L’Eros nel cinema

Se penso ad una delle scene più erotiche del cinema, vedo un uomo e una donna che si scambiano un tuorlo intero, crudo, di un arancio acceso di bocca in bocca, in piedi in una stanza d’albergo, attenti a non romperlo fino a quando il piacere esplode e il tuorlo scivola ambiguamente sul mento di lei, ça va sans dire. La pellicola in questione è “Tampopo” del regista giapponese Jûzô Itami che, come molti autori del Sol Levante, utilizza l’ossessione per il cibo come metafora del piacere. 

Il cinema ha regalato molti film erotici sottovalutati, forse per l’uso di un linguaggio apparentemente semplicistico, e altrettanti sopravvalutati, per il numero di pubblico interessato, di cui molto probabilmente l’erotomane non fa parte. 

Qui vorremmo sintetizzare davvero una piccolissima parte dove l’Eros appare nel cinema, descrivendone scene, feticci del regista, dove l’erotismo può trovarsi nell’andamento felino di un’attrice, nel fare peccatore di aspirare una sigaretta, o in dettagli che a qualche spettatore potrebbero essere sfuggiti, ricordando a chi dice: “le scene da film sono finzione”, che esiste una nicchia di esseri umani per cui l’Eros rappresenta una forma d’arte, quella componente indispensabile non solo dell’amore ma della vita stessa, che porta a leggere erotica una brillante conversazione, e indispensabile il flirting anche nelle coppie datate. Quel genere di persone per cui il sesso è energia vitale, nelle sue svariate forme; le si riconosce perché sono fantasiose, creative, e cariche di travolgente voglia di vivere che mettono nell’atto dell’amore, come fosse il loro ultimo regalo, nel loro ultimo giorno sulla Terra. 

Lola, 1961 di Jacques Demi

Cècile, in arte Lola, è una ragazza madre che non riesce a dimenticare il suo primo amore; lavora come ballerina al Cabaret dove marinai americani le ronzano intorno; corre tutto il giorno tra la scuola e il lavoro, dorme poco la notte e ama truccarsi perché “essere attraente” è un dovere, ma anche un piacere.

Anouk Aimée regala al personaggio di Lola quella civetteria francese che la rende irresistibile, flirta quando sorride, mentre cammina o si ravviva i capelli. Ma Lola è convinta di “non essere nulla di speciale”, e sta perdendo la speranza sul ritorno del suo primo grande amore, che attende da 7 anni. Una vena malinconica la cattura e il film risponde a tutte le sfumature della Nouvelle Vague e del cinema aggraziato di Jacques Demy. Finale scontato, ma questi sono gusti. D’altronde io amo la tragedia.


Solo chi cade può risorgere, 1947 di John Cromwell

La storia è quella che è, un noir come tanti, un reduce di guerra che tenta di far luce sulla scomparsa di un ex commilitone, piccoli salti nei bassifondi, apparizioni di volti loschi e gente immanicata in giochi d’intrighi, misteri e bugie. Night club dalla sordida reputazione, bicchieri colmi di whisky avvelenati e Royal Gin Fizz accompagnati da sigarette fino all’ultimo respiro; John Cromwell deve tutto ai suoi due protagonisti, che hanno regalato infinite sfumature di colore a questo bianco e nero del ’47.

Humphrey Bogart interpreta Rip Murdock, capitano paracadutista ed ex detective che indaga sulla scomparsa dell’amico: il carisma, la presenza scenica, il fascino dell’uomo cui nulla scalfisce e nulla può turbare, accompagnato dalle brevi frasi a due “Il pericolo più grande è la tua bocca”, riescono a rendere intenso anche il più banale dei corteggiamenti. 

Ma la vera regina è lei, Lisabeth Scott, la bionda di ghiaccio dagli occhi cerbiatto, la figura ambigua e ammaliatrice, la pungente vedova che può trasformarsi in un docile capretto impaurito, è lei a riempire la scena, lei con i suoi languidi gesti, lei che ha personalità anche sulla punta delle dita mentre tese raccolgono una sigaretta dall’accessorio d’argento e lentamente la portano alla bocca; lei che recita come se respirasse, lei, la Coral Chandler che riesce a catturare ogni uomo col suo profumo di gelsomino. 

Coral è quel genere di donna che piace tanto ad Hitchcock, di quelle che fanno male ma che vengono giustificate per i traumi subìti, la donna sirena che riesce a rendere vera la più perfida delle bugie. Le braccia avvolte da lunghi guanti neri, i capelli arrotolati da morbide onde che le incorniciano il viso, le sopracciglia perfettamente disegnate che si increspano quando le spire si fanno più strette intorno alla vittima; Lisabeth Scott non poteva essere più perfetta per interpretare l’immorale fanciulla ferita. Basta lei per questi 100 minuti. 

Nelly e Monsieur Arnaud, 1995 di Claude Sautet

Nelly vende baguette, è di una bellezza dolce e sensuale, di quelle bellezze che vestono chi non sa d’esserne portatrice; come molte donne inconsapevoli ha sposato un fannullone, un uomo che passa le giornate sul divano a guardare la tv, in attesa che la mogliettina torni a casa per adempiere agli obblighi da coniugata. 

Presto riceve da un conoscente di una sua cara amica la somma di denaro che coprirà tutti i suoi debiti, come dono; il gentiluomo è un ex magistrato che ha avuto fortuna negli affari immobiliari, le proporrà di fargli da dattilografa, offrendole una fissa retribuzione per avere l’opportunità di starle accanto ogni giorno. Troverà il tempo di sedurla con lo sfoggio del potere, le parole, le cene sontuose, l’eleganza di un uomo d’altri tempi.

La bella Emmanuelle Béart recita un copione bianco con moltissimi “OUI” e “NO”, detti a labbra serrate, alla francese, ma forse a lei basta presenziare in questa pellicola di Claude Sautet, che lascia alla donna il ruolo misterioso e magnetico, persuasivo e sfuggente.

Piuttosto noioso se non fosse per il magnetismo della Béart che ci attacca allo schermo a seguire ogni suo movimento, e per una scena rivelatrice che Sautet descrive in maniera eccellente: 

Una sera Nelly e Monsieur Arnaud cenano insieme in un ristorante stellato, l’età media della clientela è molto alta e la ragazza non passa certo inosservata accanto all’anziano signore, che tutti conoscono per fama. Lei indossa un tubino nero, degli orecchini di perle e un disinvolto chignon; l’alcool, uno Chateau d’Yquem del ’61, fa il suo gioco, e i due si ritrovano a flirtare scherzosamente per le insistenti occhiate dai tavoli vicini: tutti pensano che lei sia una prostituta e questo la diverte. Salutato Monsieur Arnaud, Nelly chiama in piena notte l’editore di Arnaud che da tempo la corteggia e a cui, fino a quella sera, non si era mai concessa, e si lascia andare ad un gioco che era già stato iniziato da un altro. Questa scena descrive perfettamente la donna dal punto di vista della donna, le bugie, le contraddizioni, i capricci, i desideri. Nelly sa che può trovare un corteggiamento antico, maturo ed elegante da Mr Arnaud e sa che può rivelare il suo lato istintivo con Vincent, l’editore, che l’accoglierà con l’ardore di un giovanotto. Nelly, dopo aver lasciato il marito, prende tutto, ma dovrà fare i conti con i sentimenti, quelli che fanno radici con lo stesso silenzio con cui lei si burla degli altri, per poi fare rumore quando sta per perderli. 

8 donne e un mistero, 2002 di François Ozon

Una villa della Francia bene anni ’50, 8 donne, una più bella dell’altra, un uomo morto, un assassino da trovare. François Ozon racconta i misteri, le sfumature, le bugie e i caratteri di otto donne diverse tra loro attraverso un film che non ha genere. Perché potrebbe essere teatro, un giallo, un thriller, un poliziesco, che il regista ha deciso di far recitare a delle “statue” del cinema francese.

Farà storia l’azzuffata a terra della Deneuve e di Fanny Ardant, mentre si dimenano e si intrecciano come due serpenti finendo per baciarsi safficamente; impossibile dimenticare l’erotismo di Emmanuelle Béart – la cameriera perversa il cui unico divertimento è irretire e rovinare i padroni; in scena anche un’acerba Ludivine Seigner, la biondina dal sopracciglio alzato che Chabrol farà crescere tra i bordelli, in compagnia di anziani scrittori.

Le protagoniste sono le donne, l’uomo si intravede solo di spalle – ed è già morto. Ozon, dopo Truffaut, è il regista che ama le donne e le racconta attraverso i loro stessi occhi, dando voce a invidie, gelosie, battibecchi, frasi avvelenate, piccoli momenti di solidarietà. È Truffaut che omaggia: “Averti accanto a me è una gioia e una sofferenza”, e attraverso una Ardant munita di pistola nella borsetta, in memoria di “La femme d’à cote”.


La triade di Shangai, 1995 di Zhang Yimou

Bellissima e crudele, capricciosa e avida, lei è la “donna del boss”, un Padrino cinese assetato di potere. Canta in un club come tante altre puttane, tradisce il suo padrone ignara di essere seguìta. Sono i suoi gesti ad essere protagonisti, l’andamento lento e calcolato, le risa perfide e recitate, perfino il fumo che le esce dalla bocca è misurato, ed è lei a risultare la meno prevedibile nel film di Zhang Yimou, lo stesso di “Lanterne rosse” che ha come feticcio l’attrice Gong Li (e come dargli torto!).

Dalla rumorosa Shanghai dove viene ricoperta di gioielli e pellicce, sarà costretta a trasferirsi su un’isola deserta con il padrone e i suoi uomini per proteggersi da attacchi politici. È nella solitudine di questo luogo che la donna ricorderà le sue origini contadine, i sogni di bambina, è nelle passeggiate notturne che avrà nostalgia di chi era ed è nella semplicità della natura che riscoprirà la bontà sepolta.

Il resto è solo contorno, dal bambino orfano che la serve, all’amante sepolto vivo. È il capovolgimento della sua indole a interessare.

Il rumore della città ci distrae, un paesaggio desolato ci mette in contatto con la parte più vera e profonda di noi stessi.

Gli amanti criminali, 1999 di Francois Ozon

Due adolescenti, lei, un’Alice che avrebbe dovuto chiamarsi Eva, manipolatrice, avida, curiosa con tendenze sadiche, lui, il fidanzatino accomodante, insicuro, devoto, impotente quando i due si ritrovano a fare giochetti sessuali su iniziativa di lei.

Alice spinge Luc ad ammazzare un loro compagno, solo perché ha mostrato un interesse sessuale nei suoi confronti. Luc trova la forza di un gesto così macabro dopo aver guardato i due in intimità, spinto forse dalla rabbia, dalla frustrazione, dall’impossibilità di far godere la propria amante, a differenza dell’aitante compagno di scuola, un giovane bello e virile.

I due fuggitivi si ritrovano nel bosco dove vengono rapiti da un orco, un passaggio da un inizio alla “Natural born killers” fino alla storia di “Hansel e Gretel”, con uno svolgimento nettamente diverso: è con il suo giustiziere, l’orco, che finalmente Luc prova piacere. Amplessi omosessuali rubati da cui Luc non si ritrae, nasce in lui una qualche forma di sentimento-riconoscenza. Tutto questo tra scene morbose e voyeuristiche, con un finale inaspettato: può la vittima amare il proprio carnefice?

Quando c’è di mezzo il SESSO, può.

Lussuria – Seduzione e tradimento, 2007 di Ang Lee

Il Mahjong è un gioco da tavolo cinese, come la nostra scala 40 occidentale dove si creano coppie, tris e scale. Si gioca in 4, nel film “Lust, caution” (Lussuria, seduzione e tradimento – nella traduzione italiana) c’è una camera che si posa a lungo sul tavolo da gioco, ma la cosa più interessante sono quelle otto mani ingioiellate e con le lunghe unghie laccate di rosso che mescolano le tessere; poi sale sui castissimi abiti orientali e sulla braccia sottili e trasparenti, sulle acconciature composte e raccolte dietro la nuca, e su quelle piccole bocche sporcate di cocciniglia che si muovono appena, per dire solo frasi convenienti, mai esposte, sempre perfettamente incipriate di buona educazione.

Basterebbe questa scena a meritare la visione del film ambientato nella Shanghai dei ’40 in piena occupazione giapponese. 

Rien ne va plus, 1997 di Claude Chabrol

Eccola un’altra bella da morire, la Isabelle Huppert nei panni di una ladra dal cuore tenero.

Fredda e dalla sessualità complessa in “La pianista”, qui si ritrova “perversa giocatrice”, così la definiscono gli uomini che credono di conoscerla. Mille i suoi volti per fuggire alla legge, dall’algida russa biondo platino, all’appassionata direttrice di una società d’assicurazioni, intenta a raggirare un pollo, in giacca rossa e unghie laccate, all’interno di un casinò.

Ha un complice in questi diabolici piani, il “paparino”, così sicuro di lei fino a quando i soldi in gioco diventano troppi per le loro piccole truffarelle che più somigliano a dei giochetti erotici di una coppia annoiata.

Alla fine della storia le maschere si confonderanno e forse Chabrol vuole dirci che, anche quando inganna, la donna, lo fa sempre con il cuore.

Un uomo, una donna 1966 di Claude Lelouch

“Non è molto originale come incontro”.

“Nemmeno il matrimonio e un figlio sono originali, sono cose che succedono a tutti, al massimo la persona lo è, originale”.

Questo l’inizio della conversazione tra Anne e Jean-Louis, due vedovi incontratisi al collegio dove portano i rispettivi figli. L’inizio del film è un lungo corteggiamento, l’invito a cena, la mano di lui poggiata sullo schienale mentre le sfiora la schiena, i complimenti velati, i primi silenzi, i sorrisi carichi di desiderio, quei momenti che non tornano più, che spingono le coppie al tradimento, per cercare di riviverli, di reiterare quelle sensazioni.

Jean-Louis conosce bene le donne, calibra le parole, è galante, sa attendere, lei lo intuisce subito: “Non ha l’aria di un uomo sposato”.

Chiave del film una citazione a metà tempo, quando lui la interroga sulla massima di Giacometti: “In un incendio tra un Rembrandt e un gatto, io scelgo il gatto, e poi lo lascio andare”, che sta a significare “tra l’arte e la vita, io scelgo la vita”, sottolinea Jean-Louise che tra i due ha imparato a lasciarsi andare, a vivere il momento.

Anne, dopo vari tentennamenti, la si vede amoreggiare tra le lenzuola, 7 minuti di bianco e nero (il regista passa dal colore al b&n) dove nell’intensità di quell’amore sente tutto il dolore del passato, la presenza del marito (morto) e si rinchiude nella tristezza tornando a casa sola, in treno.

“Lui poteva diventare un vecchio bacucco fossero ancora insieme, invece è morto e sarà sempre un uomo eccezionale” il pensiero di Jean-Louise che nella tragedia precoce vede la conservazione del mistero.

L’attenderà all’ultima fermata e riprenderà il corteggiamento come da manuale, struggente, tra i pianti e melodrammi, proprio come piace alla donna. Non si può dire non si sia impegnato!

Sliver, 1993 di Philip Noyce

Zeke è il proprietario di uno Sliver, un grattacielo nel centro di Manhattan; segretamente ha

Zeke è il proprietario di uno Sliver, un grattacielo nel centro di Manhattan; segretamente ha costruito degli impianti video a circuito chiuso che gli permettono di spiare tutto quello che succede in ogni stanza del palazzo, compresi i momenti di intimità della solitaria Carla Norris, quel ghiaccio bollente di Sharon Stone. 

Tra i due scatta un’attrazione pericolosa, Zeke adora sbalordire tanto che una notte, trasmesso l’invito alla bella bionda, lascia che entri nel suo appartamento buio per sorprenderla di spalle, completamente nudo, e prenderla contro la colonna, lei, vestita di un tubino nero, un sottile filo di perle, e la paura che le piace tanto.