Biennale Arte Venezia 2015: viaggio nei padiglioni tra verità e finzione

Vi siete mai chiesti che cos’è l’arte? Avete trovato una risposta? Probabilmente è la domanda che l’uomo si pone sin dagli albori, dalle famose pitture delle caverne.
Oggi più che mai si discute sul valore dell’arte, forse perché l’arte moderna, così come viene chiamata, ha cambiato in modo sconcertante il significato che essa aveva portato sulla terra dall’alto, visto che gli artisti si dicono “uomini toccati dalle mani di dio”.
L’arte cambia e si evolve con i tempi, sente l’urgenza di esprimere delle ideologie, vuole essere voce di un mondo sociale, spaccare dei movimenti politici; ma cosa crea? Cosa lascia? Cosa realmente cambia? Sono domande così cattedrali che nessuno probabilmente troverà mai una risposta, quel che rimane è il dubbio, e l’arte in questo senso diventa fede. Così come la vecchina che in vita ha lamentato i suoi dolori, oggi la si può vedere china sui ginocchi ruvidi a pregare, tra le navate di una chiesa, perché sente l’arrivo della sua ora; prega un dio che non ha mai visto, prega l’impalpabile, prega la sua speranza. La fede diviene l’ultima spiaggia, qualcosa a cui aggrapparsi, una necessità – l’arte fa lo stesso.

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Venezia


L’artista parla attraverso le forme espressive per dare vita a un sentimento umano, l’amore, la melanconia, la tristezza, la gioia e così via, sia egli musicista, pittore, scultore, perfomer, crea delle opere classificabili come “buone” e “cattive”, come già fece Aristotele definendole “perfette” e “imperfette” – ma in che modo possiamo classificarle?
A un Rembrandt, un Caravaggio, un Vermeer, si riconoscono l’abilità tecnica, lo studio, l’autoespressione, il tratto, la funzione, ma all’arte contemporanea o a quella nuova forma di arte “concettuale”, tutto questo molto spesso manca. Perché in molte di queste opere contemporaneo-concettuali mancherà una continuità storica, mancherà una vera motivazione, una commissione (la maggior parte delle volte), la critica, e saranno opere per lo più astratte, inconcrete, incongruenti, che cercano di girare le loro motivazioni intorno alle ribellioni di natura sociale, così come un cane gira su se stesso cercando di mordersi la coda.

In questa 56ma edizione di Biennale Arte Venezia, sono presenti diversi esemplari.
Il padiglione Messico è una camera o(scura) adornata di alte pareti che vorrebbe rappresentare il rapporto uomo-natura, despoti-sudditi, dominio-schiavitù; intorno: il nulla – come quello che lascia, fruscelli e corsi d’acqua di sottofondo a parte.

Sulla soglia del padiglione Emirati Arabi Uniti ci si aspetta lo sfarzo dell’arte, i massimi sistemi matematici, e invece ci si ritrova in un luogo dimenticato giusto il tempo di attraversarlo.

Sospiro di sollievo al Padiglione Turchia con l’opera “Respiro”. Un’istallazione dell’artista Sarkis di Instanbul, consistente in 2 grandi arcobaleni al neon site-specific, riflessi in due grandi specchi con le impronte fatte da 7 bambini, che dividono la sala espositiva. 36  vetrate colorate mostrano fotografie e immagini talvolta autobiografiche: una giovane donna in abito rosso, il giornalista assassinato Hrant Dink, la tomba del genitore di Sarkis. Uno spazio immenso dove perdersi per poi ritrovarsi – senza poter sfuggire dinnanzi alla “Corte dello specchio” e di fronte ad un pubblico che “guarda”. Una musica suona per tutta la durata della mostra, la composizione è di Jacopo Baboni-Schilingi che si basa sulla rappresentazione dell’arcobaleno usando 7 colori come sistema di partizione; il 7 come numero che torna, la presenza costante della matematica, fantasma presente in tutte le arti.

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“Respiro” di Sarkis


Si chiama Codice Italia il padiglione di casa nostra curato da Vincenzo Trione, che ha selezionato 15 artisti tra cui Vanessa Beecroft, voce dello scenario internazionale, che ha creato un giardino segreto di marmo: donne dalle diverse forme e fattezze, posano per l’occhio voyerista dello spettatore, in fila per spiare da una piccola fessura la nudità di questi statuari corpi.

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Vanessa Beecroft


Torna alla memoria, in tema con la richiesta del padiglione, Marzia Migliora, con un’opera custodita in uno strano armadio colmo di pannocchie. Al di là dell’armadio, si può vedere riflessa l’installazione, un’antico ricordo della cascina di suo padre, il processo dell’arte come valore umano, sentimentale, come espressione della realtà.

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Marzia Migliora


Ma solo con Claudio Parmiggiani, classe ’43, tocchiamo l’essenza del pensiero dell’artista sull’arte e sull’animo umano. L’imponenza di un’ àncora che distrugge una parete di vetro, elemento fragile, riducendo parte di essa in piccoli frammenti lasciati a terra. Partendo dal presupposto che un’opera non ha bisogno di essere interpretata, perché si rischia di sminuirla, svilirne la bellezza – un’opera non ha bisogno di definizioni e parole ma dovrebbe raccontare una vita senza doverla scrivere e codificare attraverso sistemi, regole e termini – ecco partendo da questa linea, possiamo però dire che in Parmiggiani, respiriamo verità, la drammaticità della vita. Il suo archivio della memoria è fatto di richiami culturali e alchemici, come l’incisione di Albrecht Dürer, Melencolia (1514), probabilmente l’opera più densa di riferimenti esoterici in assoluto.


Due ragazze sui 25, di fiori vestite, dalla gonne a ruota, dai foulard a pois, saltellanti come dei folletti usciti da una fiaba, fermano Claudio Parmiggiani, un uomo di 72 anni, per fargli qualche domanda. La prima che sento, nascosta e in punta di piedi, in religioso silenzio, è “Perché Melencolia”? E lui le guarda, con estrema dolcezza, senza rispondere, come farebbe un padre alla propria figlia di 6 anni quando inizia con “Papà, come nascono i bambini?
E come glielo spieghi?

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Claudio Parmiggiani

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Incisione di Albrecht Dürer, Melencolia – 1524