Le primarie in salsa 5 stelle

La notizia riportata dal Roma di ieri va ben oltre un articolo di cronaca politica, semmai locale, e tocca aspetti profondi della società, della tecnologia e della politica.
Intanto la questione primarie.


Il centro destra non le fa, anche se sta comprendendo che forme come i gazebo possono essere quantomeno uno strumento utile per avvicinare i cittadini. Il centrosinistra le fa, come molti sostengono “sono elemento costitutivo del dna del partito democratico”. Semmai le fa in maniera confusa, con una regolamentazione interna spesso ballerina e discutibile. Ma le fa “in carne ed ossa”. E questo è molto importante per la democrazia, perché ad esempio consente quel controllo che la stampa – quando davvero indipendente – può esercitare nell’interesse comune: fare cronaca e documentazione, e nel caso denuncia. È un interesse di trasparenza collettivo, che non riguarda semplicemente “la vita interna e privata” di un partito – come taluni sostengono – perché poi i candidati e gli eventualmente eletti, e comunque “i selezionati”, toccano tutti noi, anche quelli che di quel partito non fanno parte e gli elettori di tutt’altro schieramento.
Questo principio di trasparenza, di possibilità di verifica, di denuncia, di controllo, di ricorsi se ve ne sono le condizioni, è alla base di qualsiasi consultazione elettorale tesa alla selezione delle classi dirigenti e degli eletti.


Il Movimento 5 Stelle, preso dal furore del cyber-utopismo più estremista, le sue consultazioni, iscrizioni, discussioni, le fa a mezzo web. Questo comporta certamente dei vantaggi, come rendere accessibile l’incontro e la partecipazione a distanza, poter avere libertà di orario e tempo di riflessione. Ma il delirio di onnipotenza del web è anche nella faciltà con cui enormi bufale assurgono a verità solo perché molto condivise o commentate, che se lo dice la rete sarà vero, nonché la sottile vigliaccheria di celarsi dietro l’anonimato di profili social falsi e blog amatoriali per diffamare, attaccare, inventare notizie. Peggio se tutte queste patologie della rete finiscono con entrare nel processo decisionale democratico. Peggio ancora se dalle votazioni online dipende chi viene candidato, espulso, eletto.

Quando le cose, in passato, sono andate male per evidenti errori di programmazione interni, Casaleggio parlò di “hackeraggio” esterno. Mai dimostrato. Era il tempo delle quirinarie. Prima era stata la volta delle parlamentarie (quasi condominarie) dove sono stati scelti per essere eletti (in liste bloccate) fratelli, figli e fidanzate di qualche attivista della prima ora vicino a Grillo. Anche con appena 17 voti. Oggi la somma non varia di molto, e si viene scelti per essere candidati sindaco, presidente di Regione, parlamentare, o espulso, con poche decine o qualche centinaia di voti. Ma possiamo davvero chiamarli tali? Chi e come può verificare se non ci siano doppi o tripli profili? Peggio, chi può dare la certezza che quei risultati “totali” siano effettivamente “i totali corretti”? Perché le schede – quelle vere – le puoi anche ricontare. I click di certo no.


E se il candidato sindaco viene scelto con 270 voti, e in poche decine si piazzano i competitor, allora quelle “espulsioni” di 38 persone a Napoli impedendo a militanti storici di votare e decise d’imperio da Milano (senza consultazioni online, senza streaming) pesano, e parecchio. Soprattutto se poi quel favoloso numero di 5.400 partecipanti al meet-up di Napoli in realtà sia costituito dall’80% di profili “falsi” o doppi o tripli. E poi, chi ha deciso che davvero sono solo 580 (circa) gli iscritti aventi diritto a Napoli?
Tutto questo riapre la questione ben più seria, meno “di parte” e meno legata alla cronaca, che riguarda quale modello di democrazia vogliamo, se davvero affidarsi senza limiti alla tecnologia senza possibilità di verifica esterna sia la forma migliore per i nuovi processi democratici. Soprattutto senza riflettere su forme di controllo autentico. Perché da questa considerazione dipenderà quale sarà la società del futuro.

Le primarie del PD

Domenica Lucia Annunziata ha introdotto “in mezz’ora” (tempo e titolo del suo programma) i quattro partecipanti alle primarie di Milano. La cosa che mi ha colpito era la concretezza, il radicamento col territorio, la programmatità delle proposte e il metterci la faccia comunque all’interno di una casa comune. Poi ho immaginato la stessa cosa fatta sui candidati a Napoli, che ancora non è chiaro chi siano in uno scenario che si sta delineando dopo svariate ipotesi e scenari unitari. E allora capisci che quel divario tra Napoli e Milano non riguarda il verde pubblico, la manutenzione, e nemmeno l’economia locale. Cinque anni fa il PD ha perso, a Milano come a Napoli. Lì hanno avuto Pisapia che ha dedicato cinque anni della sua vita a Milano, ad un progetto, ed ha coinvolto in un dialogo fermo ma concreto tutte le forze di centro sinistra, con cui ha governato e costruito un percorso e un dialogo comuni.


Cinque anni fa a Napoli ha vinto De Magistris, che si è chiuso nelle sue liste civiche che hanno eletto consiglieri con trecento preferenze e ha governato da solo, mantenendo come filo conduttore “il vecchio e il PD sono brutti e cattivi e io faccio la rivoluzione”. Figli di quella scelta sono stati l’isolamento di Napoli e la centralità di Milano. In casa PD lì è stata l’occasione per una discussione interna ed una crescita nel dialogo anche fuori dal partito. Qui questi cinque anni non sono serviti a creare un’alternativa, una classe dirigente, una candidatura credibile, una proposta politica alternativa o inclusiva, ma nemmeno una seria e severa riflessione su quella enorme sconfitta. E mentre lì si discute di chi possa essere un candidato davvero unitario che unisca, allarghi, renda la città partecipe e le scelte davvero partecipate, qui da noi si propongono candidature “alla conta interna delle componenti”.


Le primarie – per il sindaco di Napoli – sono la conta interna di chi sta con chi e non per fare che, e sono il trampolino – in base alla logica delle proporzioni che usciranno – delle candidature sicure, blindate o incerte quando mai si voterà per le politiche. E tutto ciò avviene in una città in cui il PD – è bene chiarirlo – non è favorito come a Milano. Anzi. A Napoli si arriva al ballottaggio solo con l’appoggio (imbarazzante per certi nomi almeno quanto lo fu per la Regione) del già pronto mega listone di “centristi” dall’UDC al NCD ad ALA e amici vari e certamente eventuali. 
Abbiamo Antonio Bassolino, padre fondatore del PD e all’epoca uno di quelli che fece di Napoli il laboratorio di alleanze nazionali, contro cui il PD ha cercato chiunque: Valeria Valente in quota “giovani turchi” o “neo-renziani” che dir si voglia (ex-assessore e compagna di Gennaro Mola, ex assessore di Bassolino che appoggia quest’ultimo). Aveva promesso di scendere in campo “in caso di candidature politiche Gianluca Daniele (che in caso di pessimo risultato perderebbe ogni velleità di leadership), che però preferisce schierare Marco Sarracino (segretario dei GD, ex civatiano e come tale in direzione nazionale) che non ha nulla da perdere, visibilità da guadagnare e francamente tutta la forza i un volto pulito da spendersi, il che lo rende virtualmente vincitore con qualsiasi risultato interno. Infine abbiamo un sempiterno candidato Umberto Ranieri, che da mesi si accredita di ampi sostegni della società civile e si presenta come uomo di rigore, che comincia surrealisticamente annunciando che presenterà “firme di iscritti al Pd ed elettori di centrosinistra non iscritti. Presentando le firme diremo esplicitamente che noi contestiamo l’articolo tre del regolamento”. Non male per chi ancora sostiene che nel 2011 ha perso per brogli e che ha sempre detto di essere “uomo del rispetto delle regole”. Sono le parole di Enrico Pennella che forse sintetizzano al meglio una situazione interna al limite del surreale: “Si finisce per leggere ed ascoltare di tutto, qualche volta sfiorando perfino il ridicolo. Anche spericolate acrobazie verbali per nobilitare stupefacenti cambi di campo.


Non un bellissimo spettacolo. Eppure per recuperare un minimo di equilibrio e buon senso forse basterebbe un semplice sforzo di memoria ricordandosi del proprio recente passato.” Sarà l’ennesima sfida e conta interna. Esattamente quello di cui Napoli (e il PD) non hanno bisogno. Eppure basterebbe guardare a Milano, e a quella ricerca salvifica di un candidato forte, che unisce, che coinvolga davvero i cittadini e che spinga ad una vera ed autentica partecipazione dal basso. Cosa che un partito ridotto a livello locale ad una forbice tra il 16% (comunali 2011) e il 20% (regionali 2015) ha scordato da tempo come fare, e alle volte finanche di dover avere come vocazione.

SputtaNapoli

La vicenda in sé è un cliché, sia della politica che della tv del pomeriggio. Metti un presentatore e qualche ora da riempire (nel caso specifico Giletti e l’Arena), parli di Napoli, e ciò di cui parli è la spazzatura nelle strade adiacenti la Stazione Centrale. Metti qualche commento il giorno dopo sui social network – estensione digitale che ci fa sentire tutti opinionisti chiamati a intervenire – e il polverone diventa polveriera. Si va da “Giletti De Magistris due facce dello stesso populismo” alle accuse “occupati del tuo paese di provincia e non di Napoli”. Peggio se gli autori sono esponenti politici locali, e peggio ancora se uno lavora per il Sindaco e l’altro è un dirigente del Pd.
 Si scatena – ennesima, imperitura, sempiterna – la lotta tra “tu sei parte dello sputtaNapoli” e non vuoi bene alla città e il “tu neghi l’evidenza”. E il dibattito continua. Poi, come sempre, passeremo a parlare d’altro. Poi come sempre riprenderà identico alla prossima puntata. Perchè di Napoli ormai si parla (da anni) solo per camorra, spazzatura e traffico e disservizi.
 Il gioco – perchè alla fine questo diventa – vede le parti a ruoli alterni. Se sei maggiornaza che amministra, allora lo sputtaNapoli lo fanno gli altri e quindi ti indigni, se sei all’opposizione allora dici solo la verità da non nascondere sotto i tappeti. Quante volte lo abbiamo già visto, e quante volte i protagonisti – se avessimo memoria – sono stati pressoché gli stessi. Dovremmo cominciare a chiamare non solo i problemi, ma anche i responsabili per nome.


Quarant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Nel suo famosissimo “io conosco i nomi” scriveva “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.”


Ecco che qui emerge la vera lacuna di questa città, che fu un tempo capitale europea. Un male che tocca un po’ tutto il paese, ma da noi diventa cancrena e non semplice patologia. Da noi si rincorre, elezione dopo elezione, la famosa “società civile”, l’intellettuale di alto profilo che possa spendersi per dare volto credibile a una classe dirigente di mediocre cabotaggio, di interesse personale, di compromesso esistenziale, di statura minimale. Ma questo paravento intellettuale deve anche – per necessità di conservazione dello stato delle cose a che le cose non cambino mai – essere estremamente compromesso con quel potere, dipendente da quel potere, finendo per non avere più alcuna indipendenza critica, ma finendo con l’esserne alibi e difesa d’ufficio.


In questo gioco, l’intellettuale di turno si presta, per l’intervista, l’applauso, il plauso o like su facebook, ad essere – a seconda delle stagioni – parte dello sputtaNapoli perchè dice la verità, o amante e difensore della città contro chi ne sa solo parlare male. Sinchè non cambierà il vento e con questo vento la propria posizione personale. Ecco. Attori e spettatori, qualsiasi sia la posizione di oggi su questa vicenda specifica, sono tutti parte dello stesso gioco. Cui, per essere chiari, un intellettuale vero e indipendente, non si presterebbe mai.

Chi vincerà le amministrative a Napoli?

A meno di un anno dal voto il dibattito para-politico su Napoli è bloccato, fermo sostanzialmente a quattro anni fa. Ma se fosse solo “fermo” sarebbe probabilmente meglio di quando – come adesso – il dibattito è essenzialmente “chiuso”, tra gruppi e posizioni che hanno una loro visione e che fanno pronostici fondati letteralmente sul nulla, se non il proprio autoconvincimento.
È un modo “antico” di fare politica, soprattutto a sinistra, che però ha tappe macroscopiche di cui sarebbe bene tenere traccia e memoria. 
A Bologna si vince comunque, qualsiasi sia il candidato. Poi vinse Guazzaloca. A Napoli si vince comunque, e nella peggiore delle ipotesi si va al ballottaggio. E vinse De Magistris. Parma dopo gli scandali deln centrodestra è si-cu-ra. E vinse Pizzarotti. A Venezia non può che vincere il pd. Livorno rossa la si vince anche se non si candida nessuno. E ha vinto il Movimento 5 Stelle. Possiamo mica perdere la Liguria con la Paita, e (solo) per colpa della “sinistra sinistra” ha vinto Toti, ci mancherebbe. E l’elenco potrebbe anche continuare, semmai con un “De Luca stravince con otto punti di vantaggio” (il giorno prima) che il giorno dopo è diventato una vittoria sul filo di lana di meno di 40mila preferenze. 
Ecco, dircele queste cose e ricordarcele non guasterebbe. Perchè l’umiltà in politica è una gran bella cosa. Soprattutto aiuta – tutti – a restare coi piedi per terra. Aiuta anche a ricordare che ci si candida e fa politica on per fare l’ultras che esulta per uno scudetto, ma per amministrare il bene comune. Non ci sono coppe da portare a casa, ma un lavoro serio che dopo la campagna elettorale andrebbe svolto tutti insieme, o quanto meno col contributo di tutti.

Io sulla mia città in questo mese ho detto poche cose. E mentre è costume della politica che l’affermazione del giorno prima venga sovente ripensata il giorno dopo, mi accorgo che le cose che ho cercato di dire restano quelle. Per questo le metto qui, tutte insieme, in ordine cronologico. 
È il mio contributo a questo dibattito, che si affanna ancora sui totonomi e che non lascia trasparire alcun contenuto.


All’indomani dei dati della Svimez provai a declinare in satira…
[la riflessione seria la trovate qui] 

Contro questi piagnistei meridionalisti sarebbe una cosa buona chiudere la Svimez. 
Si perchè ultimamente va molto di moda questo “pensare positivo”, guardare al bello, parlare dell’Italia che funziona. Se non lo fai, se non sei “ottimista”, sei un retrogrado, un gufo della solita sinistra piagnona e masochista che rema contro. 
Infondo la soluzione è semplice: se i problemi non li documenti non esitono. 
Nella retorica della comunicazione social alla domanda “e dove sta il link?” se non c’è ti inventi tutto, quindi meglio “togliere il link” e amen. 
Potremmo però risolvere tutto, e non solo i problemi del sud, con questa logica stringente: se facciamo emigrare tutti i disoccupati cancelliamo la disoccupazione. Pensiamoci bene. Potremmo risolvere la fame nel mondo, il problema dei malati e delle “diverse abilità” in maniere simili… 
Forse se smettiamo di parlare del debito pubblico (mai così alto nella storia repubblicana) anche quello per miracolo e da solo svanisce. 
Tempo fa De Magistris a Napoli, nella mia città del resto disse “basta parlare di blatte per strada, le blatte non ci sono, chi ne parla sarà querelato” (vero che spuntarono foto di blatte ovunque e non si ha notizia di querele sindacali, ma accadde anche questo).
 Sono i tempi bellezza. Sono quelli del #menefrego in trend-list su twitter e di quelli che fanno ironia dicendo “mi aspettavo anche i treni in orario”. Ma quale ironia, i treni sono in orario: sei tu che sei gufo e ci hai anche l’orologio rotto. E dato che la crisi non c’è, puoi anche smettere di fare il taccagno e compratene uno nuovo, che il paese ringrazia.


Meno satirico è quello che scrissi due giorni dopo.


Mentre si dipana il dibattito sul sud, che pare funzionare anche come novello sempreverde tormentone estivo (insieme agli immigrati), e si sentono citare e piovere (nonostante il caldo, o proprio come effetto collaterale del caldo) cifre di ogni tipo genere e dimensione, io ne vorrei citare solo due. Che nel loro piccolo riguardano soldi già disponibili e che riguardano entrambe Napoli.
La prima cifra è 156milioni di euro, e sono i soldi per dragare il porto e per l’ammodernamento delle banchine di attracco. Soldi che il 31/12 torneranno all’Unione Europea perchè – dato che la politica cittadina e quella regionale non si sono messe d’accordo per la nomina di un presidente dell’autorità portuale, la progettazione e realizzazione delle opere non è stata fatta. Alla stessa data tornerà in Europa anche la seconda cifra. Questa volta 101milioni di euro. Che sono i fondi per la riqualificazione del centro antico e storico di Napoli, dopo che queste aree sono rientrate nel partimonio mondiale dell’Unesco. Messe insieme queste due cifre sono 257 milioni (e spicci). 
A ben vedere hanno tra loro anche una coerenza straordinaria, perchè andrebbero a finanziare l’enorme risorsa-volano dell’economia cittadina: il turismo. 
Ecco. Seppure 257 milioni vi sembran pochi, cosideriamo che li abbiamo persi. Ma per una volta, senza forche e senza populismi di piazza, sarebbe un bel segnale di rinascita del sud se, pacificamente, semplicemente, chiedessimo tutti conto e che qualcuno rispondesse di questo che – prima di tutto – è un atto di irresponsabilità verso la città e verso il bene e il patrimonio comune.

Fu poi la volta di quando De Magistris divenne “sindaco di Facebook” che commentai così dalle colonne del Roma:


Dopo essere stato sindaco rivoluzionario, sospeso, di strada, reintegrato, oggi De Magistris lancia definitivamente la sua campagna elettorale con un lungo post su Facebook. Che fosse social lo sapevamo, ma stavolta il suo post è con un vero e proprio manifesto politico delle cose fatte e di attacco al pd renziano. Tra le molte accuse “a firma” del sindaco di Napoli ce ne solo alcune difficilmente attribuibili a Matteo Renzi come “Mafia Capitale, inchieste Expo, Venezia Mose”: tutte vicende semmai esplose sotto la sua segreteria e cui lui è chiamato a mettere una pezza. 
L’atto che da oltre un anno fa infuriare De Magistris è la sua estromissione dalla gestione dell’affaire Bagnoli. “Renzi, dopo anni ed anni di omissioni, sprechi, affari e crimini, invece di dare alla Città le risorse per la bonifica ha deciso di commissariare. Vuole mettere le mani sulla città con le stesse logiche di potere che hanno distrutto parte del nostro Paese.”
Su Bagnoli lo scontro è ampio e forte, e ne sentiamo parlare da tempo. Come i nomi ballerini dei presunti super commissari con poteri da superuomo, così come le cifre da capogiro che potrebbero abbattersi (letteralmente) sulla città, e su cui i soliti presuntamente grandi imprenditori e finanzieri anche loro si vogliono letteralmente abbattere per pasteggiare alacremente. 
Quello che manca sulla questione Bagnoli è una risposta chiara ad una domanda che dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi cifra e nome commissariale: qual è il progetto per Bagnoli? Soldi e nomi per fare che? Realizzare cosa? Quando fai questa semplice domanda si solleva la nebbia, come se Bagnoli fosse in val padana. 
Nel lungo articolo il sindaco di Napoli fa un elenco di cose fatte, che sono cose vere, almeno parzialmente. Molti sono progetti ereditati dal passato (come le stazioni della metropolitana da lui inaugurate a ripetizione), così come è innegabile l’aver ereditato un bilancio a dir poco disastroso e del quale nessuno degli assessori degli ultimi vent’anni è stato chiamato a rispondere. 
Spiccano però due elementi. Il primo è che un sindaco che il PD considera decotto e condannato alla sconfitta abbia ricevuto in meno di sei ore oltre 2.000 condivisioni e 3.500 “like”, cui si sommano oltre 1.500 tra commenti e repliche. Indice di una città viva e di un sostegno al sindaco che molti sembrano ostinarsi a non vedere. Dall’altro il vuoto delle repliche del partito democratico, che vanno dalla ilarità all’attacco diretto, senza alcuna proposta nel merito. L’alzata di scudi “a difesa del segretario” a livello nazionale ci sta, ma a livello locale appare decisamente poco credibile, laddove ad un anno dal voto il PD non solo non ha nomi alternativi da proporre, ma non ha un progetto politico, non ha un programma, e nemmeno un’idea di percorso per arrivare ad averne. 
Il post del sindaco fa discutere e fa schierare. Apre il dibattito sulla città e sull’amministrazione. Tutto questo è comunque politica. Al momento degli altri partiti non si può dire nemmeno questo: nemmeno uno status programmatico o analitico che faccia discutere.


E sempre sul Roma però mi toccava ricordare che
esattamente un anno fa Matteo Renzi venne a Napoli. Era da poco diventato premier ed era il tempo del “giro d’Italia”, delle scuole, delle regioni del sud. Esattamente un anno fa sottoscriveva a Bagnoli un accordo di programma per quell’area: accanto a lui Luigi De Magistris e Stefano Caldoro. Già, esattamente un anno fa: politicamente un’era geologica. Una politica che va sempre più veloce ma che qui al sud resta archelogica. Non sarà un caso quindi che le uniche novità riguardano gli scavi di Pompei: nuove scoperte e qualche nuovo ennesimo crollo. 
Un anno fa era prima della “fonderia” – sempre a Bagnoli – prima delle primarie in casa Pd per la scelta del candidato governatore, prima dell’elezione di Mario Oliverio in Calabria, di Marcello Pittella in Basilicata, della vittoria di misura di De Luca alle primarie e di meno di 40mila preferenze alle elezioni regionali. Il PD che vince al sud è tutto meno che nuova classe dirigente, ed anche quande quando vince un candidato renziano come Michele Emiliano in Puglia certamente non lo si può definire un “leopoldino”. 
Un anno fa a Napoli, a Bagnoli, sembrava tutto possibile e imminente, realizzabile – almeno per una volta – in sinergia e accordo tra locale, regionale e nazionale. Le elezioni del “rinnovamento” (almeno auspicato e certamente auspicabile) della classe dirigente sono state la cassazione del dato che qui i signori delle tessere che migrano da una maggioranza interna all’altra la fanno da padroni e dettano tempi, modi e condizioni. Ed ecco che mentre un nuovo scavo ci regala un’altra meraviglia di Pompei, e mentre Carditello si avvia al recupero avviato dal coraggio di un ex ministro come Bray (che tutti si chiedono ancora perchè non sia stato confermato), Bagnoli resta la pietra angolare dello scontro politico, amministrativo, finanziario. Ma resta anche come monumento e cartina di tornasole dell’interesse concreto e tangibile per temi come recupero ambientale, occupazione, sviluppo, attenzione al sud, investimenti, riqualificazione… 
E allora ad un anno esatto da quella visita, da quella firma, da quegli annunci, resta un decreto ancora vuoto, parziale, senza alcuna nomina, senza un progetto, senza un’idea. E Bagnoli diventa il metro che misura la distanza tra la velocità della politica e la concretezza del cambiamento. La politica, e la comunicazione politica, possono anche essere velocissimi ed efficaci. Ma la concretezza passa per le cose che cambiano. O quanto meno che si muovono. 
Stavolta però la responsabilità non è dell’amministrazione comunale, regionale, e nemmeno del premier. Semmai della classe dirigente locale del suo steso partito che evidentemente non riesce ad essere efficace nel far comprendere le urgenze, o peggio, che intende, ancora una volta, usare l’ipotesi di un passo in avanti su Bagnoli per la costruzione della campagna elettorale delle prossime amministrative.


Ad oggi tutti pensano che la vittoria sia scontata: centro destra, PD, il sindaco e il M5S. Almeno se ci si ferma a discuetere ed ascoltare. La realtà è ben diversa. 
Ad oggi il PD non ha un candidato e non ha un prcorso chiaro per individuarlo, e probabilmente si ricorrrerà ad una scelta calata dall’alto, ennesima pietra lapidaria su una classe dirigente sempiterna.
De Magistris ha un suo zoccolo duro non inferiore al 20-25%. Il Movimento 5 Stelle ha un suo bacino abbastanza definito non inferiore al 20-25%. Il centro destra unito ha il suo storico, consueto 35-37%.
 Ciò che resta è il PD. Meno qualche punto percentuale ad una sinistra con cui non si vuole né può alleare. E meno le sempiterne e sempre presenti liste civiche, candidati di opportunismo e opportunità, varie ed eventuali. 
La domanda è: qualcuno davvero oggi può dire chi e come vincerà a Napoli? 
L’umiltà, come dicevo all’inizio, è una bella virtù. In politica appare un pò desueta. Rivalutarla non farebbe male. E aiuterebbe a fare scelte più costruttive e opportune.

De Magistris sindaco di Facebook

Dopo essere stato sindaco rivoluzionario, sospeso, di strada, reintegrato, oggi De Magistris lancia definitivamente la sua campagna elettorale con un lungo post su Facebook. Che fosse social lo sapevamo, ma stavolta il suo post è con un vero e proprio manifesto politico delle cose fatte e di attacco al pd renziano. Tra le molte accuse “a firma” del sindaco di Napoli ce ne solo alcune difficilmente attribuibili a Matteo Renzi come “Mafia Capitale, inchieste Expo, Venezia Mose”: tutte vicende semmai esplose sotto la sua segreteria e cui lui è chiamato a mettere una pezza.
 L’atto che da oltre un anno fa infuriare De Magistris è la sua estromissione dalla gestione dell’affaire Bagnoli. “Renzi, dopo anni ed anni di omissioni, sprechi, affari e crimini, invece di dare alla Città le risorse per la bonifica ha deciso di commissariare. Vuole mettere le mani sulla città con le stesse logiche di potere che hanno distrutto parte del nostro Paese.”
Su Bagnoli lo scontro è ampio e forte, e ne sentiamo parlare da tempo.


Come i nomi ballerini dei presunti super commissari con poteri da superuomo, così come le cifre da capogiro che potrebbero abbattersi (letteralmente) sulla città, e su cui i soliti presuntamente grandi imprenditori e finanzieri anche loro si vogliono letteralmente abbattere per pasteggiare alacremente. 
Quello che manca sulla questione Bagnoli è una risposta chiara ad una domanda che dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi cifra e nome commissariale: qual è il progetto per Bagnoli? Soldi e nomi per fare che? Realizzare cosa? Quando fai questa semplice domanda si solleva la nebbia, come se Bagnoli fosse in val padana. 
Nel lungo articolo il sindaco di Napoli fa un elenco di cose fatte, che sono cose vere, almeno parzialmente.


Molti sono progetti ereditati dal passato (come le stazioni della metropolitana da lui inaugurate a ripetizione), così come è innegabile l’aver ereditato un bilancio a dir poco disastroso e del quale nessuno degli assessori degli ultimi vent’anni è stato chiamato a rispondere. 
Spiccano però due elementi. Il primo è che un sindaco che il PD considera decotto e condannato alla sconfitta abbia ricevuto in meno di sei ore oltre 2.000 condivisioni e 3.500 “like”, cui si sommano oltre 1.500 tra commenti e repliche. Indice di una città viva e di un sostegno al sindaco che molti sembrano ostinarsi a non vedere. Dall’altro il vuoto delle repliche del partito democratico, che vanno dalla ilarità all’attacco diretto, senza alcuna proposta nel merito.


L’alzata di scudi “a difesa del segretario” a livello nazionale ci sta, ma a livello locale appare decisamente poco credibile, laddove ad un anno dal voto il PD non solo non ha nomi alternativi da proporre, ma non ha un progetto politico, non ha un programma, e nemmeno un’idea di percorso per arrivare ad averne. 
Il post del sindaco fa discutere e fa schierare. Apre il dibattito sulla città e sull’amministrazione. Tutto questo è comunque politica. Al momento degli altri partiti non si può dire nemmeno questo: nemmeno uno status programmatico o analitico che faccia discutere.