Poesia dell’assenza: Afelio di Ada Prisco

L’afelio, ci ricorda l’autrice nell’introduzione a questa raccolta poetica, è il «punto di massima distanza della terra dal sole nel suo moto ellittico di rivoluzione». È il “non sole”: con tutte le conseguenze di buio e di freddo che questa situazione comporta.

Assenza, dunque. Anzi “mancanza”, precisa l’autrice nel sottotitolo. Mancanza è assenza di ciò che dovrebbe esserci e non c’è. Mancanza di relazione, di condivisione, di solidarietà, di progettualità.

Ada scava dentro la sua (e nostra) quotidianità, per smascherarne le fragilità e le ipocrisie. Il paesaggio su cui il suo sguardo si posa è fatto di macerie: «Per ognuno e per ogni città le macerie sono dietro l’angolo». Le rovine delle città s’intrecciano con quelle dei cuori feriti («Il linguaggio puro, semplice, essenziale degli amanti / si muta in mucchio di brandelli fumanti»), con i ricordi dolorosi («Quando parti all’improvviso, / non ti soffermi su alcun sorriso»), con il senso di stanchezza che tutto avvolge e tutto deprime («Nel vero quotidiano / sono poche le carte in mano»).


In questa ottica anche i valori positivi vengono visti nel loro lento dissolversi. Emblematica in tal senso è la poesia Zappa: l’umile strumento stabilisce con l’agricoltore «un abituale rapporto gentile […] uno strumento / flauto dolce che annienta ogni intorpidimento»; ma, una volta abbandonata nella rimessa, «la ruggine ne oscura il metallo, / come la zoppia blocca il cavallo». E il silenzio, che gli spiriti riflessivi cercano, non è occasione di contemplazione serena e creativa, ma ha un sapore di morte, come quello dei cimiteri. Tutto, insomma, è illusione, «tutto appare senza peso», il rapporto con il mondo «evapora», la casa è vuota, la tavola inutile («Se sono via i commensali, / la tavola è come bici senza pedali. […] Certo, sarà più simile a una tomba»). La vita è un teatro e un gioco e, se è accompagnata da una colonna sonora, il suono è quello del fado, «musica nostalgica della terra di Portogallo». Tutto è vanità, direbbe la Bibbia; tutto è «limbo perenne», aggiunge l’autrice.


Valori positivi, si diceva. E cosa c’è di più positivo del futuro? Ma anche il domani appare come un tunnel oscuro: «non c’è più veduta in avanti, / si rimugina su ricordi pesanti», dice Ada in una poesia significativamente intitolata Il futuro quando c’era. Se Battiato cercava un centro di gravità permanente, Ada è consapevole di non riuscire a trovarlo.

L’autrice non si fa abbagliare dall’apparenza delle cose, ma cerca la profondità “nelle” cose. La sua analisi, asciutta e spietata, incide non solo nella carne viva della singola persona ma anche nel tessuto sociale, giungendo perfino all’invettiva contro coloro che commettono l’omicidio di comunità, affogando in un ottuso egoismo il «lavoro di anni, studi, cure, concordi percorsi e testimonianze, / sollecitudine, amorevole attenzione che ignora vacanze».

Il bilancio conclusivo non può essere che tragico: «Lo so adesso che ho un voto severo: / è solo e semplicemente “zero”».


Nella poetica di Ada Prisco riecheggiano i temi e i toni di Giacomo Leopardi. E, come nel Leopardi, anche in Ada si affacciano (timidamente?) delle piste di soluzione. Due in modo particolare. La prima è l’esperienza dell’amicizia, «vitale memoria e cura», la semplice carezza dell’amico. Anche l’intelletto e la conoscenza hanno un loro ruolo salvifico, ma sempre accompagnati dall’amicizia perseverante, da un amore che non sia possesso, da una testimonianza di semplice e coerente gratitudine («una sola parola è da salvare nella mente / non manchi il mio grazie, sinceramente»).

L’altra pista, più problematica, è l’esperienza religiosa. Nei versi di Afelio questa esperienza si affaccia ripetutamente, a volte in modo esplicito, altre volte con allusioni e rimandi. Sembra tuttavia che Ada abbia timore di pronunziare la parola “Dio” e le altre parole della tradizione religiosa: Padre, Gesù, Cristo, Signore. Parole, cioè, che indicano delle persone, non dei concetti ideali. Ada preferisce parlare di “Provvidenza”, che, appunto, è un vocabolo astratto, e lo fa con la solita amarezza: «Dove si credeva la mano della provvidenza, / c’era solo una truffa con evidenza»; «Forse che la Divina Provvidenza / nella solitudine indica la sapienza?».


Il lettore, allora, comprende che il grande assente è proprio lui, Dio. Ma l’assenza di Dio non è il rifiuto della religione: è il rifiuto di “una” religione, di un modo di essere (o di apparire) credenti. In Ada la ricerca estetica si intreccia con la passione per la verità, in costante dialogo con le istanze del nostro tempo, nel quale Dio sembra fuori dell’orizzonte. Ma Dio ritorna, non come l’immagine consegnata a un idolo, ma come dolore della verità e verità del dolore. Dio ritorna come la realtà dell’afelio, la trascendenza assoluta, colui che è al di là di ogni nostra possibilità di pensiero e di rappresentazione.

Nella creativa manifattura di questi versi si manifesta non un desiderio di fuga o d’isolamento, ma un bisogno di appartenenza più profonda alle cose e alla loro storia. Le coraggiose parole di Ada non sono gioielli per decorarsi, ma rocce su cui costruire architetture d’idee e di sensazioni. Con scorci imprevedibili si avverte lo sviluppo di pensieri e soprattutto di emozioni.


Al di là dei temi dominanti, si evidenziano alcuni elementi stilistici che strutturano queste poesie e le raccolgono in unità. Due, principalmente: l’uso della rima e la perdita del ritmo. Segno che le arterie che attraversano le poesie di Ada vorrebbero sfociare nell’armonia, ma questa, nell’umana condizione, può essere solo parziale. Non c’è ritmo, perché la vita non può essere compresa in un numero preciso di sillabe e di accenti. La rima, però, è in grado di farci sognare e forse percepire una nuvola di bellezza, un’onda acustica in cui le lacrime possono ancora brillare di speranza.