L’amicizia: una voce del medio evo

La teoria aristotelica costituisce la base anche della concezione dell’amicizia espressa da Tommaso d’Aquino. Ma forse Tommaso penetra ancora più a fondo nell’esperienza umana. Egli vede nell’amicizia il grado più elevato dell’amore: in essa, infatti, l’amore viene radicalizzato e assume delle sfumature qualitativamente altissime. Non basta, cioè, una concordanza di vedute o una convergenza d’interessi: è necessario che l’accordo amichevole sia fondato su una tensione e una volontà che cerca il bene dell’altro proprio perché tale, cioè dell’altro.


Questo amore, d’altra parte, deve essere scambievole. Non c’è amicizia in un rapporto unilaterale, per quanto generoso possa essere. Anzi, tale reciprocità è un incontro che modifica coloro che lo realizzano: non, quindi, una semplice somma di due amori, ma una sintesi nuova e più perfetta.


Altra caratteristica indispensabile dell’amore amichevole è la stabilità. Un affetto passeggero non può ancora essere considerato amicizia. Così pure la semplice simpatia si trasforma in amicizia soltanto se si espande in un rapporto di fedeltà, di perseveranza, di continuità. Di solito ciò è possibile quando la simpatia viene assunta in una coscienza riflessa e viene scelta positivamente.


L’amicizia, inoltre, proprio perché è un’esperienza interpersonale, non può restare al livello della semplice volontà o del sentimento interiore, ma è necessario che si espliciti in gesti manifestativi, che mostrano, concretizzano e costruiscono il rapporto.


L’amicizia culmina in un atteggiamento di mutua presenza. Si realizza, qui, un amore creativo, in forza del quale l’amico sente in sé la presenza dell’altro come qualcosa che faccia parte della sua vita e della sua stessa personalità.


Infine Tommaso s’interroga sul fondamento ontologico e sulla stessa condizione di possibilità del fenomeno dell’amicizia. Tale fondamento consiste in una certa affinità che si stabilisce tra due persone. Si tratta di un’affinità a due dimensioni: un’affinità di convenienza (parola da intendersi in senso etimologico, non in senso moralistico) in base alla quale esiste una convergenza di sentimenti, d’idee e di scelte; e un’affinità di differenza, in base alla quale nasce un’esigenza di mutua integrazione, una volta constatata la diversità. Dalla tensione e dal bilanciamento tra queste due energie nasce il rapporto amichevole.


L’amicizia, conclude Tommaso, è dunque buona, nel senso filosofico del termine: essa, cioè, corrisponde al fine dell’uomo ed è positivamente orientata verso il suo conseguimento. Non solo. Dal confronto con la beatitudine, sembra legittimo affermare che l’amicizia è l’esperienza più buona che la persona umana possa compiere, quella che è sommamente ordinata al suo fine: infatti essa esprime e, almeno parzialmente, anticipa nella sua struttura la stessa beatitudine.


A differenza del pagano Aristotele, il cristiano Tommaso (per giunta anche santo!) veniva illuminato e aiutato anche da una frase del Vangelo secondo Giovanni (15,15), una delle più belle sintesi di tutta la spiritualità cristiana. Racconta dunque il Vangelo che Gesù, la sera prima di essere ucciso, cenando per l’ultima volta con i suoi discepoli, disse loro: «Non vi chiamo più servi […], ma vi ho chiamato amici». L’ideale della fede ebraica si esprimeva con il concetto di servo; l’ideale cristiano, invece, si esprime non solo con quello di figlio, ma anche con quello di amico. E dunque la beatitudine, che è lo scopo di tutta l’esistenza umana e cosmica, trova nell’amicizia uno dei suoi simboli più alti e una reale anticipazione.

L’amicizia: le voci dell’antichità

L’amicizia è stata da secoli oggetto di riflessione da parte di pensatori e, naturalmente, educatori e ha costituito un notevole capitolo dell’etica. Di solito è stata considerata come un dato esperienziale ricco di vitalità e di significato.


Così, ad esempio, si esprime Cicerone:


«Godo a tal punto del ricordo della nostra amicizia da sembrarmi di essere stato felice solo per il fatto di essere vissuto con Scipione [si tratta di Scipione Emiliano, scomparso da poco]. Insieme abbiamo avuto lo stesso interesse per le occupazioni pubbliche e private, la stessa casa, la stessa esperienza di guerra; e soprattutto la massima armonia dei desideri, delle inclinazioni, delle idee: in ciò è tutta la forza dell’amicizia»


Il primo a trattare esplicitamente e con una certa vastità il tema dell’amicizia fu Aristotele.

È noto come l’etica aristotelica sia contraddistinta dal conseguimento della felicità per mezzo delle virtù, la maggiore delle quali è la theoria, cioè la contemplazione. Però tale conseguimento, che è proprio dell’individuo, non può avvenire senza un rapporto sociale: infatti l’uomo è, per sua natura, un animale sociale (animal politicum). Perciò è nella stessa natura dell’uomo che si fonda la capacità relazionale.


L’uomo, sociale per natura, concepisce dei fini che sono comuni ad altri uomini. Nell’aspirazione a un fine comune è da ricercarsi l’origine dell’amicizia e la sua specificità rispetto ad altri tipi di relazione umana. In concreto: essendo diversi gli scopi comuni che gli uomini possono desiderare di conseguire, se ne deduce che diverso sarà il modo di realizzare la reciproca convergenza. Questa, pertanto, sarà graduale, a seconda dello scopo inteso: il piacere, l’utilità e la virtù. Il tipo di relazione corrispondente alla virtù è il più profondo, perché in tale scopo viene annullato ogni sfruttamento egoistico, ogni strumentalizzazione: ognuno desidera che l’altro sia virtuoso e, quindi, consegua la felicità.


Concretizzando maggiormente questo ragionamento e salendo dal piano della natura a quello delle persone storicamente esistenti, Aristotele dice che l’amicizia è necessaria sia all’uomo che ha già raggiunto la felicità sia a colui che è infelice: nel primo caso perché questa stessa felicità si dispiega in una comunione gioiosa, nel secondo perché l’amicizia costituisce un conforto e un incoraggiamento.


Questa sintesi aristotelica costituisce quanto di meglio il pensiero dell’antichità precristiana ci abbia lasciato riguardo al nostro tema. All’interno di tale sintesi, altri due pensatori hanno accentuato alcuni particolari elementi, restando comunque al di sotto dello Stagirita: si tratta di Epicuro e del citato Cicerone.


La filosofia epicurea affronta soprattutto il problema morale e, in un periodo di notevole benessere e di grande sbandamento culturale (periodo molto simile al nostro … prima della crisi!), ripropone esplicitamente l’eterno problema della felicità. La felicità è l’«atarassia», la calma assoluta e soave, l’assenza della preoccupazione e degli affanni. Il criterio di giudizio per essere sicuri di camminare verso la felicità è il piacere, cioè l’assecondamento metodico e calcolato di ogni tendenza della natura. È a questo punto che s’inserisce la riflessione sul fenomeno dell’amicizia.


«Di tutte le cose che la saggezza offre agli uomini per la felicità della vita, la più grande è il conseguimento dell’amicizia». Dunque l’amicizia è considerata da Epicuro nel contesto della ricerca della felicità e del piacere. Ciò, se da una parte deve rendere cauti nel giudicare Epicuro come un filosofo volgare, dall’altra, rispetto alla posizione di Aristotele, comporta inevitabilmente una diminuzione della purezza dell’amicizia. Difatti Epicuro ben volentieri collega l’amicizia a un certo interesse, una certa utilità egoistica.


Al disinteresse assoluto come nota costitutiva della vera amicizia, invece, ritorna nuovamente Cicerone, che al nostro tema dedica un’intera opera filosofica, il Laelius. In quest’opera il grande oratore romano prospetta anche una definizione dell’amicizia: «omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio». Se, dunque, la benevolentia e la caritas sono delle qualità inalienabili dell’amicizia, questa non può essere caratterizzata dall’interesse e dal calcolo.


Cicerone, ancor più di Aristotele, accentua l’aspetto sentimentale, parlando dell’amicizia come di un’inclinazione dell’anima congiunta a un sentimento amoroso.

GUARDARE NELLA STESSA DIREZIONE – Una riflessione sull’amicizia

«Non camminare davanti a me» – dice l’anonimo cinese – «potrei non seguirti; non camminare dietro di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre amici».


Queste sensazioni riecheggiano nel verso di una canzone di Michel Pergolani, intitolata, appunto, L’amicizia: «L’amicizia vuol dire […] guardare nella stessa direzione».



L’amicizia è un fatto tipicamente umano: la sua struttura implica necessariamente un consenso d’intelligenze e di libere volontà. È possibile, al limite, l’amore fra un uomo e un oggetto inanimato (amore chiaramente unilaterale!), ma mai assolutamente un’amicizia. Ora, se si considera che la specificità dell’uomo nell’universo sperimentabile consiste nella conoscenza e nella libertà, vediamo come l’amicizia si inserisca perfettamente in questa condizione «naturale», cioè tipica di ogni essere umano.



La sfera psichica, si diceva all’inizio, comprende anche emozioni e sentimenti. Analizzata lungo i secoli, soprattutto a partire da Cartesio essa viene affrontata in una chiave più scientifica e sperimentale e diventerà oggetto di studio sempre più preciso e articolato.

Nella nostra società occidentale, nella quale i fenomeni di massificazione tendono ad aumentare in maniera nevrotica, si ha l’impressione che il valore dell’amicizia tenda a eclissarsi. Ciò è particolarmente evidente per molte persone anziane. Con lo spegnersi dell’eros e la scomparsa dei legami familiari, la loro principale risorsa affettiva potrebbe essere l’amicizia.

Purtroppo si nota come anche quest’ultima non venga molto apprezzata e, di conseguenza, coltivata nel vissuto contemporaneo, al punto che l’unica amicizia che rimane loro non è quella che si stabilisce con altri esseri umani, ma con gli animali domestici, soprattutto cani e gatti. Questo, di per sé, non ha nulla di sconveniente, anzi è un fatto molto bello, che ci richiama a una comunione con gli altri esseri della natura. Diventa, tuttavia, un’esperienza malinconica e perfino frustrante quando si riduce a un ripiego e a un surrogato dell’amicizia fra creature umane.

Un contributo alla soluzione di questo problema potrebbe venire da un percorso educativo e auto-educativo che, nella frenesia della vita moderna, privilegi il dialogo tra le persone.

È proprio la persona che esige un posto centrale nell’attuale cultura. Si tratta di sviluppare una soggettività che, adeguatamente provvista di autostima, si orienti a vivere con gli altri e per gli altri. Naturalmente ciò non prescinde dall’impegno per realizzare strutture politiche, sociali ed economiche sempre più giuste; ma la persona in quanto tale non si esaurisce in queste strutture. Solo nel volto dell’altro la persona trova risposta al proprio cammino. La sollecitudine per l’altro diventa la vera cifra di ogni civiltà. Forse in questo è possibile comprendere in che cosa consista la causa principale del disagio della modernità.

Un simile disagio è avvertito non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri. Sembra che il moltiplicarsi delle azioni, lo scintillio delle cose, i desideri artificialmente indotti, il potere dei mass-media, la fascinazione della realtà virtuale abbia preso il posto dell’ascolto interpersonale disinteressato. Invece solo la capacità di ascoltare l’altro è in grado di liberarci dall’arroganza e dal pregiudizio.

Cos’è l’amore? L’amicizia

Oltre all’affetto e all’eros, l’esperienza umana conosce una terza tipologia dell’amore: l’amicizia. Anche questo sentimento appare nell’età adolescenziale e si presenta con alcune caratteristiche dell’eros e altre simili all’affetto.


Con l’affetto condivide l’espansività: l’amicizia è un sentimento pluridirezionale, non si concentra su una sola persona, ma è capace di dilatarsi verso molti soggetti. Con l’eros condivide il senso di responsabilità: cioè è esigente.


Ma, a differenza degli altri due, l’amicizia prescinde quasi completamente dal dato biologico e sessuale, perché essa consiste in un orientamento personale intessuto di confidenza e di solidarietà, nel quale la componente razionale gioca un ruolo di primo piano. È una forma di amore più «spirituale» delle altre.


C’è, poi, un altro aspetto assolutamente indispensabile all’amicizia: la reciprocità. Si può vivere l’eros «a senso unico» e, almeno in parte, anche l’affetto: cioè è possibile innamorarsi di una persona senza che quest’ultima lo sappia e lo voglia; anche nell’affetto si vivono simili situazioni, cioè una forma di amore non (o non sempre) corrisposto, quale a volte quello dei genitori verso i figli. Invece non è possibile essere amici senza che i due (o più) lo sappiano e lo vogliano. La reciprocità rientra nella responsabilità imbevuta di razionalità.


Ovviamente, nella concretezza dei percorsi esistenziali queste forme di amore molte volte convivono, s’intrecciano, si condizionano e si completano reciprocamente. L’affetto, in tal modo, può sfociare nell’amicizia; questa può costituire l’anticamera dell’eros; l’eros, a sua volta, può assumere le modulazioni dell’affetto. Più difficile è passare dall’eros all’amicizia («Ma amici mai», cantava qualche anno fa Antonello Venditti), ma non è impossibile. Si può passare da una forma di amore all’altra: ma, appunto, è «altra». La riflessione teorica può aiutarci a comprendere meglio il vissuto, ad affrontarlo con maggiore chiarezza e ad intervenirvi con una consapevolezza più adeguata.


Se è vera, almeno a grandi linee, la descrizione dell’affettività finora proposta, appare chiaro che una delle principali caratteristiche dell’amicizia risiede nella facoltà di scegliere.


Laddove questa facoltà non si esprime, o si esprime poco, si parla preferibilmente di «compagni», non di amici. È il caso, ad esempio di una scolaresca: i compagni di scuola sono un gruppo nato non da una opzione reciproca, ma da una organizzazione. Lo stesso linguaggio viene usato in un’aggregazione nella quale il dato prevalente non è l’affettività, ma un’azione da compiere o un risultato da raggiungere: perciò si parla di «compagni di squadra», non di amici, perché lo scopo dell’aggregazione non è il rapporto tra le persone ma lo svolgimento di un’azione sportiva o di altro genere. In questo senso, molto illuminante è il linguaggio marxista: ciò che sarebbe dovuto prevalere è la trasformazione del mondo mediante il cambiamento radicale delle strutture economiche, anche attraverso un’azione violenta, perciò i militanti si chiamano compagni. Oggi questa parola ha subito un notevole slittamento semantico e, da espressione comunitaria, tende a rinchiudersi nel privato della coppia: «il mio compagno», «la mia compagna».


Gli amici, dunque, hanno la possibilità di scegliersi. Proprio questo particolare fa sì che l’amicizia sorga soprattutto nell’adolescenza. Tra bambini, infatti, prevale la compagnia, i «compagni di gioco».


L’amicizia consiste nella comunanza d’idee e nella condivisione dei valori, nella reciproca confidenza, nelle esperienze da compiere insieme, nell’accompagnamento psicologico che volentieri si esprime e si espande in un’ottica di gratuità, nel fattore evolutivo che segue il divenire delle persone.

L’amicizia nel disagio della modernità

Indubbiamente il contesto sociale e tecnologico incide sulla qualità dei rapporti, anche di quelli amicali. Neppure i sentimenti più profondi riescono a sfuggire a tante circostanze esteriori sfavorevoli. Senza per questo trasformarsi in barbosi laudatores temporis acti, è evidente che, quando esistevano ancora dei borghi pieni di cortili e di piccole aree verdi, con le botteghe del droghiere e le osterie di una volta, senza l’assordante rumore del traffico e dei rischi che esso comporta, era molto più facile incontrarsi e socializzare, condividendo tempi più distesi e spazi più conviviali.


Di questo squilibrio risente tanto l’affetto quanto l’amicizia quanto l’eros. Difatti, anche queste esperienze profondamente umane subiscono le conseguenze dei ritmi convulsi e spersonalizzanti della società di massa e del dilagare della comunicazione virtuale.


Un certo inaridimento dell’insieme dei rapporti sociali non favorisce quel tipo di rapporti che si appellano all’amore. E, d’altra parte, proprio questo inaridimento spinge a ricercare tali rapporti, che non si limitano a concetti utilitaristici e strumentali o addirittura basati su egoismo e furbizia, calcolo e opportunismo.


Tale fenomeno era già stato intuito da intellettuali e poeti. Pensiamo, ad esempio, ad Antoine de Saint-Exupéry quando nel 1943, alla vigilia della nostra società globalizzata, scriveva il suo capolavoro, Il Piccolo Principe. In quella favola di straordinaria intensità, ad un certo punto una volpe chiede al principe di poter entrare nella sua vita: «Gli uomini» – dice la volpe- «non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma, siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami».


Forse anche una dilagante mentalità pedagogica, incentrata sulla soddisfazione immediata dei desideri o perfino dei capricci, contribuisce alla formazione di una società meno amichevole, così da privilegiare obiettivi inautentici se non perfino nocivi e, viceversa, trascurare le persone e le loro realtà.


L’amicizia, come e più di ogni altra forma di amore, non è un dato acquisito una volta per sempre, ma un processo: e, come tale, richiede tempo, impegno, investimento di energie e di speranze. La mancata attenzione verso di essa si traduce in una sorta di rachitismo spirituale, in una graduale dissoluzione dei rapporti sociali, in una dispersione progressiva e inarrestabile delle potenzialità psicologiche più autentiche e profonde.


L’amicizia si colloca ai livelli superiori della consapevolezza e della scelta esistenziale; nondimeno anche il contesto culturale complessivo può incidere più o meno profondamente su di essa, sino ad indebolirla o comunque a non favorirla, come un seme che, pur avendo in sé il principio del proprio sviluppo, ha bisogno di un terreno adatto per attecchire e fruttificare. La fiducia è il vero terreno di coltura dell’amicizia.


L’amicizia, a sua volta, crea un ambiente amabile e fiducioso, sicuro, sereno; genera un clima che non solo rende possibile un’adeguata comunicazione tra le persone, ma si riflette all’interno dei nuclei familiari, favorendo il dialogo tra i coniugi e con i figli.


A partire da questa dimensione familiare, tipica anche dell’affetto, l’amicizia si manifesta anche come una «virtù politica», tale da favorire la costruzione di convivenze ordinate e felici, educando gli individui alla socializzazione e alla relazionalità. Essa è un «luogo» di fondazione del politico stesso.


Formidabile, in questo senso, fu l’intuizione dei pensatori illuministi che la società non poteva basarsi solo sull’uguaglianza e sulla libertà. Occorreva un altro principio, la fraternità, cioè il rapporto tra le persone concrete che formano un insieme sociale. Se, come dicevamo all’inizio, tale fratellanza presuppone il fatto di non poter scegliere, la capacità di entrare in relazione con gli altri in modo costruttivo è invece affidata alla libera decisione di ognuno: una realtà, perciò, del tutto simile all’amicizia.


Alla luce del percorso storico che, soprattutto nell’Occidente, si è compiuto a partire dall’illuminismo, possiamo affermare senza ombra di dubbio che i tentativi di realizzare la libertà e l’uguaglianza sono stati molto più numerosi ed efficaci di quelli miranti a realizzare la fraternità amichevole. Basti pensare alla grande rivoluzione liberale dell’Ottocento e al socialismo-comunismo del Novecento per rendersi conto di come il terzo valore della Rivoluzione Francese attenda ancora un movimento capace di incarnarlo e proporlo veramente all’ordine del giorno di una prassi politica e culturale.


La forza politica e comunitaria dell’amicizia non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva.


Dal passato è possibile attingere stimoli ed esperienze: pensiamo, tra l’altro, al modello epicureo e a quello filantropico dello stoicismo; alla fraternità di Francesco d’Assisi e delle confraternite medioevali; al pensiero erasmiano e a quello di Campanella fino ai socialisti utopistici e al comunitarismo. C’è, dunque, ancora tanta strada da percorrere per psicologi, pedagogisti, educatori e operatori culturali, affinché «un’amicizia si faccia politica».