Sting al Bataclan, un anno dopo gli attentati di Parigi

13 novembre 2015, Parigi veniva sconvolta da una notte di terrore che non dimenticheremo. Un anno dopo l’attentato al Bataclan, allo Stade de France e in alcuni bistrot tra il IX e il X arrondissement che è costato la vita a oltre 130 innocenti, la città prova a rinascere. E sceglie di farlo riaprendo il locale in cui tutto ebbe inizio. Il Bataclan è stato riaperto lo scorso 12 novembre con un concerto di Sting. Proprio là, dove oltre 90 giovani riuniti per ascoltare la musica degli Eagles of Death Metal hanno perso la vita, altri giovani, altri cittadini di Parigi, insieme ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime della strage del Bataclan sono tornati a cantare e ballare. «Stasera abbiamo due compiti: onorare i morti e ricominciare a vivere. Non li dimenticheremo» con queste parole è iniziato il concerto di Sting al Bataclan. Un minuto di silenzio carico di commozione e poi la musica, capace più di qualsiasi discorso di esprimere il dolore e la voglia di ricominciare di una città che alza la testa.


Il concerto di Sting al Bataclan ha aperto le commemorazioni per quella notte di terrore del 13 novembre 2015 a Parigi. Il giorno successivo è stato il giorno del cordoglio, del ricordo commosso e doloroso. La commemorazione è iniziata alle 21 allo Stade de France, dove un anno fa tre kamikaze si fecero esplodere durante la partita amichevole Francia – Germania. Davanti al Presidente Hollande e al primo ministro Manuel Valls, ha parlato il figlio di una delle vittime. Poi Hollande si è spostato insieme al sindaco di Parigi Anne Hidalgo verso i bistrot delle stragi di un anno fa e lì ha scoperto delle lapidi, per poi arrivare davanti al Bataclan. Nessun discorso qui, solo l’elenco delle vittime tra cui l’italiana Valeria Solesin. «Forse questo ultimo atto era destinato a ribadire una fondamentale verità: – recita il testo di Fragile di Sting – Che nulla viene e potrà mai venire dalla violenza».

La rabbia e la ragione

La prima reazione è certamente la desolazione, lo sgomento. 
Poi la rabbia. Profonda.

Colpire Parigi è certamente colpire tutti noi. 
Sono quindi normali anche le prime reazioni, chieste a furor di popolo. Anche venendo meno la capacità di ascoltare e osservare quella dignità profonda, quel senso di comune condivisione che non ha nulla di silenzioso né di arrendevole. Anzi che mostra una forza straordinaria. 
Quella dignità e compostezza che ha mostrato, ancora una volta, dopo il massacro di Charlie Hebdo, il popolo francese.

Un’azione così forte, eclatante, mostruosa, da più parti reclamava un’azione forte. 
E nessun governo, se guardiamo la situazione dal punto di vista di chi governa, poteva sottrarsi a dare al furore del popolo – quello europeo, più che quello francese – una risposta forte, immediata, travolgente.


È un conto che bisogna mettere nell’essere al governo di una nazione quando questa viene colpita con tanta barbarie. E tuttavia la barbarie non giustifica un’azione senza ragione.

Precisiamo. Esiste una responsabilità diretta, specifica, inequivocabile, che ha visto attori e ideatori delle stragi di Parigi nell’Isis e in Siria. Questo è un dato certo.
Ma altrettanto certo – se ci fermiamo a ragionare – è che non è pensabile che quegli ideatori non se l’aspettassero. 
Colpire la Francia, oggi, significa colpire uno dei paesi in cui l’Islam ha le forme forse più moderate e integrate. E significa colpire un paese che dell’integrazione e del rispetto reciproco ha fatto modello di Stato.


Ecco che colpire la Francia è colpire questo modello. È spingere l’Europa verso il baratro manicheo, verso la guerra ammantata di religione, verso un mondo fatto di blocchi contrapposti.
In questo senso il furore di popolo innescato dai terroristi è esattamente il migliore alleato di chi ha interesse e desidera come modello questo scenario. E di chi non accetta la pacifica convivenza, fatta necessariamente di non imposizione di un modello religioso e culturale e di democrazia.

In questo si, è uno scontro di culture. 
Ma proprio per questo la barbarie non può far dimenticare le conquiste di civilità di un Europa che queste barbarie le ha vissute e pagate col sangue dei suoi popoli sino a settant’anni fa, quando altre ideologie alimentavano una visione del mondo fatta di odio, razzismo, ed imposizione di un modello culturale unico e totalitario da imporre con la forza.


Le bombe che in questo momento aerei francesi, con il supporto dell’intelligence americana e logistica russa, stanno sganciando sulla Siria sono lo sfogo di tutti noi, di tutto l’occidente contro la barbarie.
È il “ricambiare con gli interessi di sangue e morte” quel gesto assurdo ed atroce vissuto per le strade di Parigi, che poi sono le nostre strade d’Europa.

Chi mai potrebbe condannarci? Chi mai potrebbe condannare quell’istinto e quella rabbia?

Eppure rivendichiamo il primato della ragione.

Ed a noi e a chi ci governa compete essere oltre la barbarie, proprio rivendicando le nostre conquiste ferite, e le conquiste di civiltà che vogliamo difendere e vendicare.


Colpire oggi la Siria non è colpire l’Isis.
Chi doveva e poteva da Raqqa è scappato.

Ma quelle bombe – per quanto le nostre ragioni ci assolvano – sono l’altra faccia della medaglia di quel terrorismo che ci ha inorriditi due giorni fa.

Sono la benzina che verrà usata per incendiare le nostre strade. Sono le immagini che gireranno per i paesi del mondo arabo degli inevitabili morti civili, donne e bambini usati come scudi umani nelle infrastrutture da colpire.

Quelle bombe occidentali saranno la prova – per qualcuno – della crociata occidentale contro cui combattere e contro cui fare nuovo proselitismo.


Dovremmo rifletterci quando la rivendicazione – fallace, banale, menzognera, apparente, ridicola, opportunistica – del prossimo attentato sarà “per vendicare le bombe di Raqqa”.


Sul muro c’era scritto col gesso
 viva la guerra
 chi lo ha scritto è già caduto.


Sono versi di Brecht. Ma forse questa volta sono meno veri di settant’anni fa.

Perché la sensazione è che quel “vogliamo la guerra” sia stato scritto da qualcuno che è ben al sicuro altrove. Che ha altri interessi, certamente più materiali di una religione, di cui evidentemente nemmeno conosce i precetti, ma di cui si riempie la bocca e riempie la testa di ragazzini manipolabili e plagiati che giocano ai guerriglieri. Nel deserto come nelle nostre città. Come fosse un videogioco della playstation in Belgio.


Ma la ragione – che non appartiene al sentimento del popolo e delle masse – deve (imperativo categorico in questa era sopravvivenziale) guidare le scelte di chi ha la responsabilità di governare.

Deve – per quanto difficile – ricordare tutte le volte, recenti e passate, in cui da azioni di rappresaglia sono sorte guerre che tuttora mietono vittime.

Dovremmo ricordare che dopo l’undici settembre c’è stato l’Afghanistan, e tutti i caduti in quella guerra. E di certo i talebani e Al Qaida non sono stati annientati.

Dovremmo ricordare le bombe in Libia e Iraq. E di certo quei paesi non sono in pace. Ed anzi, che proprio quelle guerre hanno generato nuovi conflitti, nuovi terrorismi e nuovi soggetti. Se possibile ancora più sofisticati nelle loro strategie di terrore ed odio.


Ed è per questo, anche per questo, che chi ha ruoli e responsabilità di governo, oggi più che in altri momenti deve stare nel mezzo tra quella rabbia, e quell’orgoglio cui ci richiamava Oriana Fallaci, bilanciati però almeno altrettanto da quella ragione, fondata sulla storia, che ci insegna anche dove porta dare solo sfogo alla rabbia.
Perchè il migliore alleato di un fondamentalismo è l’altrettanto fondamentalista smarrimento della ragione che non fa contenere la rabbia.

Continuava Brecht nella stessa poesia:


La guerra che verrà non è la prima. 
Prima ci sono state altre guerre.
 Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
 Fra i vinti la povera gente faceva la fame. 
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. 
La voce che li comanda è la voce del loro nemico.
 E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.

Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?

Proviamo a mettere insieme alcuni pezzi dopo dodici ore. 
Sappiamo con adeguata certezza che non si è trattato di un’azione isolata ad opera di pochi fanatici.

I gruppi di fuoco erano almeno tre. Uno concentrato nella zona dello Stadio, uno al teatro Bataclan e uno nel centro della città, per strada. 
Sappiamo che, in totale e al momento, i terroristi armati e con giubbotti esplosivi erano almeno otto.
 Sappiamo anche dalla simultaneità delle azioni che: si conoscevano, hanno avuto tempo e modo di coordinarsi e di progettare, programmare, effettuare sopralluoghi e studiare i tempi e modi e anche tempi e forme della reazione delle forze di sicurezza.

Sappiamo che per compiere questi veri e propri attacchi di guerriglia paramilitare sono servite ingenti risorse logistiche, organizzative, appoggi, risorse economiche.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


Mediamente per ogni gruppo di fuoco almeno altrettante sono state le persone coinvolte, tra logistica e copertura.

Hanno avuto bisogno di rifugi sicuri, di poterli cambiare spesso, di luoghi di incontro sicuri, di autoveicoli per i sopralluoghi, diversi da quelli materialmente usati per le azioni terroristiche. 
Sappiamo che sono riusciti a procurarsi illegalmente un vero e proprio arsenale per la costruzione dei giubbotti esplosivi, almeno otto kalasnikov e altrettante pistole ed un vero e proprio arsenale di munizioni.

Sappiamo quindi anche che è occorso molto tempo per organizzare e realizzare questa azione.

Gli esecutori materiali ma soprattutto chi ha fornito la copertura e la logistica è tuttaltro che un ragazzino invasato e fanatico delle periferie urbane. Ci vuole un enorme addestramento, preparazione, soprattutto per mantenere il sangue freddo in un’azione così grossa e coordinata.


Cosa sappiamo degli attentati di Parigi?


E in tutto questo senza farsi scoprire, intercettare, individuare per mesi.

Abbiamo però altri elementi su cui fare una riflessione. 
Pezzi da mettere insieme e tenere lì come fossero post-it su una lavagna per darci un quadro complessivo più ampio.


Abbiamo almeno altre due “prove generali” di azioni di quersto tipo: l’assalto a Charlie Hebdo del 7 gennaio e quello del 9 gennaio successivo quando un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone.

Armi, attrezzature, organizzazione, logistica, tempistiche: sono pressoché identiche.
Anzi, in un’ottica più grande e altrettanto macabra quell’episodio può essere visto come una prova generale in grado di offrire elementi di analisi dei tempi e modi e forme di reazione della sicurezza francese in generale e parigina in particolare (sia su un attentato specifico sia su un’azione con ostaggi).


La data non è scelta a caso. 
È lo stesso giorno dell’anniversario (2001) in cui il presidente statunitense George W. Bush firma un ordine esecutivo che permette l’istituzione di tribunali militari contro qualsiasi straniero sospettato di avere connessioni con gli atti terroristici realizzati o progettati contro gli Stati Uniti. 
Non è un caso quindi che nella rivendicazione si parli esplicitamente di un 11 settembre francese.

Ed è anche il giorno prima della conferenza di Vienna sulla Siria.
 Elemento importante perchè da sempre la Francia (uno dei membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU con diritto di veto) ha una sua “politica autonoma” e spesso di mediazione tra i blocchi contrapposti Usa-Russia: una contrapposizione che ha spesso impedito un’azione univoca e coordinata contro l’ISIS.
 Il richiamo inoltre al “vostro 11 settembre” serve definitivamente al califfato per candidarsi ad essere l’erede unico e sostitutivo non solo di al-Qaeda, ma anche unificante di tutti i fronti terroristici legati al fanatismo islamista.


Non è stato un attacco del tutto imprevedibile.

Un attacco a un teatro-sala da concerto a Parigi con armi automatiche e cinture esplosive. Era questo l’incarico che avrebbe ricevuto un cittadino francese di 30 anni durante un suo soggiorno “militante” in Siria a maggio di quest’anno. La notizia, con pochi particolari di dettaglio e senza nomi e riferimenti dei protagonisti, era stata data il 18 settembre scorso dal sito franceinfo.fr.
 L’uomo, arrestato dalla polizia francese l’11 agosto scorso, sarebbe rientrato in Francia dopo essere stato ferito in combattimento. Il suo arresto sarebbe avvenuto per una “soffiata” fatta da una “jihadista spagnola” fermata anch’essa al rientro da un viaggio in Siria. 
Il che conferma almeno “da quanto tempo” un’azione del genere era in preparazione.

Tutto questo però conferma anche che è difficile che queste azioni vengano compiute da persone “straniere” inviate in occidente per la prima volta. 
Troppo difficile nasconderle, metterle in contatto tra loro senza destare sospetti o attenzione dei servizi di sicurezza, troppo complicato che si inseriscano nel tessuto logistico e malavitoso locale, che conoscano la lingua nella misura necessaria, nonchè starde, tempi, abitudini.


Almeno per compiere attacchi di questo genere.

E tutto questo riporta al fatto che chiudere le frontiere o attribuire responsabilità all’immigrazione di profughi e richiedenti asilo non ha alcuna attinenza con il contrasto ad azioni di questo tipo.

Difficile anche che i protagonisti candidati per questi attentati siano frequentatori assidui di moschee: di questi tempi verrebbero certamente intercettati, verrebbero notati, rischierebbero un commento sbagliato, di tradire un fanatismo ed un estremismo che potrebbe destare sospetti in correligiosi moderati (la stragrande maggioranza) che potrebbero allarmarsi e segnalarli.

Sappiamo anche, in maniera indiretta, che qualcosa di decisamente grande l’Isis lo stava preparando contro l’occidente. Qualcosa da “propagandare e diffondere” con la massima forza possibile.

Il 9 novembre era stato reso noto che il cyberCaliffato (il team hacker e comunicazione web dell’Isis) aveva hackerato oltre 54mila account twitter, nonchè reso noti i numeri di telefono personali e crittati dei capi di Cia, Fbi, Nsa.


Quest’ultima azione certamente di natura distrattiva, per far pensare ad un attacco “non in Europa” facendo calare quindi l’attenzione su una forma di collaborazione che avrebbe potuto evidenziare informazioni utili alla prevenzione o individuazione di indizi nei giorni immediatramente precedenti questa azione.

Sappiamo, infine, che un’azione di questo genere, per gli elementi sin qui descritti e messi insieme, è estremamente “raffinata” ed enormemente costosa.
 È un investimento enorme non solo di persone ma anche di risorse con una strategia che mostra una sofisticata conoscenza delle ripercussioni di medio termine nelle politiche e nelle economie europee e occidentali in generale.

E tutto questo non è immaginabile sia partorito dalla mente di qualche terrorista esaltato e di non elevata istruzione come quelli che conosciamo essere i teorici capi dell’ISIS in medioriente.
 Inoltre organizzare, pianificare, e soprattutto finanziare un’azione di questo genere è inimmaginabile venga fatto dal territorio siriano o iraqeno.

Un’operazione fatta “a borse chiuse” in cui si dovranno attendere non meno di trentasei ore prima di poter verificare le transazioni e chi ci ha potuto “materialmente guadagnare”, che però si confonderanno in un mare di altre transazioni del lunedì mattina, a livello globale, ed in cui le tracce saranno fatte sparire per tempo, con la medesima sofisticazione.


Se mettiamo insieme tutti questi elementi, senza farci trascinare nè dal populismo dell’opportunismo politico nè da tendenze complottiste planetarie, appaiono chiari almeno due elementi.

Il primo è che questo attacco mostra un livello di sofisticazione del terrore che apparantemente adotta la matrice e la bandiera del califfato come specchietto delle allodole (e cui il califfato presta uomini e simboli nell’interesse diretto di accreditarsi come nemico mondiale unico e solo), ma è chiaro che il livello è decisamente superiore e con una strategia molto più globale. 
Un modello di attacco terroristico che tende a voler dimostrare come ogni capitale europea e mondiale è in sé un possibile bersaglio di un attacco mirato e preparato e finanziato e studiato con mesi di anticipo. 
Il secondo è che le tracce per individuare la regia di queste azioni non passano direttamente in Siria e nel califfato, ma attraverso le transazioni (nomerose, sofisticate, diffuse) di chi gestisce le finaze (enormi) di queste attività. Che passano per le nostre banche, le nostre carte eletroniche spesso anonime e prepagate, che vengono ripulite nei centri di invio di denaro all’estero in centinaia di transazioni al di sotto dei 300 dollari. 
Una rete capace di avere numerosi sostenitori, prestanome, che acquistano cellulari, auto, affittano immobili, mettono a disposizione risorse e coperture logistiche.


Se l’Isis si candida ad essere il marchio – quasi il franchising – del terrore a livello globale, capace di lasciare per lungo tempo uno stato diffuso di terrore nelle popolazioni civili occidentali, è altrettanto chiaro che la guerra a questo soggetto oramai planetario non può che essere efficace solo se la struttura logistica e quindi innanzitutto finanziaria di tutto questo non verrà attaccata.