuro partito della Democrazia Cristiana di cui sarebbe stato cofondatore.
Una volta liberato il sud Italia a opera delle forze anglo-americane, entrò a far parte in rappresentanza della Democrazia Cristiana nel Comitato di Liberazione Nazionale. Durante il governo guidato da Ivanoe Bonomi fu ministro senza portafoglio, mentre dal dicembre del 1944 al dicembre del 1945 venne nominato ministro degli esteri.
Nel 1945 fu nominato presidente del Consiglio dei Ministri, l’ultimo del Regno d’Italia. Durante tale governo fu proclamata la Repubblica e perciò fu anche il primo capo di governo dell’Italia repubblicana, e guidò un governo di unità nazionale, che durò fino al 1947 quando il Presidente degli Stati Uniti Truman ordinò l’espulsione dei partiti socialcomunisti dai governi dell’Europa Occidentale.
Da ricordare che dall’esilio di Umberto II il 13 giugno del 1946, quando il consiglio dei ministri da lui presieduto aveva proceduto alla proclamazione della repubblica prima che la Corte di Cassazione ratificasse i risultati definitivi del referendum del 2 e 3 giugno, alla sua carica fu connessa la funzione accessoria di capo provvisorio dello Stato: in quelle ore si ebbe il drammatico scambio di battute con Falcone Lucifero, ministro della monarchia, in cui De Gasperi affermò: «O lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei». I poteri accessori della Presidenza del Consiglio ebbero termine contestualmente all’elezione di Enrico De Nicola come Capo provvisorio dello Stato il 28 giugno da parte dell’Assemblea Costituente.


Nel gennaio 1947 ebbe luogo la celebre missione di De Gasperi negli Stati Uniti, nel corso della quale lo statista conseguì un importante successo politico con l’ottenere dalle autorità americane un prestito eximbank di 100 milioni di dollari. L’apertura di un dialogo costruttivo tra i due paesi conferì a De Gasperi la motivazione e il sostegno necessari ad attuare l’ambizioso disegno di un nuovo governo senza le sinistre e con l’apporto di un gruppo di “tecnici” guidati da Luigi Einaudi. La formazione del quarto gabinetto De Gasperi contribuirà a ripristinare la credibilità dell’azione di governo, consentendo l’adozione della strategia antinflazionistica nota come “linea Einaudi”.
Nell’occasione fu il terzo italiano a essere onorato di una ticker-tape parade dalla città di New York, e sarà l’unico a ripeterne l’esperienza, nel 1951.


In un’Italia oberata dal ricordo di vent’anni di dittatura fascista e spaventosamente logorata dalla Seconda guerra mondiale, De Gasperi affrontò con dignità politica le trattative di pace con le nazioni vincitrici, che porteranno alla firma del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, riuscendo a confinare le inevitabili sanzioni principalmente all’ambito del disarmo militare (che con il tempo sarebbero state superate andando a decadere), ed evitando la perdita di territori di confine come l’Alto-Adige (riguardo il quale lo statista trentino firmerà anche il famoso Accordo De Gasperi-Gruber) e la Valle d’Aosta. Cercò inoltre di risolvere a vantaggio dell’Italia la questione della sovranità dell’Istria e di Trieste, ove però ebbe meno successo dovendo accettare la perdita della prima in favore della neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia guidata da Tito e l’istituzione delTerritorio libero di Trieste soggetto all’autorità anglo-americana nella seconda. Finanziò una rivista, Terza generazione, il cui scopo era di unire i giovani di là dai partiti e superare la divisione tra fascisti e antifascisti.


L’equilibrio del discorso qui riproposto sta nell’umiltà nel presentare ai vincitori le richieste per l’Italia e al contempo la dignità nel pretendere rispetto per un paese che ha combattuto il fascismo.
Una duplicità che tiene conto della contingenza storica, della verità storica, e della prospettiva di equilibrio in politica interna.
“Signori Delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. … vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.”



Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale
cortesia, è contro di me: e sopratutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare
come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro
conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno
spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?
Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del
mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche
come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che,
armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del
cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace
duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il
compito di stabilire.
Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in
quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente
duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione
internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita
del saio del penitente, nell’ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d’accordo nel proposito di
bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’art. 2 dello Statuto di
San Francisco) in base al « principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri», come è detto
allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente «l’integrità territoriale e
l’indipendenza politica», tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e
conforto. L’Italia avrebbe subito delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra
tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione
internazionale.
Si può credere che sia così?
Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio.
In un congresso di pace è estremamente antipatico parlar d’armi e di strumenti di guerra. Vi
devo accennare, tuttavia, perché nelle precauzioni prese dal trattato contro un presumibile
riaffacciarsi di un pericolo italiano si è andati tanto oltre da rendere precaria la nostra capacità
difensiva connessa con la nostra indipendenza. Mai, mai nella nostra storia moderna le porte di
casa furono così spalancate, mai le nostre possibilità di difesa così limitate. Ciò vale per la
frontiera orientale come per certe rettifiche dell’occidentale ispirate non certo ai criteri della
sicurezza collettiva. Né questa volta ci si fa balenare la speranza di Versailles, cioè il proposito
di un disarmo generale, del quale il disarmo dei vinti sarebbe solo un anticipo.
Ma in verità più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si rivela subito nel
preambolo. Il primo considerando riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritroverete tale
quale in tutti i trattati coi così detti ex-satelliti; ma nel secondo considerando che riguarda la
cobelligeranza voi troverete nel nostro un apprezzamento sfavorevole che cercherete invano
nei progetti per gli Stati ex-nemici. Esso suona: «considerando che sotto la pressione degli
avvenimenti militari, il regime fascista fu rovesciato…». Ora non v’ha dubbio che il
rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma
il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga
cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di immensi sacrifici, senza
l’intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l’abile azione clandestina degli
uomini dell’opposizione parlamentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi
rappresentanti) che spinsero al colpo di stato. Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2
agosto 1945 proclama: « l’Italia fu la prima delle Potenze dell’Asse a rompere con la Germania,
alla cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli Alleati nella
guerra contro il Giappone».
«L’Italia ha liberato se stessa dal regime fascista e sta facendo buoni progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche».
Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si
faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu protagonista? Forse che un
governo designato liberamente dal popolo, attraverso l’Assemblea Costituente della Repubblica,
merita meno considerazione sul terreno democratico? La stessa domanda può venir fatta circa
la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: « delle Forze armate italiane hanno
preso parte attiva alla guerra contro la Germania». Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina
da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del «Corpo Italiano di
Liberazione», trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e «last but not least» dei partigiani,
autori sopratutto dell’insurrezione del nord. Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima
e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza
contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti
caduti nella lotta partigiana.
Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi indietreggiarono
lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano
abbattuto.
Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill: «un uomo, un
uomo solo ha voluto questa guerra» e quanto fosse profetica la parola di Stimson, allora
Ministro americano della guerra: «la resa significa un atto di sfida ai tedeschi che avrebbe
cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze».
Ma è evidente che, come la prefazione di un libro, anche il preambolo è stato scritto dopo il
testo del Trattato, e così bisognava ridurre, attenuare il significato della partecipazione del
popolo italiano ed in genere della cobelliggeranza perché il preambolo potesse in qualche
maniera corrispondere agli articoli che seguono.
Infatti dei 78 articoli del trattato la più parte corrisponde ai due primi considerando, cioè alla
guerra fascista e alla resa: nessuno al considerando della cobelligeranza, la quale si ritiene già
compensata coll’appoggio promesso all’Italia per l’entrata nell’ONU; compenso garantito
anche a Stati che seguirono o poterono seguire molto più tardi l’esempio dell’Italia antifascista.
Il carattere punitivo del trattato risulta anche dalle clausole territoriali. E qui non posso negare
che la soluzione del problema di Trieste implicava difficoltà oggettive che non era facile
superare. Tuttavia anche questo problema è stato inficiato fin dall’inizio da una psicologia di
guerra, da un richiamo tenace ad un presunto diritto del primo occupante e dalla mancata
tregua fra le due parti più direttamente interessate.
Mi avete chiamato a Londra il 18 settembre 1945. Abbandonando la frontiera naturale delle
Alpi e per soddisfare alle aspirazioni etniche Jugoslave, proposi allora la linea che Wilson aveva
fatto propria quando, il 28 aprile 1919, nella Conferenza della Pace a Parigi invocava «una
decisione giusta ed equa, non già una decisione che eternasse la distinzione tra vincitori e
vinti».
Proponevamo inoltre che il problema economico della Venezia Giulia venisse risolto
internazionalizzando il porto di Trieste e creando una collaborazione col porto di Fiume e col
sistema ferroviario Danubio-Sava-Adriatico.
Era naturalmente inteso che si dovesse introdurre parità e reciprocità nel trattamento delle
minoranze, che Fiume riavesse lo status riconosciuto a Rapallo, che il carattere di Zara fosse
salvaguardato.
Il giorno dopo, Signori Ministri, avete deciso di cercare la linea etnica in modo che essa
lasciasse il minimo di abitanti sotto dominio straniero: a tale scopo disponeste la costituzione
di una Commissione d’inchiesta. La commissione lavorò nella Venezia Giulia per 28 giorni. Il
risultato dell’inchiesta fu tale che io stesso, chiamato a Parigi a dire il mio avviso il 3 maggio
1946, ne approvai, sia pure con alcune riserve, le conclusioni di massima. Ma i rappresentanti
iugoslavi insistettero, con argomenti di sapore punitivo, sul possesso totale della Venezia
Giulia e specie di Trieste. Cominciò allora l’affannosa ricerca del compromesso e, quando
lasciai Parigi, correva voce che gli Anglo-Americani, abbandonando le linee etniche, si
ritirassero su quella francese. Questa linea francese era già una linea politica di comodo, non
più una linea etnica nel senso delle decisioni di Londra, perché rimanevano nel territorio slavo
180.000 italiani e in quello italiano 59.000 slavi; sopratutto essa escludeva dall’Italia Pola e le
città minori della costa istriana occidentale ed implicava quindi per noi una perdita
insopportabile. Ma per quanto inaccettabile, essa era almeno una frontiera italo-jugoslava che
aggiudicava Trieste all’Italia. Ebbene, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso durante
il giugno, perché il 3 luglio il Consiglio dei Quattro rovesciasse le decisioni di Londra e facesse
della linea francese non più la frontiera fra Italia e Jugoslavia, ma quella di un cosiddetto
«Territorio libero di Trieste» con particolare statuto internazionale? Questo rovesciamento fu
per noi una amarissima sorpresa e provocò in Italia la più profonda reazione. Nessun sintomo,
nessun cenno poteva autorizzare gli autori del compromesso a ritenere che avremmo assunto
la benché minima corresponsabilità di una simile soluzione che incide nelle nostre carni e mutila
la nostra integrità nazionale. Appena avuto sentore di tale minaccia, il 30 giugno telegrafavo ai
Quattro Ministri degli Esteri la pressante preghiera di ascoltarmi dichiarando di volere
assecondare i loro sforzi per la pace, ma mettendoli in guardia contro espedienti che sarebbero
causa di nuovi conflitti. La soluzione internazionale, dicevo, com’è progettata, non è accettabile
e specialmente l’esclusione dell’Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita insopportabile
alla coscienza nazionale italiana.
La mia preghiera non ebbe risposta e venne messa agli atti. Oggi non posso che rinnovarla,
aggiungendo degli argomenti che non interessano solo la nostra nazione, ma voi tutti che siete
ansiosi della pace del mondo.
Il Territorio libero, come descritto dal progetto, avrebbe una estensione di 783 kmq. con
334.000 abitanti concentrati per 3/4 nella città capitale. La popolazione si comporrebbe,
secondo il censimento del 1921, di 266.000 italiani, 49.501 slavi, 18.000 altri. Lo Stato
sarebbe tributario della Jugoslavia e dell’Italia in misura eguale per la forza elettrica,
comunicherebbe col suo hinterland con tre ferrovie slave e una italiana. Le spese necessarie
per il bilancio ordinario sarebbero di 5 a 7 miliardi; il gettito massimo dei tributi potrebbe
toccare il miliardo. Trieste e il suo porto dall’Italia hanno avuto dal 1919 al 1938 larghissimi
contributi per opere pubbliche e le industrie triestine come i cantieri, le raffinerie, le fabbriche
di conserve, non solo sono sorte in seguito a facilitazioni, esenzioni fiscali, sussidi (anche le linee
di navigazione), ma sono vincolate tutte ai mercati italiani. Già ora il trattato proietta la sua
ombra sull’attività produttiva di Trieste perché non si crede alla vitalità della sistemazione e
alla sua efficienza economica. Come sarà possibile, obiettano i triestini, di mantenere l’ordine in
uno Stato non accetto né agli uni né agli altri, se oggi ancora gli Alleati, che pur vi mantengono
forze notevoli, non riescono a garantire la sicurezza personale?
Il problema interno è forse il più grave. Ogni gruppo etnico chiederebbe soccorso ai suoi e le
lotte si complicherebbero col sovrapporsi del problema sociale, particolarmente acuto e violento
in situazioni come quelle di un emporio commerciale e industriale. Come farà l’ONU ad
arbitrare e ad evitare che le lotte politiche interne assumano carattere internazionale?
Voi rinserrate nella fragile gabbia d’uno statuto i due contendenti con razioni scarse e copiosi
diritti politici e voi pretendete che non vengano alle mani e non chiamino in aiuto gli slavi,
schierati tutto all’intorno a 8 chilometri di distanza, e gl’italiani che tendono il braccio
attraverso un varco di due chilometri?
Ovvero pensate davvero di fare del porto di Trieste un emporio per l’Europa Centrale? Ma allora
il problema è economico e non politico. Ci vuole una compagnia, un’amministrazione
internazionale, non uno Stato; un’impresa con stabili basi finanziarie, non una combinazione
giuridica collocata sulle sabbie mobili della politica!
Per correre il rischio di tale non durevole espediente, voi avete dovuto aggiudicare l’81% del
territorio della Venezia Giulia agli iugoslavi (ed ancor essi se ne lagnano come di un tradimento
degli Alleati, e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del
nuovo Stato); avete dovuto far torto all’Italia rinnegando la linea etnica, avete abbandonato
alla Jugoslavia la zona di Parenzo-Pola, senza ricordare la Carta Atlantica che riconosce alle
popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali, anzi ne aggravate le
condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava che
opteranno per conservare la loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e
dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, le loro case, i loro averi, che più? i
loro beni potranno venir confiscati e liquidati, come appartenenti a cittadini italiani all’estero,
mentre l’italiano che accetterà la cittadinanza slava sarà esente da tale confisca.
L’effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione dal Territorio libero, 180.000 italiani
rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921) e che il totale
degli italiani esclusi dall’Italia calcolando quelli di Trieste, è di 446.000; né per queste
minoranze avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una
generosa revisione delle opzioni ed è già stato raggiunto un accordo su una ampia autonomia
regionale da sottoporsi alla Costituente.
A qual pro dunque ostinarsi in una soluzione che rischia di creare nuovi guai, a qual pro voi vi
chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani del’lstria — ho presente una sottoscrizione di Fola — che sono pronti a partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottoporsi al nuovo regime?
Lo so, bisogna fare la pace, bisogna superare la stasi, ma se avete rinviato d’un anno la
questione coloniale, non avendo trovato una soluzione adeguata, come non potreste fare
altrettanto per la questione giuliana? C’è sempre tempo per commettere un errore irreparabile.
Il trattato sta in piedi anche se rimangono aperte alcune clausole territoriali. È una pace
provvisoria: ma anche da Versailles a Cannes si dovette procedere per gradi. Altre questioni
rimangono aperte o sono risolte nel Trattato negativamente. Non posso ritenere, ad es., che i
nostri rapporti con la Germania si possano considerare definiti con l’art. 87 di codesto Trattato,
il quale impone all’Italia la rinuncia a qualsiasi reclamo, compresi i crediti contro la Germania e
i cittadini germanici fino alla data dell’8 maggio 1945, dopo cioè che l’Italia era in guerra con la
Germania da diciannove mesi.
I nostri tecnici calcolano a circa 700 miliardi di lire, cioè a circa 3 miliardi di dollari, la somma
che possiamo reclamare dalla Germania per il periodo della cobelligeranza; e noi ci dovremo
semplicemente rinunciare? Non può essere questo un provvedimento definitivo; bisognerà pur
riparlarne quando si farà la pace con la Germania: e allora non è questo un altro argomento
per provare che il completo assestamento d’Europa non può avvenire che dopo la pace con la
Germania? Stabiliamo le basi fondamentali del trattato; l’Italia accetterà di fare i sacrifici che può.
Mettiamoci poi a tavolino, noi e gli iugoslavi in prima linea, e cerchiamo un modo di vita, una
collaborazione, perché senza questo spirito le formule del trattato rimarranno vuote.
Non è a dire con ciò che per tutto il resto il trattato sia senz’altro accettabile.
Alcune clausole economiche sono durissime. Così per esempio l’art. 69 che concede ad ogni
Potenza Alleata od Associata il diritto di sequestrare, ritenere o liquidare tutti i beni italiani
all’estero, salvo restituire la eventuale quota eccedente i reclami delle Nazioni Unite.
L’applicazione generale di tale articolo avrebbe conseguenze insopportabili per la nostra
economia. Ci attendiamo che tali disposizioni vengano modificate sopratutto se — come non
dubito — si darà modo ai miei collaboratori di esprimersi a fondo su questo come su ogni altro
argomento, in seno alle competenti Commissioni. Così ancora all’art. 62 ci si impone una rinuncia
contraria al buon diritto e alle norme internazionali, la rinuncia cioè a qualsiasi credito
derivante dalle Convenzioni sul trattamento dei prigionieri.
Logica conseguenza della cobelligeranza è anche che a datare dal 13 ottobre 1943 lo spirito con
cui devono essere regolati i rapporti economici tra noi e gli Alleati sia diverso. Non si tratta più
di spese di occupazione, previste all’epoca dell’armistizio per un breve periodo, ma di spese di
guerra sul fronte italiano. Ad esse il Governo italiano vuole contribuire nei limiti delle sue
possibilità economiche, ma nei modi che di tale capacità tengano conto.
In quanto alle riparazioni, pur essendo disposti a sopportare sacrifici, dobbiamo escludere che
si facciano gravare sull’economia italiana oneri imprecisati e per un tempo indeterminato e nei
riguardi dei territori ceduti o liberati si dovrà tener conto degli enormi investimenti da noi fatti
per opere pubbliche per lo sviluppo culturale e materiale di tali paesi. Se : clausole del trattato ci
venissero imposte nella loro totalità e crudezza, noi, firmando, commetteremmo un falso perché
l’Italia, nel momento attuale, con una diminuzione dei salari reali di oltre il 50% e del reddito
nazionale di oltre il 45%, ha già visto ridurre la sua capacità di produzione fino al punto da non
poter acquistare all’estero le derrate alimentari e le materie prime. Ulteriori peggioramenti
provocherebbero il caos monetario, l’insolvenza e la perdita della nostra indipendenza
economica. A che ci gioverebbe allora essere ammessi ai benefici del Consiglio economico e
sociale dell’ONU?
Prendiamo atto con soddisfazione che nella Conferenza dei Quattro — seduta del 10 maggio —
la proposta di affidare all’Italia sotto forma di amministrazione fiduciaria le sue colonie ha
incontrato consensi. Confidiamo che tale assenso trovi pratica applicazione nel momento di deliberare.
In tale attesa, purché non si chiedano rinunce preventive, non facciamo obiezioni al
rinvio né al prolungamento dell’attuale regime di controllo militare in quei territori. Ma noi ci
attendiamo che l’amministrazione di quei territori durante l’anno di proroga sia, in conformità
della legge internazionale, affidata almeno per un’equa parte ai funzionari italiani, sia pure sotto
il controllo delle autorità occupanti. E facciamo viva istanza perché decine e decine di migliaia
di profughi dalla Libia, Eritrea e Somalia che vivono in condizioni angosciose in Italia o in campi di
concentramento della Rhodesia o nel Kenya possano ritornare alle loro sedi.
Circa le questioni militari, le nostre obiezioni potranno più propriamente essere esposte nella
Commissione rispettiva. Basti qui riaffermare che la flotta italiana, dopo essersi data tutta alla
cobelligeranza e aver operato in favore della causa comune per tre anni e fino a tutt’oggi sotto
propria bandiera agli ordini del Comando Supremo del Mediterraneo, non può oggi, per ovvie
ragioni morali e giuridiche, venir trattata come bottino di guerra. Ciò non esclude che nello
spirito degli accordi Cunningham-De Courten, essa contribuisca entro giustificati limiti a
restituzioni o compensi.


Signori Ministri, Signori Delegati
Per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero
dell’Italia sulle condizioni della sua pace, ed oggi ancora comparendo qui nella veste di ex nemico,
veste che non fu mai quella del popolo italiano, innanzi a Voi, affaticati dal lungo
travaglio o anelanti alla conclusione, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare
la parola, onde sia palese che siamo lungi dal voler intralciare ma intendiamo costruttivamente
favorire la vostra opera, in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.
Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri apparentemente contrastanti.
Da una parte egli deve esprimere l’ansia, il dolore, l’angosciosa preoccupazione per le
conseguenze del trattato, dall’altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel
superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.
Tale fede nutro io pure e tale fede sono venuti qui a proclamare con me i miei due autorevoli
colleghi, l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione
democratica dell’altro dopoguerra, il secondo Presidente dell’Assemblea Costituente Repubblicana,
vittima ieri dell’esilio e delle prigioni e animatore oggi di democrazia e di giustizia
sociale: entrambi interpreti di quell’Assemblea a cui spetterà di decidere se il trattato che
uscirà dai vostri lavori sarà tale da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza
correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano.


Signori Delegati,
grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini
della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano
non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella
pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni paese, che nella guerra hanno
combattuto e sofferto per una meta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con
una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella meta ideale, fate uno
sforzo tenace e generoso per raggiungerla.
È in questo quadro di una pace generale stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e
credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua
opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.