La strategia di Renzi tra congresso ed elezioni

È partita la corsa al congresso, che Renzi lancerà ufficialmente il 18 dicembre all’Assemblea Nazionale del Pd. L’idea è semplice: congresso “facile” a marzo, primarie, nuova direzione bulgara, nuova segreteria fedelissima con tutti i correttivi dettati dalle esperienze precedenti, e elezioni a giugno. Un’unica grande, lunga campagna elettorale, con alcuni vantaggi.
Non essere al governo, avere le mani libere di attaccare dall’esterno dei palazzi, non dare il tempo agli avversari interni di convergere su un leader anche solo teoricamente capace di offuscarlo o metterlo in discussione, e non dare il tempo a un centrodestra disunito di fare primarie (accrescendone il logoramento) né al Movimento 5 Stelle di chiarire le proprie fronde interne.
Utile allo scopo sarà lo strumento della nuova legge elettorale, che nessuno potrà accusare Renzi di intestarsela direttamente a proprio uso e consumo. Probabilmente prevederà l’eliminazione del ballottaggio e – se i sondaggi andranno in questa direzione – un eventuale premio alla coalizione più che al partito.
Sin qui, l’idea semplice. La sua realizzazione lo è molto meno. E vediamo gli ostacoli.


Partendo dalla fine, cosa blocca le elezioni a giugno.
Intanto il grande partito trasversale dei “parlamentari alla prima nomina” (circa 400) con l’obiettivo di arrivare almeno al primo ottobre per assicurarsi il vitalizio. Tra questi i molti che sanno che non saranno né ricandidati né rieletti, con l’obiettivo di arrivare a febbraio 2018.
I tempi della legge elettorale, che si incardinerà non prima di febbraio, quando la Consulta avrà depositato motivazioni e contenuti della sentenza sulla legge elettorale. E qui se non ci sarà un accordo convergente quanto meno con Forza Italia la nuova legge avrà vita durissima. Ostacolo non da poco visto che interesse del partito di Berlusconi è portare le cose per le lunghe, per spegnere la cavalcata elettorale di Salvini, evitare primarie, convergere su una leadership e unire il centrodestra. Tutte cose per cui occorre tempo.
Infine gli impegni internazionali (G7 di Taormina, elezione del segretario generale dell’ONU, l’avvio della procedura della Brexit, solo per citare quelli macroscopici) e quelli di governo, primi tra tutti i decreti nomine di febbraio e maggio. Qui la pedina centrale era Luca Lotti, colui che qualche giorno fa chiarì a cena senza mezzi termini “se Matteo si dimette, chi ci assicura che chi verrà si dimetterà quando vogliamo noi?”. Ed ecco che come garanzia per non perdere Palazzo Chigi Lotti diventa garante della continuità. Conserva le deleghe (Cipe ed editoria) e viene promosso a Ministro dello Sport (sede presso la Presidenza del Consiglio) ma non ottiene le deleghe ai servizi che voleva. Il suo potere viene in parte consegnato all’altra fedelissima di Renzi, Maria Elena Boschi, non più ministro ma rafforzata come unico sottosegretario alla presidenza, con in mano fascicoli delicati in qualità di segretario del Consiglio dei Ministri. Più che un governo fotocopia, un vero e proprio bunker. Già si parla di un cambio dei vertici Rai e del direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. E poi in primavera Enel, Eni, Poste, Finmeccanica, Terna e tanti altri consigli di amministrazione. Gran finale, Banca d’Italia, col mandato di Ignazio Visco che scade nel 2017. Proprio una analoga infornata di nomine produsse l’accelerazione che portò Renzi al posto di Letta.


Veniamo agli ostacoli verso la corsa a Palazzo Chigi.
In verità non sono tanti, ma sono tutti legati alla legge elettorale ed ai suoi tempi.
Come ha dimostrato il rapido passaggio tra vincere la segreteria e approdare al Governo, Renzi non è disposto a farsi logorare dalla “vita di segretario” e dai problemi di gestione del partito (che ha ampiamente delegato sempre), né è disponibile a stare a guardare le cose da fuori dicendo la sua dall’esterno senza ruoli.
Eppure la legge elettorale dovrà uscire da un Parlamento che in grande maggioranza tenderà ad allungare i tempi. Il centrodestra in cerca di unità e leadership non gradisce accelerazioni (come invece vorrebbe Salvini). Il Movimento cinque stelle apparentemente è per il voto subito, ma oltre la metà dei suoi parlamentari è a rischio, sia di ricandidatura che di riconferma, e non disdegnerebbe qualche mese in più. Sotto traccia sinora è stato anche il confronto interno sulla leadership. Il nome scontato sino a poche settimane fa di Di Maio premier è stato messo in discussione subito dopo il voto dallo scontro sempre nascosto sotto i tappeti tra i due pretendenti, Fico e Di Battista, pronti a puntare i piedi in cambio di garanzie future e di far sentire il proprio peso politico (e mediatico). Sempre in casa M5S c’è tutta la “battaglia romana” che parte dal caso Muraro (coperto sino a dopo il referendum) ma che chiama in ballo tutti i nomi noti del Movimento, che non se la passa bene nemmeno in un’altra sua roccaforte, la Sicilia, con gli scandali delle firme false e delle forniture non pagate e con la sospensione dal movimento di parlamentari noti ed influenti. Tutti nodi che sino a quando non verranno sciolti difficilmente convinceranno i protagonisti di queste vicende ad accelerare verso il voto.
Infine il tema ALA-SC, fuori dal governo, e i cui parlamentari sono “in cerca di una casa sicura” (leggasi quanto meno rielezione). E sino a che non la troveranno remeranno contro qualsiasi cosa. Qualcuno penserà “parva materia”, ma di fatto quei 18 voti al Senato sinora hanno permesso quattro anni di governi.
Il nodo della legge elettorale – che dovrà uscire da questo parlamento, con queste caratteristiche e queste rappresentanze – non è di poco conto. 
Renzi con il ballottaggio – come tutti i sondaggi dimostrano – rischia di non vincere. 
Senza un premio di maggioranza rischia di non governare. E senza un premio alla maggioranza non ci sarebbe ragione per i partiti di sinistra di allearsi col Pd per portare solo acqua a Renzi senza poi ottenere rappresentanza parlamentare.
Ostacolo non indifferente per almeno due motivi. Il primo, non ritrovarsi a perdere per una decina di punti persi a sinistra. Il secondo, perché una logica di coalizione genera “altri leader” alternativi a Renzi.


Si apre quindi il capitolo della sfida per la leadership della coalizione.
Qui le cose si complicano perché se Renzi vince le primarie a segretario, con una maggioranza amplissima, di lì a poco deve anche vincere le primarie per la leadership della coalizione.
Qui conterebbe su un voto popolare ampio, anche oltre il Pd, ma dovrebbe scontare il fatto che tutte le minoranze uscenti dal congresso potrebbero fare fronte comune su un candidato esterno capace – questo si – di mettere insieme tutti.
È il caso che fu di Milano con Pisapia, che sfidò in primarie aperte anche il cadidato Pd e la cui vittoria fu travolgente.
E non è un caso se quel modello, e quello stesso nome, oggi tornano in auge.
Ma che si chiami Pisapia o chiunque altro, il prodotto e lo schema non cambiano.


Prima di tutto questo c’è la sfida per la segreteria. Che appare scontata ma con tanti forse e mine sparse. Andiamo con ordine.
Le componenti del Pd sono molte, spesso eterogenee, ed anche quelle apparentemente minime possono contare, specie in regioni e provincie chiave. Molte di queste – come abbiamo visto negli ultimi congressi – generalmente si spostano sul candidato “più forte”, o vanno “in appoggio” del segretario dopo la sua elezione.
Prima di lasciare Palazzo Chigi Renzi si è assicurato – o almeno ha cercato – la fedeltà interna di varie componenti, tra cui quella di Orlando, dei Giovani Turchi, di Martina, di Franceschini, consolidando ed ampliando quella che era l’area strettamente renziana.
In un colpo solo Renzi avrebbe così neutralizzato anche possibili antagonisti (Orlando e Martina ed esempio) ed in qualche modo sterilizzato l’area Franceschini. Ma questi accordi non è detto che reggano al Natale, e in un’ottica strabica.
Da un lato nessuno oggi si ufficializzerebbe contro Renzi, restando anche un pò a guardare, cercando di accrescere il proprio peso interno, dall’altro nessuna componente – pur quando sarà appoggiando dichiaratamente Renzi – lo vorrà stra-forte, perchè una stra-forza di Renzi (e dei renziani) renderebbe il proprio contributo non solo non indispensabile ma anche relativamente necessario se non intercambiabile: un Renzi forte, si, ma sino a un certo punto.
Se rischi percentuali non sembrano esserci (la base PD vuole Renzi al 52% e i dieci leader dietro di lui raccolgono singolarmente dal 12 al 4% dei consensi), la partita si giocherà sulle convergenze, e soprattutto sul rischio outsider, capace di polarizzare oltre il consenso di singole correnti.
Anche per questo Renzi accelera e rilancia. Probabilmente mettendo mano anche al regolamento, alzando le asticelle minime per candidarsi, con qualche variazione (non da poco) sui requisiti.
Una forzatura che deve servire per scoraggiare, ma contemporaneamente per portare su di sé possibili “grandi elettori” ed aggregare componenti, con l’idea di dire “l’avversario non è qui dentro ma la fuori”.
Ciò significa tutt’altro rispetto ad una rinuncia alla resa dei conti interna. Renzi vuole che quelle minoranze accettino la sfida, per ridimensionarle oggi, ridimensionarne il peso interno (in termini di numeri in assemblea e direzione) e per poter anche ridurre (fortemente) la loro presenza e rappresentanza parlamentare.


Se sommiamo insieme tutti questi fattori, e concentriamo tutte queste sfide del prossimo semestre, quello schema che abbiamo descritto all’inizio – che appare semplice e lineare – comincia ad esserlo un pò meno.
Riuscire a portare a casa un risultato forte entro marzo, tra mille difficoltà e imprevisti, può essere il passo più semplice. Ma che accade se la legge elettorale non è quella giusta, o se Governo e parlamento trascinano le cose sino a settembre o peggio sino a febbraio 2018?
Quali nuovi scenari verrebbero aperti da un segretario che non può “incassare a breve e ripagare e garantire a brevissimo” il credito politico che cerca?
Logoramento di segreteria, lontananza (anche mediatica) da Palazzo Chigi, rafforzamento di ministri – ed anche dei renziani di ferro – nonché una campagna elettorale permanente di oltre un anno non sono sport in cui pare Matteo Renzi brilli particolarmente.

Il nuovo Patto Gentiloni

La riforma elettorale del 1912 introdusse in Italia il suffragio universale maschile, che portò gli elettori da meno di tre milioni ad oltre otto milioni e mezzo. Quella riforma elettorale era il prezzo che Giolitti aveva dovuto pagare ai socialisti di Bissolati per l’appoggio ottenuto durante la guerra italo-turca. Una legge che indubbiamente favoriva i partiti di massa rispetto alle elite che avevano fatto e governato l’Italia per oltre mezzo secolo.
Giolitti mise a disposizione una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali per garantire il sostegno cattolico ai candidati. Dato il sistema elettorale uninominale maggioritario, il vincolo di appartenenza partitica era molto debole e il patto consisteva in un elenco di sette punti considerati irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici.
Quel patto, denominato appunto Gentiloni, tenne e mantenne l’Italia in quello stato di limbo attraverso la prima guerra mondiale sino all’arrivo prorompente del fascismo.


Una classe dirigente vecchia generazionalmente, stantia politicamente e incapace di interpretare un’Italia che stava cambiando velocemente verrà travolta da un movimento di massa che nella retorica e nell’irruenza della sua pubblicistica costituì il prototipo del populismo.
Cambiano i secoli, letteralmente, e un altro Gentiloni si trova ad essere protagonista – per scelta, opportunità ed anche suo malgrado – di una fase italiana del tutto simile.
Paolo Gentiloni è certamente un politico di lungo corso, con esperienze ampie di gestione della politica romana, e tuttavia non è certamente un esponente – per leadership e comunicazione – di primo piano, almeno non tale da mettere in ombra Matteo Renzi.


E questa – più che ogni altra motivazione politica – è la ragione principale per cui Renzi, da segretario e premier uscente, ha fatto il suo nome, come unica proposta, non potendosi permettere che un qualsiasi altro esponente, anche del suo stesso partito, usasse Palazzo Chigi per una scalata politica e mediatica.


Per Gentiloni la consegna è una, semplice e diretta: attendere la decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale e farsi promotore di scriverne “una ad hoc” in tempi rapidi per uno scioglimento delle camere a maggio e un voto prima dell’estate (e già si parla del 4 giugno). 
Lo schema di Renzi prevede tre passaggi: costruirsi una sua nuova “verginità” lontano dai palazzi, anche a costo di sparare contro il governo del suo amico Gentiloni. Questa la premessa per vincere la partita delle primarie Pd di febbraio. A questo punto potrebbe avere la forza per obbligare la maggioranza trasversale a elezioni anticipate: quel partito di oltre 400 parlamentari di prima nomina che punta ad arrivare al primo ottobre 2017 per portare a casa il vitalizio. Tra questi una piccola pletora di deputati e senatori che sapendo di non essere candidati né rieletti punterà ad arrivare alla fine della legislatura (febbraio 2018).
Il patto con Gentiloni pare essere questo, su più o meno questi punti: candidatura e ministero garantiti a patto che resti lì non oltre maggio, a costo di farsi “sparare addosso” dal suo segretario ex-premier, che on lo oscuri, che accontenti ogni componente del Pd purché appoggi una cavalcata trionfalistica di Renzi, e soprattutto approvare una legge elettorale ad hoc per garantire alcuni punti. Che Renzi sostanzialmente si scelga i candidati, che si limitino tutti i rischi di ballottaggio (che favorirebbero i cinque stelle), e questo anche a costo di cedere qualcosa in termini i premio alla coalizione.


Punti su cui ci sarebbe la convergenza di ampia parte del centro-destra, almeno di quella parte che non vuole le primarie e che vede una chance proprio nella forza di una coalizione piuttosto che di “premi al partito”, nell’eterno scontro per la leadership tra Salvini, Berlusconi e Meloni.


Il primo patto Gentiloni, tenne e mantenne l’Italia in quello stato di limbo attraverso la prima guerra mondiale sino all’arrivo prorompente del fascismo. Una classe dirigente vecchia generazionalmente, stantia politicamente e incapace di interpretare un’Italia che stava cambiando velocemente verrà travolta da un movimento di massa che nella retorica e nell’irruenza della sua pubblicistica costituì il prototipo del populismo. Un secolo dopo la storia sociale si ripete, in condizioni fortunatamente meno devastanti della prima guerra mondiale. Ma questi patti di palazzo tengono sempre troppo poco conto del mondo (e dei pericoli) che “stanno la fuori”.

Pd, tra scissione e democrazia interna

È difficile comprendere le dinamiche del dibattito interno e delle divisioni tra minoranze e maggioranze se non partiamo dall’inizio, e ne comprendiamo le ragioni “antiche” e più recenti.
Il Pd nasce dalla fusione di più partiti dopo l’esperienza dell’Ulivo. 
Questa fusione non è stata “indolore”, e tuttavia era necessaria. Lo volevano i tempi, lo esigevano gli elettori, lo imponeva il sistema elettorale, che se ci ricordiamo era per collegi uninominali.


È stato il primo vero momento di modernizzazione della politica italiana e veniva dopo gli scandali di tangentopoli che aveva spazzato via in un anno partiti politici “vecchi” di sessant’anni.
Un momento di modernità che ha stimolato “la stessa cosa dall’altra parte”, la nascita del Pdl e il superamento della frammentazione proporzionale. Se venuto meno il collante Berlusconi il Pdl si è disunito nuovamente, il Pd è restato unito, anche se non in modo indolore, restando “soggetto unico” per coalizzare gli avversari, M5S in testa, e per polarizzare le leadership di centro destra, Lega su tutti.


La classe dirigente del Pd, all’epoca, era sostanzialmente rappresentativa in termini quasi proporzionali delle rappresentanze dei vari partiti confluiti nell’unico soggetto. Ed anche se “erede dei due grandi partiti di massa” spesso l’ago della bilancia finiva con il pendere a seconda degli orientamenti delle componenti più piccole, e spesso meno rappresentative in termini di voti e consensi.
Il Pd è stato anche il primo partito a introdurre il sistema delle primarie, e queste hanno garantito nel tempo l’elezione di un’assemblea nazionale e la composizione di una direzione che in qualche maniera, spesso imperfetta, offriva comunque rappresentanza proporzionale a tutte le idee della galassia dem.


Questo equilibrio è saltato nel 2014, in maniera improvvisa, non voluta, e non pesata sino in fondo, sull’onda di una deroga che non è stata compresa sino in fondo nelle sue implicazioni nemmeno da chi l’ha accettata.


Quando Bersani era segretario infatti accettò non solo la candidatura “in deroga” di Matteo Renzi, anche due modifiche al processo delle primarie nazionali. La prima, che al secondo turno potesse votare chiunque. La seconda, che la direzione nazionale fosse composta in modo proporzionale in base non al voto degli iscritti (primo turno) ma a quello aperto a tutti (secondo turno).


Matteo Renzi, che nel Pd aveva il 44% dei voti, si è ritrovato a superare il 68% nel secondo turno dele primarie. Poco male per il suo consenso personale, ma molto male per il Pd.
Di fatto avrebbe dovuto avere una direzione con il 44% dei membri, il che avrebbe consentito un dibattito autentico, democratico, e molte posizioni sarebbero state se on discusse almeno discutibili autenticamente. 
Oggi, con una direzione composta al 70% da renziani, diventa davvero difficile sostenere che “ha votato la direzione” e “si sta a quello che decide la maggioranza” dal momento che, prima di tutto, quella direzione non rappresenta affatto in termini proporzionali le anime e i sentimenti della base del PD.


Ecco che se partiamo da questa considerazione, e riesaminiamo la questione per quello che è, ovvero una sostanziale finzione ogni qual volta segue un voto ad una discussione in direzione, il dibattito interno, delle varie minoranze e delle opportunistiche maggioranze, assume un significato forse più chiaro.


Forzare sempre la mano su un presunto voto a maggioranza è una strategia che alla lunga logora, e per il momento ripaga Renzi in termini di apparente leadership, fondata sull’assunto che alla fine ogni volta la direzione a larghissima maggioranza “vota si alle sue proposte”.
Lo ripaga anche sul piano della comunicazione interna, perché tutte queste forzature fanno apparire le minoranze interne come cavillose, non costruttive, e sempre pronte alla scissione e all’abbandono.
Una realtà che fa gola – e anche molto – ad un giornalismo politico sempre più gossipparo e meno analitico.


E tuttavia questa apparenza è anche molto fragile. Puoi dire al mondo che in fin dei conti la minoranza conta poco, ma quando sei sotto referendum e ogni voto è indispensabile, può essere che quel poco pesi parecchio. Specie se sai bene che invece quel poco tanto poco all’interno della base del Pd non è.
Puoi dire al mondo che #bastaunsi e che è lo scontro finali tra gufi ed ottimisti, tra vecchio e nuovo, ma alla fine ciò che resta sul campo è che quelle minoranze rischiano di essere determinati, e questo peso glielo ha dato proprio questa gestione interna del partito fatta di forzature e di inviti ad adeguarsi o andarsene.


Forse, col senno di poi, più dialogo, morbidezza, cedere qualcosa in più in termini di rappresentanza, dialogare meglio sui contenuti delle riforme e sulla legge elettorale, non sarebbe stata una cattiva idea. Indipendentemente dalla conta dei numeri in direzione.
Perché quelli li vuoi drogare con un vizio di due anni fa, ma la politica che conta è fatta di voti veri.
Ed anche se Renzi vorrebbe tanto che le minoranze attuassero la scissione (mentre afferma il contrario), la sua peggior iattura – anche da un punto di vista della comunicazione esterna – è che questa scissione non ci sarà, e che la conta vera si farà su un terreno meno consono al premier: i voti reali.

Expo del bello: il maxi evento di settembre 2017 a Milano

Milano apre le porte all’Expo del bello.

Ad annunciarlo è proprio il premier Renzi che ha voluto sottolineare con questa novità, l’intenzione di riportare Milano ai vertici della moda.

La manifestazione dovrebbe riallacciarsi con la Milano Fashion Week che si terrà il prossimo settembre 2017 e promette di esibire, all’interno dei padiglioni, tutto ciò che riguarda il mondo della moda e delle bellezza.

Verranno esposti, dunque, accessori di lusso come borse, occhiali, calzature etc…

Il protocollo è stato formato ieri, 12 ottobre 2016, dai massimi rappresentanti di Comune di Milano, dell’Agenzia  Ice e dal Sottosegretario Ivan Scalfarotto.

Il protocollo firmato nella sede del Mise prevede tre punti cardini: il potenziamento del sistema sfilate, il coordinamento e la razionalizzazione di tutto il polo fieristico di settore ed  il coinvolgimento delle istituzioni e degli enti per la promozione della città Meneghina con un’attenzione particolare al Comune di Milano che dovrà organizzare eventi che dovranno favorire la valorizzazione della città.

Facile quindi comprendere tutto l’entusiasmo del sottosegretario Scalfarotto che alla stampa ha dichiarato: “E’ stato compiuto un passo senza precedenti per il lavoro comune di una grande e articolata realtà produttiva che è anche un potente fattore identitario dell’Italia nel mondo.”

Ha poi concluso, dichiarando: “Il settore moda allargato rappresenta il 14% del nostro export” ed è cresciuto del 3% nel corso del 2015. L’Italia è l’unico Paese al mondo ad ospitare la filiera nel suo insieme, dal filato ai tessuti, dalle confezioni all’accessorio. Un’imponente sintesi di talento creativo, eredità e memoria, innovazione e positiva contaminazione. Eccellenze e primati di cui siamo orgogliosi e che dobbiamo valorizzare, rendendo Milano il crocevia di una convergenza creativa senza eguali.

Lavoriamo, seguendo le direttrici indicate dal Governo e dal presidente Renzi, ed in stretto rapporto con gli Enti Locali e le imprese” conclude Scalfarotto “per realizzare un vero e proprio Expo del bello e ben fatto, che dal settembre 2017  avrà luogo due volte l’anno a Milano.”

 

 

 

Renzi e la comunicazione referendaria

Sembrerebbe che – lentamente, e forse con ritardo – Matteo Renzi si sia reso conto che era necessario cambiare verso alla comunicazione politica verso il referendum costituzionale.


Commentando l’esito del referendum sulle trivelle scrissi:
“Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perché il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.
Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).”


Oggi il problema è duplice.
Da una parte i sondaggi non danno il suo Pd e la sua leadership ai livelli di quel 40%, e contemporaneamente la minoranza interna – che compattata non è poi così irrilevante – è pronta a votare no se non verrà messa mano alla legge elettorale.
Dall’altra c’è la presa d’atto che le opposizioni (che insieme non hanno i numeri per governare) compattate su un semplice quesito possono arrivare al 65%, praticamente doppiando i numeri del Si.
A questo calcolo, per ora solo numerico e “da scrivania”, se ne aggiunge un altro, e non di poco conto. Il fronte del No non ha neanche cominciato la sua campagna, mentre il governo ha speso mesi a dichiararla “la madre di tutte le battaglie”.
Finanche la normale, consueta, rituale alternanza dei direttori dei Tg è finita nel tritacarne referendario: consueti avvicendamenti sono diventati “rimosso perché non allineato”.
Nulla che ci allontano dalle vecchie dichiarazioni della vecchia politica, e stavolta il classico “lottizzazione” è stato lessicalmente surclassato dal “pro o contro al referendum”.
Ed anche se il comitato per il NO non ha raggiunto le 500mila firme fermandosi a 200mila, questa non è una buona notizia per il premier: va letta infatti come debolezza della sostanza ma solo come divisione interna delle opposizioni a costruire un comitato comune.


Oggi Renzi sembra aver compreso che qualcosa nella comunicazione sino ad oggi manichea del “o con me o contro di me”, del “o con il progresso o gufi”, a prescindere ed a qualunque costo, rischiava di essere un boomerang.
Il tono cambia nella ultima E-News in un più morbido: questo il passaggio della newsletter 437
“In tanti mi hanno detto: “Matteo, questa non è la tua sfida, non personalizzarla”. Vero, questa è la sfida di milioni di persone che vogliono ridurre gli sprechi della politica, rendere più semplici le istituzioni, evitare enti inutili e mantenere tutte le garanzie di pesi e contrappesi già presenti nella nostra Costituzione. Un’Italia più semplice e più forte sarà possibile se i cittadini lo vorranno.
Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo, dunque, ma da un popolo.”
Il cambiamento non è di poco conto, e sintatticamente punta quasi a costruire un diverso elettorato.
Il premier mira stavolta a presentare la riforma come “qualcosa di utile” all’Italia, al popolo italiano, ad una maggioranza di persone trasversale che – indipendentemente dalla propria soggettiva posizione politica – vuole un sistema legislativo più snello e moderno.
In questo senso anche il richiamo – anch’esso non di poco conto – a sottrarre dal dibattito referendario temi che le opposizioni vorrebbero strumentalmente trascinare dentro: legge elettorale, poteri del governo e nello specifico del premier.
Nella stessa e-news: “Il quesito infatti non riguarda la legge elettorale o i poteri del Governo, argomenti che non sono minimamente toccati dalla legge costituzionale, ma riguarda il numero dei politici, il tetto allo stipendio dei consiglieri regionali, il voto di fiducia, il Senato, il quorum per il referendum che viene abbassato, l’introduzione del referendum propositivo, l’abolizione degli enti inutili come il CNEL, le competenze delle Regioni.”


Non possiamo sapere se questo cambio di strategia sarà sufficiente e sufficientemente efficace a “cambiare verso” ad una comunicazione manichea, tossica, e spesso controproducente, che connotava un tono arrogante e spesso saccente.
Non possiamo prevedere se “gli altri” comprenderanno a loro volta che sarà necessario adeguare anche la loro risposta. Perché l’errore, stavolta, sarebbe continuare con quell’idea del “votate no per mandare a casa Renzi”.
Messaggio forte, chiaro, semplice, ma non sufficiente per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il no”. Mentre palazzo Chigi pare aver chiaro che serve una drastica sterzata e inversione di tendenza per mettere insieme “il massimo della coalizione possibile per il si”.


Tra 60-70 giorni si voterà.
La campagna è lunga, ma quella vera dobbiamo ancora vederla.

Cosa ci dicono i big data di questo referendum?

Quello che pensavo su questo Referendum l’ho scritto qui.


Ma proviamo adesso a leggere il dato politico che emerge da questo referendum.
Il suo significato in termini di numeri e di strategie.
Matteo Renzi ha sterilizzato cinque dei sei quesiti referendari – quelli davvero sostanziali – ma ha lasciato l’ultimo punto, quasi volendo che il referendum si facesse.
Perché?


Facciamo un passo avanti, alla riforma costituzionale.
Su questa il segretario premier è stato chiaro: se perdo lascio.
Come a dire che quello è “il voto su di lui”, sul suo governo e sulla sua politica.
Ma lo si celebrerà a ottobre, garantendosi comunque non meno di ulteriori sei mesi di governo prima della tornata elettorale (che per consuetudine è tra aprile e giugno), per avere ampi margini di campagna – elettorale e congressuale.
E adesso facciamo un passo indietro, a quando Matteo Renzi ha affidato a Jim Messina il coordinamento della campagna di ottobre.


Jim Messina, ex capo staff di Obama, è stato il coordinatore della campagna 2012.
La sua strategia elettorale è basata sull’elaborazione dei cd. big data per decifrare comportamenti e tendenze, georeferenziate e geolocalizzate, delle persone, collegio per collegio, paese per paese, quartiere per quartiere.
L’ultima sua vittoria è stato lo scontro diretto con il suo ex capo David Axelrod. Messina supportava Cameron, Axelrod i laburisti. E la rimonta di Cameron, che molti davano per perdente, è stata proprio sul filo di lana di tutti i collegi in bilico.


La strategia di Messina presuppone da una parte una mappatura politica e socio culturale del territorio, dall’altra una “elezione simile recente”(in Usa non è difficile con le midterm ogni due anni).
Ed ecco spiegato questo Referendum.
Un grande test su scala nazionale, senza amministrative, senza accorpamenti, puntando su una campagna manicheamente esasperata: da una parte tutti i “pro premier” verso il non voto, dall’altra semplicemente “tutti gli altri”.
Un quesito tecnico, non impegnativo politicamente: una semplice prova generale per raccogliere i dati sui comportamenti dei flussi elettorali, capaci almeno di garantire una proiezione credibile.


Ecco che se lo leggiamo in questa ottica, il dato che emerge non è certamente positivo per Renzi.
Anche perché i dati vanno appunto proiettati e interpretati.
Come ha spiegato Alessandro De Angelis sull’Huffington qualche giorno fa “domenica si manifesterà un pezzo del popolo anti-Renzi, che ci sarà anche a ottobre. Con l’aggiunta di tutto il centrodestra che, su questo quesito, è fermo.”
Il dato su cui ragionano gli analisti sono sostanzialmente questi: i votanti alle scorse politiche (2013) furono 36.452.084 mentre alle europee (2014) 28.991.358, rispettivamente il 72,2 per cento e il 57,2 per cento degli aventi diritto. Il Pd alle politiche raccolse 8.646.034 voti (il 25% di Bersani) mentre alle europee 11.172.861 (il 40% di Renzi)


Gli scenari del giorno prima.
Alta affluenza: 40% di votanti sono circa 20.320.000; media affluenza: 33% pari a 16.764.000.
A urne chiuse quel 31% circa racconta di 16milioni di elettori, di cui oltre l’80% (come da previsioni) ha votato si.
Elettori che si recano alle urne “contro Renzi”, che faranno lo stesso ad ottobre al referendum sulle riforme, quanto “tutte le opposizioni” si coalizzeranno, quando non ci saranno richiami all’astensione, quando sarà una scelta politica quasi quanto un voto (anche se più semplice) e quando tutti, ma proprio tutti, avranno un interesse a dare indicazioni di voto. Ma soprattutto quando non ci sarà quorum. Vince cioè chi prende più voti.


La sfida.
Renzi deve prendere sulle riforme più voti di quella che ha chiamato la grande alleanza per il no con un Pd (tutto quanto e tutto intero, che voti compatto e senza differenze tra maggioranza e minoranza) che oggi sta attorno ai 10milioni di voti.
E la sfida è proprio questa. Certo c’è da dire che gli italiani sono “sensibili” alle riforme, e in molti sono pronti a non seguire strettamente le indicazioni dei propri partiti o leader. Lo abbiamo visto in casi importanti come divorzio, aborto, finanziamento dei partiti.


E tuttavia l’errore di fondo sta proprio nella comunicazione del premier.
Se la campagna sarà sul testo referendario, Matteo Renzi può sperare di mobilitare quei 6 milioni di votanti che non votano Pd e che vogliono comunque le riforme.
Ma se la campagna referendaria – come invece chiaramente faranno i suoi avversari – non sarà sul tema del referendum, ma su un voto pro o contro Renzi, è molto probabile che la somma delle varie minoranze tra Sel, Sinistra Italiana, FdI a tutto il frammentato centrodestra, alla Lega di Salvini al Movimento Cinque Stelle e quanti altri, nonché la minoranza interna del suo stesso partito – sarebbero, matematicamente, ben più di quei 10 milioni.
Perchè, è bene ricordarlo, il Pd che si attesta al 33-35% è ben lontano da quel partito della nazione capace di vincere da solo. E “fuori” da quel Pd c’è una maggioranza eterogenea incapace di mettere insieme una maggioranza parlamentare, ma che comunque assomma al 65% dei voti reali.


Ma il vero problema è che sinora Renzi sembra incapace di fare una campagna non-manichea, che non polarizzi tra “con me o contro di me”, che non sia “assoluta” e che non veda “ottimisti contro gufi”.
E quindi il vero rischio – numeri alla mano – su un referendum che lo stesso Renzi potrebbe davvero vincere, è che invece lo perda, per colpa dei suoi stessi limiti comunicativi (che invece in altre occasioni sono stati il suo punto di forza).
Saper cambiare comunicazione è una dote, una capacità, una risorsa.
Renzi ne ha molte, ma ad oggi, almeno per quello che abbiamo visto negli ultimi cinque anni, questa proprio non gli appartiene.
Ma anche se non ha risparmiato – senza citarlo – molte sferzate ai Presidenti di Regione del suo stesso partito (Emiliano su tutti), almeno come sintassi generale nel suo discorso post-voto ha provato con quel “tutti insieme” a cercare di evitare quantomeno la spaccatura interna.
La strada per ottobre è più che in salita.
In uno scenario in cui è possibile che andranno a votare circa 30milioni di italiani, da oggi stesso l’obiettivo è convincerne circa 16milioni. Il 50% in più di un teorico Pd unito.

De Magistris sindaco di Facebook

Dopo essere stato sindaco rivoluzionario, sospeso, di strada, reintegrato, oggi De Magistris lancia definitivamente la sua campagna elettorale con un lungo post su Facebook. Che fosse social lo sapevamo, ma stavolta il suo post è con un vero e proprio manifesto politico delle cose fatte e di attacco al pd renziano. Tra le molte accuse “a firma” del sindaco di Napoli ce ne solo alcune difficilmente attribuibili a Matteo Renzi come “Mafia Capitale, inchieste Expo, Venezia Mose”: tutte vicende semmai esplose sotto la sua segreteria e cui lui è chiamato a mettere una pezza.
 L’atto che da oltre un anno fa infuriare De Magistris è la sua estromissione dalla gestione dell’affaire Bagnoli. “Renzi, dopo anni ed anni di omissioni, sprechi, affari e crimini, invece di dare alla Città le risorse per la bonifica ha deciso di commissariare. Vuole mettere le mani sulla città con le stesse logiche di potere che hanno distrutto parte del nostro Paese.”
Su Bagnoli lo scontro è ampio e forte, e ne sentiamo parlare da tempo.


Come i nomi ballerini dei presunti super commissari con poteri da superuomo, così come le cifre da capogiro che potrebbero abbattersi (letteralmente) sulla città, e su cui i soliti presuntamente grandi imprenditori e finanzieri anche loro si vogliono letteralmente abbattere per pasteggiare alacremente. 
Quello che manca sulla questione Bagnoli è una risposta chiara ad una domanda che dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi cifra e nome commissariale: qual è il progetto per Bagnoli? Soldi e nomi per fare che? Realizzare cosa? Quando fai questa semplice domanda si solleva la nebbia, come se Bagnoli fosse in val padana. 
Nel lungo articolo il sindaco di Napoli fa un elenco di cose fatte, che sono cose vere, almeno parzialmente.


Molti sono progetti ereditati dal passato (come le stazioni della metropolitana da lui inaugurate a ripetizione), così come è innegabile l’aver ereditato un bilancio a dir poco disastroso e del quale nessuno degli assessori degli ultimi vent’anni è stato chiamato a rispondere. 
Spiccano però due elementi. Il primo è che un sindaco che il PD considera decotto e condannato alla sconfitta abbia ricevuto in meno di sei ore oltre 2.000 condivisioni e 3.500 “like”, cui si sommano oltre 1.500 tra commenti e repliche. Indice di una città viva e di un sostegno al sindaco che molti sembrano ostinarsi a non vedere. Dall’altro il vuoto delle repliche del partito democratico, che vanno dalla ilarità all’attacco diretto, senza alcuna proposta nel merito.


L’alzata di scudi “a difesa del segretario” a livello nazionale ci sta, ma a livello locale appare decisamente poco credibile, laddove ad un anno dal voto il PD non solo non ha nomi alternativi da proporre, ma non ha un progetto politico, non ha un programma, e nemmeno un’idea di percorso per arrivare ad averne. 
Il post del sindaco fa discutere e fa schierare. Apre il dibattito sulla città e sull’amministrazione. Tutto questo è comunque politica. Al momento degli altri partiti non si può dire nemmeno questo: nemmeno uno status programmatico o analitico che faccia discutere.

L’ imbroglio dell’Italicum

Che mago questo Renzi! Non solo ci saranno voti che valgono più di uno e voti che varranno meno di uno ma ci saranno anche tanti casi in cui tu voterai un candidato e ne eleggerai un altro! L’imbroglio dell’Italicum deriva dal mescolare due criteri che fanno a pugni: il voto di preferenza nelle mani degli elettori e la scelta di capilista pluricandidati nelle mani dei vertici di partito.



Proviamo a immaginare cosa succederà con l’Italicum. Il candidato Rossi, numero 5 nella lista, risulta il più votato per numero di preferenze, ma non viene eletto perché in quel collegio i voti raccolti bastano per eleggere un solo candidato e quell’uno sarà il capolista Bianchi. Bianchi è capolista anche in altri nove collegi, ma optando per il collegio di Rossi, Bianchi lo esclude perché Rossi gli sta meno simpatico degli altri candidati che gli subentreranno negli altri nove collegi.

In tal modo l’esclusione di Rossi dal nuovo Parlamento non deriverà dalla scelta degli elettori, ma dall’arbitrio del capolista (arbitrio personale o ispirato dal segretario nazionale), il quale opterà di diventare rappresentante di quel collegio elettorale, cioè di quel territorio e di quei cittadini, con cui, magari, ha meno rapporti o, addirittura, rapporti conflittuali. Determinato a sfruttare questo meccanismo perverso il segretario nazionale moltiplicherà il numero dei candidati ubiqui – quelli che possono guidare dieci liste in dieci diversi collegi – così assicurandosi non solo l’elezione dei capilista ma anche il potere di favorire i secondi in lista se gli sono fedeli (anche quando abbiano raccolto poche preferenze) o di escluderli se non graditi (anche quando abbiano ottenuto dagli elettori un grande messe di voti). Che mago questo Renzi! Non solo ci saranno voti che valgono più di uno e voti che varranno meno di uno ma ci saranno anche tanti casi in cui tu voterai un candidato e ne eleggerai un altro! L’imbroglio dell’Italicum deriva dal mescolare due criteri che fanno a pugni: il voto di preferenza nelle mani degli elettori e la scelta dei capilista candidabili in dieci collegi nelle mani dei vertici di partito.


Non è finita. Supponiamo che un partito ottenga il 40% dei voti e un altro il 39%. Il primo, con il premio elettorale, otterrà 340 seggi, il secondo, pur avendo quasi lo stesso numero di voti, otterrà solo 214 seggi. Ma questo in teoria, cioè nel caso, ormai improbabile, che sopravviva il bipolarismo. Nella realtà, essendosi ormai radicato un sistema tripolare, e avendo stabilito una soglia di sbarramento bassissima – il 3% -, avremo un primo partito geneticamente modificato e artificialmente gonfiato fino a 340 seggi, due o tre partiti sotto i 100 seggi e qualche cespuglio del 3% con 7 o 8 deputati nominati dal loro capetto.

Eppure, secondo Matteo Renzi, questo sistema elettorale è così democratico e attraente che gli altri paesi non vedono l’ora di imitarlo abbandonando le loro tradizioni secolari (il Regno Unito) o semi secolari (Germania, Francia e Spagna). Tradizioni che insieme con la governabilità hanno sin qui assicurato in quelle nazioni un’equa rappresentanza della volontà degli elettori.


Non contento di averla sparata grossa il nostro premier giustifica la sua protervia giurando che finalmente l’Italicum garantirà la stabilità dei governi.


Il dubbio che questa promessa possa trasformarsi in una minaccia nemmeno lo sfiora. Innanzitutto, la stabilità non è un bene a prescindere e, poi, come in passato si sono frantumate coalizioni dotate di ampie maggioranze così, anche con l’Italicum, nulla può escludere che un domani, per esempio nel PD, si formi una opposizione (bastano trenta deputati) in grado di mandare a casa il governo. Esattamente come faceva la DC e come ha fatto anche Renzi con il governo Letta, con buona pace della stabilità.


In conclusione, se, nel merito, non mancano sull’Italicum seri dubbi di costituzionalità, certamente incostituzionale è stata la procedura con cui si è giunti alla sua approvazione. In particolare nel momento in cui, ricorrendo a un emendamento del governo, si è calpestato il diritto/dovere dell’assemblea di esaminare, articolo per articolo, una legge approvata ma non in vigore, perché appesa a una revisione costituzionale di là da venire.


Eppure tutti scommettono che il presidente Mattarella, autore della buona legge elettorale che porta il suo nome e giudice che bocciò il porcellum trangugerà l’imbroglio dell’Italicum senza batter ciglio. Perché? Perché questo impegno preso con Renzi sarebbe all’origine della sua ascesa al Quirinale.