Raggi, M5s e Roma, storia di un disastro annunciato

Raggirati. È questo l’hashtag che, su twitter, sintetizza e racconta le vicende di questi giorni sull’amministrazione del M5S a guida Virginia Raggi.
“Ho capito bene? Il sindaco M5s di Roma ha detto che deciderà sul suo assessore, indagato per falso e abuso d’ufficio, dopo aver letto le carte? A chi si affiderà la Raggi per emettere la sentenza? Ad un giudice, ad un avvocato? E poi quale sarebbe il suo diritto ad avere le carte di una inchiesta, teoricamente coperta in parte da segreto istruttorio? Barzellette capitoline!” sintetizza Fabio Postiglione.
“Il Fatto in edicola dice che la Raggi o si dimette o chiede scusa. Eh no, troppo comodo, miei cari. L’avete creata voi. C’e concorso di colpa. Facciamo che lei si dimette e voi vi scusate, tanto per cominciare.” è il commento di Aldo Trochiaro.
“Nessuna conferenza stampa, non una dichiarazione in consiglio o una spiegazione che sia una in Campidoglio. Arriva un messaggio della sindaca su un blog di un privato, una dichiarazione sterile dove non spiega nulla in merito al caos istituzionale che sta avvenendo a Roma. Uno scempio politico mai visto.” è la chiosa di Tommaso Ederoclite.
Ma un commento apre la questione ad un differente punto di vista, a firma di Andrea Iannuzzi
“Consiglio non richiesto al Pd (romano e non): ma perché invece di assistere buoni buoni ai pasticci che combinano i 5 stelle, bravissimi a farsi male da soli, continuate a parlare male di loro e ad attaccarli? In questo modo ottenete solo l’effetto di ricordare ai cittadini i disastri che avete combinato voi. Godete in silenzio, se ci riuscite”.
La notizia riportata sull’Huffington Post non è un caso isolato. Scrive Gabriella Cerami “L’Armageddon dei 5 Stelle, almeno a Roma, è rappresentato da una mail che la sindaca di Roma Virginia Raggi avrebbe inviato a Luigi Di Maio e al mini direttorio – Paola Taverna, Gianluca Perilli, Massimo Castaldo e Stefano Vignaroli – per informarli che l’assessore all’Ambiente Paola Muraro era iscritta nel registro degli indagati e che l’intenzione del Campidoglio era quello di attendere le carte e “poi prenderemo provvedimenti”. Mail che rappresenterebbe la prova che anche Luigi Di Maio era a conoscenza, da tempo, dei guai giudiziari dell’assessore capitolino, comunicati alla diretta interessata il 18 luglio e appresi dalla sindaca il giorno successivo. E quindi il gruppo dirigente dei 5 Stelle avrebbe omesso e depistato sul coinvolgimento di Muraro, per dodici anni consulente dell’Ama, nell’inchiesta sui rifiuti. E chi attendeva la prima puntata di Politics su Raitre per conoscere la posizione di Luigi Di Maio resterà deluso, perché non si presenterà.”
Qual è dunque il tema di questo Movimento 5 Stelle che si è presentato come “rinnovamento”, fuori dalle logiche della vecchia politica, con “onestà e trasparenza” prima di ogni altra cosa, con gli streaming per tutto e su tutto divenuti sempre più occasionali sino a scomparire?
Conta che “su tutto decide la rete” sia diventato un direttorio scelto da Beppe Grillo che decide in chiuse stanze? Conta ancora che quegli scontrini pubblicati per i primi mesi siano spariti da un anno?
Conta davvero che – ancora – non ci sia un bilancio pubblico del Movimento 5 Stelle, con un tesoriere, che non ci sia un’assemblea degli iscritti, che – nonostante le sentenze dei tribunali – non siano previste forme di gestione e ammissione del dissenso interno?
E le menzogne e le coperture, sono davvero ancora fatti occasionali? Su Parma il direttorio “non sapeva”, e poi Pizzarotti ha reso pubblici i messaggi e le mail inviate, tutte senza risposta, ma in cui informava ampiamente… su Quarto il trio Fico – Di Maio – Di Battista è apparso in streaming per affermare di non sapere, anche qui smentiti da mail e messaggi. Sapevano e come!
Adesso è la volta di Roma.
Si sapevano. Sapevano ogni cosa. Sapevano delle indagini, delle inchieste, e sapevano soprattutto chi erano quelle persone, da quali ambienti provenivano, quali erano i rapporti personali, professionali e politici pregressi. Sapevano. Hanno mentito, nascosto, sino alla farsa del “complotto dei palazzinari pro olimpiadi”. Sino a quel “se indagano altri, dimissioni subito” ma se indagano uno dei loro, allora è bene leggere le carte. Si, e decidere senza competenze, sostituendosi ai giudici.
L’onestà andrà di moda. E la trasparenza pure. Ma il futuro non è adesso. Almeno nelle aministrazioni 5 stelle.
Ma tutte queste non sono buone notizie. Non lo sono per i romani e per Roma. Non lo sono per le persone in perfetta buona fede che, semplicemente, volevano di meglio, volevano altro. Forse solo volevano rispetto. Ma non sono buone notizie nemmeno per i cari vecchi partiti, di centro destra quanto di centro sinistra.
Ancora oggi, nonostante tutto, se si tornasse a votare a Roma (come altrove) i disastri, le menzogne, la mancanza di trasparenza, il piccolo potentato di pochi che ormai è cosa palese, il fatto che Grillo fomenti la folla e poi si lavi le mani di tutto, non sono sufficienti a far cambiare idea alla maggior parte dell’elettorato.
La ragione è semplice ed è politica.
Non si vince per mancanza di avversari o per la scelta del meno peggio.
La chance dei partiti è ampia, ma a quanto pare sarà ancora un’occasione persa per un vero e profondo rinnovamento e per prendere di petto quella questione morale mai affrontata dai tempi di Berlinguer.
Non bastano gli sfaceli, né che il Movimento 5 Stelle, da solo, mostri ciò che è oltre gli infingimenti di una propaganda tossica e violenta della rete.
Occorre un vero, serio, profondo rinnovamento dei partiti, con spazi a persone nuove, senza pensare – con la solita arroganza e presunzione – che “si può fare ancora un altro giro”.

La cassazione dei ballottaggi

Alle 23.01 di domenica 19 giugno molte cose sono cambiate nella politica italiana. Ben più di quelle che la cassazione dei ballottaggi ha sancito per le maggiori città italiane.
La consolazione di Milano e Bologna consola davvero poco. 
Nel capoluogo lombardo vince di misura, laddove avrebbe dovuto straripare, un Sala politicamente e culturalmente speculare a Parisi. E questo smentisce la famosa frase di Renzi “la sinistra che non cambia diventa destra”: a Milano si è scelto un candidato che di sinistra non era, ed ha vinto in un certo qual modo diventando destra.
A Bologna Merola, sindaco uscente del Pd, ha dovuto affrontare il ballottaggio, e non con un candidato alla Guazzaloca (chapeau) ma direttamente con una leghista. E questo in sé è ben oltre che un risultato storico.
Roma, Trieste e Torino mostrano un risultato che chiunque avrebbe potuto e dovuto prevedere, se non fosse stato annebbiato da una percezione del tutto personale e autoreferenziale di invincibilità, che come sempre in politica diventa essenzialmente nudo e crudo autolesionismo.


Il Pd si conferma il primo partito, ma è solo. La comunicazione elettorale pre referendaria del “o con noi o contro di noi”, di un’Italia divisa tra buoni e cattivi e tra riformatori e gufi ha inesorabilmente polarizzato il tutti contro uno. Era prevedibile e si è materializzato.
Alleanze improbabili e talvolta imbarazzanti hanno visto qualunque destra – da Casa Pound ai centristi ai liberali alla Lega a Fratelli d’Italia ai Cinque stelle – fare fronte comune praticamente ovunque. Roma e Torino prima che altrove. E così accade che se pure è vero che il Pd a livello nazionale è presente ovunque e tutto sommato resta il primo partito, non basta a se stesso, e la somma di tutti i suoi avversari lo supera ampiamente e talvolta lo doppia.


Consola poco che è tecnicamente impossibile un governo che metta insieme Salvini e Meloni con Grillo e un defilato Berlusconi. Ma ciò che resta sul terreno è la fine dell’idea di quel partito della nazione capace da solo di vincere ovunque e di prendere quel premio di maggioranza che lo farà governare da solo.
Va peggio in chiave referendaria, perché la stessa somma di tutte le opposizioni Renzi se la ritroverà a ottobre, compatta, a chiedere di mantenere quella promessa “se perdo vado a casa”, richiesta che nessuno gli ha fatto, e che è stata la lapide sulla polarizzazione avviata nella sua comunicazione politica proprio dal premier.


Se seguissimo la logica napoletana dei commissariamenti, sarebbe oggi tutto il Pd a dover essere commissariato, e in qualche modo è quello che la minoranza interna si appresta a chiedere giovedì e che troverà necessariamente una risposta nella direzione di venerdì.


Nel 1981, in un’intervista a Eugenio Scalfari, Berlinguer accusò la classe politica italiana di corruzione, sollevando la famosa questione morale. Denunciò l’occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e sottolineò il rischio che la rabbia dei cittadini si potesse trasformare in rifiuto della politica.
Quella profezia che ci sembrava avverata nel 1992 con Tangentopoli si è avverata oggi, a distanza di trentacinque anni. Anni che come sono andati persi per le riforme che tutti hanno dichiarato necessarie, si sono dimostrati persi soprattutto per la vita dei partiti, che sono andati progressivamente perdendo la propria autorevolezza e definitivamente il proprio ruolo nella società.
È questa la sentenza di Napoli con De Magistris cinque anni fa, e ripetuta senza appelli oggi, dove un Pd che non è arrivato nemmeno al ballottaggio ha dato il peggio di sé nelle indicazioni di voto.


Alle 23.01 di domenica 19 giugno 2016, in un’epoca che tutti definiscono post-ideologica, per parlare del Pd potremmo parafrasare un celebre discorso di Giorgio Almirante. Il Pd o saprà essere meno arrogante, più pluralista, più aperto e rinuncerà all’idea di partito unico, o non sarà. O sarà capace di dimostrare una qualità ed una trasparenza di amministrazione superiore alla media, o non sarà. O sarà capace di affrontare con il massimo rigore e senza attenuanti e distinguo la questione morale al proprio interno, o non sarà. O si doterà di una classe dirigente degna di questo nome e metterà ai margini i renzi-boys e gli yesman o non sarà altro che un piccolo comitato elettorale di provincia utile a far eleggere persone mediocri, e destinato a prospettive mediocri.