La politica è morta. Viva l’hashtag-politik.

Un tempo c’erano gli slogan. Non temete, esistono ancora.
Senza troppa fatica bastano due righe di wikipedia (per una volta copiate da un’enciclopedia tradizionale) per intenderci su una definizione semplice ed efficace.
Uno slogan è una frase memorabile e intesa per essere facilmente memorizzabile. È usata in un contesto politico o commerciale, come espressione ripetitiva di un’idea o di un proposito. In lingua italiana può essere tradotto con motto. Il termine deriva dal gaelico scozzese sluagh-ghairm, pronunciato slogorm. È composto da sluagh (“nemico”) e ghairm (“urlo”) e originariamente significava “grido di guerra” o “grido di battaglia”.
Uno slogan politico esprime in genere uno scopo o un’aspirazione (“Proletari di tutto il mondo, unitevi!” o “Boia chi molla”). In pubblicità il termine veniva spesso usato per intendere l’headline (il “titolo” di un annuncio).



Lo slogan è rappresentativo però non solo di un momento, ma caratterizza qualcosa di più profondo. È la sintesi di un progetto, di un programma, di un’idea. Sia che parliamo di politica che di marketing commerciale (e le due cose sono sempre più divenute simili col passare degli anni e della anglosassonizzazione della comunicazione).
Lo slogan è stato sotituito dal “claim”. Vero e proprio “urlo pubblicitario”. Una parola o poche parole per racchiudere una campagna. Ma un tempo c’era chi a queste cose prestava molta attenzione. Perchè c’è stato un tempo in cui le parole erano importanti, perchè stamparle e ripeterle doveva “convincere restando impresse”.



Con la fine della memoria anche lo scopo di “restare inpresso” è venuto meno.
Sostituito con l’efficacia di un giorno, in una straordinaria confusione con “ciò che avviene in america” più raccontato e millantato che reale e vissuto davvero.
Eppure basterebbe un’osservazione semplice, facendo zapping su qualche rete oltreoceano per comprendere come invece l’efficacia di una campagna sia proprio legata al suo “claim” ed alla sua sinteticità.
Casi di scuola sarebbero “Change” e “forward” di Obama ma anche “Hillary for America” o semplicemente “I’m with her”. 
Eppure da noi – che pensiamo che quella politica sia la stessa di House of Cards – tutto questo viene apparentemente dimenticato. Non è proprio così. La realtà è che noi semplicemente non lo sappiamo fare. 

E allora capita di vedere il M5S che della comunicazione in rete dovrebbe essere il top, sfornare #vinciamonoi che si traducono in un troppo facile boomerang, o ripiegare su #cura5stelle – dimenticando proprio quella caratteristica basilare dello slogan “parlare di sé e non porre l’avversario politico al centro del proprio slogan”. 
E allora capita di vedere un PD che lancia #atestaalta e #senzapaura – due hastag che aveva lanciato Giorgia Meloni, che almeno sulla carta dovrebbe essere agli antipodi politici e sociali.
Fenomeni macroscopici solo perchè nazionali, perchè se prendessimo in esame i motti di candidati regionali e locali sarebbe un festival degli orrori.



La buona notizia tuttavia c’è, e non è da poco.
Se un tempo gli slogan erano capaci di segnare un’epoca ben oltre il marchio stesso (pensiamo a Ramazzotti che riuscì con il suo “Milano da bere” a raccontare e segnare un’intero ventennio benoltre se stesso) oggi questi hashclaim durano meno della TL di un giorno.
Liberi quindi di non restare impressi, di essere creati per essere dimenticati, di non segnare alcunché. Se non forse il vuoto pneumatico della mancanza di proposta sottostante.
La politica è morta. Viva l’hastag-politik.
[p.s. Lo so, non è sempre così. Ma non fa male rifletterci.]

Il web sorpassa la tv

Un rapporto pubblicato da eMarketer ritiene che il tempo speso per l’utilizzo dei media digitali tra gli adulti degli Stati Uniti abbia superato il tempo trascorso con la TV in quest’ultimo anno. Una tendenza guidata dalla crescente proliferazione dei dispositivi mobili. 
Nel 2014, il tempo trascorso su smartphone e tablet negli Stati Uniti passa al 23,2%. Sorprendentemente, il mobile è diventato così popolare, che l’uso di media online classici si riduce costantemente dal 2012.

La somma dei dati mobile/computer tradizionali riesce a superare l’utilizzo della televisione come mezzo informativo, complice anche il calo di radio e carta stampata.


Anche l’impegno pubblicitario e gli investimenti nella pubblicità sul web hanno superato qualsiasi altro media, lo si afferma in un altro rapporto, diffuso da ZenithOptimedia e riportato da TechCrunch, che proietta gli investimenti pubblicitari globali per quest’anno in corso, con previsioni che parlano di una cifra record di spesa sul Web pari a 87 miliardi di dollari.

Quella annunciata sembrerebbe una rivoluzione epocale, soprattutto perchè drogata da commenti entusiastici di guru cyber utopisti.
Nelle analisi tuttavia non vengono considerati alcuni fattori importantissimi.
Parlare di web ha sempre seguito una sintassi per cui “un sito vale un sito”, qualsiasi sito fosse. L’idea che tutti siano uguali in rete è un concetto abbandonato tuttavia da tempo.


Facciamo qualche esempio.

Siamo invasi di offerte per aprire siti gratuiti o quasi. Poi si scopre che per avere un blog degno di questo nome si devono spendere alcune centinaia di euro ogni anno. Ma quello slogan iniziale fa si che si crei e alimenti il mercato del web. 
Non parliamo delle offerte “tutto compreso” per un sito di e-commerce. Che dopo che hai rifiutato preventivi onestissimi perchè li consideri alti, ti ritrovi a spendere il triplo facendo peggio e perdendo un sacco di tempo. 
Per non parlare di GoogleAdvert che avrebbe dovuto arrichire tutti i titolari di siti inserendo la pubblicità… senza sforzi. Mi chiedo a quanti sono stati chiusi account senza spiegazioni, senza numeri di telefono da chiamare senza aver visto un dollaro. Divenendo anche quello strumento una macchina “mangia soldi” (degli inserzionisti – che se smettono di fare inserzioni vengono penalizzati nei risultati di ricerca) e al servizio di pochi siti con grandissimo traffico, che spesso intensificano investendo i guadagni da Google su Google stesso!


In realtà il web venduto come “alla portata di tutti” è una rete globale sempre più in mano a pochissimi player sia delle infrastrutture (Google, Veracom, Amazon) sia delle piattaforme (Apple, Microsoft, Facebook) che dei contenuti. 
Si perchè questi sono i tre piani della rete: infrastruttura attraverso cui i dati viaggiano, piattaforme su cui vengono veicolati e grandi contenitori e produttori di contenuti.

Le statistiche che dicono che nel web verranno investiti oltre 90 miliardi di dollari nel 2015 non dicono che i 2/3 di quella cifra vanno in meno di 400 portali intenet. In modo diretto o indiretto. 
E quelle statistiche non dicono nemmeno quanta parte di pubblicità in calo su una televisione o su un giornale in realtà vanno sui relativi siti di informazione online di quella stessa tv e di quello stesso giornale.

Non sono cose da ABS o CNN. Basta leggere i dati di Repubblica.