Venezia 75 – “Charlie Says”, il film su Charles Manson, da assassino a guru hippie

MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA:

Orge tutte le sere, natura selvaggia, nessuna regola, droghe a profusione, sesso libero, nudismo, condivisione, “amore”. No non è il Paradiso, ma la “Famiglia” di Charles Manson, un gruppo di cinquanta ragazzi che avevano come loro unico dio Charles Manson, il macabro assassino che ha sconvolto la Hollywood degli anni ’70 con l’uccisione di Sharon Tate (allora moglie del regista Roman Polansky incinta di 8 mesi e mezzo) e quattro dei suoi amici durante una festa privata.

La strage messa a frutto dalla mente di Charles Manson la conosciamo tutti purtroppo, cinema e tv continuano a farne dei film (a breve ne uscirà uno firmato Quentin Tarantino), famose rock star ne prendono il nome, non ultimo il commercio in nome del dio denaro continua a fabbricare magliette con il suo faccione.  Il male possiede un grande fascino, inutile negarlo, e non sono solo le menti deboli ad esserne attratte, una statistica fatta da psicologi e medici rivela che un alto numero di donne istruite e di ottima famiglia sono affette da quella che chiamano “ibristofilia“, ovvero l’attrazione morbosa verso il mostro.

In questa pellicola di Mary Harron (regista di American Psycho) intitolata “Charlie Says“, la storia è raccontata dal punto di vista delle tre ragazze, condannate a morte, che hanno preso parte agli eccidi di  Cielo Drive e della coppia Leno e Rosemary LaBianca.


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Le tre ragazze protagoniste di “Charlie Says”


Leslie (Hannah Murray), Patricia (Sosie Bacon) e Susan (Marianne Rendón) sono in carcere (la condanna a morte sarà trasformata in ergastolo) e ripercorrono la storia della “Family” attraverso flashback che iniziano con “Charlie Says” – “Charlie dice“. E’ la psicologa (Merritt Wever) ad ascoltarle, l’educatrice che ha il compito di riportarle a contatto con la vita reale tramite il dialogo e la lettura.

Quasi l’80% del film riporta il vivere felice della “Family” allo Spahn ranch di Manson (Matt Smith), un vecchio set di film western abbandonato; quasi il 90% del gruppo è composto da donne problematiche, fuggite da mariti o dalla loro famiglia di origine; la comune si ciba di avanzi trovati nei cassonetti della spazzatura, non sono permessi orologi né giornali, le donne non possono avere soldi e sono destinate ai lavori più umili, devono essere pronte ai bisogni primitivi dell’uomo e non devono in alcun modo controbattere la “verità” del leader, che si sente la reincarnazione di Satana e Gesu’ Cristo insieme.

Ci si chiede come sia possibile che dei ragazzi intelligenti possano essere manipolati fino a cancellare definitivamente la propria individualità, e la risposta la si trova negli studi durante gli anni di carcere di Manson (prima della strage) passati sui libri di ipnotismo, esoterismo, motivazione subliminale, magia nera, chirosemantica, massoneria, negromanzia. Il leader della “Family” ha fascino da vendere, adesca seguaci in nome della condivisione e del rifiuto di una società di plastica, è carismatico ed estremamente intelligente e, al contrario di quanto i componenti pensano, ha già disegnato il suo piano diabolico. Il perenne uso di sostanze stupefacenti fa il resto.

A scatenare la sua ira repressa è il rifiuto di un produttore discografico di Los Angeles (Manson aveva sempre sognato di diventare una rock star), è l’inizio della fine, un crescendo di odio e frustrazione che da’ vita ad una teoria: “Helter Skelter“, la profezia segreta che, secondo Manson, avrebbe portato a un nuovo ordine, ma per cui era necessario accendere uno scontro tra bianchi e neri, con una serie di delitti a caso.


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una scena del film


Sarebbe risultato più interessante il viaggio nell’abisso della mente di Manson, cui nessuno specialista è riuscito ad oggi a dare un tracciato preciso circa i suoi disturbi mentali. Qualcuno ipotizza che Manson fosse ossessionato dalla fama, e non essendo riuscito a catturare l’attenzione pubblica tramite la musica, ci provo’ con il mestiere dell’assassino. Altri credono che una vita vissuta in povertà e in mezzo alla strada (la madre era una prostituta alcolizzata e il figlio visse tra il riformatorio e la casa dei nonni, con una figura maschile violenta) lo abbia portato a covare odio verso i ricchi e i famosi.

Marry Harron percorre invece una strada più difficile, forse, in cui i dialoghi più fitti vanno a Leslie o Lulù (come verrà soprannominata dal leader), una ragazza dolce ed intelligente, la prima cui si risveglierà la coscienza, che la metterà di fronte, con una trasparenza pungente, all’atrocità degli atti compiuti.

Una scelta strana quella della regista, che ci porta all’immedesimazione nelle ragazze, quasi volesse giustificarle, quasi fossero loro vittime e non carnefici. Le efferatezze compiute passano quasi in secondo piano, Charles Manson sembra più un santone hippie che un cruento assassino (anche se non si è mai sporcato le mani di sangue, ma è stato solo il mandante), la violenza è crescente ma occupa una parte marginale, mancano i furti e altri atti illegali che la family compiva per procurarsi il denaro. Nella prima parte del film la congrega è pulita, amorevole, ci chiama a sé, Manson siede in mezzo alle sue discepole come ad un’Ultima cena, le tre ragazze sono dei docili micini quando ricordano i fatti, ma la realtà dice questo:

Sharon Tate (26 anni incinta di 8 mesi e mezzo) implora ancora qualche giorno di vita, prima di morire.

Senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido” .

Sono queste le parole agghiaccianti di Susan Atkins, che pugnala l’attrice 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale.

Una clip dal film “Charlie Says”:




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Venezia 75 – una bellissima donna senza contenuti il film “The mountain” di Rick Alverson

Avete presente quando di tutta risposta ad un colloquio vi viene detto: “troppo referenziato per questo lavoro” ? Ecco, “The mountain” potrebbe equivalersi a questa frase, perché il film dell’americano Rick Alverson potrebbe risultare troppo ambizioso e il detto ci fa credere che “Chi troppo vuole, nulla stringe“.

Siamo negli anni ’50, Andy ha perso il padre, e la madre è ricoverata in un istituto psichiatrico chissà dove. A fargli da tutore il dott. Wally Fiennes, palesemente ispirato alla figura di Walter Jackson Freeman II, primo medico statunitense ad aver introdotto il metodo della lobotomia.

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una scena di “The Mountain”


Andy è un ragazzo timido, apatico, silenzioso, problematico, si potrebbe dire in perenne stato vegetativo, non esprime il minimo interesse nei confronti della vita né delle sue attività; viaggia con il dottore, da un manicomio all’altro, Polaroid alla mano, ritraendo i pazienti sottoposti allo strazio della lobotomia transorbitale, tecnica che, combinata all’elettroshock, avrebbe dovuto guarire dalle malattie mentali.

Andy (Tye Sheridan) è ormai vittima di un labirinto malato, dove la pazzia è la normalità e la sua routine. In un copione praticamente assente, volge al cambiamento quando prende coscienza della rudimentalità dei mezzi e della totale mancanza di partecipazione emotiva del dottore durante le infinite operazioni.

Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) è lo scienziato pazzo interessato solo all’universalizzazione della sua pratica, anziché alla guarigione dei malati, accanito bevitore, si lascia andare senza pudore al vizio e alla promiscuità.

A Denis Lavant spetta invece vestire i panni del personaggio più folle, guru della new age, a cui si lasciano bizzarri monologhi, crisi schizofreniche, folleggiamenti senza senso. Peccato perché con quel bel faccione poteva regalarci un tuffo nell’abisso della follia, e invece la sceneggiatura sembra mancante, come un ponte rotto a metà, dove le auto si fermano prima del precipizio, ma da cui in lontananza si vedono ancora scorrazzare.

E’ doloroso sapere che “avrebbe potuto essere”, perchè la pretenziosità lo rende inaccessibile, anche se perfettamente impacchettato nella sua fotografia nostalgica alla Erwin Olaf, vellutata nei verdi, morbida come panna montata ma estremamente fredda, un corpo pallido sotto le luci di un obitorio. Un 4:3 di estrema bellezza, una bellissima donna senza contenuto. E a un certo punto della storia, con questa donna, si ha bisogno di parlarci, altrimenti subentra la noia.

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Intervista a Paolo Raeli: La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.

Paolo Raeli, giovanissimo, originario di Palermo. Le sue fotografie sono attualmente molto apprezzate in Italia e all’estero. Recentemente ha anche pubblicato un libro. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino il suo mondo, fatto di emozioni pure e momenti unici e irripetibili.  


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Chi è Paolo Raeli?


Ho provato a darmi una risposta, e davvero – so che magari sembra pretenzioso dirlo – ma qualsiasi cosa mi viene in mente svilisce quello che vorrei davvero descrivere. Certe cose sono inesplicabili. Cambio continuamente.


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Come e quando ha iniziato a fotografare?


Avevo poco meno di diciotto anni: dopo la fine del mio primo amore ho cercato di incanalare tutta l’energia che avevo dentro e che ogni giorno si moltiplicava dentro di me, convergendola in una forma d’arte. La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.


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Se dovesse associare una canzone o un album alla sua fotografia, quale sceglierebbe?


Always Returning, Brian Eno.


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Come si pone verso i soggetti ritratti?


Li amo, tutti. Passati e presenti, nell’imperfezione, nella bellezza, in ciò che li rende unici. Apprezzo chiunque mi permetta di lasciarsi immortalare. Ci vuole una forma di coraggio secondo me.


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Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?


La cura verso gli altri. Ho bisogno che tutti si sentano a loro agio. E ciò non significa che si debba necessariamente guardare in camera, o sorridere, o chissà cosa. Potresti anche piangere, ed essere comunque a tuo agio. Si tratta di qualcosa che si percepisce nell’aria.


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Cosa intende raccontare di sé attraverso la fotografia?


Citando un film di Mark Romanek: “Se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice. E qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi una fotografia.”


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Trova che la fotografia possa veramente essere un’ottima terapia per la paura di dimenticare?


Mi piace pensare che sia così. Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa, è necessario.


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Quali emozioni intende catturare attraverso i giovani che ritrae?


Cerco la spontaneità. E’ anche quella qualcosa che è difficile da spiegare, ma si riesce a percepire. Sento di dare un tocco molto personale alle mie foto: scelgo di vedere la bellezza nel mondo. Molti documentano una realtà cruda, caotica. Io amo sognare. Mi piace pensare che quando sarò vecchio potrò rivedere queste immagini e credere, forse anche ingenuamente, che tutto fosse davvero perfetto.


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Come nasce e si sviluppa l’idea di pubblicare un libro che raccolga foto e pensieri?


Da quando ne ho memoria sono solito disegnare, scrivere: coniugare queste forme è terapeutico per me. Donald Winnicott diceva che un artista è qualcuno guidato dalla tensione tra il desiderio di comunicare e il desiderio di nascondere. Non so se mi reputo un artista, ma mi sono rivisto molto in questo pensiero. Da qui è nato il bisogno di
pubblicare un libro, in cui potessi mostrare a quante più persone possibili la mia visione del mondo. Un semplice libro fotografico, fondi bianchi e date, mi è sempre sembrato troppo riduttivo.


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Quali sono i prossimi progetti in cantiere?


Regola numero uno: mai parlare dei propri progetti, a meno che non si sia riusciti a realizzarli.


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Le fotografie di Paolo Raeli incantano e fanno sognare. Sono molto di più di semplici immagini. Sono il racconto di una generazione spensierata, affannata, innamorata, mutevole, fuori controllo. Quello che traspare maggiormente nei suoi scatti è un vero, sano e profondo senso di libertà, immortalato perfettamente attraverso la delicatezza dei gesti e le espressioni dei soggetti ritratti.


https://www.paoloraeli.com/

75 Mostra del Cinema di Venezia – “The favourite” (La favorita) di Yorgos Lanthimos

75 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – “The favourite” di Yorgos Lanthimos

La storia rivela che quelli che ce l’hanno fatta avevano una gran fame. Di popolarità, di vendetta, di rivalsa. Pensiamo agli inizi di Coco Chanel, una povera orfana che si era costruita un personaggio su mattoni di bugie, un padre commerciante che non esisteva (il padre aveva abbandonato sia lei che le sorelle in un orfanotrofio), un passato da cantante di successo (in realtà arrotondava in un locale di second’ordine dove alcuni ufficiali di cavalleria trovavano “ristoro”), una lista infinita che potrebbe essere raccolta in un libro: “le menzogne di Chanel”. Ma tutto questo aveva uno scopo e, senza alcun dubbio questo scopo è stato raggiunto: diventare parte della storia. Chanel sapeva perfettamente cosa voleva e aveva in sé tutta la rabbia per farcela e quella voglia di rivalsa che ha solo chi arriva dal basso.

Il film “The favorite” (La favorita) ci riporta un altro caso della storia in cui una donna utilizza tutte le sue armi (intelligenza, astuzia, fascino) per ottenere i favori della regina.

Siamo nel 1700 nella corte di Inghilterra, Anna Stuart è la regnante dal carattere debole, incerto, capriccioso, infantile, ed è quindi facile preda delle più astute dame di corte intorno a lei, a partire da Lady Marlborough, ovvero Sarah Churchill, moglie del generale e politico John Churchill.
Sarah, interpretata da Rachel Weisz, è nota per essere schietta e diretta, e lo è anche con la regina, che la accoglie come la sua più cara confidente, divenendo così anche consigliera politica. Nelle notti in cui il marito di Sarah (John Churchill) è al fronte a combattere la guerra (Francia e Inghilterra sono in lotta), le due donne si consolano nello stesso letto. La regina Anna ha perso il marito e 17 figli, nati morti o nei primi anni di vita, soffre di gotta e di sindrome di Hughes, questo la rende insicura, depressa e bisognosa di cure, che cerca invano nell’amica Sarah impegnata spesso in ambito politico (Sarah appoggia il partito dei Wighs a favore del marito) e decisamente cinica e calcolatrice.  Fino a quando arriva a palazzo una nuova figura: Abigail Masham, cugina di Sarah caduta in disgrazia a causa della dipendenza al gioco del padre. Abigail è dolce, intelligente e premurosa ed entrerà presto nelle grazie della regina, che troverà in lei la sensibilità assente in Sarah. Abigail, che ha il volto di Emma Stone, diviene presto la protagonista della pellicola di Yorgos Lanthimos; ha il volto di chi ci si può fidare, di chi accoglie i nostri segreti e li tiene in cassaforte, di chi comprende, è la spalla su cui piangere, l’amica che vorresti, ha la bellezza che irradia, la bontà matura, è la compagna che vorresti. E presto è facile dimenticarsi che è anche una ex dama, una donna astuta, che ha perso il suo rango ed ora si trova costretta alla servitù. E la rabbia e il bisogno di proteggersi faranno di lei una giocatrice vincente.


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Emma Stone in una scena del film


The favourite” è un film sul potere, sulla dignità, sulla moralità. Fino a che punto siamo disposti a cedere il nostro corpo, il nostro nome, il nostro rispetto?

Quando sarò per le strade a vendere il culo ai malati di sifilide, di questa moralità non me ne farò niente e la mia coscienza riderà di me”

Questo è il pensiero di Abigail quando si rende conto che nella posizione della “sguattera” non ha sicurezza, denaro, protezione e che l’unico modo per “sopravvivere” è “vendersi” alla regina.
E’ l’inizio dei giochi, in cui le concorrenti (Abigail e Sarah), si contendono le attenzioni di Anna, tra una masturbazione e un litigio, nell’atmosfera squallida e superficiale di corte, dove il tempo viene perso gettando arance su un valletto vestito solo di una parrucca pidocchiosa. Un tempo che ha il ritmo e il tono divertente mai visto prima in un film in costume. Lanthimos rende questa gara una scommessa, in cui si patteggia e ci si diverte, colora ogni personaggio con irriverenza, crudeltà, ridicolaggine.

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Olivia Colman in una scena del film


Olivia Colman nei panni della regina è la più buffa e quella dall’interpretazione più credibile; Rachel Weisz sarà il simbolo della verità o dell’ipocrisia, dipende da come la si vuol leggere; sarà lei a metterla in guardia dalle intenzioni della cugina:

Oh regina sembrate un angelo caduto dal cielo. No! Non è vero. A volte sembrate un tasso. Io non mento. Questo è amore!”

Emma Stone  nei panni di Abigail è protagonista delle scene più divertenti e pungenti:

Samuel entra nella camera di Abigail

Lady Abigail “Oh santo cielo signore, siete venuto a sedurmi o stuprarmi?
Samuel Masham (Joe Alwyn) “Sono un gentiluomo
Lady Abigail “Quindi a stuprarmi


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Rachel Weisz in una scena del film


Eccelsa la fotografia di Robbie Ryan che ci accompagna nel castello a luce di candela, con ritratti dal nero rembrandtiano e intensi i rallenty sulle nature morte e sui banchetti, rendendo ancora più disgustosi i modi e le eccentricità di corte, perditempo nella corsa delle aragoste e delle oche.

La scena finale è la voce della coscienza, ci ricorda che quando si prende in prestito la cattiveria per raggiungere il proprio scopo, utilizzando ogni bassezza, il conto che ci si presenta è assai caro ed è in fondo quello da cui Abigail voleva scappare, infangandosene.

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una scena dal film “la favorita”


“The favourite” approderà nei cinema statunitensi il 23 novembre 2018 e a gennaio 2019 in quelli italiani.

Trailer ufficiale:


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Venezia 75, “Doubles vies” di Olivier Assayas

MOSTRA D’ARTE INTERNAZIONALE CINEMATOGRAFICA – VENEZIA ’75

Doubles vies” di Olivier Assayas è un film sulla conversazione, dialoghi fittissimi e ritmi serrati, quasi la sceneggiatura fosse destinata al teatro.

Quello che racconta il regista è nient’altro che quello che conosce: l’ambiente parigino, fatto di dialoghi ping-pong, calici di vino alla mano, sigarette alla bocca, salotti borghesi, cafè caotici e pasti consumati nella zona living.

Lo spazio è ristretto, gli amici fanno tutti parte dell’editoria francese, ma spicca Alain (Guillame Canet), editore di successo che deve scontrarsi con l’evoluzione digitale. Questo è il tema su cui si concentrano gli infiniti dialoghi, briosi, accesi, che innescano alcuna risposta ma infinite domande.

Se qualcuno rimane legato alla cara vecchia carta, altri come Laura (Christa Theret), giovane imprenditrice nel campo dei media e amante di Alain – sì perché tutti, nessuno escluso, hanno una doppia vita – tenta di portarlo nelle new era, convincendolo con citazioni dai grandi classici, da “Il Gattopardo“di Giuseppe Tomasi

Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi“.

Fulmini e saette i dialoghi, zampillano da un salotto alla maison degli amici, i personaggi hanno sempre quell’aria noncurante, ma così borghesemente intellettuale, un poco dirty, può essere il capello arruffato o una briciola a terra, un dito succhiato tra un Bordeaux e una omelette o una shirt stropicciata, ma questa è Parigi, ça va sans dire.

Voluta forse la superficialità contenutiva, scandita da cliché e concetti ripetuti all’infinito, una leggerezza che rispecchia i personaggi, traditori (anche Selena, la moglie di Alain interpretata da una brillante Juliette Binoche, ha una storia con Leonard, lo scrittore depresso e a tratti infantile), bugiardi, menzogneri, ma per necessità (Leonard è in grado solo di raccontare storie autobiografiche, portando così la sua vita privata sulla bocca di tutti, intervistatori ambigui e compagna consapevole). Quest’ultima, un personaggio che Assayas vuol renderci antipatico dalle prime scene, cinico, distaccato, calcolatore, risulta invece essere l’unico a non fare il doppio gioco. Lei, che deve destreggiarsi tra i disastri dell’uomo politico che assiste per lavoro, è invece una compagna fedele, che ama incondizionatamente i difetti di Leonard, quelli che lo rendono poi così buffo e facile preda, lei che ama senza chiedere niente in cambio, regalerà la scena più toccante del film, annunciando che, dentro di sé, attende una nuova vita.

‘Doubles vies’ uscirà in Italia a gennaio 2019 distribuito da I Wonder Picture.


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