Cosa dice la riforma dell’editoria e dell’informazione?

Questo è il quadro del mondo dell’informazione in cui ci troviamo. [Il nuovo mondo dell’informazione]
E in questo quadro si inserisce il progetto di riforma del governo, che riguarda l’intero settore.


Rampi (relatore della legge delega) concorda con la necessità di « arrivare in fretta all’approvazione perché è una legge che il settore, fortemente provato dalla crisi, aspetta da anni. Crediamo di aver svolto un bel lavoro, arrivando a un testo che riguarda tutto il sistema: dalle agenzie ai piccoli e grandi editori, oltre alle tv e al sistema di distribuzione».
Anche in considerazione del fatto che ci sono alcune scadenze, in particolare per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti, oggetto di una nuova disciplina e per promulgare i decreti attuativi in materia di assegnazione dei contributi: «Il governo ha otto mesi di tempo per i decreti attuativi, ma – avverte Rampi – bisognerebbe fare in fretta e tentare di approvarli entro la fine dell’anno».


L’art. 1 istituisce il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, con le risorse statali già destinate all’editoria e all’emittenza locale, con un contributo di solidarietà a carico delle società concessionarie di raccolta pubblicitaria e per una parte, fino a un massimo di cento milioni, dalle maggiori entrate del canone Rai. Sono ammesse al finanziamento le cooperative di giornalisti, gli enti senza fini di lucro, le imprese editrici espressione delle minoranze linguistiche, i periodici per non vedenti, le associazioni per i consumatori, i giornali in lingua italiana diffusi all’estero.


In sostanza – sempre tenendo conto del quadro descritto – la legge di riforma dell’editoria periodica non mette un euro in più per finanziare né l’editoria in sé (poco male) né per traghettare un settore fondamentale come quello dell’informazione verso “innovazione e pluralismo”.
Quello che fa semmai è spostare risorse in un unico fondo, cogestito per competenze tra MEF e Presidenza del Consiglio.
Questo fondo avrà meno risorse provenienti dalla fiscalità generale e più risorse dirette, ad esempio tramite “maggiori entrate del canone Rai”.
Intanto, come aveva già chiarito Festuccia su La Stampa, chi pensava che con la riforma del sistema di pagamento del canone (tendenzialmente verso l’evasione zero) sarebbero arrivate più risorse al servizio pubblico si sbaglia di grosso. Ma va anche ricordato che quelle risorse sono tecnicamente già impegnate.
“La legge di stabilità, infatti, “consegnata” dal governo ai senatori di Palazzo Madama sancisce che del gettito recuperato dall’evasione del canone Rai nelle casse di viale Mazzini non entrerà nemmeno un euro. Neanche un soldo degli oltre 450milioni stimati dal recupero dell’imposta nelle bolletta elettrica. La manovra finanziaria per il 2016 prevede, infatti, (articolo 10, comma 8) che le eventuali maggiori entrate rispetto alle previsioni di bilancio (circa un miliardo 730milioni) andranno in un apposito fondo dello Stato per la riduzione della pressione fiscale.”


In relazione sempre al canone va citato anche quanto ha ricordato Beppe Lopez sul Fatto “il ricavato del canone va sì, in effetti, alla Rai ma solo in base a una ripartizione del monte-risorse complessive del settore – determinata dalle normative ad personam, a cominciare dalla Gasparri – che consente a Mediaset di incassare tutta la pubblicità che vuole e può, e alla Rai appunto di incassare il canone e, con un tetto, la pubblicità. In sostanza, il canone va così al ‘sistema’ e, indirettamente, anche agli altri soggetti del sistema, a cominciare da Mediaset, che non a caso ha sempre registrato ricavi (con la pubblicità) complessivamente equivalenti quando più alti di quelli complessivi della Rai (canone più pubblicità). Anche nel 2012 Mediaset si è così accaparrato il 63% dell’intero mercato pubblicitario televisivo, vale a dire miliardi 2,048 e la Rai solo il 21%, vale a dire 680 milioni. Situazione che prevede, appunto, che ad essa vada in compenso il miliardo e mezzo annuale del canone. Con tutto questo non si vuol dire che il canone sia bello e giusto. O che la Rai sia il migliore dei servizi pubblici radiotelevisivi. Ma più semplicemente, perché si sappia e si tenga presente, che con quel canone non paghiamo solo per la ricezione dei programmi Rai ma ci abboniamo ‘alla televisione’ nel suo complesso, e che di esso ha beneficiato in tutti questi anni e continua a beneficiare di fatto la Tv di Berlusconi.”
Va anche ricordato che il canone non è un fondo che la Rai può utilizzare come liberamente crede; tra gli obblighi di legge deve finanziare prodotti audiovisivi e cinematografia nazionale, e negli anni ha creato quell’infrastruttura di ponti e ripetitori che – in quanto servizio pubblico – deve offrire sul mercato anche ai suoi concorrenti.
Decisamente un bel risparmio per loro: pagare a RaiWay un piccolo canone invece di dover sostenere ex novo un enorme investimento infrastrutturale e doverne anche pagare i costi di manutenzione e aggiornamento.


Quindi, da una “epocale legge di riforma” dell’editoria e dell’informazione, forse la prima cosa che manca davvero è una riforma radicale di un sistema che non sta in piedi, ed in cui la Rai viene penalizzata non potendo essere “libera di operare sul mercato” e in cui non potrà beneficiare di un solo euro dell’evasione recuperata.
E forse in questo senso va anche il tetto massimo degli stipendi ai dirigenti. Se la Rai deve competere con Mediaset e Sky verrebbe da chiedersi i loro dirigenti, omologhi per ruolo, quanto guadagnino, perché mettere un tetto è un sistema “grazioso” per allontanare chi produce e vale di più verso il sistema privato. Semmai ben altro sarebbe stato chiedere ai dirigenti “altrettanta produttività”, esattamente secondo i parametri delle concorrenti private.


Va infine menzionato un punto presente nella delega, ovvero che il finanziamento non potrà essere superiore al 50% dei ricavi. Premesso che parliamo di un settore in crisi, e che i finanziamenti dovrebbero andare a cooperative e soggetti no-profit, se consideriamo che sino al 2015 il parametro erano i costi, tecnicamente si tratta di dimezzare il contributo. Il che può anche essere una scelta politica ed economica – basta dichiararlo – ma mal si concilia con il concetto di “fondo per l’innovazione”, che invece dovrebbe prevedere un contributo specifico a questo scopo, e non parametrato secondo criteri “non di scopo”.
Peggio se parliamo di fondo “per il pluralismo”. Dimezzare il contributo ai piccoli giornali di fatto significa avvantaggiare i grandi gruppi, che nella peggiore delle ipotesi potranno acquisire testate locali a prezzi di saldo, nella migliore faranno fuori gratis ogni possibile concorrenza sul territorio.


Tutto questo sul solo articolo 1. 
Perché di fatto i restanti articoli sono deleghe al Governo – nello specifico Luca Lotti che ha la delega per materia – a presentare un disegno di legge “per ridefinire la disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria e dell’emittenza locale, per riordinare la disciplina pensionistica dei giornalisti, che dovrà allinearsi con la disciplina generale, e per razionalizzare composizione e competenze del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti.” (art 2).
L’art. 3, detta disposizioni per il riordino dei contributi alle imprese editrici; l’art. 4 introduce un riferimento all’equo compenso dei giornalisti; l’art.5 punisce l’esercizio abusivo della professione di giornalista; l’art. 6 detta nuove disposizioni per la vendita dei giornali, prevedendo la liberalizzazione degli orari e dei punti vendita.


In pratica ridefinire la disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria e dell’emittenza locale, significa una nuova regolamentazione del fondo di cui all’art.1. Semmai prevedendo un contributo a scalare nel tempo e finanziando la digitalizzazione. Quindi più fondi al web di cooperative di giornalisti ed enti senza fini di lucro.
In pratica riordinare la disciplina pensionistica dei giornalisti, che dovra’ allinearsi con la disciplina generale, significa un’insieme di norme che – di fatto – dovrebbe portare non solo a uniformare le età di pensionamento ma anche i modi e le forme e l’entità delle pensioni, sino all’incorporazione dell’INPGI in INPS. Almeno, questo potrebbe essere, e dipenderà dal disegno di legge.
Infine razionalizzare composizione e competenze del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti.
E qui non si comprende bene in che modo un Governo possa entrare nel merito di “quanti” (e quindi quali) e in che modo, forma e percentuali debbano essere i membri del consiglio di un ordine professionale autonomo. Né si comprende se sia prevista o in previsione un’attribuzione di poteri sanzionatori “veri” nei confronti delle violazioni – ad esempio – del codice deontologico, nè quali ripercussioni e valenza giuridica queste sanzioni possano avere.
E mentre l’articolo 6 sostanzialmente parla delle edicole, ma niente dice su realtà in cui di fatto la distribuzione intermedia (tra distributore nazione ed edicole) è in regime di monopolio. Peggio, non interviene nemmeno per riordinare tutte le “clausole transitorie” e le sperimentazioni diffusionali che si sono accumulate in quarant’anni.
Questo significa che si, l’edicolante può avere orari più flessibili, ma continuerà ad essere obbligato a “acquistare comunque” un tot di copie dei grandi giornali (anche se non le vende), dovrà comunque – se vuole gli allegati – pagarli tutti senza reso, dovrà accettare localmente che il distributore unico gli imponga di fatto fatturati minimi sugli editori “che dice lui”, eccetera.
E questo a discapito del pluralismo, dell’informazione, e della condizione per cui tutti dovrebbero essere messi nelle stesse condizioni di competere.


Il migliore articolo resta il 5.
Art. 5.(Esercizio della professione di giornalista)
1. L’articolo 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, è sostituito dal seguente:
«Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave».
Ora, passi “l’attribuirsi il titolo”, ma nel 2016, nell’era del web, in questo tempo in cui tutti di fatto sono “creatori di contenuti” e le piattaforme social sono di fatto “strumenti di pubblicazione e diffusione di contenuti”, e in un tempo in cui puoi aprire un blog e aggiornarlo tutti i giorni, gratis e in pochi click (e qualche volta anche nel più completo anonimato) esattamente la legge cosa intende per “esercitare la professione di giornalista”.
Significa che se scrivo su un giornale, se pubblico su un sito che è registrato come testata periodica online, ove mai venissi pagato, starei esercitando abusivamente la professione di giornalista, per il solo fatto di non essere iscritto all’Ordine?
Vorrei capirlo, e saperlo, perché questa è praticamente l’unica norma in approvazione definitiva, che non attende la legge delega, e non attende regolamenti attuativi.

Il nuovo mondo dell’informazione

Quella cui stiamo assistendo, non sempre consapevolmente e spesso in modo frammentato, è una vera e propria trasformazione strutturale del giornalismo e del mondo dell’informazione nel nostro Paese. Ma in pochi – anche tra gli addetti ai lavori – se ne sono accorti.
Partiamo da alcune notizie frammentate, apparentemente senza alcun legame diretto.


Il gruppo Repubblica-Espresso si fonde con La Stampa- Secolo XIX. Nasce il più grande gruppo editoriale italiano con radio, siti web e vere e proprie tv online i cui contenuti, nel tempo, spesso superano le audience televisive.
Il Corriere della Sera passa di mano. Dallo storico gruppo di controllo del mondo industriale milanese ad un “editore puro” del mondo dei periodici, a forte vocazione pubblicitaria, proprietario anche di una rete televisiva, La7, che compete ormai alla pari sui contenuti con Rai e Mediaset.
Qualche anno fa la prima grande ristrutturazione della carta stampata aveva visto mettere insieme in QN testate storiche Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno sono ora identici, cambiando solo la testata. L’edizione locale è in un fascicolo interno. Il rapporto tra edizione locale ed edizione nazionale è ribaltato.
Sin qui le concentrazioni, che parlano di riorganizzazione. Ma che parlano anche di un’editoria consapevole di non poter essere più “strumento di potere e di pressione” di qualche gruppo industriale. Che parlano di un’editoria alla ricerca di una strada industriale autonoma, quasi come nel resto del mondo. Concentrazioni che in fin dei conti ci raccontano che quel mondo frastagliato di piccole testate auto-referenti, in un’area linguistica piccola come l’Italia e in cui si legge pochissimo, non avevano ragion d’essere. Tutto questo ha pro, ma anche moltissimi contro in termini di libertà di stampa, di pluralismo dell’informazione, di informazione locale, e di “sbocchi e alternative” professionali.


Nello stesso tempo in cui avvenivano queste forti ristrutturazioni, con qualche anno di ritardo il mondo dell’informazione del nostro paese scopriva il web. Prima come “archivio”. Poi come “vetrina” per metterci dentro i contenuti delle edizioni cartacee. Poi sempre più come contenitore in cui mettere “quello che non c’entrava” fisicamente nell’edizione “nobile”.
Finalmente qualcuno si è accorto che potevano nascere testate “solo web”, nate per il web, che potevano essere più forti e competitive dei “cari vecchi giornali”. Non sul blasone, né sulla riconoscibilità, ma certamente sulla “quantità dell’offerta” di contenuti (non sempre informazione vera e propria).
I giornali di questo paese non si sono fermati un momento a riflettere, ed a scegliere una propria via, autonoma e originale, semmai puntando su un patrimonio immenso fatto di archivi, storia, contenuti unici e autorevoli. Hanno scelto la via decisamente inflazionata di “seguire”.
E questo ha fatto si che oggi non ci sia sostanzialmente differenza tra i siti di un giornale e un qualsiasi sito di contenuti generici, di “raccoglitori di blogger” e quant’altro. Non che ci sia niente di male in sé. Ma quello che manca è la risposta alla domanda “qual è la differenza tra l’informazione professionale e professionista?”. Quella per intenderci per cui un utente dovrebbe essere disposto a pagare dei soldi, dal momento che – in molti casi – è davvero difficile trovare le righe di notizia tra link, pubblicità, adv, pop-up, inserti e cornici e “…continua a leggere” e quando un video di 20 secondi ne ha 30 di pubblicità prima e un banner (quando non due) sopra.


Mentre si inseguiva il web, accadeva che la rete andava più veloce dei giornali.
Nel bene e nel male le aziende dell’informazione native digitali erano liberi da pesi e costi industriali del passato. La loro non era una innovazione o uno sviluppo, ma era “il prodotto”. E questo le ha rese libere anche di sbagliare ma prima di tutto di scegliere vie e modelli alternativi, che spesso hanno incontrato più immediatamente i gusti e le esigenze dei lettori.
Tutto questo fa si che oggi sempre più spesso i gruppi editoriali classici, più che immaginare un percorso proprio, tendano ad acquisire realtà della rete per “farle proprie”.
Qualche volta costa meno, ma molto spesso il rischio è di acquisire qualcosa che “appare vincente” ma che in realtà la rete considera quasi decotto.
E accade sempre più spesso anche che invece realtà native digitali attraggano redattori dalle testate tradizionali, offrendo anche a parità di retribuzione (ma fosse anche meno non è questa la discriminante) più spazi, autonomia, e possibile creatività.
Del resto l’elemento centrale resta il pubblico, che è anche visibilità personale, e se al netto di bounce, click-baiting, pagine-fantasma, click acquistati e sistemi vai ed eventuali, comunque, alla fine, quel contenuto online raggiunge nel tempo cinque volte i lettori della carta stampata, la riflessione, anche professionale, è più che aperta.


Il quadro va completato con qualche nota sulla stampa locale. Quella stampa fatta di piccoli quotidiani e settimanali che hanno un potenziale immenso: la notizia del e dal territorio. 
Essere cioè non solo vetrina reportistica, ma vero e proprio punto di riferimento per ciò che avviene in un’area specifica. Proprio quella “geolocalizzazione” di contenuti (e quindi inevitabilmente anche di lettori) che è la merce più cara oggi sul web.
Per loro il web sarebbe una risorsa immensa. Raccolta di pubblicità locale, mirata e geolocalizzata, visibilità dei contenuti, gestione dell’archivio storico e tematico.
E tuttavia questa rivoluzione digitale, per loro salvifica, è impedita da almeno due limiti.
Mancanza di risorse umane, perchè spesso parliamo di testate con organici ridotti all’osso, e soprattutto mancanza di risorse da investire in un vero progetto industriale di informazione locale online, perché parliamo di testate già in difficoltà sul fronte del bilancio ordinario.


È in questo quadro generale – fatto di concentrazioni ai limiti della legalità sia sul fronte della distribuzione che sul fronte della raccolta pubblicitaria – che si inserisce la proposta di riforma dell’editoria, in agenda in questi mesi.

La spettacolarizzazione dell’informazione

Il tema della spettacolarizzazione non tocca solo la politica, ma contagia la stessa informazione, soprattutto quando ha un confine labile con l’opinione.
In una strana deriva dettata apparentemente dal fatto contingente che “i giornali vengono fatti il giorno prima per il giorno dopo” e che quindi “la notizia” in sé è già stata data e veicolata al pubblico, sempre più spesso il quotidiani – ed ancor più i settimanali – hanno scelto, in luogo di una attività giornalistica di approfondimento, di puntare su una sovrabbondanza di opinioni.
E l’opinionista si presta alla spettacolarizzazione televisiva anche più della politica, potendo spaziare su qualsiasi campo, genere, pubblico ed argomento.
Questa migrazione tra carta stampa stampata e televisione è anch’essa bivalente: da un lato la tv beneficia di opinionisti versatili, generalisticamente o specialisticamente preparati, che mediamente riescono a dare un contributo contenutistico alla trasmissione, dall’altro il mondo della carta stampata, in un tempo di decrescita dell’affezione del lettore e della propensione alla lettura, beneficia di fatto di veri e propri spot promozionali per il proprio prodotto.


Soprattutto per quanto attiene a prodotti editoriali di aree linguistiche minori (Italia, ma anche Grecia, in alcuni casi Germania, paesi nordici in generale) l’apparizione televisiva costante di direttori e “firme di punta” sul medium televisivo finisce con l’essere garanzia di sopravvivenza.
E questo comincia avvenire anche in paesi in cui, sebbene il pubblico linguistico sia contenuto, resta alta la propensione alla lettura (per ragioni storiche e culturali, come in Francia, Germania, Scandinavia).
Questo fenomeno tuttavia porta con sé molti problemi. In primo luogo la spettacolarizzazione televisiva, con l’adozione dei tempi e del linguaggio mediatico della televisione, si presta poco e male al tipo di approfondimento giornalistico tipico della carta stampata.
Contemporaneamente non è affatto detto che la migliore firma giornalistica, che descriva al meglio un fatto, un fenomeno, un evento, sia anche adeguatamente telegenica da poter essere “ospite televisivo” – requisito mediatico indispensabile. E accade spesso invece che un giornalista della carta stampata sebbene “mediocre” o comunque abbondantemente nella media, possa divenire star televisiva per ragioni comunicative, estetiche, caratteriali, del tutto indipendenti dalla sostanza della propria professione e professionalità.


Laddove gli ospiti del giornalismo televisivo sono numerosi, variabili, fortemente alternati, i macroproblemi finiscono qui. Laddove invece – come avviene soprattutto in Europa, e come ha ben illustrato Alberto Baldazzi nella sua annuale analisi dell’Osservatorio TG – tale presenza si riconduce ad un numero di ospiti particolarmente ridotto, quasi fosse “un circolo”, si pongono una serie di problematiche aggiuntive.


In parte sono le stesse di cui possiamo parlare a proposito dei problemi di accesso e di pluralismo nell’informazione politica. Si pone in altre parole un problema di accesso e di pluralismo di informazione ed opinione, che si traduce anche – nell’informazione e nella comunicazione politica – in una “monotonia” di temi, argomenti, argomentazioni e repliche. Essendo gli ospiti pressoché fissi, sempre gli stessi, in format complessivamente statici, non c’è spazio per “altro ed altri” (il che tra le altre cose genera quella “crisi di audience dei talk show” di cui il mondo giornalistico parla senza tuttavia affrontarlo sul serio, preferendo pensare che sia il pubblico non interessato e non che ci sia un errore giornalistico/informativo).
In parte le problematiche sono invece le stesse di cui parlerò a proposito della “simulazione”, sia della trasparenza politica sia dell’informazione. Quando questa diventa spettacolo, intrattenimento, e i giornalisti – che dovrebbero essere protagonisti del mondo dell’informazione – diventano personaggi soggetti alle regole dell’audience, il contenitore ed il contenuto televisivo diventano qualcosa di più simile ad uno spettacolo di intrattenimento e di reality che non di approfondimento ed analisi.


Questo fa sì, per tornare al tema della simulazione, che anche gli scontri, i confronti aspri, le critiche, più che “autentiche” finiscano con l’essere apparenti e simulate a beneficio del pubblico.
All’interno di pur note ed evidenti divergenze di opinioni e punti di vista, appare chiaramente difficile pensare che giornalisti che si incontrano anche quattro volte nella stessa settimana in diversi talk show o trasmissione di apparente approfondimento possano “autenticamente scontrarsi in piena trasparenza, dovendo rincontrarsi altre quattro volte la settimana successiva. Ed appare chiaro che il dibattito sia politico che informativo diventa la simulazione di se stesso. Una “messa in scena” per essere “messa in onda”.