Il Supereroe tricolore

In ambito cinematografico, i supereroi sono da sempre un soggetto fortemente sfruttato ed utilizzato, soprattutto dall’industria americana. Nonostante ciò, per lo meno fino ad oggi, sui grandi schermi italiani non vi è stata traccia alcuna. Nessuno si è trasformato in un fantomatico paladino della giustizia, nessuno si è schierato dalla parte della gente e contro i soprusi dei più potenti, nessuno ha potuto usufruire di poteri straordinari e paranormali in grado di compiere qualunque azione.



Ebbene, il regista romano Gabriele Mainetti sceglie come oggetto per il suo debutto ufficiale proprio un supereroe, in un film capace di miscelare sapientemente azione, fantascienza e commedia. Un’operazione resa possibile anche grazie ad un cast di attori che non ha nulla da invidiare alle stelle hollywoodiane, tra cui spicca un Claudio Santamaria in grande spolvero. Nasce così Lo chiamavano Jeeg Robot.



Claudio Santamaria è Enzo Ceccotti, alias Jeeg Robot
Claudio Santamaria è Enzo Ceccotti, alias Jeeg Robot



Il protagonista della storia è Enzo Ceccotti, un uomo privo d’affetti e senza lavoro, che passa le sue giornate cercando di guadagnarsi da vivere attraverso piccoli furti con la speranza di non essere mai preso. Un giorno, proprio durante una fuga dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi, finendo per sbaglio in un barile pieno di materiale radioattivo. Enzo riemerge dall’acqua completamente ricoperto di una strana sostanza, barcollante e malconcio. La cosa sorprendente, tuttavia, è che il giorno seguente si risveglierà dotato di una forza e resistenza sovraumane. Subito si attiva per poter sfruttare le sue nuove ed incredibili capacità per le sue rapine.



Nel frattempo a Roma prende piede una faida per il comando della città tra alcuni clan provenienti da fuori, con tanto di attentati e bombe seminate per le strade. Un piccolo boss, detto lo Zingaro, cerca di farsi largo fra la concorrenza, minacciando la vicina di casa di Enzo, Alessia, la figlia di un suo amico scomparso poco tempo addietro.



L’unica ancora di salvezza per la ragazza è rappresentata proprio da Enzo, nel quale rivede il suo idolo fin da quando era bambina, Jeeg Robot, arrivando a pensare che esista davvero. La capitale è sull’orlo del baratro e la gente ha bisogno di un (super)eroe che possa far tornare la pace e la serenità…



Distribuito nelle nostre sale cinematografiche dalla Lucky Red, Lo chiamavano Jeeg Robot è il classico esempio di film incentrato sulla figura di un supereroe sulla falsa riga dei modelli americani. In esso troviamo un perfetto connubio tra azione ed ironia, senza contaminare la serietà tipica del filone d’appartenenza.  Fra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, la pellicola mette in risalto il riscatto morale di un uomo assolutamente normale e non privo di peccati, che riceve dei poteri sovraumani dopo un incidente, giungendo ad una sorta di redenzione purificatrice attraverso l’esame della propria coscienza e delle proprie colpe.



A vestire i panni del primo supereroe nostrano ci pensa l’attore romano Claudio Santamaria (noto al pubblico per opere quali Romanzo criminale, Baciami ancora e Diaz), un uomo dallo spirito selvaggio e avido, stracolmo di libido e cresciuto a pane e film porno, ma anche in possesso di una certa rettitudine morale che lo condurrà sui sentieri della giustizia.



L'eroe Enzo Ceccotti a difesa di Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli
L’eroe Enzo Ceccotti a difesa di Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli



Il quadro è egregiamente completato dallo sguardo iniettato di follia di Luca Marinelli (di cui citiamo a titolo esemplificativo alcuni suoi film, come La solitudine dei numeri primi, Il mondo fino in fondo e Non essere cattivo) nel ruolo del cattivo di turno, lo Zingaro, un egocentrico e schizofrenico pesce piccolo della malavita organizzata che sogna di diventare famoso e rispettato nel crimine, e da Ilenia Pastorelli nella parte di Alessia, sorprendentemente brava e perfettamente a suo agio.



Luca Marinelli è Zingaro, il nemico di Jeeg Robot
Luca Marinelli è Zingaro, il nemico di Jeeg Robot



Dietro la macchina da presa troviamo Gabriele Mainetti, già noto per alcuni cortometraggi quali Basette (una trasposizione sul grande schermo di Lupin III con protagonista Valerio Mastandrea) e Tiger Boy, quest’ultimo ispirato a L’uomo tigre. In Lo chiamavano Jeeg Robot ciò che emerge con prepotenza è come le storie che la nostra mente assorbe siano in grado di influenzare la nostra esistenza. A tal proposito, è emblematico come Enzo Ceccotti, pur sapendo di non essere Jeeg Robot, inizi ad aderire alla visione di Alessia (che crede fermamente nell’esistenza del suddetto supereroe finendo per identificarlo con lui stesso), cominciando a ragionare e a credere in quella maniera. Nell’animo di Enzo prendono forma nuovi ideali, valori e concetti: basti pensare alla graduale sostituzione dei dvd pornografici con quelli della serie animata di Jeeg Robot.



Il film diventa così un trionfo di cinema, scrittura, recitazione, scenografia, produzione ed inquadrature ad effetto, una pellicola realizzata senza copiare troppo dalle opere a stelle e strisce, ma estrapolandone gli elementi più utili ed originali. L’ennesima dimostrazione che la forma, se valida, può benissimo prevalere sul contenuto e sul tema trattato.

 

 

EX MACHINA

Caleb è un giovane programmatore che si aggiudica la possibilità di trascorrere una settimana nell’in montagna di Nathan Bateman, il CEO della società per cui lavora, BlueBook, scoprendo presto di essere stato scelto per diventare una pedina di un esperimento ambiziosissimo del suo capo: testare una macchina umanoide dotata di una intelligenza artificiale e aspetto femminile. I rapporti fra i tre diventano subito torbidi, e il gioco del non detto, delle bugie inconfessabili e della manipolazione porterà ad un vortice dagli esiti non calcolati.


Il film è per certi versi sicuramente interessante, anche a prescindere dalla splendida motion graphic affidata ai Pinewood Studios di Londra (già noti alle cronache per aver curato, uno su tutti, gli effetti speciali del pluripremiato Gravity). Il regista Alex Garland, già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle, alla sua prima prova con un lungometraggio sa dosare acceleratore e il freno, creando la quiete prima della tempesta e alzando il ritmo quando serve. Forse non una regia estremamente personale, ma funzionale e tutto sommato godibile, coronata da una sceneggiatura con sprazzi gustosi.


Mentre in Her, forse il film più vicino a Ex-machina per tematica, c’è una delicata attenzione nel suggerire un mondo credibile in cui si inserisce la vita dei personaggi, qui abbiamo un laboratorio sperduto e un triangolo di individui in guerra fredda fra loro: un microcosmo che ci libera da questa esigenza. Una buona idea, produttivamente parlando, ( il minor numero di setting riduce i budget e concentra le energie altrove), che non lascia tuttavia completamente appagato lo spettatore, il quale vorrebbe vedere di più, molto di più. Uscendo dalla sala si ha l’impressione che non tutto il potenziale dell’idea sia stato espresso, a partire dalla figura di Nathan Bateman (Oscar Isaac), carismatico e visionario, e che si potesse scavare molto di più nella natura di attrazione-repulsione dei protagonisti per le creature umanoidi, così distanti ma così vicine.


La riflessione che viene portata avanti su come la conoscenza in 2D attraverso i codici binari di un monitor non possa appagare davvero l’uomo ( o in questo caso, la macchina) è interessante ed evidentemente attualissima, nell’era degli Hikikomori, ma poco o nulla aggiunge rispetto a quanto cinema e letteratura già non abbiano detto.


Ex machina è l’ultimo parto di un filone sci-fi che il cinema ha da sempre cavalcato, quello della interazione fra macchina senziente e uomo, e quasi sempre in chiave distopica. Un filone che dai poetici 2001-Odissea nello Spazio (1968) a Blade Runner (1982), passando per i super blockbuster Terminator (1984), Matrix (2000) e relativi sequel, fino a Her (2013) ha sempre riflettuto sul tema di cosa sia “il proprio” dell’essere umano, la scintilla che lo renda inequivocabile umano. La domanda intorno a cui gira la pellicola è semplice, quella del celebre Test di Touring: quando una intelligenza artificiale non viene percepita come tale da un umano, dove inizia uno e dove finisce l’altro? La risposta, meno.