Riflessioni sparse tra l’eti(li)co e l’erotico

TEXT: CARLO MARIA FOSSALUZZA, PhD
PHOTO: IRVING PENN, GIRL BEHIND THE BOTTLE, 1949

Il vino è sicuramente un elemento unico, che da millenni accompagna la storia dell’uomo. 
È una sostanza entusiasmante, conturbante, misteriosa, sensuale, ricca e povera, sofisticata e schietta, simbolica e potente. 

Ha accompagnato l’uomo nelle celebrazioni di riti, come farmaco, come bevanda inebriante, come compagno della fatica dei campi, come booster dei momenti speciali.
Negli ultimi anni, possiamo vedere che il vino è entrato in una fase pop, è di moda, di grande tendenza.
Prima limitati ai pochi esperti o alle persone del settore, i discorsi sul vino sono entrati oggi nei dialoghi di tutti i giorni di sempre più appassionati. Su di lui sono stati scritti trattati, poesie, odi ed è poi diventato oggetto di manuali specifici per tecnici e per consumatori; ora come ora è sulla bocca di molti, per non dire di tutti, anche solo per dire “non sono un intenditore, ma se mi piace o non mi piace lo sento subito, anche se non so perché”.
Le ormai iper-inflazionate guide sui vini, che da anni influenzano i mercati e spesso anche i palati più facilmente condizionabili, sono ormai quasi sorpassate, obsolete, e in effetti sempre più spesso ne nascono di nuove, che si prefiggono di essere uniche ed innovative, finendo poi per esser sempre la solita minestra riscaldata.
Già oltre un decennio fa, il grande storico della fotografia Italo Zannier riscontrava che ogni giorno, attraverso i media e internet, vengono pubblicate un numero di immagini enormemente maggiore rispetto a tutte quelle che sono state dipinte nell’intero Rinascimento, e denunciava che, proprio ora che ne abbiamo così tanta disponibilità davanti agli occhi, siamo quanto mai analfabeti visivi, siamo incapaci di leggere e valutare le immagini per quello che sono e per quello che significano.
Il ruolo della didascalia appare spesso fondamentale, ma è evidente come la presenza delle parole abbinate all’immagine faccia sì che due diversi medium si trovino a interagire, spesso l’uno condizionando l’altro.
Cerco di spiegarmi meglio con un esempio. Se ci troviamo ad osservare in una rivista l’immagine di un deserto di sabbia col sole che tramonta all’orizzonte, la nostra percezione di tale immagine cambia radicalmente se la relativa didascalia recita “la vista da uno dei nostri splendidi villaggi in Algeria”, oppure “considerando gli attuali cambiamenti climatici questo potrebbe essere il panorama che vedranno i tuoi nipoti dal balcone di casa”.
Vogliamo considerare, poi, le immagini cosiddette, “di repertorio”? Quelle custodite in enormi data base online dai quali i grafici e i professionisti dell’editoria “pescano” per accompagnare i testi dei loro articoli o delle pagine web? Non è questa la sede, ma bene rifletterci. Bene, al giorno d’oggi sempre più immagini sono dedicate al vino, alle bottiglie, alle vigne, alle cantine diventate spesso strutture ricettive o addirittura SPA o resort; proprio come tutte le altre immagini, ci mettono davanti al problema: cosa c’è di vero?
Un problema essenzialmente e dannatamente etico. Il fatto che rapportarsi con il mondo del vino richieda anche un’attenzione all’etica è testimoniato da tutta una serie di evidenze e fattori, basti pensare che solo pochi anni fa al tema è stato dedicato un vero e proprio manifesto, il “Manifesto Slow Food per il vino buono, pulito e giusto”, ma diversi altri se ne possono trovare come fondamenti di interi movimenti o associazioni di produttori, soprattutto nel controverso mondo dei vignaioli “naturali”.
I vini naturali, di cui tanto si parla, nel bene e nel male, oggi, non hanno alla base un vero e proprio disciplinare che li certifichi, ma condividono delle linee di produzione che forse merita qui considerare. Le uve devono derivare da viticoltura preferibilmente biologica, se non addirittura biodinamica, e prodotte dal vignaiolo stesso. I vini devono essere ottenuti solamente attraverso fermentazioni spontanee (lieviti indigeni), non filtrati e senza l’utilizzo di alcuna correzione se non un limitato uso dell’anidride solforosa.
Non intendo esprimermi sul valore enologico di questo tipo di vini in questa sede, perché quel che ritengo interessante è chiedermi perché si sia avvertita, ormai più di venti anni fa, la necessità di doversi distinguere in un qualche modo da un contesto del vino che sempre più era, ed è, condizionato dai grandi produttori, dalle mode, dalle esigenze del mercato, dall’affidamento alla chimica ed alla tecnica esasperate, dall’omologazione dei prodotti e dalla produzione in larga scala. Cosa veniva, e viene, meno? Venivano meno i territori, le tradizioni, l’unicità di un prodotto legata alla mano del suo produttore, la veracità e il nerbo di un vino figlio del luogo, della terra, dell’artigiano.
Ma tutte queste cose non sono proprio la verità del vino a cui facevo riferimento prima? Io ritengo davvero di sì, pertanto ben vedo che un piccolo nucleo di resistenza enoica abbia contribuito a rimettere in discussione la distinzione essenziale che c’è tra il Vino, con la V maiuscola, quello che cantava Hölderlin sulla tavola accanto al pane, e il vino, più concettualmente simile a una bibita ed edulcorato di tutto il suo spirito, della sua Anima potrei dire.
Abbiamo qui compiuto un distinguo molto importante, fra due mondi che in effetti, a parte stare sotto al cappello della stessa categoria merceologica, hanno ben poco a che fare l’uno con l’altro. Ne consegue, viene da sè, che le immagini del vino che in enorme maggioranza riempiono (mi scapperebbe di scrivere “intasano”) le riviste e le pagine web, sono proprio quelle dei prodotti belli e senz’anima, parafrasando una ben nota canzone. Il modo in cui tali immagini condizionano il consumatore è evidente da anni.
I famosi “bevitori di etichette” costituiscono una grande parte non solo dei fruitori, ma anche alla fin fine di quelli che ora sono “influencer” o “opinion leader” e che mai e poi mai potrebbero dar ascolto al loro palato, alle loro papille gustative, al loro naso e demolire a cordiali e virtuali schiaffoni vini di aziende prestigiose, o molto rinomate, magari pluripremiate da diverse guide “autorevoli” (I simulacri, à la Baudrillard, esistono anche nel mondo del vino, purtroppo). Appare ben evidente che questo fenomeno abbia ben bene a che vedere con l’etica del prodotto, sia perché i critici con “la schiena dritta” sono sempre più delle mosche bianche, sia perché quella poca formazione che viene fatta alla massa dei consumatori (lasciamo perdere le nicchie, sono nicchie per qualcosa) è del tutto fuorviante e capziosa: il bevitore di vino perde la capacità di capire se quel che beve sia buono o cattivo.
O è buono per forza essendo un Quelqualcosa della cantina Taldeitali oppure può passare addirittura come neutro, un vino “per neofiti” (come se i neofiti dovessero bere cose cattive proprio all’inizio della loro carriera di bevitori), un vino semplice senza pretese. La peggiore delle definizioni, però, proprio in base a quanto fino ad ora scritto, è “un vino senza pretese, con un ottimo rapporto qualità/prezzo”. Orrore e raccapriccio.
Se non si sa riconoscere l’effettiva qualità, come si può decidere se sia corretto il prezzo. Spesso molti vignaioli più naïf non sanno neppure in prima persona dire perché un prezzo di un loro vino sia quello o un altro, figurarsi un consumatore. La qualità, poi, non viene riconosciuta, in base a quanto ho descritto sopra. Pertanto? Flatus vocis. Un bel dire di nulla da dire. Parafrasando Ludwig Wittgenstein fuor di contesto: di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.
Nella assoluta maggioranza dei casi la definizione “un buon rapporto qualità/prezzo” può tradursi con “non mi ha colpito granché, ma costava poco”. Da qui in avanti mi riferirò solamente al vino artigianale, a quello che Sandro Sangiorgi chiama il liquido odoroso, e che sopra distinguevo come Vino con la V. La questione sopra accennata della correttezza di un prezzo di vendita di una bottiglia, mi porta a spiegare ancheperché, fra i vari manifesti di vini naturali o simili, ho scelto sopra di citare “Il Manifesto Slow Food per il vino buono, pulito e giusto”. La scelta è dettata dal fatto che, almeno a mia memoria ora come ora, sia l’unico a preoccuparsi, in uno dei dieci punti in cui è strutturato, di precisare che un vino, per essere anche “giusto”, deve aver riconosciuto il giusto a tutte le persone che hanno contribuito a portarlo in bottiglia. Ciò significa che tutti coloro che sono stati coinvolti nel lavoro agricolo, nel lavoro di trasformazione, di magazzino, di gestione dell’azienda, di amministrazione, anche la manodopera saltuaria o da lavoro iterinale, tutti devono aver avuto il giusto riconoscimento economico, professionale ed umano.
Il rispetto per l’ambiente, per il nostro habitat naturale, la scelta di lavorare senza l’utilizzo di prodotti di sintesi in vigna, l’utilizzo di attrezzature sempre a minor consumo di carburante e innovative, la scelta (e l’obbligo) di non inserire nulla di potenzialmente dannoso o anche dubbio nel vino, tutto ciò, secondo me, è del tutto inficiato e vanificato se le stesse attenzioni non sono state rivolte a tutelare e valorizzare la componente umana che ha fatto sì che quel vino trovasse dimora in una bottiglia di vetro.
Rispettare un lavoratore (parlo del comparto agricolo, ma sicuro che molti ragionamenti possano essere trasposti ad altri settori) significa anche mettere a sua disposizione tutti i dispositivi possibili affinché non si faccia del male, che possa lavorare fisicamente comodo, ad orari consoni: sicurezza e dignità.
Posso fare anche il miglior vino del mondo, ma se un trattorista o un cantiniere non ha di che pagare il mutuo per colpa mia, allora sull’eticità di quel vino c’è molto da discutere. Che fare vino sia strettamente connesso con il “voler bene”, secondo me, dovrebbe essere stampato nei manuali di enologia. Voler bene significa, innanzitutto, rispettare.
Se, come poco sopra ho scritto, è necessario rispettare tutti coloro che stanno dalla parte della filiera che è la produzione, importante è voler bene anche a coloro cui il vino è destinato, i consumatori finali. Il vino è un alimento, una cosa che ingeriamo e che nel nostro organismo lascia traccia, venendo metabolizzato.
Certo, non è un bene di primaria necessità, il vino non serve a dissetare, per quello c’è l’acqua, ma serve a migliorare, a intensificare, a celebrare momenti speciali, da un semplice pasto quotidiano ad un momento unico della propria vita.
La sua ragion d’essere è interamente legata ad una dimensione edonistica, connessa al piacere ed al buono. Mi sia concesso ricordare che il Buono ed il Bello, fin tanto che ancora restiamo umani, sono cose necessarie! Questo legame intrinseco con il piacere deve far sì che un calice di buon vino porti solamente valori aggiunti positivi al momento in cui abbiamo deciso di berlo; non deve essere possibile dover pagare a caro prezzo, con malessere, mal di testa, mal di stomaco, la scelta di aver fatto un brindisi.
E qui emerge l’importanza del “voler bene” di chi fa vino. Il fatto che il vino venga ingerito è assolutamente una questione di intimità, e il buon vignaiolo deve esser mosso da un senso di responsabilità che gli impedisce di utilizzare procedimenti o sostanze che possano in qualche modo far male, intaccare quella zona di cristallo che è il piacere e che è la casa del vino contaminandola con tutta quella serie di sgradevoli conseguenze che prima ho citato.
Non parlo di sonore ubriacature, ma solo di un calice in compagnia. Non si può sempre ricondurre alla (iper)sensibilità soggettiva di una persona il fatto di non sentirsi bene a causa di un bicchiere, bisogna invece cercare di far sì che tutti possano godere senza soffrire, perché il vignaiolo non sa in quale bocca andrà il suo vino. Il buon vino, poi, non lascia solamente traccia a livello metabolico, ma anzi e innanzitutto nell’anima. Il vino parla, racconta, esprime; certo, bisogna ascoltarlo e saperlo ascoltare, ma il vino buono ha sempre bei messaggi da imprimere nella memoria. Un ricordo lieto è una sorta di coccola che resta in un cassetto in un qualche luogo della nostra memoria, e che riemerge quando serve, generalmente in una situazione di emergenza, per portarci conforto e pace; un vino può diventare uno di questi ricordi, e farci una carezza quando proprio ne abbiamo bisogno.
Questo sì che è voler bene! Il vero amico che si vede nel momento della necessità! Non è bellissimo pensare che all’origine del lavoro del vignaiolo ci sia proprio questa necessità di fare del bene provocando piacere, creando ricordi, coccolando il consumatore, attraverso un lavoro che parte dalla Natura, passa attraverso le sue mani e la sua interpretazione, e torna alla Natura in un sorso di pensiero liquido? Qualcosa di simile ad un’opera d’arte? Forse sì.
Fare vino significa prender parte ad un processo straordinario che permette al vignaiolo di riconoscersi in una dimensione naturale, di trovare il suo posto nella natura. Il vignaiolo vive la vigna assieme alle viti stesse, come un pastore di vagamente heideggeriana memoria.
Non può certo controllare tutto, ma può guidare e seguire. In un luogo ci sono le piante, con le loro radici ben fisse nel terreno, che da una parte spingono in giù verso la terra e dall’altra nutrono verso l’alto il fusto, che si allunga verso il cielo. Dalle radici, lungo il fusto passa il nutrimento per le foglie, alimentate anche dalla luce del sole.
Protetti dalle foglie, e da esse sostenuti insieme alle radici, figli di terra e di cielo, ci sono i grappoli, il frutto della vite, che la pianta destinerebbe alla propria riproduzione, ma che il vignaiolo invece cerca e cura per fare il suo vino, per accompagnare tutto quello che la terra ed il cielo, in quel luogo e in quella pianta, hanno condensato in quelle bacche fino alla cantina.
Lì, con le sue idee e le sue capacità, con la sua filosofia, interpreterà quei frutti unici per esprimere l’annata in un liquido unico. Interpreterà.
L’interpretazione è il passaggio fondamentale per tradurre quello che la natura fornisce in un’opera unica, perché non esistono quattro mani capaci di produrre lo stesso vino partendo dalla stessa uva. Ogni vignaiolo è unico, e con lui il suo vino. Ma non è forse questo un processo assimilabile a quello artistico? Io penso di sì.
L’artista raccoglie quello che il contesto in cui vive gli offre e lo elabora, lo trasmuta, lo gira e lo rigira, lo mescola, lo lascia sedimentare.
Arriva poi il momento in cui l’artista avverte la necessità di esprimere tutto quello che nella sua testa si è stratificato e sedimentato, e di interpretarlo secondo il medium da lui scelto (pittura, scultura, musica, cinema…) per creare qualcosa di nuovo, indipendente da lui dal momento stesso in cui completa l’opera e che veicolerà il messaggio che la sua urgenza di esprimersi ha voluto imprimergli.
La bottiglia finita è un’opera d’arte, ormai svincolata dal suo creatore, lasciata al giudizio e alla comprensione di chi la stapperà. Una bottiglia potrà finire in mani esperte come no, potrà rovinarsi perché conservata male, o durare per anni nelle teche di un collezionista. Un vino può essere essenziale, barocco, avanguardista, vecchio stile, manierista, raro o comune, proprio come un’opera d’arte di qualsiasi altra natura.
Gustav Klimt sosteneva che tutta l’arte è erotica. D’accordo o meno che si possa essere con questa affermazione, non posso non pensare che il vino, frutto di interpretazione artistica, abbia a che fare strettamente con l’Eros, perché alla fin fine è un grande gesto di amore.
È certamente una delle più belle sensazioni sentirsi amati, ma lo è anche amare senza ombra di dubbio.
Il vignaiolo ama lavorando la terra e facendo il vino, e in questo anelito di amore si pone nella straordinaria dimensione privilegiata di dare e ricevere questo prezioso sentimento, del quale ubriacarsi è la più meravigliosa delle trasgressioni.

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