La Shoah nella storia del cinema

Il giorno della memoria. L’orrore dell’Olocausto e il dramma della deportazione della popolazione ebrea da parte dei nazisti hanno caratterizzato e influenzato in maniera netta e decisiva le rappresentazioni cinematografiche a partire dallo scorso secolo. Autori, registi, storici, esperti e critici si sono cimentati nel produrre svariate pellicole sul tema della Shoah, allo scopo di far rivivere un passato che non può e non deve essere cancellato dall’oblio.

 

La persecuzione e lo sterminio degli ebrei è stato riprodotto in modalità differenti nel corso degli anni. Alcuni registi, ad esempio, hanno voluto mettere in primo piano la cruda realtà del genocidio. Su questo percorso tematico, non possono non essere citati George Stevens e Steven Spielberg rispettivamente con Il diario di Anna Frank del 1959 e Schindler’s list del 1993. Stando a tempi più recenti, invece, troviamo Il pianista di Roman Polanski del 2002, Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber del 2005, Il nastro bianco di Michael Haneke del 2009, La chiave di Sara di Gilles Paquet-Brenner del 2010, In Darkness di Agnieszka Holland del 2011 e Anita B. di Roberto Faenza del 2014.

 

Altri autori invece hanno posto l’accento sulla deportazione e la realtà del lager. In questo senso, uno dei più importanti lavori del passato è senza dubbio Il viaggio dei dannati di Stuart Rosemberg del 1977, nonché il grande kolossal Olocausto dell’anno successivo, targato Marvin J. Chomsky. Ovviamente non poteva mancare La vita è bella di Roberto Benigni del 1998, così come l’opera d’oltralpe Train de Vie di Radu Mihaileanu del 1999, in cui è altresì percepibile una chiara deriva ironica per sdrammatizzare l’orrore. Incanalati all’interno del medesimo contesto tematico, ecco che trovano posto anche Il Falsario – Operazione Bernhard di Stefan Ruzowitzky del 2007, il celebre e più volte riproposto in tv Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman del 2008 ed infine Vento di primavera del 2010 diretto da Roselyne Bosch.

 

Alcuni registi hanno voluto inscenare il lato più battagliero e patriottico della situazione, schierandosi apertamente al fianco delle persone che hanno lottato, anche a costo della propria vita, pur di rimanere nella propria dimora e nel proprio Paese nonostante l’invasione nazista. Il tema della resistenza viene sviscerato ed esplorato in Arrivederci ragazzi di Louis Malle del 1987, Rosenstrasse di Margarethe von Trotta del 2003, La rosa bianca – Sophie Scholl di Marc Rothemund del 2005 e in Defiance – I giorni del coraggio del 2008, con Daniel Craig (James Bond) tra i protagonisti e la regia di Edward Zwick.

 

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La produzione cinematografica italiana non è stata certo a guardare. La persecuzione degli ebrei e le stragi naziste avvenute nel nostro Paese sono il leitmotiv de Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica del 1970, mentre in tempi più recenti ricordiamo Concorrenza sleale di Ettore Scola del 2001 e L’Uomo che verrà di Giorgio Diritti del 2009.

 

L’ironia utilizzata come arma contro l’orrore è il caposaldo de Il grande dittatore di Charlie Chaplin, superbo ed ilare capolavoro del 1940.

 

Il punto di vista delle vittime e degli spietati assassini che si sono macchiati di terribili omicidi viene analizzato da film quali Il maratoneta di John Schlesinger del 1976, L’ultimo metrò di Francois Truffaut del 1980 e il recente The Reader – A voce alta di Stephen Daldry del 2007.

 

La pellicola Vincitori e vinti di Stanley Kramer del 1961, invece, si fa notare per aver affrontato il tema spinoso dei processi dei criminali di guerra nazisti, mentre le opere intitolate Non dire falsa testimonianza di Krysztof Kieslowski del 1988 e Homicide di David Mamet del 1991 gettano la luce sulle tracce indelebili provocate dall’orrore dell’Olocausto.

 

Il labirinto del silenzio

 

 

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Uno degli esempi di cinema legato tematicamente al ricordo e alla rielaborazione della Shoah è il film, da poco uscito nelle sale, Il labirinto del silenzio, in cui la tragedia dell’Olocausto viene esaminata in maniera sobria ed efficace. Un film-dossier teso ed appassionante dai toni inquisitori e diretti.

 

La storia è ambientata a Francoforte (Germania) nel 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore idealista, ambizioso e ligio al dovere. Attraverso l’incontro con un giornalista poco incline alle regole e dallo spirito combattivo, Thomas Gnielka, Johann fa la conoscenza di Simon, un artista ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento di Auschwitz, le cui figlie gemelle sono state sottoposte ad una serie di crudeli test da parte del Dott. Josef Mengele. Simon riconosce nella figura di un insegnante di una scuola elementare uno degli aguzzini del campo di sterminio. Johann, rimasto colpito sia dalla sofferenza provata da Simon sia dalla tenacia di Thomas, decide di occuparsi del caso, ma la bocca cucita di coloro che vorrebbero dimenticare e di chi purtroppo non potrà mai affidarsi all’oblio, costringono il giovane procuratore a chiedere aiuto a Fritz Bauer, il procuratore generale, il quale gli consentirà di svolgere in piena autonomia e in totale libertà il proprio lavoro, infondendogli al contempo il coraggio di perorare la sua causa. Dopo aver ascoltato numerose testimonianze, Johann entrerà in contatto con l’orrore del passato recente della sua Germania ed avvierà il cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”.

 

Il labirinto del silenzio è un film drammatico tedesco del 2014, distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 14 gennaio grazie alla Good Films. Dietro la cinepresa troviamo il regista Giulio Ricciarelli, nato a Milano, ma naturalizzato tedesco, il quale, attraverso questa pellicola, fa slittare il piano visivo verso quello auditivo e il piano delle immagini verso quello verbale.

 

Il protagonista della vicenda è un biondo e baldanzoso procuratore che a distanza di 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau guida la propria Nazione verso la redenzione. Il 1958 diviene così l’anno spartiacque, in cui finalmente s’inizierà per la prima volta a far luce sui crimini di guerra e sui criminali nazisti.

 

Giulio Ricciarelli costruisce un film giuridico e drammatico perfettamente corretto da un punto di vista storiografico. Tale operazione viene eseguita amalgamando personaggi fittizi (Johann Radmann) e realmente esistiti (Thomas Gnielka e Fritz Bauer, a cui il film è dedicato).

 

Ne Il labirinto del silenzio il male assume le sembianze di un essere vivente dotato di un nome, un volto, un’età anagrafica e un recapito. Il giovane procuratore protagonista dell’opera prende sulle spalle la Germania, facendosi carico del suo ingombrante e sconcertante passato. I campi di sterminio non saranno più definiti (e giustificati) come “luoghi di detenzione privata”, ma verranno chiamati col loro vero e reale nome. Tuttavia, Johann, persuaso d’indagare su un omicidio, dovrà fare i conti con l’omertà delle persone e con la falsità delle loro dichiarazioni. A 20 anni di distanza dal processo di Norimberga, 22 criminali nazisti, di cui tuttavia solo 6 saranno condannati all’ergastolo, presenzieranno dinanzi al tribunale di Francoforte, in quello che è stato ribattezzato come il “secondo processo di Auschwitz”. Tale evento segnò un vero e proprio cambiamento di rotta: la Germania per la prima volta assunse il suo passato come un dovere morale. L’opinione pubblica e la magistratura iniziarono gradualmente a prendere coscienza e a sensibilizzarsi su ciò che accadde. L’oblio dell’Olocausto fu così scongiurato.

 

In questo film i mostri del passato verranno braccati e i gerarchi e i secondini saranno messi a confronto. Il silenzio degli aguzzini e delle vittime sarà spezzato ed interrotto da una serie di domande, le quali cercheranno di farsi largo nel loro dolore. Attraverso la figura di Simon, inoltre, Il labirinto del silenzio parlerà anche dell’isolamento dei sopravvissuti e dell’integrazione in Germania e in Israele, facendo riflettere chi ha ignorato e nascosto per troppo tempo la portata dello sterminio di massa.

EX MACHINA

Caleb è un giovane programmatore che si aggiudica la possibilità di trascorrere una settimana nell’in montagna di Nathan Bateman, il CEO della società per cui lavora, BlueBook, scoprendo presto di essere stato scelto per diventare una pedina di un esperimento ambiziosissimo del suo capo: testare una macchina umanoide dotata di una intelligenza artificiale e aspetto femminile. I rapporti fra i tre diventano subito torbidi, e il gioco del non detto, delle bugie inconfessabili e della manipolazione porterà ad un vortice dagli esiti non calcolati.


Il film è per certi versi sicuramente interessante, anche a prescindere dalla splendida motion graphic affidata ai Pinewood Studios di Londra (già noti alle cronache per aver curato, uno su tutti, gli effetti speciali del pluripremiato Gravity). Il regista Alex Garland, già sceneggiatore di Sunshine, 28 giorni dopo e The beach per Danny Boyle, alla sua prima prova con un lungometraggio sa dosare acceleratore e il freno, creando la quiete prima della tempesta e alzando il ritmo quando serve. Forse non una regia estremamente personale, ma funzionale e tutto sommato godibile, coronata da una sceneggiatura con sprazzi gustosi.


Mentre in Her, forse il film più vicino a Ex-machina per tematica, c’è una delicata attenzione nel suggerire un mondo credibile in cui si inserisce la vita dei personaggi, qui abbiamo un laboratorio sperduto e un triangolo di individui in guerra fredda fra loro: un microcosmo che ci libera da questa esigenza. Una buona idea, produttivamente parlando, ( il minor numero di setting riduce i budget e concentra le energie altrove), che non lascia tuttavia completamente appagato lo spettatore, il quale vorrebbe vedere di più, molto di più. Uscendo dalla sala si ha l’impressione che non tutto il potenziale dell’idea sia stato espresso, a partire dalla figura di Nathan Bateman (Oscar Isaac), carismatico e visionario, e che si potesse scavare molto di più nella natura di attrazione-repulsione dei protagonisti per le creature umanoidi, così distanti ma così vicine.


La riflessione che viene portata avanti su come la conoscenza in 2D attraverso i codici binari di un monitor non possa appagare davvero l’uomo ( o in questo caso, la macchina) è interessante ed evidentemente attualissima, nell’era degli Hikikomori, ma poco o nulla aggiunge rispetto a quanto cinema e letteratura già non abbiano detto.


Ex machina è l’ultimo parto di un filone sci-fi che il cinema ha da sempre cavalcato, quello della interazione fra macchina senziente e uomo, e quasi sempre in chiave distopica. Un filone che dai poetici 2001-Odissea nello Spazio (1968) a Blade Runner (1982), passando per i super blockbuster Terminator (1984), Matrix (2000) e relativi sequel, fino a Her (2013) ha sempre riflettuto sul tema di cosa sia “il proprio” dell’essere umano, la scintilla che lo renda inequivocabile umano. La domanda intorno a cui gira la pellicola è semplice, quella del celebre Test di Touring: quando una intelligenza artificiale non viene percepita come tale da un umano, dove inizia uno e dove finisce l’altro? La risposta, meno.