Le primarie del PD

Domenica Lucia Annunziata ha introdotto “in mezz’ora” (tempo e titolo del suo programma) i quattro partecipanti alle primarie di Milano. La cosa che mi ha colpito era la concretezza, il radicamento col territorio, la programmatità delle proposte e il metterci la faccia comunque all’interno di una casa comune. Poi ho immaginato la stessa cosa fatta sui candidati a Napoli, che ancora non è chiaro chi siano in uno scenario che si sta delineando dopo svariate ipotesi e scenari unitari. E allora capisci che quel divario tra Napoli e Milano non riguarda il verde pubblico, la manutenzione, e nemmeno l’economia locale. Cinque anni fa il PD ha perso, a Milano come a Napoli. Lì hanno avuto Pisapia che ha dedicato cinque anni della sua vita a Milano, ad un progetto, ed ha coinvolto in un dialogo fermo ma concreto tutte le forze di centro sinistra, con cui ha governato e costruito un percorso e un dialogo comuni.


Cinque anni fa a Napoli ha vinto De Magistris, che si è chiuso nelle sue liste civiche che hanno eletto consiglieri con trecento preferenze e ha governato da solo, mantenendo come filo conduttore “il vecchio e il PD sono brutti e cattivi e io faccio la rivoluzione”. Figli di quella scelta sono stati l’isolamento di Napoli e la centralità di Milano. In casa PD lì è stata l’occasione per una discussione interna ed una crescita nel dialogo anche fuori dal partito. Qui questi cinque anni non sono serviti a creare un’alternativa, una classe dirigente, una candidatura credibile, una proposta politica alternativa o inclusiva, ma nemmeno una seria e severa riflessione su quella enorme sconfitta. E mentre lì si discute di chi possa essere un candidato davvero unitario che unisca, allarghi, renda la città partecipe e le scelte davvero partecipate, qui da noi si propongono candidature “alla conta interna delle componenti”.


Le primarie – per il sindaco di Napoli – sono la conta interna di chi sta con chi e non per fare che, e sono il trampolino – in base alla logica delle proporzioni che usciranno – delle candidature sicure, blindate o incerte quando mai si voterà per le politiche. E tutto ciò avviene in una città in cui il PD – è bene chiarirlo – non è favorito come a Milano. Anzi. A Napoli si arriva al ballottaggio solo con l’appoggio (imbarazzante per certi nomi almeno quanto lo fu per la Regione) del già pronto mega listone di “centristi” dall’UDC al NCD ad ALA e amici vari e certamente eventuali. 
Abbiamo Antonio Bassolino, padre fondatore del PD e all’epoca uno di quelli che fece di Napoli il laboratorio di alleanze nazionali, contro cui il PD ha cercato chiunque: Valeria Valente in quota “giovani turchi” o “neo-renziani” che dir si voglia (ex-assessore e compagna di Gennaro Mola, ex assessore di Bassolino che appoggia quest’ultimo). Aveva promesso di scendere in campo “in caso di candidature politiche Gianluca Daniele (che in caso di pessimo risultato perderebbe ogni velleità di leadership), che però preferisce schierare Marco Sarracino (segretario dei GD, ex civatiano e come tale in direzione nazionale) che non ha nulla da perdere, visibilità da guadagnare e francamente tutta la forza i un volto pulito da spendersi, il che lo rende virtualmente vincitore con qualsiasi risultato interno. Infine abbiamo un sempiterno candidato Umberto Ranieri, che da mesi si accredita di ampi sostegni della società civile e si presenta come uomo di rigore, che comincia surrealisticamente annunciando che presenterà “firme di iscritti al Pd ed elettori di centrosinistra non iscritti. Presentando le firme diremo esplicitamente che noi contestiamo l’articolo tre del regolamento”. Non male per chi ancora sostiene che nel 2011 ha perso per brogli e che ha sempre detto di essere “uomo del rispetto delle regole”. Sono le parole di Enrico Pennella che forse sintetizzano al meglio una situazione interna al limite del surreale: “Si finisce per leggere ed ascoltare di tutto, qualche volta sfiorando perfino il ridicolo. Anche spericolate acrobazie verbali per nobilitare stupefacenti cambi di campo.


Non un bellissimo spettacolo. Eppure per recuperare un minimo di equilibrio e buon senso forse basterebbe un semplice sforzo di memoria ricordandosi del proprio recente passato.” Sarà l’ennesima sfida e conta interna. Esattamente quello di cui Napoli (e il PD) non hanno bisogno. Eppure basterebbe guardare a Milano, e a quella ricerca salvifica di un candidato forte, che unisce, che coinvolga davvero i cittadini e che spinga ad una vera ed autentica partecipazione dal basso. Cosa che un partito ridotto a livello locale ad una forbice tra il 16% (comunali 2011) e il 20% (regionali 2015) ha scordato da tempo come fare, e alle volte finanche di dover avere come vocazione.

Il Pd e lo psicodramma da primarie

In origine doveva essere lo strumento di modernizzazione e caratterizzazione del Partito Democratico. La via per selezionare e far crescere una classe dirigente, per la scelta dei candidati, per ascoltare e recepire forze ed energie dai territori, dalle storie locali, dalla sempre evocata società civile.
Oggi questo strumento ha più le sembianze della sempreverde notizia di gossip politico di cui parlare, e spesso sparlare, finanche per attaccare e ridicolizzare la partecipazione democratica del partito erede dei “grandi partiti di massa” del novecento.
Mentre a livello nazionale le primarie sono state il momento attraverso cui si è celebrato il rinnovamento del partito, e senza le quali da Renzi a Civati a Marino a tanti giovani deputati non avrebbero avuto nemmeno la possibilità di emergere e vincere, sotto Roma questo cambiamento non solo non si è visto, e anzi lo strumento delle primarie è stato riciclato per consolidare, con sporadiche eccezioni, la vecchia classe dirigente.


Eppure dovremmo ricordare che fu l’allora giovane segretario provinciale del Pds, Andrea Cozzolino, che anzitempo, per superare un’impasse a Ercolano, propose le primarie interne per la scelta dei candidati. Sarà per questo che ancora oggi ne è un tale fan che non se ne perde una.
Le primarie, al sud, e in particolare in Campania, sono finite con l’essere lo strumento più patologico per misurare le alleanze correntizie e i rapporti di forza interni, senza consentire la minima possibilità di un qualsiasi nome non contemplato.
La classe dirigente dal primo Antonio Bassolino non ha alcuna novità. I nomi che emergono sono gli stessi da oltre venticinque anni. Andrea Cozzolino, Umberto Ranieri, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca. Dietro di loro la stessa classe dirigente che era “il nuovo” venticinque anni fa e che ricordiamo assessori e dirigenti proprio in quegli anni: Valeria Valente, Massimo Paolucci, Graziella Pagano. Accanto a loro i vari Manfredi, Impegno, Marciano: una generazione che non ha sostituito la vecchia, e che di certo le persone oggi faticano (non poco, purtroppo anche per loro) a vedere come “il nuovo”. Nonostante l’età e i tempi.


A ben vedere oggi le primarie non le vogliono coloro che attendono una candidatura blindata decisa altrove, in una sorta di rendita di posizione. Non la vuole “la maggioranza”, che con le primarie rischia di vedere messa in discussione una certa leadership. Non se le possono permettere coloro che aspirano a ruoli da assessore e che probabilmente non avrebbero preferenze sufficienti nemmeno per diventare consigliere comunale. La parola d’ordine per costoro è “cercare un’intesa, ascoltare, riflettere, trovare soluzioni unitarie…” che si traducono nell’accordarsi oggi per il ruolo di domani.
Quello che emerge è un partito che parla nelle sue stanze, tra persone che ricordano un potere di un’altra era geologica. Si risponde con il citare Renzi, il cambiamento, la svolta, le riforme. Ma quando vai nel merito di un progetto per il territorio, e poni il tema di chi dovrebbero essere gli assessori, su quale programma e per fare che cosa, emerge tutto il vuoto di non avere una visione politica di insieme. Tipico di chi – non più abituato ad essere opposizione – ha perso anche questi cinque anni per ripensare autocriticamente se stesso e formulare una proposta politica credibile e veramente alternativa. Tempo perso in inutili rancori, spesso personali, in personalismi, caccia alla rendita di posizione ed all’auto riciclaggio, e qualche volta a leccarsi le ferite.
Ad oggi il pd non ha un candidato e non ha un percorso chiaro per individuarlo, e ancora una volta si cerca la strada di una scelta calata dall’alto, ennesima pietra lapidaria su una classe dirigente sempiterna.


De Magistris ha un suo zoccolo duro non inferiore al 20-25%. Il Movimento 5 Stelle ha un suo bacino abbastanza solido non inferiore al 20-25%. Il centro destra unito ha il suo storico, consueto 35-37%. Ciò che resta è il Pd. Meno qualche punto percentuale ad una sinistra con cui non si vuole né può alleare. E meno le sempre presenti liste civiche, candidati di opportunismo e opportunità, varie ed eventuali.


Le primarie, vere, aperte alla società civile, con una classe dirigente che per una volta con senso di responsabilità facesse un sacrosanto passo indietro, alla ricerca di qualcosa di diverso, sarebbero la via per trovare non solo un’alternativa credibile a De Magistris ma soprattutto per riprendere un dialogo tra politica e città che si è perso da troppo tempo. Ma il vero avversario a tutto questo è proprio la stessa classe dirigente del pd, nel suo insieme. Se ne facessero una ragione.

Bassolino e le primarie in Campania

Che il PD nelle regioni meridionali abbia vocazioni masochiste è noto. Perseverare dopo lo show poco edificante delle primarie per la regione Campania diventa però patologico. Il leitmotiv è sempre lo stesso: cercare un presunto candidato unitario per evitare le primarie. E ogni volta i discorsi sono sempre inesorabilmente gli stessi. Stavolta la questione traccia un solco che va oltre le questioni di partito. Pisapia (che non si ripresenta) da Milano sentenzia “Le primarie si faranno e tutti i partiti e le liste hanno sottoscritto una carta di intenti”. Nel pragmatismo milanese la data c’è, ed è il 7 gennaio. Chi vuole si candidi in quei termini, partita e discussione chiuse. Da noi le eterne discussioni su date, regole e fantomatiche ricerche di unitarietà (laddove unità non c’è) sono il sintomo di quella eterna lenta melma politicante che serve solo al sottobosco di accordi di potere, di comparsate sui giornali pur di esistere “ancora, un giorno almeno…”. 
Lo spessore di questa presunta nuova classe dirigente è tutta in un hastag di un Antonio Bassolino, sindaco venticinque anni fa, e ostracizzato dal partito che ha fondato e diretto e riportato alla vittoria, l’unico che è stato autenticamente capace di unirlo e tenerlo insieme. Basta che twitti #statesereni, o che decida di andare da spettatore alla festa de l’Unità che coloro che sono la nuova classe dirigente fuggano via e si terrorizzino. Eppure quell’Antonio Bassolino è lo stesso che tutta questa classe dirigente l’ha tenuta a battesimo, tra ex consiglieri comunali, ex assessori, ex dirigenti.


La querelle sull’ipotesi della sua candidatura per me è semplicemente qualcosa che non esiste: un uomo dalla lunga storia politica, che dalla politica ha avuto tutto, cui tutti riconosciamo quantomeno intelligenza politica e conoscenza delle cose elettorali, non credo affatto metterebbe a repentaglio il proprio capitale – non solo politico ma anche storico ed umano – rischiando la sconfitta con un partito ridotto a Napoli a meno del 18%. A meno che non creda nel miracolo, che solo lui potrebbe fare. 
Ma la generosità di Bassolino, e l’amore per il suo partito, forse ancora non sono stati compresi fino in fondo. Certo, c’è una componente di ego che tutti gli rinosciamo (e quale politico apicale non ne ha una gran dose), ma c’è dell’altro. Bassolino non è stato messo alla porta, si è messo da solo in disparte come solo i grandi sanno fare per concludere le vicende giudiziarie al termine di vent’anni di comando assoluto e indiscusso. E mentre gli amici di un tempo, che a lui devono tutto, gli hanno voltato le spalle, oggi lui a testa alta può dire – ancora – di essere una risorsa enorme, autorevole, pulita, scevra da processi e condanne. E che – alla faccia del presunto cambiamento e rinnovamento – basta un suo cinguettio, una sua “uscita fuori porta” (semmai ad Ercolano per visitare la festa del suo partito senza che nessuno lo avesse anche solo invitato) che tutti tremano.


Bassolino non è il nuovo, ma il solo appparire all’orizzonte della sua candidatura fa tremare in primis i suoi ex fedelissimi che gli hanno voltato le spalle riciclandosi e “cambiando idea”, costruendosi una carriera rinnegando quella stagione, senza alcun mea culpa. 
La sua resta una enorme provocazione che andrebbe letta per ciò che è e dovrebbe far riflettere tutti su ciò che sta avvenendo. Il disvelamento di una classe dirigente che pensava di esserlo, dimenticando che la leadership non si inventa, non si cala dall’alto, non te la conferisce un ruolo. Bassolino è un leader, come ricorda lui stesso “senza essere nemmeno dirigente della più piccola sezione del PD”. Altri evidentemente nonostante il ruolo – interno e istituzionale – leader non sono. E serviva il buon vecchio Bassolino a far emergere questa semplice verità, che non ha compreso chi – in segreteria regionale, provinciale, a Roma da parlamentare o altrove – pensava di pesare per grazia ricevuta o ruolo infuso.
 Al netto di questo tuttavia, in un’era di politica anche digitale, Antonio Bassolino è e resta l’unico vero influencer politico della politica regionale, riuscendo, attraverso strumenti non esattamente propri della sua generazione, con due status di Facebook e due tweet scritti bene a dettare (letteralmente) l’agenda politica, tanto dei dirigenti del partito quanto di “giovani spauriti guerrieri quarantenni”, costretti a inseguire, replicare, intervenire, rispondere. Chapeau.


Se il PD riflettesse su questa semplice realtà, e cominciasse a dire grazie per la lezione al suo Antonio, forse, sarebbe un partito più umile, e già per questo migliore. E se a Napoli importassimo un pizzico di quel sano pragmatismo milanese, e dicessimo anche noi che le primarie si fanno, chi vuole davvero si candidi e ci metta la faccia e si faccia votare e scegliere dal suo popolo, beh, saremo meno schiavi degli accordi di potere dei capibastone e della malapolitica che mantiene a galla sempiterni signornessuno. E se imparassimo a non confondere “la piazza virtuale” con “il vascio di quartiere”, forse, anche la nostra immagine sarebbe meno provinciale e più consona al ruolo di chi si candida a fare bene per il bene comune.