Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio letterario

Parte II



Vivere la pazzia: Enrico IV di Luigi Pirandello


L’autore che forse più di tutti ha meditato sulla follia e, anzi, l’ha assunta come strumento di analisi della realtà è Luigi Pirandello, celebre scrittore italiano, nato ad Agrigento in Sicilia nel 1867 e morto a Roma nel 1936.


Non c’è nulla di fisso e immutabile nella realtà: questa è l’amara riflessione di Pirandello. L’uomo è finzione e la sua vita scorre tra incubo e sogno. Siamo costretti dalla società ad assumere dei ruoli e delle caratteristiche che non vorremmo; siamo costretti, tutti, a indossare una «maschera», un’immagine fittizia in contrasto con i nostri reali sentimenti e le naturali inclinazioni. Compito dell’arte, e del teatro in particolare, è quello di «denudare» e «smascherare» le nostre persone per far emergere l’irrazionalità e la contraddizione insita nella stessa realtà.


Attraverso le sue opere, il grande scrittore siciliano si applica nell’osservazione delle abitudini umane, rilevando l’illogica condotta degli uomini che non di rado raggiunge il paradossale e il grottesco. Enrico IV è uno di questi testi, tra i più belli e famosi.


La vicenda vede protagonista un uomo, di cui ignoriamo il nome, che è uscito di senno in seguito ad una caduta durante una cavalcata in costume. In quell’avvenimento, accaduto venti anni prima, egli impersonava l’imperatore di Germania che, nel lontano Medio Evo, aveva polemizzato con il papa Gregorio VII ed era stato da questi umiliato prima di essere ricevuto nel castello di Canossa grazie alla mediazione della contessa Matilde. Per tutti questi anni, dunque, il protagonista è stato considerato pazzo; ma, tornato d’un tratto alla ragione, si rende conto di essere escluso dal mondo degli affetti di quanti lo circondano: anzi, ha ricordato perfettamente che la caduta era stata causata dal suo rivale in amore, Tito Belcredi, che gli ha rubato l’amore di Matilde Spina e l’ha sposata. Perciò preferisce continuare a farsi credere pazzo, per poter osservare la vita e la sua illogica condizione come dal di fuori, ma anche per poter agire «in verità».


Il dramma, in tre atti, è ambientato nella villa del signore impazzito addobbata come la sala del trono dell’imperatore medievale. Anche i vari personaggi, pur avendo nomi moderni, vengono da lui chiamati, e si chiamano tra loro, con appellativi antichi: Lolo si chiama Landolfo, Franco prende il nome di Arialdo e così via, in un crescendo di finzioni e di maschere.


Nel primo atto vengono introdotti gli ospiti: donna Matilde Spina con la figlia diciannovenne Frida, il marchese Carlo Di Nolli e il barone Tito Belcredi, cui si aggiunge il dottor Dionisio Genoni, un medico incaricato di cercare una soluzione per la malattia mentale del padrone di casa. Il medico suggerisce che, per far guarire l’infermo, si potrebbe ricostruire la scena durante la quale accadde il sinistro. Agli occhi di Enrico, essi sono personaggi del Medio Evo: Matilde di Canossa, Ugo di Cluny, Pietro Damiani, la duchessa Adelaide e via … mascherando. Il dialogo che si stabilisce tra loro e con il protagonista è tutto incentrato sull’ambiguità del linguaggio, sull’equivoco delle identità, sul mutamento delle cose.


Nel corso del secondo atto viene allestita la scena, secondo i suggerimenti del dottore, per riproporre la situazione che anni prima aveva causato la follia del padrone di casa. La figura di Matilde di Canossa, però, non può essere interpretata dalla Spina, ormai avanti negli anni. Il ruolo, perciò, viene affidato a Frida, identica alla madre da giovane, il cui ritratto fa bella mostra nella sala. La ragazza in un primo momento sta al gioco, ma presto si rende conto che sarà lei al centro dell’attenzione di Enrico, il «pazzo». E in effetti intorno all’amore per Frida, ritenuta Matilde, si stabilisce un intenso dialogo tra Enrico e la signora Spina, ritenuta la madre di Matilde, in un crescendo di allusioni, dubbi, sospetti. La tensione cresce di tono, fino a quando, usciti tutti, il protagonista resta solo con un valletto:

ENRICO: Non capisci? Non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti, buffoni spaventati! E si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro addosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di far il pazzo!


Alla fine del secondo atto, pertanto, lo spettatore è avvertito che Enrico è cosciente della propria pazzia. Dunque, non è pazzo, ma si finge tale per mettere in esecuzione un disegno che ha preso posto nella sua mente forse già da anni: vendicarsi di quanto era successo tanto tempo prima.


ENRICO: Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare. […] Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni.


Il dramma raggiunge l’esasperazione. Da una parte Enrico si abbandona a un’amara riflessione filosofica sull’incapacità degli esseri umani di comunicare tra loro in una condizione di verità; dall’altra, ormai ha maturato una terribile decisione.


Giungiamo, così, al terzo atto. Tutto si svela:

ENRICO: Già. Ma vedi? È che, cadendo da cavallo e battendo la testa, fui pazzo per davvero, io, non so per quanto tempo … circa dodici anni. (Rivolto a Belcredi) E non vedere più nulla di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono; il posto preso da altri, per esempio … che so! Ma supponi nel cuore della donna che tu amavi; e chi era morto; e chi era scomparso … tutto questo, sai? Non è stata mica una burla per me, come a te pare!


Poi, un giorno, all’improvviso gli tornò il senno:


ENRICO: E allora, dottore, vedete se il caso non è veramente nuovo negli annali della pazzia! – preferii restar pazzo. Viverla – con la più lucida coscienza – la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d’un sasso che m’aveva ammaccata la testa. […] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo qua; e lo faccio, quieto! – Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia.


In uno slancio allucinato Enrico sguaina la spada e ferisce a morte Belcredi, consumando in tal modo la vendetta. Infine continua a fingersi pazzo, sfuggendo così anche alle responsabilità di fronte alla legge. Il sipario cala sulla crudele soddisfazione di un uomo isolato, che ha trovato nella follia la chiave d’interpretazione più autentica della realtà.


In Pirandello, dunque, il sonno della ragione non genera i mostri. Anzi! È la ragione a essere imprigionata nelle convenzioni e a diventare, perciò, incapace di comprendere la verità. La falsità è nella struttura stessa delle cose. Solo la pazzia ci rende sinceri, perché costituisce un punto di rottura con l’apparenza: il sonno della ragione, pertanto, permette di vedere i mostri che regnano in noi e attorno a noi.


L’assopimento della ragione resta con tutta la sua ambiguità e relatività. Esso è capace di dare vita alle ombre. Ma è anche in grado di proiettare luce sulle ombre della vita. Ancora una volta, tutto torna nelle mani e nella responsabilità della persona. Tutto torna al mistero della libertà. Ogni generazione umana dovrà guardare in faccia i «mostri» che eredita dalle precedenti e sarà chiamata a liberarsene. Utilissima sarà la ragione. Utilissimo sarà anche il suo sonno. Perché, shakespirianamente, sempre ci saranno più cose in cielo e in terra di quante ne possa contenere la nostra filosofia.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio letterario

Il fiume di Virginia Woolf


Virginia Woolf chiuse i suoi giorni terreni con un suicidio: era il 28 marzo 1941. La scrittrice inglese era nata a Londra nel 1882. Fin dall’infanzia, essendo figlia del critico sir Leslie Stephen, aveva respirato in famiglia un’atmosfera culturalmente elevata. In età adolescenziale, dopo la morte della madre, iniziò a manifestare atteggiamenti di ribellione nei confronti del padre e, nello stesso tempo, della mentalità dominante che voleva la donna sottomessa all’uomo e relegata tra le pareti domestiche. Sposò Leonard Woolf, un editore, con il quale andò a vivere a Bloomsbury: presso la loro abitazione si raccolse un gruppo d’intellettuali fortemente critico nei confronti della morale borghese della cosiddetta «società vittoriana». La Woolf scrisse romanzi e racconti, anche come forma di rimedio ad alcuni problemi mentali che la stavano progressivamente interessando. Sotto l’aspetto stilistico, se i suoi primi scritti sono ancora in una linea tradizionale, con Monday or Tuesday e Jacob’s room iniziano ad evidenziarsi i motivi e i ritmi autobiografici che caratterizzeranno le sue opere maggiori.


Virginia Woolf fu una delle prime scrittrici femministe sia in senso politico (tra l’altro, sostenne il movimento per il voto alle donne) sia soprattutto in senso culturale. Mrs Dalloway, Orlando e To the lighthouse sono i testi della sua maturità: pur riecheggiando l’influsso di James Joyce, essi presentano un’impronta personale, che si esprime in un’ampia struttura, un impianto classico, un linguaggio musicale. Fin dai titoli, estremamente semplici, la Woolf manifesta la consapevolezza di voler mostrare la potenza simbolica in cose e persone apparentemente «quotidiane». Gli eventi più semplici fanno parte del ritmo universale della vita.


La scrittrice era afflitta da turbe psichiche, ansie e paure. Tra una crisi e l’altra, nonostante forti debilitazioni, riuscì a comporre molti testi. Anzi, a una sua amica scrisse: «La pazzia è una cosa terrificante, da scongiurare, ma nella sua tempesta di lava io trovo la maggior parte delle cose che scrivo». Questi suoi smarrimenti aumentarono con lo scoppio della seconda guerra mondiale e i bombardamenti tedeschi su Londra. Virginia avvertì che un intero mondo stava per scomparire e ne stava nascendo uno nuovo, fatto di cattiveria e di violenza, e di fronte al quale si sentì impotente. Questa consapevolezza costituì l’ultima spinta verso il suicidio.


Tra le sue opere principali, emerge Mrs Dalloway, libro che vide la luce nel 1925.


La protagonista è Clarissa, una donna della società londinese, moglie di un conservatore, che sostiene i principi tradizionali della politica e ha una sua visione dei diritti della donna. In Clarissa sorgono sentimenti opposti a quelli del marito: infatti avverte un bisogno di libertà e di indipendenza e diventa sempre più cosciente di quanto la condizione femminile abbia bisogno di riscatto e di dignità. Perseverando, tuttavia, nel suo stile di vita fatto di rapporti sociali superficiali e vuoti, Clarissa entra in conflitto con se stessa. Apparentemente felice e perfetta, in realtà si addentra in un tunnel di tristezza e d’insoddisfazione, che si esprime anche nella sfera affettiva ed emozionale. La donna si sente soffocare in questa situazione di ambiguità e di frustrazione e prende sempre più coscienza di vivere una vita diversa da quella che vorrebbe.


Tutta la vicenda del romanzo è racchiusa in un giorno di giugno del 1923. La signora Dalloway si reca a comprare dei fiori per un ricevimento che ha intenzione di dare la stessa sera. All’improvviso, distratta da un’auto che passa rumorosamente per la strada, vede Septimus, un veterano della prima guerra mondiale, che sta passeggiando con la moglie Lucrezia. L’uomo, essendo afflitto da turbe mentali, è costretto a frequentare uno psicologo. Dopo aver comprato i fiori, la protagonista torna a casa, dove riceve la visita inaspettata di un amico d’infanzia; questi, a sua volta, incontrerà la coppia precedente dallo psicologo. Septimus, in seguito alla visita medica, dovrà essere rinchiuso in una clinica; ma egli preferisce suicidarsi sotto gli occhi della moglie. Poco più tardi, ha inizio il party di Clarissa, al quale partecipa anche lo psicologo, in ritardo a causa del suicidio di Septimus. Appresa la notizia della morte di lui, la protagonista del romanzo, pur non conoscendolo personalmente, prova una forte inquietudine e si riconosce nella vicenda del suicida. È questo decesso a svegliarla dal delirio onirico nel quale stava precipitando in modo permanente e suscita in lei una profonda meditazione sulla morte.


Come si vede, dunque, la trama del racconto è estremamente ridotta. In una prima parte del libro, Clarissa è presentata mentre passeggia per le vie di Londra, tutta presa dai ricordi di parenti e amici. L’autrice si concentra sui monologhi interiori della protagonista, i moments of being: qualsiasi oggetto contiene in sé la chiave per avviare le nostre memorie. Così anche una foglia che cade dall’albero suscita in Clarissa il ricordo della sua passione per la danza o per le cavalcate in campagna. È un flusso continuo, il cosiddetto «flusso di coscienza», profondamente introspettivo: tutto ciò che, come un fiume, passa nella mente della protagonista in questo breve segmento di tempo è il vero soggetto del racconto. Continuità e discontinuità, memoria e progetto, coscienza del tempo, fissità e divenire, volontà di potenza e consapevolezza di fragilità, i «no» accumulati e la perdita delle speranze, …


Man mano che ci si addentra nel racconto, appaiono i vari personaggi che, nell’insieme, formano quella società borghese della quale la Woolf era parte integrante ma dalla quale cercava di prendere le distanze. Clarissa «è» Virginia. Ella incarna quella società inglese di inizio Novecento, con i pregi e i difetti; è un prodotto tipico di quella cultura, ma lei vive questa appartenenza con un senso di angoscia. Avverte la frustrazione di un ruolo sociale che non riesce più a condividere. Avverte un conflitto lacerante con se stessa e con il mondo di valori che è stata costretta a rappresentare.


Coprotagonista è Septimus. Anzi, potremmo considerarlo un alter-ego della protagonista. In lui Clarissa-Virginia trova lo sfogo da se stessa e dal proprio «mostro» interiore: Septimus, una figura degna di Shakespeare, è sull’orlo della follia e precipita in una solitudine sempre più oscura.


Altro personaggio è Sally, una donna verso la quale Clarissa sente attrazione. Il suo carattere ribelle e privo di regole esercita un fascino misterioso e potente su di lei. Eppure Sally ha sposato un uomo di umili condizioni; perciò Clarissa non la va a visitare. Contraddizioni che si accumulano e s’intrecciano nella straordinaria partitura della narrazione.


Altri personaggi, altre contraddizioni: Clarissa è stata innamorata di Peter Walsh, ma ha sposato Richard Dalloway. Il primo è uno spirito libero, il secondo è ricco, nobile e ben inserito nella società. Ancora: la signora Kilman, insegnante della figlia, con la sua cieca fiducia in Dio, rappresentante di una religione esteriore e dispotica. E potremmo continuare, proprio come il fiume di ricordi e di sensazioni che fanno pressione nella coscienza di Clarissa.


Ebbene, proprio in questo «carcere» nel quale Clarissa vive e agisce, irrompe il mondo reale con la notizia della morte di Septimus, «uno sconosciuto, forse un folle, morto gettandosi dalla finestra». Ecco, un folle! È grazie alla follia del suicida che Clarissa prende coscienza della follia dorata e contraddittoria nella quale lei è immersa.


Il sonno della ragione ha generato, sì, il mostro del suicidio, ma anche la presa di coscienza di un’universale vulnerabilità, il punto terminale di un percorso.


Identificandosi con le sue creature letterarie, qualche giorno prima della morte Virginia Woolf scrisse al marito: «Carissimo, sento proprio che sto per impazzire di nuovo. So che non possiamo assolutamente affrontare di nuovo quei momenti terribili. E questa volta non guarirò».


Le acque del fiume Ouse, nel Sussex, accolsero il corpo di Virginia Woolf. Alle 11,30 del mattino, all’età di 59 anni, la grande scrittrice prese il bastone da passeggio e, dopo essersi messa una pesante pietra nella tasca del vestito, si immerse nel corso d’acqua e si lasciò annegare.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio filosofico

Parte I


Nella storia delle riflessione umana, il pazzo è apparso non solo come una persona «fuori dal mondo», ma come uno che vede il mondo da un punto di osservazione diverso rispetto a quello dei più. In sostanza, la follia mette in risalto i limiti stessi della ragione, indicandole che, per parafrasare Hegel, «non tutto ciò che è reale è razionale» e, in modo particolare, non tutto ciò che esiste può essere contenuto nei limiti della ragione.

Già Platone aveva affrontato il tema, in modo specifico nel Fedro, uno dei suoi dialoghi più celebri, composto intorno al 370 a C. Il grande filosofo si pone la questione se sia più credibile colui che è in preda all’esaltazione oppure chi ne è privo. Egli vede nella «mania» un momento prelogico, che si esprime in quattro forme di follia, cioè l’arte divinatoria, il rapimento mistico, il furore poetico e l’amore. L’uomo, ovviamente, deve superare queste esperienze per tendere alla conoscenza. Tuttavia avverte quasi una forma di nostalgia per una rivelazione della verità che venga non dall’umano ragionamento ma come da una illuminazione dall’alto. «I più grandi doni» – scrive – «ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino». Platone porta tre esempi: le sibille, i guaritori e, soprattutto, i poeti e conclude con un’asserzione folgorante: «La saggezza proviene dagli uomini, la follia da Dio», in quanto essa è impulso originario e naturale, indipendente dall’arbitrio umano.


In Platone, dunque, la follia si presenta non come una forza distruttrice, ma come un’ispirazione divina e un amore alla vita.

Un’eco di questa interpretazione forse è possibile riscontrarla anche nel pensiero cristiano. Nel Nuovo Testamento, infatti, San Paolo presenta la vicenda di Gesù Cristo come «la follia di Dio» che si è manifestata più sapiente della sapienza degli uomini. Culmine della vita spirituale, perciò, non sarà la visione razionale del filosofo, ma la condivisione del cammino di Gesù.

Il Medio Evo cristiano, a sua volta, oscillerà tra questi due atteggiamenti: da una parte la ricerca di una grande impostazione razionale, che culminerà nelle Summae teologiche e filosofiche di un Tommaso d’Aquino, di un Bonaventura da Bagnoregio e di un Giovanni Duns Scoto; dall’altra la consapevolezza che non tutto il reale è riconducibile al controllo della ragione, per cui si darà ampio spazio alla credenza nei miracoli, alla potenza delle vere o presunte reliquie dei santi, alle «feste dei folli», al ricorso alla stregoneria e così via.


Con la luce del Rinascimento, proprio quando la razionalità trionfa nella scienza e nell’arte, il tema della follia tornerà a interessare i pensatori. Uno dei più celebri tra loro, Erasmo da Rotterdam, ne farà oggetto di riflessione nell’Elogio della Follia, opera talmente brillante da costituire uno dei simboli dell’intero periodo. Nell’opera, che vide la luce nel 1511, la Follia esalta se stessa e si presenta come una componente indispensabile dell’esistenza umana: senza di essa, la vita non sarebbe pensabile nelle sue molteplici sfaccettature. Erasmo prospetta una tagliente satira contro le condizioni religiose e sociali del suo tempo, mettendo alla berlina la presunta saggezza dei monaci e dei teologi. In campo morale, poi, la follia tende alla santità perché essa, nel senso di Platone e di San Paolo, si eleva al di sopra delle apparenze e tende alla semplicità di una vita vissuta nella fede e nella carità.

A distanza di un secolo Giordano Bruno riprende il tema di un approccio alla realtà che non si risolva unicamente nella dimensione razionale. Egli vede nell’«eroico furore» una forma più alta della razionalità: esso è uno sforzo consapevole, un impeto di conoscenza e un dinamismo di amore. Chi è preso da un tale furore è il vero sapiente, colui che va oltre i limiti del finito, si libera dai legami che lo tenevano avvinto alle cose contingenti e può giungere ad amare l’infinito, cioè Dio, e in Dio ama nel contempo tutte le cose.


La vera follia, dunque, è la pretesa del razionalismo di poter dominare tutto con la ragione, perché facilmente dal razionalismo si passa all’ideologia che è una pretesa onnicomprensiva. Bisogna perciò contemperare ragione e «follia», intelletto e sentimento, perché, secondo l’intuizione di Blaise Pascal, la ragione non è l’unico strumento conoscitivo: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende».

Questa problematica ritornerà sempre nel corso della storia. Tappe importantissime della cultura, ad esempio, saranno il Romanticismo, che riflette sul momento oscuro ed estatico dell’originario atto creativo, e, in tempi più recenti, la psicoanalisi di Freud, che scruta nelle profondità dell’animo umano quell’abisso oscuro e magmatico che sfugge alla consapevolezza.