Paolo Barretta è un giovanissimo fotografo italiano, che nonostante l’età, si caratterizza per l’eleganza delle immagini dove lo spazio assume un carattere dominante. Servendosi dei soggetti ritratti e della geometria, riproduce un mondo altamente intimista ricchissimo di immagini potenti, richiami musicali e cinematografici. Ha inoltre partecipato al famoso talent di Sky “Master Of Photography” per l’edizione del 2018.
Fotografia e cinema: come s’incontrano nelle sue immagini?
La fotografia ed il cinema sono due mondi che viaggiano parallelamente nel mio immaginario artistico. Basti pensare che uno dei miei punti di riferimento in giovanissima età è sempre stato Gregory Crewdson, che reputo esser stato un pioniere della fotografia cinematografica e scenica. Personalmente, nonostante non mi piacciano le etichette, mi definisco un fotografo ritrattista, e fondamentalmente ciò che inseguo è un ideale intimo della stage photography. Cerco di unire la mia visione ritrattista ad un’impronta cinematografica, e ciò a cui aspiro è l’idea di riuscire a creare un nuovo modo, diverso, di vedere la moda.
Può parlarci del suo ultimo progetto?
Il mio ultimo progetto, ormai di qualche mese fa, riguarda un viaggio in crociera trascorso intorno il Mediterraneo. Ho parlato della solitudine dell’essere umano catapultato in mezzo al nulla più assoluto, come riferimento esterno al mare che porto dentro di me.
Ultimamente, per lavoro e per mio diletto personale, mi sto dedicando meno alla realizzazione di progetti e più al fotografare le modelle con cui solitamente lavoro.
Reputa la fotografia una forma di terapia personale?
Beh, assolutamente sì, in caso contrario non sarebbe mai arrivata fino a questo punto ben radicato della mia vita. In primis esiste la musica, ma subito dopo la fotografia.
La vera terapia però risiede nella prima, tramite cui riesco a creare immagini. E’ la base, l’ispirazione madre.
Come l’avvento dei social ha influenzato la fotografia?
Ha cambiato tutto radicalmente. La frenesia di caricare tutto sui social ha fatto sì che, specialmente nei giovanissimi, non ci sia più un senso critico e di selezione, ma essenzialmente la brama di pubblicare qualunque tipo di contenuto.
Chiaramente mi riferisco solo ed esclusivamente alla fotografia, in quanto altrimenti dovremmo affrontare un discorso gigantesco. Tutto è diventato troppo fast, nessuno ha intenzione di dedicare più di qualche secondo nella valutazione di un contenuto che gli si palesa davanti, e questa dinamica, a mio avviso, è molto pericolosa.
Come concilia la ricerca estetica all’esigenza di raccontare?
Ho sempre una grande esigenza di raccontare. Ho sempre anche una ricerca estetica. Queste due peculiarità viaggiano insieme, motivo per cui non mi risulta complesso conciliarle perché già intrinseche in me. La mia ricerca estetica è sempre condizionata da ciò che voglio comunicare, e viceversa.
Come nasce la sua passione per la fotografia?
La grande passione, odi et amo, per la fotografia nasce una manciata di anni fa, in tenerissima età, durante un periodo di grande bisogno espressivo già iniziato qualche anno prima con la musica. Mi sono avvicinato alla fotografia per creare qualcosa di diverso e alla fine è diventata, spero ancora per molto, il mio lavoro.
Quali sono i fotografi o i registi che crede abbiano potuto influenzare la sua fotografia?
Crewdson come già accennato, Nolan, Laura Makabresku, ed Edward Hopper, che mi ha davvero illuminato.
I soggetti fotografati sono sempre giovanissimi. Racconta qualcosa di loro o si serve di essi per dar voce a suoi sentimenti o pensieri?
I soggetti che fotografo non sono sempre giovanissimi, ma capisco la domanda. Tendo a non comunicare mai nulla della persona che ho davanti, ma la utilizzo per far sì che lei/lui comunichi ciò che è dentro di me. Dinamica a cui mi rifacevo molto di più qualche tempo fa, ora le cose stanno leggermente evolvendosi.
Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?
I dettagli, la geometria, lo spazio, davvero tantissimo. Se sto scattando ritrattistica, ovviamente l’intensità di ciò che sto per creare, anche se tendo quasi sempre a considerare prima lo spazio che ho intorno a me.
C’è qualcosa che vorrebbe non trasmettere mai tramite le sue immagini?
Non vorrei mai comunicare estetica fine a se stessa. O che io mi occupi di moda. Credo sia errata. Non mi interessa la bellezza statica, non ho mai saputo cosa farmene. Non vorrei che le mie foto arrivino nella maniera sbagliata, ma credo fino ad ora, di essere stato su una buona strada.
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Calendario Pirelli 2019, Albert Watson e i sogni delle donne
“Dreamer” è il titolo del nuovo calendario Pirelli firmato dal fotografo scozzese Albert Watson e presentato a Milano, presso HangarBicocca .
Come è possibile intuire dal titolo, l’attenzione del fotografo si sofferma sui sogni di quattro donne alle prese con le proprie vite e i loro obiettivi: Gigi Hadid, Julia Garner, Laetitia Casta e Misty Copeland.
Ognuna di esse è ritratta in stile cinematografico, in linea con la grande passione di Watson per il cinema. Si tratta di quaranta scatti in formato 16:9, sensuali, affascinanti e stracolmi di femminilità.
Laetitia Casta interpreta una pittrice che fa il lavoro da cameriera, vive in un appartamento insieme al compagno (il ballerino Sergei Polunin) ma sogna un futuro in grande, come una brava e famosa artista.
Julia Garner interpreta, invece, una giovane fotografa appassionata di botanica. La modella Gigi Hadid è una donna ricca appena separata dal marito che soffre la solitudine e che trova nell’ amico e stilista Alexander Wang, che le restituisce fiducia nel futuro. Misty Danielle Copeland incarna più di tutte l’intento del calendario: quando a 13 anni si affaccia al mondo della danza classica, le dicono che il suo corpo non è adatto.
Watson ci restituisce, così, una visione positiva delle donne di oggi e sprona a non abbandonare mai i propri sogni, nonostante gli ostacoli che quotidianamente incontriamo o con i quali ci scontriamo.
http://pirellicalendar.pirelli.com/it/selected-shots
Helmut Newton e la tensione erotica dei corpi femminili
Helmut Neustädter, il vero cognome del corrispettivo inglese Newton, nasce a Berlino il 31 ottobre del 1920.
All’età di solo otto anni, il fratello lo accompagna ad un quartiere a luci rosse dove lavora anche la nota Red Erna. La frequentazione di questi ambienti degradati segnerà profondamente la visione di Helmut e la sua passione fotografica.
Gli inizi fotografici risalgono, in particolare, al 1961 quando si trasferisce a Parigi e ha la fortuna di collaborare per French Vogue. I suoi scatti faranno in breve il giro di tutto il mondo, affascinando per il loro grande potere provocatorio per l’epoca. Collaborerà, inoltre, con le riviste di moda più importanti di sempre.
Fin da subito, dimostra un interesse per le donne: alte, slanciate, spesso sui tacchi alti, forti, sicure di sé e del proprio corpo. Il corpo femminile è catturato dal suo sguardo in pose provocatorie, ma al tempo stesso estremamente eleganti. Helmut è il primo fotografo a introdurre il nudo nel mondo della moda, non senza polemiche.
Immediatamente, ci prese gusto a costruire intorno a sé l’immagine di colui che intende provocare. Lo spettatore diviene, pertanto, un voyeur involontario intento a spiare centimetri di pelle scoperta di modelle e donne note. A distanza di anni, Helmut resta uno dei fotografi più noti e interessanti, continuando a incantare e ad essere emulato.
Nonostante ciò, egli resta unico nel suo genere: ogni singolo scatto continua incessantemente a coinvolgere, a raccontare e a sprigionare tensione erotica, anche in un mondo dove il nudo è a portata di mano e la capacità immaginativa scarseggia.
Intervista a Kourtney Roy: “Voglio vivere vite parallele attraverso il mio lavoro”
Kourtney Roy è una giovane fotografa di origini canadesi, nota soprattutto per gli autoritratti che la ritraggono in travestimenti e situazioni sempre differenti. Interpretando stereotipi, spesso e volentieri dal gusto retro, in realtà non fa altro che distruggerli. Nelle immagini della Roy, tutto diviene magicamente altro, in una compenetrazione di realtà e illusione, quotidianità e alienazione, esistenza e fotografia.
Qual è la sua idea di Fotografia?
Non ho un’idea di Fotografia. Semplicemente esiste e non dipende dalla mia soggettiva visione di essa.
Quando ha iniziato a fotografare?
Ho iniziato a praticare la fotografia mentre frequentavo gli studi d’arte, quando ho cambiato laurea da “general fine arts” a “media studies”. Fino ad allora avevo fatto qualcosa a livello amatoriale, ho iniziato a fotografare seriamente solo dopo un corso extra.
Esiste una relazione tra la sua fotografia personale e il cinema?
Decisamente. Ho scoperto il cinema un po’ tardi. La gente spesso guardava i miei lavori e veniva a dirmi: “Quest’immagine mi ricorda questo film”, oppure “Mi ricorda l’universo cinematografico di questo regista”. Mi hanno incuriosita e ho iniziato, in questo modo, a guardare film.
Quali sono i suoi registi preferiti?
E’ sempre una domanda difficile a cui rispondere. Ce ne sono così tanti e la lista continua a crescere incessantemente, così come si affievolisce e scorre. Werner Herzog, Andrea Arnold, Jane Campion, Jean Pierre Melville, Nicolas Winding Refn, Early Spielberg, Douglas Sirk, Debra Granik. Ci sono anche tantissimi film che sicuramente non rintrano nella categoria dei registi preferiti: Animal Kingdom di David Michôd, Donnie Darko di Richard Kelly , Blade Runner di Ridley Scott , Wisconsin Death Trip di James Marsh, Don’t Look Know di Nicolas Roeg. Insomma, è realmente complicato tracciare una mappa di influenze e ammirazioni.
Come vive la sua relazione con l’Autoritratto?
L’Autoritratto mi permette di vivere nei mondi che io fotografo. Fotografarli non è sufficiente, io voglio assolutamente vivere vite parallele attraverso il mio lavoro.
Cosa può dirci riguardo gli ultimi progetti o lavori?
Ora, per oltre un anno, sto lavorando su un progetto in Canada su un’autostrada che registra un numero eccessivo di donne che sono sparite o uccise su di essa. Trascorro il mio tempo guidando sull’autostrada, dormendo in vecchi hotel e incontrando gente.
La sua fotografia è un’esplosione di colori. C’è un motivo?
Il mondo è a colori, ed è semplicemente stupendo, voglio mostrarlo nei miei lavori.
L’Arte può essere una terapia?
La miglior terapia.
http://www.kourtneyroy.com/
Intervista a Fabrizia Milia: Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia, e d’amore per la fotografia
Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.
Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?
Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.
Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?
Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.
Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?
Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.
Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?
La malinconia. La trovo poetica.
Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?
Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.
Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?
In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.
Quale parola assocerebbe alle sue immagini?
Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.
Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?
Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.
Cosa preferirebbe non fotografare?
Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.
Come affronta i periodi di calo creativo?
Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.
La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda
Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.
Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?
Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.
Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?
E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.
C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?
Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.
Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?
L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.
C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?
Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.
Cos’è per lei un autoritratto?
E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.
Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?
Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.
Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?
Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.
La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?
La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.
C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?
Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.
L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.
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Intervista ad Angelo Ferrillo: la fotografia è stomaco, non cuore
Angelo Ferrillo nasce a Napoli nel ‘74 dove intraprende gli studi di Ingegneria e si avvicina alla fotografia, formandosi da autodidatta. Attualmente si occupa di fotogiornalismo e di fotografia corporate, è photoeditor e docente di fotografia presso lo IED Milano, OFFICINE FOTOGRAFICHE Milano, CREATIVE CAMPUS Milano e FOWA University. Conosciuto al pubblico per la street photography e per i reportage, collabora attivamente con editori nazionali ed internazionali e con brand leader mondiali dell’urban style progettando e sviluppando immagini di social adv e brand comunication. E’, tra l’altro, membro del Direttivo AFIP International.
Come e quando nasce la tua passione per la fotografia?
Non di certo quando mi hanno regalato la mia prima macchina fotografica. Un anno dopo circa. Quando mio padre per il mio diciassettesimo compleanno mi comprò una polaroid non rimasi proprio del tutto entusiasta. Poi iniziai a giocarci dopo quasi un anno e da li tutto in discesa.
Cos’è per te la fotografia?
Il modo migliore che ho di esprimere me stesso. Sembra una di quelle frasi da baci perugina, ma la realtà delle cose è quella. Per me, ma anche per tutti quei fotografi che si ritengono tali.
Cosa consiglieresti a chi vuole ottenere buone immagini?
Innanzitutto di abbandonare quella idea del sentimento. Quando si producono immagini (che una volta stampate diventano fotografie) si innesca un meccanismo per cui il tecnicismo prende il sopravvento sulla percezione sentimentale. Rendersi conto che una immagine prima di essere bella deve essere buona. Deve cioè raggiungere lo scopo per cui è nata: solo in quel momento si cortocircuita con i fruitori dei propri lavori
C’è un aspetto che curi particolarmente quando fotografi?
Quello che succede. Mi deve catturare quello che sta succedendo. Percepibile o impercepibile. Non importa che sia sensazionale per tutti, ma deve attrarre in primis la mia attenzione. Credo debba essere fondamentale per la produzione di tutti. Se sono in fase di sviluppo progettuale porto tutti i tasselli al posto giusto, lasciando al caso solo la produzione dell’immagine finale. È l’unico modo che ho per rendere meno statico quello che vedo.
Come ti poni verso i soggetti fotografati? Interagisci o preferisci catturare soltanto l’immagine che hai nella mente?
Difficilmente interagisco con i miei soggetti. Non mi interessa il loro racconto. Dopotutto dalle mie immagini non si saprà mai chi sono, ma solo chi sono in quel momento per me. Nel caso in cui succeda deve succedere dopo. Mai prima. Se succede prima è perché le sto ritraendo e siamo in un ambito differente.
Come concili il fotogiornalismo con l’attività del docente?
Facilmente. Non faccio cronaca, quindi scegliendo le mie storie, gli approfondimenti, la progettazione, le partenze e tutto quanto, non influisce su tempistiche di calendario. Molte volte capita che progetti vengano sviluppati in viaggio/studio e quindi convivono anche nello stesso momento.
Può una fotografia non essere autobiografica?
Assolutamente sì, se si produce senza essere fotografi. Il percorso personale è un progetto a lungo termine che ti porta ad essere le tue immagini. Nel momento in cui non ci sei tu (e succede) è semplicemente perché il tuo percorso formativo (non mi riferisco all’accademico) è ancora incompleto.
Qual è la difficoltà che incontri maggiormente nell’insegnare fotografia?
Riuscire a far capire che la fotografia è stomaco non cuore. La conoscenza è obbligatoria, ma il percorso poi deve evolversi e distribuirsi sulla propria pelle facendo leva su quello che si ritiene opportuno per la propria formazione e cosa invece va scartato. Ciò ci fa essere differenti l’uno dall’altro. Ecco, forse le regole accademiche sono difficili da abbandonare da parte dei miei allievi. Me ne accorgo quando di fronte a me ci sono alunni che non hanno una struttura conoscitiva della fotografia molto radicata. Faccio meno fatica. Molto meno.
Qual è il tuo atteggiamento verso l’errore?
L’errore fotografico a volte diventa la cosa giusta. Tutto quello che non puoi gestire è il tempo e quello che sarà l’evento. Puoi cercare di prevederlo, ma non saprai mai se sarà così. L’ho imparato a mie spese con una fotografia realizzata a Berlino, dove ho imprecato per un’ora nei confronti di una bambina che mi ha inquinato la scena. Col senno di poi, quella bambina l’ha resa migliore.
È mai successo che una persona, per strada, si sia infastidita dagli scatti?
Succede. Ma lo spirito di solito è quello di avere un atteggiamento positivo. Sapere cosa dire, sorridere sempre, essere accondiscendente e portare il soggetto nel proprio spazio aiuta. Quando dicono “non puoi” ho il dovere di far capire che non si tratta di una cosa vietata, ma al massimo di una cosa che il soggetto non vuole.
La fotografia di Angelo Ferrillo spicca indubbiamente per la ricerca di un punto di vista inusuale, proprio, creativo. Al tempo stesso, è solo la porzione di una realtà che, spesso e volentieri, ha molta più fantasia di noi.
https://www.angeloferrillo.com/
Marco Pesaresi e l’amore: l’umanità, la poesia e la fotografia
Se oggi fosse in vita, il riminese Marco Pesaresi sarebbe sicuramente uno dei fotografi italiani contemporanei più abili. “La mia fotografia prende corpo – nasce – da tradizioni contadine, di campagna; e si sviluppa nella poesia del mare d’inverno; accompagnandosi a immagini di libertà, di emancipazione, di trasgressione nella notte. Però, comunque, nasce dalla campagna. Io amo questa terra, la amo con tutto il cuore. Ne amo i luoghi, mi piacciono i luoghi. E poi mi piace tantissimo – questa terra – perché muta in continuazione. Nulla è mai uguale all’anno precedente, tutto è in evoluzione continua. Più soffro e più mi affanno nella ricerca della poesia. Più sento che dentro di me vivo situazioni di disturbo, difficili – cose che purtroppo nella mia vita continuamente incontro – più il mio sguardo si addolcisce. E più cerca la serenità l’armonia delle immagini. E qualche volta le trova.” Con queste parole Marco parlava del suo amore per la sua terra, Rimini, alla quale dedicò anche il suo ultimo lavoro, e al tempo stesso per la poesia, tanto ricercata e altrettanto sofferta.
LA METROPOLITANA: TIMES SQUARE. UNA GIOVANE COPPIA SI SCAMBIA UN BACIO.
Marco era infatti attratto dall’umanità, in tutta la sua complessità. Non a caso avvertiva l’esigenza di scavare nelle problematiche sociali e nell’inferno personale degli altri per provare a sentire di meno il proprio. “Underground” è il titolo del suo progetto, forse il più riuscito, dedicato alla gente incontrata casualmente per le metropolitane delle più grandi città. E’ difatti il dipinto di grande impatto visivo della vita, un dipinto onesto, commosso, colorato. La sua fotografia è il riflesso di una sensibilità estrema , sia artistica che umana. E’ una fotografia irrequieta, una ricerca di serenità attraverso i propri occhi e la vita degli altri. E’ un amore intenso, che si scaglia forte e s’imprime con naturalezza sulla pellicola.
La giornalista Renata Ferri ha parlato dell’amore di Marco per la fotografia, in questi termini: “Per fortuna c’era la sua Rimini, dove tornava e dove tutto quel male del mondo diventava malinconia. Come un poeta, sapeva trasformare le sue affollate visioni del mondo in spazio, cielo, mare, terra delle origini e profumi portati dal vento. La sua fotografia si trasformava, toglieva il colore e restituiva solo poesia. Non più periferie dell’umanità e volti di mille razze, ma silenzio e distese, dove lo sguardo, il suo e il nostro, può essere infinito. Marco amava e odiava tutto quello che aveva con violenta intensità. So per certo che la fotografia è stata la stagione più bella della sua vita e siccome so che è stata una stagione lunghissima, credo abbia vissuto, dannato ed errante, intenso e visionario, l’unica vita possibile.” La fotografia è stata per Marco una valvola di sfogo, il mezzo di cui si è servito per incanalare le proprie visioni e quell’irrequietezza che tanto lo faceva soffrire.
Marco ha cessato di vivere nel 2001 gettandosi con la macchina nel porto di Rimini, nel mare della terra che aveva spesso fotografato con una vena malinconica. Nonostante la morte fisica, il suo punto di vista, così intenso e bramoso di poesia, continua a scorrere con maggiore intensità affascinando, emozionando e continuando a suscitare grande ammirazione. Dopo aver amato per tanto tempo la gente, ora è la gente ad amarlo intensamente. Tutto ciò è possibile anche grazie all’amore e alla sensibilità della madre Isa, che si prende cura della conservazione e della diffusione dell’archivio fotografico del figlio.
Intervista a Paolo Raeli: La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.
Paolo Raeli, giovanissimo, originario di Palermo. Le sue fotografie sono attualmente molto apprezzate in Italia e all’estero. Recentemente ha anche pubblicato un libro. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino il suo mondo, fatto di emozioni pure e momenti unici e irripetibili.
Chi è Paolo Raeli?
Ho provato a darmi una risposta, e davvero – so che magari sembra pretenzioso dirlo – ma qualsiasi cosa mi viene in mente svilisce quello che vorrei davvero descrivere. Certe cose sono inesplicabili. Cambio continuamente.
Come e quando ha iniziato a fotografare?
Avevo poco meno di diciotto anni: dopo la fine del mio primo amore ho cercato di incanalare tutta l’energia che avevo dentro e che ogni giorno si moltiplicava dentro di me, convergendola in una forma d’arte. La fotografia mi ha permesso di fermare il mondo come avrei voluto che fosse.
Se dovesse associare una canzone o un album alla sua fotografia, quale sceglierebbe?
Always Returning, Brian Eno.
Come si pone verso i soggetti ritratti?
Li amo, tutti. Passati e presenti, nell’imperfezione, nella bellezza, in ciò che li rende unici. Apprezzo chiunque mi permetta di lasciarsi immortalare. Ci vuole una forma di coraggio secondo me.
Qual è l’aspetto a cui presta maggiore attenzione mentre fotografa?
La cura verso gli altri. Ho bisogno che tutti si sentano a loro agio. E ciò non significa che si debba necessariamente guardare in camera, o sorridere, o chissà cosa. Potresti anche piangere, ed essere comunque a tuo agio. Si tratta di qualcosa che si percepisce nell’aria.
Cosa intende raccontare di sé attraverso la fotografia?
Citando un film di Mark Romanek: “Se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice. E qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi una fotografia.”
Trova che la fotografia possa veramente essere un’ottima terapia per la paura di dimenticare?
Mi piace pensare che sia così. Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa, è necessario.
Quali emozioni intende catturare attraverso i giovani che ritrae?
Cerco la spontaneità. E’ anche quella qualcosa che è difficile da spiegare, ma si riesce a percepire. Sento di dare un tocco molto personale alle mie foto: scelgo di vedere la bellezza nel mondo. Molti documentano una realtà cruda, caotica. Io amo sognare. Mi piace pensare che quando sarò vecchio potrò rivedere queste immagini e credere, forse anche ingenuamente, che tutto fosse davvero perfetto.
Come nasce e si sviluppa l’idea di pubblicare un libro che raccolga foto e pensieri?
Da quando ne ho memoria sono solito disegnare, scrivere: coniugare queste forme è terapeutico per me. Donald Winnicott diceva che un artista è qualcuno guidato dalla tensione tra il desiderio di comunicare e il desiderio di nascondere. Non so se mi reputo un artista, ma mi sono rivisto molto in questo pensiero. Da qui è nato il bisogno di
pubblicare un libro, in cui potessi mostrare a quante più persone possibili la mia visione del mondo. Un semplice libro fotografico, fondi bianchi e date, mi è sempre sembrato troppo riduttivo.
Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Regola numero uno: mai parlare dei propri progetti, a meno che non si sia riusciti a realizzarli.
Le fotografie di Paolo Raeli incantano e fanno sognare. Sono molto di più di semplici immagini. Sono il racconto di una generazione spensierata, affannata, innamorata, mutevole, fuori controllo. Quello che traspare maggiormente nei suoi scatti è un vero, sano e profondo senso di libertà, immortalato perfettamente attraverso la delicatezza dei gesti e le espressioni dei soggetti ritratti.
https://www.paoloraeli.com/
Intervista a max&douglas: quello che ricordiamo con più affetto è stato lavorare con Ben Harper
Max&douglas sono noti nel mondo della fotografia per i loro ritratti alle celebreties, dai cantanti agli sportivi. Nonostante la giovane età, le loro immagini sono già state esposte presso la Triennale di Milano. Il loro lavoro si contraddistingue per la voglia di sperimentare e, al tempo stesso, cogliere l’unicità che è contenuta in ogni singola persona.
Il vostro punto forte è senza ombra di dubbio la ritrattistica. Cosa significa per voi ritrarre una persona?
Significa “semplicemente” riuscire a mostrare l’idea che ci siamo fatti del soggetto. Non necessariamente coincide con l’idea che il soggetto ha di se stesso. Le persone ci attraggono, così come le loro caratteristiche: consideriamo le particolarità di ognuno come un punto di forza, come un valore che ne determina l’unicità.
Come riuscite a conciliare il lavoro in due?
Dopo 20 anni di lavoro insieme viene naturale alternarci in fase di scatto e successivamente saper riconoscere, in fase di editing, le immagini migliori. Riteniamo da sempre che il confronto è crescita e la discussione sia alla base di ogni progetto artistico.
Quando e come nasce la vostra collaborazione?
Siamo nati, come coppia artistica, realizzando fotografie in luce pennellata in grande formato (20×25). L’aiuto che potevamo darci vicendevolmente era fondamentale, non solo dal punto di vista tecnico. Con l’avvento del digitale e la relativa semplificazione del processo produttivo, la solidità della nostra collaborazione non ha sentito la necessità di una separazione.
C’è un aneddoto riguardante la vostra attività?
In così tanti anni gli aneddoti sono tantissimi, soprattutto per il fatto di aver lavorato molto con celebrities; diciamo che quello che ricordiamo con più affetto è stato lavorare con Ben Harper che, nonostante sia un mito di fama mondiale si è concesso totalmente alle nostre esigenze, senza paletti di tempo e senza la presenza dei personaggi che normalmente accompagnano le star. Una domenica pomeriggio, insieme, come fossimo vecchi amici.
I vostri inizi vi vedono impegnati con la fotografia di moda. Cosa vi ha indotto a impegnarvi in altri generi fotografici?
Non è del tutto vero. Diciamo che i nostri primi lavori pubblicitari, seppur di marchi di moda come Belfe o Romeo Gigli, sempre sono stati orientati verso una fotografia ritrattistica. Non siamo mai stati fotografi di moda, anche perché non abbiamo quella sensibilità fondamentale per poter lavorare in quel campo. Per non parlare del fatto che nella moda, salvo pochissimi nomi, i fotografi sono “di moda”: passano troppo velocemente. Abbiamo sempre puntato verso la costruzione di qualcosa di più duraturo.
In cosa vi sentite cresciuti artisticamente?
Sicuramente nel saper rispondere alle opportunità ritrattistiche nel minor tempo possibile. La lunga esperienza ultimamente ci sta portando a realizzare sempre meno scatti e in sempre meno tempo. Crediamo che questo possa essere un valore: esattamente come potrebbe essere un valore medico quello di un dottore che riesce a fare una diagnosi con una semplice occhiata.
Ci sono dei generi fotografici che preferireste non affrontare?
Sicuramente l’idea di chiuderci in uno studio per giorni interi nella speranza di riuscire a realizzare un bello still life ci terrorizza.
Potete anticiparci qualcosa dei nuovi progetti?
Al momento stiamo lavorando su molte cose, prima tra tutte la voglia di trasmettere la nostra visione. Non siamo per i “segreti” e non ci crediamo. Non abbiamo mai nascosto i nostri backstage o minacciato assistenti che volessero semplicemente curiosare. I nostri set sono sempre stati aperti.
Quanto conta la post-produzione nella vostra attività?
Molto. A inizio carriera (lavorando con Polaroid 20×25) nulla. O, meglio, praticamente non esisteva ancora. Con il passaggio al digitale la presenza di una post invasiva è stato il nostro marchio di fabbrica e lo è stato per molti anni. Ultimamente è andata via via scemando, concentrandoci molto di più sull’uso delle luci ma rimane sempre presente e fondamentale, seppur molto meno percepibile.
Quali sono i fotografi che più ispirano la vostra fotografia?
Tantissimi. Tutti nomi importanti: Irving Penn, Richard Avedon, Mark Seliger, Anton Corbijn e naturalmente Annie Leibovitz. Siamo però molto affascinati e sicuramente influenzati dal lavoro di Erwin Olaf: un mito.
La fotografia di max&douglas è il frutto di una ricerca senza fronzoli, una fotografia che non si avvale di segreti e che, tuttavia, cura fortemente i dettagli. E’ una fotografia silenziosa che ci invita a guardare, ammirare i soggetti ed emozionarci.
Intervista a Manuel Bravi: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione
Manuel Bravi è un artista a tutto tondo: graphic designer, fotografo e fotoritoccatore. Finite le scuole superiori, si trasferisce a Venezia dove studia grafica alla Scuola Internazionale di Grafica di Venezia; un incontro con Lorenzo Vitturi stimola l’interesse per il potenziale manipolatorio e surreale della fotografia. Dopo gli studi, inizia a lavorare a Milano per brand come Armani, Versace e Ferretti, aziende come SGP, INRETE e recentemente per il museo Mudec e Regione Lombardia.
Manuel Bravi: graphic designer, fotografo, fotoritoccatore. Cosa preferisci fare?
Mi piacciono tutte e tre, devo essere sincero: ognuna mi consente di gestire una parte distinta di creatività e mi dà la possibilità di rendere vario il lavoro. Questo comporta anche differenti approcci coi clienti. Per esempio, il fotoritocco ha uno scambio maggiore con il fotografo che ti ha ingaggiato: devi capire cosa ha in testa, anche se non ricalca il tuo primo approccio all’immagine, così facendo forzi un nuovo punto di vista e una nuova interpretazione.
Sul tuo profilo Facebook scrivi: “dovrei essere io, ma in realtà sono sempre schiavo di qualcuno”. Ce lo puoi spiegare?
Amaramente divertente, vero? Sono un libero professionista e molti mi ripetevano quanto fossi fortunato a non aver capi diretti. In realtà, ogni mio cliente diventa un capo, perché nei mestieri dove il “gusto personale” diventa elemento di richiesta lavorativa devi spesso cedere, e oggettivamente, molte volte sono richieste fuori da ogni regola grafica.
Nel tuo percorso, credi che abbia avuto più peso la formazione o l’esperienza?
Entrambe sono importanti. La scuola ti fornisce i cardini su cui caratterizzarti e costruire il tuo punto di vista lavorativo. L’esperienza è fondamentale perché, a differenza della teoria, le regole non esistono; devi far fronte ad ogni tipo di problema e questo ti fa crescere e imparare il mestiere.
Ti sei approcciato prima alla fotografia o al ritocco fotografico?
Sono stato folgorato dalla post produzione fotografica durante un workshop alla Scuola Grafica. Mi piaceva giocare con Photoshop anche prima di frequentare la scuola, poi realizzai le reali applicazioni lavorative nelle pubblicità e mi dedicai maggiormente a quel ramo della grafica.
C’è uno dei progetti che adori maggiormente? Quale e perché?
L’ultimo realizzato sugli attrezzi da lavoro di mio nonno: ho pensato di tributare il suo talento nel creare oggetti con diversi materiali, attraverso gli attrezzi che ha usato per un’intera vita. Lui ha sempre costruito tutto quello che gli serviva: da oggetti decorativi a quelli per la casa, passando per macchine industriali. E’ un artista della materia. Per questo, ho tentato di realizzare dei ritratti ai suoi attrezzi sperando che potessero prender carattere attraverso le fotografie. Devo ammettere, poi, che sono particolarmente affascinato e soddisfatto quando fotografo persone che sanno esprimersi attraverso il proprio corpo, in particolar modo i ballerini classici o contemporanei.
Quali sono i fotografi che ti hanno ispirato sinora?
Ho una venerazione maniacale verso il mio concittadino Paolo Roversi: è stato scoprendo le sue foto che ho iniziato a studiare il lightpainting e l’equazione “luce nel buio/movimenti del corpo”. Un’altra grande ispirazione per la mente rimane Storm Thorgerson e il suo mondo parallelo visionario.
Se dovessi scegliere tra Realismo o Surrealismo, come definiresti la tua fotografia?
E’ un flusso mutevole: un tempo ero molto affascinato dal mondo surreale, sperimentavo molto di più col computer ed ero più ingenuo e immaturo; oggi mi dedico più alla realtà e alle persone, anche se ho dei cardini ben precisi che tornano spesso nelle foto: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione.
L’ultimo progetto pubblicato s’ispira ad alcuni costumi da coniglio. Da dove ha origine?
E’ una variazione sul tema Kinky. Premetto che sono sempre stato incuriosito da quelle persone che fanno di uno “stile di vita non comune” il loro personale modo di vivere. Mi incuriosiscono e mi interessa capire il loro mondo, sia questo più o meno bizzarro. Difficilmente ho giudizi in merito e mai censuro gli eccessi. Premesse a parte, durante un evento al quale partecipavo per fare un reportage della serata, mi imbattei in questa donna che indossava una maschera da coniglio e non se la tolse per tutta la serata. Era così affascinante, misteriosa e grottesca che non potei non andare a conoscerla e chiederle di posare per me. Mentre parlavamo, lei portava una maschera e io non riuscivo ad interpretare alcuna espressione facciale. Lei per me è Bunny: una creatura dolcissima e gentile, con molte sfaccettature, che ho voluto ritrarre in un modo più fiabesco rispetto al suo solito stile. Ho mixato il caos e la bellezza dei fiori, con la parte di Bunny più gentile e femminile.
Hai in cantiere dei nuovi progetti da realizzare?
Ho due progetti video che vorrei realizzare, riguardano la danza: le coreografie sono già state affidate, ora bisogna mischiare gli ingredienti.
Musica e fotografia. Se dovessi scegliere una canzone come colonna sonora per le tue foto?
Sono molto legato alla musica e direi che ogni progetto o serie fotografica porta con sè una canzone o un preciso mood musicale, ma se dovessi traslare le mie fotografie in musica mi piacerebbe che venissero accostate ad Anathema, Katatonia, Porcupine Tree, Devil Doll.
La fotografia di Manuel Bravi è una mescolanza di fascino ed eleganza. La sua attenzione è sempre delicatamente focalizzata sul soggetto ritratto, indipendentemente che esso sia una persona o un oggetto. La sua è una fotografia che vuole raccontare storie senza forzare il soggetto, si rivela semplicemente attraverso di esso e servendosi del litghtpainting, tanto caro a Bravi.
“Il lightpainting è affascinante perché la fisica che regola ombre e luci non esiste, la sorgente luminosa cambia continuamente punto di partenza, distorcendo le forme e la percezione di queste. Inoltre, essendo il movimento proprio dei corpi incontrollabile, il risultato è totalmente imprevedibile: le forme nascoste devono essere cercate nelle ombre con attenzione, e ciò permette di entrare in intimità con l’immagine. Il fascio luminoso ha la doppia intenzione di osservare il soggetto e illuminare il proprio io ed esperienze”.
http://www.manuelbravi.com/