Un libro racconta Miuccia Prada apostata dello stile

Un libro racconta Miuccia Prada apostata dello stile

Di Enrico Maria Albamonte

Miuccia Prada ovvero del paradosso élitario della moda concepito da un’artista pensante, libera e geniale. Se la si dovesse paragonare a un movimento artistico del Novecento, si potrebbe dire che la scaturigine della sua riflessione creativa si situa a metà strada fra modernismo e dadaismo. Modernista lo è senz’altro la ragazza ribelle figlia dell’alta borghesia milanese, perché come Coco Chanel che ha sempre ammirato insieme a Yves Saint Laurent, la fanciulla curiosa e brillante che da giovane militava nel Partito Comunista e frequentava la scuola del Piccolo Teatro, ha sempre puntato a tagliare i ponti con il passato e con l’antico, senza alimentare alcuna facile e retorica operazione nostalgia. E dadaista Miuccia Prada lo è veramente perché ha sempre giocato a decontestualizzare e ricontestualizzare capi, accessori e oggetti del quotidiano assegnando a essi una destinazione nuova, anticonvenzionale e imprevedibile che rompe gli schemi e crea nuove tendenze nel segno di una provocazione radical-chic sullo sfondo di una vibrante tensione fra funzionalità e nitore design. La sua prima sfilata di pret-à-porter femminile a Milano in via Melzi d’Eril risalente al 1988 viene frettolosamente definita ‘minimalista’. Il colore dominante, declinato in silhouette sottili e forma ad ‘A’, spesso abbinato al nero più claustrale, è il marrone che, per usare le parole della stilista, “è il colore meno commerciale che ci sia” e che da quel fatidico momento diventa una cifra stilistica della maison milanese.

a destra Spring/Summer 1996 Courtesy of Prada/Alfredo Albertone
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Spring/Summer 1996
Courtesy of Prada/Alfredo Albertone


357 a destra Spring/Summer 2007 © firstVIEW
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388 a destra Autumn/Winter 2008-2009 © firstVIEW
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Autumn/Winter 2008-2009 © firstVIEW


405 a destra Spring/Summer 2009 © firstVIEW
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Ma anche se all’epoca l’impostazione della moda di Prada poggiava sull’idea della sottrazione, la stilista è allergica alle etichette perché è totalmente anarchica. Nel suo ineffabile sense of humour l’estetica di Prada per citare Maria Vittoria Carloni in ‘Prada-Dizionario della moda’, “rappresenta l’elaborazione colta e concettuale del disordine estetico della nostra epoca ma senza astrazione”. E il contributo fondamentale della maison all’evoluzione della moda e dello stile nella contemporaneità é mirabilmente illustrato nel pregiato volume “Prada le sfilate’ rilegato in tessuto azzurro e edito da Ippocampo che, attraverso i bei testi di Susanna Frankel e oltre 1300 immagini d’archivio ripercorre la parabola stilistica della creativa, considerata come una delle più influenti interpreti della moda odierna con accenti di dissonanza spesso appariscente anche nei look più dimessi e understated. I codici stilistici della maison associata a Elsa Schiaparelli sono assolutamente riconoscibili fin dai primi défilé: gonne a ruota midi a pieghe piatte e a lama di coltello, tweed sommato a chiffon, cashmere e angora, echi seventies, gli spolverini, le giacche a vento da sera, le calze spesse al polpaccio con le scarpe sexy, le borse a mezzaluna da bowling, il nylon di seta usato sia per l’abbigliamento che per gli zainetti iconici contrassegnati dal celebre ma discreto triangolino metallico rovesciato che funge da logo del brand, sandali anche in inverno, pellicce estive, un feeling mitteleuropeo, gli accostamenti cromatici inediti come il rosa e il marrone, il rosso carminio e il verde chartreuse.

420 in alto Spring/Summer 2010 © firstVIEW
420 in alto Spring/Summer 2010
© firstVIEW


490 a sinistra Spring/Summer 2014 © firstVIEW
490 a sinistra Spring/Summer 2014
© firstVIEW


556 a destra Spring/Summer 2017 © firstVIEW
556
a destra Spring/Summer 2017 © firstVIEW


Miuccia Prada viene definita una stilista concettuale e intellettuale ma la creativa rifiuta questa classificazione: non è dogmatica né cerca il consenso al pari di Rei Kawakubo di Comme des Garçons e di Martin Margiela guru dell’estetica sovversiva degli avanguardisti belgi. Miuccia Prada segna profondamente l’estetica degli anni’90: la sua collezione primavera-estate 1996 viene definita ‘ugly chic’ e la sua identità si definisce attraverso le stridenti contraddizioni che ne consacrano la popolarità elevando il marchio allo stesso livello di Gucci, all’epoca disegnato da Tom Ford. Dissacrante e autoironica, Miuccia Prada fonde austerità e frivolezza, sartorialità e pauperismo radicale, borghesia e spirito ribelle, tradizione e iconoclastia.

cover Prada sfilate

La regina della moda non è la classica stilista che siede al tavolo da disegno producendo schizzi come molti suoi colleghi, preferisce verbalizzare le sue idee, il suo metodo stilistico è intuitivo e ‘impressionista’. Appassionata di musica, cinema, letteratura e poesia, la stilista è anche una colta mecenate e insieme al marito Patrizio Bertelli, cervello economico e manageriale dell’azienda italiana del lusso fondata nel 1913 a Milano da Mario, nonno della stilista e artigiano di bauli e accessori, crea nel 1993 la Fondazione Prada. La civetteria aristocratica e mai banale della donna che sceglie Prada si esplica nella sfilata anni’40 del 2000 e in quella super sexy versione nuova valchiria maliarda un po’ virago del 2002-03, nelle stampe anglofile alla William Morris del 2003-04, nell’algido animalier dell’inverno 2006, in quella immaginifica e visionaria della primavera-esatte 2008 ispirata a Hieronymus Bosch e all’Art Nouveau, nel macramé nero e nella lussuosa guipure dorata dell’inverno 2008, nelle stropicciature ad arte e nel tocco di Mida ellenizzante della primavera-esatte 2009 contraddistinta da zeppe vertiginose e torreggianti, lo spirito etno-chic e messicano della primavera-esatte 2011 che rifà il verso alla grazia piccante di Josephine Baker, l’omaggio a Fassbinder della collezione autunno-inverno 2014-15. Altra riscoperta della stilista è il lamé del 2002 associato a tessuti semplici come il cotone più croccante. Ciò che conta per uno stilista è avere una visione, un’idea in questo caso della femminilità, asciutta e sognante allo stesso tempo, e questa visione Miuccia Prada l’ha sempre avuta, con la sua ottica personale, dignitosa e intelligente. Un bon ton distopico , una prospettiva lungimirante sul futuro che sa antipare mirabilmente anticipare il zeitgeist.

Cinecult: Joker di Todd Phillips

Cinecult: Joker di Todd Phillips

Di Enrico Maria Albamonte

Una risata vi seppellirà. Dopo ‘IT’e ‘It2’ e il Joker di Tim Burton interpretato da Jack Nicholson in ‘Batman’, arriva sugli schermi italiani il nuovo attesissimo, irriverente, visionario capitolo dedicato a uno dei più grandi cattivi della DC comics che esplora il lato dark dell’umorismo e della comicità analizzando l’efferatezza metaforica del pagliaccio nella società postmoderna.

Leone d’oro alla mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 76, ‘Joker’ di Todd Phillips e distribuito da Warner Bros.Pictures viene da molti considerato il film dell’anno. Film complesso, inquietante e alquanto cupo, ma destinato a lasciare il segno nello spettatore, è un’opera di indubbio spessore e valore artistico incentrata su un’acuta e graffiante critica sociale dove la struggle class si intreccia inestricabilmente con la visione cruda e surreale del perfido Joker, antieroe beffardo e disadattato con gravi alterazioni psichiche che combatte quotidianamente contro la barbarie e l’inciviltà di una società in disfacimento che condanna l’individualità e la diversità.

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Joaquin Phoenix, candidato per tre volte all’Oscar, stavolta potrebbe vincerlo davvero con un’interpretazione straordinaria, magnetica e coinvolgente. L’attore dimostra di essersi calato magnificamente nel personaggio e di viverlo come se fosse un suo gemello. Nel film Phoenix è Arthur Fleck. Arthur indossa due maschere. Una se la dipinge per svolgere il suo lavoro come pagliaccio durante il giorno. L’altra non se la può mai togliere: è la maschera che mostra nell’inutile tentativo di sentirsi parte del mondo che lo circonda, che nasconde l’uomo incompreso che la vita sta ripetutamente abbattendo. Senza un padre, Arthur ha una madre fragile, Penny Fleck (la brava Frances Conroy) probabilmente la sua migliore amica, che lo ha soprannominato ‘Felice’, un appellativo che ha generato in Arthur un sorriso che nasconde una profonda angoscia interiore. Il tutto sullo sfondo una città brulicante e ostile, degna della New York anni’70 di Scorsese in ‘Taxi driver’. La Gotham City rappresentata nel film potrebbe essere una qualunque metropoli decadente di oggi: afflitta dal problema della mancanza di igiene e dello smaltimento dell’immondizia, attanagliata dalla piaga della disoccupazione, una città in ginocchio sull’orlo del baratro in cui divampa la rabbia sociale a causa della esponenziale proletarizzazione del ceto medio. Un tycoon candidato sindaco, Thomas Wayne (il padre di batman) che definisce ‘pagliacci’ i suoi concittadini meno fortunati fomentando un clima di tensione e l’odio e Joker, letteralmente il buffone, che diventa il simbolo della ribellione contro la tirannide del privilegio.

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Gli spunti di critica sociale disseminati nel film vengono sublimati dalla definizione del personaggio, con una grande ricchezza di introspezione psicologica laddove il disagio psichico del protagonista che ride e fa ridere ma non certo per allegria, si riverbera esteriorizzata nella sua struttura fisica quasi deforme, in perfetto stile Egon Schiele: la sua risata è il frutto di una patologia neuro-cerebrale che in presenza di un forte choc emotivo viene fuori irritando le persone adulte ma suscitando l’ilarità dei bambini. Bullizzato, pestato, emarginato da tutti per la sua innata stranezza, umiliato e offeso da un sistema spietato, cinico e plutocratico e cinico, Arthur Fleck saprà prendersi la sua rivincita in uno storytelling serrato e vibrante.

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Accanto a Phoenix giganteggia Robert De Niro, rutilante e pieno di verve, lui il vero comico amato dall’establishment, il conduttore televisivo Murray Franklin che in una scenografia che rifà il verso allo studio del celeberrimo ‘Johnny Carson Show’ mette in scena il dramma di una comicità dal risvolto patetico un po’ come in ‘re per una notte’. La costruzione del personaggio Joker è affidata non solo al talento recitativo di Phoenix (che peraltro a Toronto si è aggiudicato già il ‘tribute actor award’) ma anche all’abilità del costumista Mark Bridge che ha lavorato molto bene in passato con Phoenix in altri due film. Arthur punta più alla praticità che allo stile. Veste capi comodi, e si vede che li ha da molto tempo, inoltre ha un vago aspetto infantile, alternato a quello di una persona anziana. Il completo ruggine che costituisce nella sceneggiatura la ‘divisa’ di Joker è stato studiato con proporzioni vagamente anni settanta calibratissime, con un notevole accordo di colori rispetto al gilet (giallo) e alla camicia. Onore al merito alla truccatrice Nicki Lederman che ha realizzato esasperandolo il make-up di Joker utilizzando a piene mani il verde e il rosso della maschera del clown.

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Fanny Ardant, la grande dame del cinema francese

Fanny Ardant, la grande dame del cinema francese

Di Enrico Maria Albamonte

Elegante, sorridente, gentile, sensuale, magnetica. Ritratto dell’ultima grande diva del cinema francese, Fanny Ardant. Un’attrice di grande carisma che ha vissuto e vive la sua relazione con il cinema con intensità e passione e che a Roma, la mecca della settima arte per antonomasia, si è raccontata ai suoi estimatori in occasione della quattordicesima edizione della festa del cinema di Roma.

Non ho rimpianti, je ne regrette rien” dice sorridendo la magnifica attrice, 70 anni portati divinamente con grinta e stile, e una carriera folgorante come attrice icona del cinema francese e italiano, un percorso che oggi si evolve anche dietro la macchina da presa. L’attrice, che è stata legata sentimentalmente a François Truffaut, ha già diretto tre film come ‘Il divano di Stalin’ il cui protagonista nella parte del dittatore russo è Gerard Depardieu, un mito del cinema internazionale con il quale la Ardant ha condiviso il set di alcuni dei suoi più bei film come ‘La donna della porta accanto’ in cui rappresenta una appassionata e tragica liaison amorosa degna del grande maestro della Nouvelle Vague.

Depardieu è carnale e appassionato. Amo il glamour delle dive anni’40 e delle signore di Hitchcok, adoro Polansky che mi ha diretto a teatro in una pièce sulla Callas, il teatro è una grande scuola, mi ha dato libertà e indipendenza”.

ROME, ITALY - OCTOBER 20: Fanny Ardant attends the "La Belle Epoque" red carpet during the 14th Rome Film Festival on October 20, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF)
ROME, ITALY – OCTOBER 20: Fanny Ardant attends the “La Belle Epoque” red carpet during the 14th Rome Film Festival on October 20, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF)


A Roma la grande attrice che si divide fra cinema e teatro ha portato il suo ultimo film diretto da Nicolas Bedos ‘La Belle Epoque’ in cui affianca Daniel Auteuil in una squisita e istrionica commedia sulla nostalgia e l’amore, senza rimpianti e con ironico lirismo. Una bella storia che svela anche i retroscena e le trappole della recitazione e della dialettica suggestiva fra finzione e realtà proiettata in una prospettiva esistenziale, un dibattito sulla memoria e sull’identità che affascina, fa sorridere e commuove come solo i film francesi sanno fare. Con un linguaggio di rara poesia che incanta e seduce il film ritrae la diva nel ruolo della moglie di un disegnatore fumettista un po’ fané e depresso che improvvisamente riscopre il gusto della seduzione e del romanticismo e torna indietro nel passato per riconquistare la moglie che nel presente lo tradisce con un altro uomo.

ROME, ITALY - OCTOBER 20: Nicolas Bedos and Fanny Ardant attend the photocall of the movie "La belle Epoque" during the 14th Rome Film Festival on October 20, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF)
ROME, ITALY – OCTOBER 20: Nicolas Bedos and Fanny Ardant attend the photocall of the movie “La belle Epoque” during the 14th Rome Film Festival on October 20, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF)


Nell’epoca in cui tutto è vintage, Nicolas Bedos rappresenta una sensucht timeless e coinvolgente, autentica come la vita.

Scelgo i copioni con l’istinto e con la passione, non sono calcolatrice, sono generosa soprattutto con i registi delle opere prime, ogni nuovo cineasta può convertirsi in una grande avventura”.

Festa del Cinema di Roma 2019 - Red Carpet La belle epoque | foto Luca Dammicco / Fondazione Cinema per Roma
Festa del Cinema di Roma 2019 – Red Carpet La belle epoque | foto Luca Dammicco / Fondazione Cinema per Roma


Dialoghi briosi e tempestosi, ricchi di verve, bellissime ambientazioni Seventies ricostruite con classe, una sceneggiatura brillante e abilmente sviluppata con un ritmo sostenuto, fanno di questo un film da non perdere. Fanny Ardant, che ha interpretato il ruolo di Maria Callas in ‘Callas forever’ di Franco Zeffirelli e che ha recitato in due film di Ettore Scola ‘Speriamo che sia femmina’ e ‘La famiglia’ ha sempre ammirato profondamente il nostro cinema e i suoi protagonisti, intrecciando una tenera amicizia sul set con il ‘fragile umanista, galante, intelligente’ Vittorio Gassman, grande indimenticabile mattatore del cinema italiano. Così lo ha definito con trasporto Fanny Ardant, una diva per tutte le stagioni.

GENTILE CATONE FW 19/20 COLLECTION – “ACONITO”

FW 19/20 COLLECTION – “ACONITO”

La collezione FW 19/20 di Gentile Catone esplora le inquietudini della società contemporanea, disincantata e scardinata, senza prospettive, eppure in bilico tra velleità ascetiche e ibride forme mistiche, alla costante ricerca di quel “meraviglioso” che possa, con la sua ingenua carica eversiva e sovrannaturale, spazzare e squarciare lo sterili orizzonte materiale che la circonda.
Il nome della collezione, “Aconito”, fiore velenoso dalle sfumature violacee, sintetizza a livello cromatico e semantico la collezione, quale varietà prediletta che prospera nel giardino di Proserpina, coi suoi grappoli di calici vividi e letali che si stagliano nella bruma stigia.
La donna Gentile Catone si muove in questo immaginario magico e noir attraverso il richiamo a triadi, che incarnano diversi aspetti multiforme universo femminile.
Tre le donne, dunque, che ispirano e motivano la collezione: la madre, la depositaria arcana e misteriosa di un saper ancestrale e, infine, la donna volitiva ed indipendente, tre proiezioni della figura femminile nella società odierna simbolo di forza e determinazione.
Il racconto di Gentile Catone viene narrato su raso di seta, twill e jersey di viscosa che caratterizzano abiti, gonne e camicie dalla vestibilità over o dal taglio bon-ton, elemento distintivo di tutte le collezioni del brand.
Il dualismo delle forme ricorre anche nei capospalla e nei cappotti della stagione in mohair, velluto e pied de poule, impreziositi da ampi colli viola in mohair o da piume viola pastello.

Stefano De Lellis Primavera Estate 2020

La ricetta è semplice: creatività tout court unita a un attitude coolness che fa sue le leggi del desiderio- esplorato, indagato, esploso – e le trasforma nella collezione PE 2020 firmata Stefano De Lellis.

Ricerca e tradizione, creatività e artigianato italiano: il risultato è una proposta in cui il gioco di contrasti diventa la trama su cui costruire una nuova femminilità spettacolare e up to date, in cui la couture diventa ipervisiva e racconta un’eccellenza da indossare, un desiderio nato da asimmetrie e da balze, da lunghezze decise e da tagli mini.

Una vocazione scenografica che, tra cromie intense e inserti all around, si fa interprete di una sensualità precisa e forte, che segue il sexy flow dinamico degli abiti- icone di una femminilità gridata in mezzo a rouches e a volant plissettati, tagli asimmetrici e balze ton sur ton.

Costruzioni perfette seguono le infinite sfumature del desiderio in un’attrazione che ha origine dal colore: libero, smaliziato, capace di farsi manifesto di una libertà di espressione lirica ma, al contempo, sartoriale.

Un loop iconico che sceglie tessuti nobili, dai riflessi accesi e scattanti, che si ferma su silhouette precise e dai volumi inaspettati – molto macro, a ballon, capaci di esplodere in un trionfo di tulle e di balze- in cui l’unica regola è uscire dagli schemi. Ma con grazia. Ecco taffetà, organza, georgette di seta: effetti danseuses enfatizzati dall’abbinamento con la tela denim tie&dye; e ancora irriverente flag couture accesa e scattante nel lungo kimono e nella gonna plissettata mentre la sera acquista un gusto pop tra colori vivaci e forme rivoluzionarie.

La legge del desiderio non conosce ostacoli ma si esprime liberamente grazie al popeline e al pizzo di cotone, spruzzandoli di tulle glitterato che acquista rigidità e da vita a costruzioni très charmant, da indossare senza compromessi.


La perversione raffinata di Gucci

La perversione raffinata di Gucci

Di Enrico Maria Albamonte

Da Gucci per Alessandro Michele, sublime pifferaio magico dalle lunghe chiome corvine, sottrazione fa rima con sovversione e il neocon diventa fetish e un po’ sadochic come in ‘Bella di giorno’ di Luis Bunuel. La moda è un gioco sottilmente perverso ed è questo in fondo che la rende attraente, seducente, anche se a tratti surreale. Mentre Madonna intona il suo peana orgasmico, il brano musicale ‘Justify my love’ che appartiene all’album ‘Sex’ abbinato a un volume X-rated realizzato nel 1992 in collaborazione con Steven Meisel, scorrono le immagini dell’ultima collezione primavera-estate dello stilista più osannato e incensato del momento. Uomo e donna flirtano idealmente e algidamente sul tapis roulant allestito nel mega spazio di via Mecenate a Milano. Il talento carismatico dello stilista romano-che nel 2020 festeggia 5 anni di direzione creativa di Gucci-si nutre di glamour anni’90 ma anche di trovate eclatanti. Come l’incipit del fashion show affidato a una parata di ragazzi e ragazze imbrigliati in camicie di forza che non vogliono esprimere, come i maligni potrebbero pensare superficialmente, una beffa sulle malattie mentali strumentale alla mercificazione della moda, bensì sono una provocatoria sfida a chi vorrebbe imbavagliare i creativi di oggi, in un mondo neo-puritano e machista. Si sgretolano le certezze dell’establishment borghese e allora tutto diventa molto più portabile rispetto al solito. Un glamour irriverente pervade la lussuosa lingerie femminile nelle tuniche scollate, gli occhiali dalle maxi lenti sono ornati da catenelle ingigantite, i lunghi guanti si portano oltre il gomito, frustini da virago e choker aristocratici formano la panoplia dei look più audaci e peccaminosi della collezione. I modelli efebici more solito hanno un flair un po’ nerd, le ragazze abbinano tinte flashy a colori pastello. Come recita l’illuminata release della collezione la moda “definisce uno spazio di autoaffermazione poetica in cui far brillare il desiderio di sé”. Che tradotto in abiti, scarpe e borse significa: trench e loden in velluto, tuxedo in satin in colori saturi, coat sartoriali decorati da stringhe bondage, stivali rosa e verdi con tacco sagomato, zainetti di pelle lucida con morsetto, mules sfilate e a punta, alte cinture in vita con dettagli in oro, borsette neo-bourgeois, Dyonisus gialle e nere, sahariane molto esuberanti, abiti nude look in tinte vivaci su scarpine argentate, le lunghe tuniche dalle maniche ampie hanno dei cutout sul petto, pannelli di piallettes dorate campeggiano solcandole sulle tuniche azzurrate. I print sono anni’70 (arredamento) o anche a maxi arabeschi ricamati in mille colori. La sua lezione di tolleranza e inclusione Michele la dà in termini di emancipazione stilistica e autodeterminazione estetica. Senza tabù o stereotipi, alla ricerca di ciò che può essere desiderabile oggi.

Laura Biagiotti, una regina della moda alla Festa del Cinema di Roma

Laura Biagiotti, una regina della moda alla Festa del Cinema di Roma

Di Enrico Maria Albamonte

Capelli lunghi corvini, bella, romantica e sorridente ma anche tenera e tenace, tutta forza e dolcezza, ragione e sentimento: gli opposti si attraggono quando si parla di Laura Biagiotti. La ‘Regina del cashmere’ come la definì Bernardine Morris sul New York Times negli anni’80, o la dama bianca come venne pure ribattezzata, è scomparsa nel maggio 2017 a 70 anni dopo una vita lastricata di successi folgoranti e di imprese eroiche. Come lo sbarco in Cina, prima stilista italiana a osare tanto, nell’aprile del 1988 con le sue indossatrici cinesi, fra le quali la bellissima Dong Mei, tutte capitanate dalla top italiana Francesca Ambrosetti, una delle predilette di Laura. Alla fine degli anni’70 Richard Avedon la immortalò in un intenso ritratto in cui la idealizzava come un angelo dall’aria mistica, e così la ribattezzò ‘L’aura’. Oggi la ricorda ‘Laura Biagiotti-L’Aura della moda’, un bel docu-film prodotto da Anele e Gloria Giorgianni in collaborazione con Raicinema e realizzato da Maria Tilli e Anna Pagliano. Presentato il 19 ottobre nel nutrito calendario ufficiale della Festa del Cinema di Roma, il docu-film ripercorre le tappe determinanti della carriera di una signora del Made in Italy che con i suoi abiti-bambola in cashmere, taffetas e organza, i suoi lini ajouré abbinati alle sue inconfondibili collane di corallo o di cammei, e la sua maglieria rivoluzionaria in cashmere, filato nobile di ascendenza british e da lei sdoganato nell’armadio della donna che lavora, ha fatto sognare generazioni di donne ‘normali’ che finalmente potevano essere eleganti e comode senza avere la silhouette di una mannequin da passerella. Il suo motto era qualità e praticità.

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“La nostra è una storia di famiglia che si intreccia con la nascita del Made in Italy, al quale mia madre ha dato un impulso determinante – spiega Lavinia Biagiotti Cigna Presidente e CEO di Biagiotti Group Spa – È una storia di lungimiranza e di visioni pionieristiche che ci hanno portati a essere i primi a sfilare in Cina portando la Moda Italiana nel Celeste Impero, e in Russia al Cremlino nel 1995. È una storia di arte e mecenatismo, costellata da importanti restauri e interventi a supporto della salvaguardia del patrimonio del nostro Paese. È una storia di valori testimoniata anche dal forte legame con il mondo dello sport.”

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Il film scorre veloce ma efficace attraverso le testimonianze di Santo Versace che ammira la sua determinazione, Vittorio Sgarbi che enfatizza la liaison fra Laura Biagiotti con l’arte e il mecenatismo attraverso la sua collezione di quadri di Balla, Massimiliano Rosolino, l’atleta medaglia olimpica di nuoto che sfilò per Laura Biagiotti in costume da bagno nel 2000 e che paragona Laura a un direttore d’orchestra, e poi Matteo Ceccarini, che curava le colonne sonore delle sue sfilate e che ricorda il suo spirito zen e il suo carattere multiforme aperto a tutte le manifestazioni culturali vicine al fashion. Non mancano Romina Power, Silvana Giacobini, Carla Fracci che ha sfilato per Laura Biagiotti a Milano nel Piccolo Teatro Studio, e Nancy Brilli, che ricorda come Laura Biagiotti riuscisse a vendere i suoi strepitosi modelli alle principesse arabe (fra le sue clienti anche Raissa Gorbaciov), perché la sua era una vera ‘alta moda in maglia’. Il suo segreto era sua figlia Lavinia che riusciva a darle sempre serenità. E poi la affiancava Gianni Cigna, padre di Lavinia, con il quale la grande creatrice di moda convolò a nozze nel 1991 per poi perderlo prematuramente nel 1996, l’anno in cui decise di restaurare il sipario sfarzoso in velluto del teatro ‘La fenice’ di Venezia, riportandolo agli antichi fasti dopo un infausto incendio. Negli anni Laura Biagiotti ha reso omaggio alla sua città non solo con il profumo ‘Roma’ racchiuso in un prezioso flacone disegnato dall’artista Peter Smith, un bestseller fra le fragranze griffate, ma anche restaurando la scala cordonata del Campidoglio, opera di Michelangelo, le fontane di Piazza Farnese ma soprattutto ha ristrutturato il castello Marco Simone di Guidonia nel 1978, anno del suo debutto a Milano Collezioni con la sua linea di ready-to-wear femminile, invitata a sfilare nella città della moda da Walter Albini e dal ‘ministro della moda italiana’ Beppe Modenese, padrino di battesimo degli shogun dello stile, gli stilisti milanesi alla conquista del mondo della moda mondiale.

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Dice Laura Biagiotti nel programma ‘King’ nel 1987: “ Oggi nella moda c’è troppo protagonismo e si perde di vista ciò che è la moda, qualcosa di divertente che però dà lavoro a tante persone, un’industria che fattura miliardi”. Laura Biagiotti è stata una visionaria, come ricorda la giovane e radiosa attrice Serena Rossi, voce narrante e protagonista del film che viene guidata da Lavinia Biagiotti Cigna attraverso le sale del castello a poche ore dalla sfilata autunno-inverno 2019-20, un antico maniero cinquecentesco tuttora quartier generale dell’azienda di famiglia, in un itinerario della memoria. Curiosa e coraggiosa, Laura Biagiotti dedicò la sua vita al suo lavoro che svolgeva con grazia e semplicità ma anche con un polso di ferro a livello imprenditoriale che le ha consentito, pur con molti sacrifici, di mantenere la proprietà nella sua famiglia, una vera e propria dinastia dello stile. La nonna di Lavinia e madre di Laura era Delia Biagiotti, un’altra pioniera che dopo essersi affermata in un’azienda editoriale decide, per stare vicino alla famiglia, di aprire un atelier a Roma in via Salaria. Delia fu una delle prime creatrici di moda italiane a disegnare le divise delle hostess Alitalia. Nei primi anni’60 la giovane Laura, allora studentessa di archeologia cristiana a Roma, muove i primi passi nel laboratorio sartoriale della mamma. “Decisi, dopo la laurea in Lettere Antiche, di seguire le orme di mia madre che mi mandò a fare la gavetta prima da Loewe e poi da altri grandi stilisti fino a quando nacque nel 1965 il gruppo Biagiotti con la Biagiotti Export e cominciammo a produrre il prȇt-à-porter di Emilio Schubert, Capucci, Litrico e Rocco Barocco”, si scopre nel documentario. E ancora:” Ho scelto la moda invece dell’archeologia perché mi avrebbe dato la possibilità di viaggiare e di conoscere gente nuova”. Parallelamente, per unire le sue due passioni, la moda e la sua famiglia, Laura Biagiotti rileva la tenuta Marco Simone di Guidonia alle porte di Roma, dove con Gianni Cigna crea la base del suo impero (oggi 90 milioni di euro di fatturato), divenendo la castellana della moda: nel maniero dell’undicesimo secolo, aristocratica magione della famiglia Cesi, visse anche Galileo Galilei. Con il suo restauro la stilista mecenate riportò alla luce degli affreschi di inestimabile valore. “Mia madre collezionava profumi, in questa sala ce ne sono oltre cinquemila esemplari con i flaconi originali di varie epoche storiche”, dice Lavinia nel film, guidando Serena Rossi in un tour che ripercorre il cuore pulsante della maison, dall’ufficio stile, alla sartoria, regno del ‘premier’ Filippo, decano dell’atelier che lavora da 50 anni per l’azienda, fino allo studio della madre. Laura Biagiotti è stata, insieme a Krizia, Alberta Ferretti, Rosita Missoni e alle sorelle Fendi, una delle prime donne imprenditrici di successo nella moda italiana, una delle ‘regine della moda’ come la definì nel 1985 Nora Villa nel suo libro ‘le regine della moda’ edito da Rizzoli. Era come dice di lei Sgarbi nel film: “una moderata in un plotone di estremisti come gli stilisti di moda, vestiva delle donne eleganti e borghesi come lei, e con Balla ha estetizzato la moda rinnovando il legame fra quest’ultima e l’arte”. Per usare le parole della grande stilista che ha vestito Mara Venier e Renzo Arbore, ma anche Sandra Mondaini, Gabriella Ferri, Pamela Villoresi, Raissa Gorbaciov e la moglie di Mubarak e che ha avuto il coraggio di convertire in beneficienza il compenso astronomico di Naomi Campbell che era arrivata, more solito, in clamoroso ritardo a una sua sfilata negli anni’90:“Preferisco essere una donna femminile che lavora in un mondo dominato dagli uomini, piuttosto che un uomo di serie B”. Una vera regina sì. Ma in fondo poi come ha scritto un grande poeta: ”Un cuore gentile vale più di mille corone”, un cuore che lei indubbiamente possedeva.

L’uomo senza gravità di Marco Bonfanti

L’uomo senza gravità di Marco Bonfanti

Di Enrico Maria Albamonte

Un film vibrante e illuminato sulla ‘sostenibile’ leggerezza dell’essere che mette le ali alla fantasia con la magia del cinema. In ‘l’uomo senza gravità’, prima preapertura della Festa del Cinema di Roma distribuito da Fandango, che sarà nelle sale dal 21 al 23 ottobre per poi passare dai primi di novembre sulla piattaforma Netflix che lo distribuirà in 190 paesi, il regista Marco Bonfanti mette in scena il dramma di un ‘super eroe sotto sopra’ alla ricerca della normalità. Il film è un gioiello di ironia e di cultura estetica e cinematografica. Tratto da un libro di Italo Calvino e interpretato da un Elio Germano in stato di grazia, questa pellicola rappresenta una fusione ideale fra sperimentazione romanticismo. Gli effetti speciali, realizzate fra gli altri anche dalla Edi Digitali Italiani, si sposano con atmosfere poetiche, montagne innevate, le strade di Calvenzano, le scenografie allestite in 3.500 location diverse, Cinecittà compresa.


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The actors Elio Germano (Oscar) and Silvia D'Amico (Agata) acting during a scene L’uomo senza gravità, director Marco Bonfanti, Dop Michele D’Attanasio. Italy-Belgium 2019


Dietro la leggerezza, che è la chiave di lettura del film, si cela Oscar (Elio Germano, David di Donatello e miglior attore al Festival di Cannes) è un bambino prodigio: riesce a volare e a fluttuare nell’aria. La madre sarta (Michela Cescon, David di Donatello e Nastro d’Argento come migliore attrice) è una donna ingenua e molto pura e la nonna (Elena Cotta coppa Volpi come migliore attrice) è una signora anziana molto grintosa che sa elevare il suo scetticismo a dogma. Oscar cresce in una bolla di vetro allevato ed educato dalla mamma e dalla nonna intransigente, finché incontra Agata una bambina amante dei super eroi che gli regala uno zainetto rosa, un pegno d’amore che il protagonista dai super poteri si porterà dietro come un talismano di felicità per tutta la vita. Risucchiato dalla macchina mediatica e dalla televisione che cannibalizza i sogni, Oscar rimane deluso dalla celebrità e decide di ritirarsi dalla scena fingendosi morto. Ma il bello deve ancora venire per lui.


The young actors Pietro Pescara (Oscar) and actress Jennifer Brokshi (Agata) acting during a scene L’uomo senza gravità, director Marco Bonfanti, Dop Michele D’Attanasio. Italy-Belgium 2019

The actors Elio Germano (Oscar) and Silvia D'Amico (Agata) acting during a scene L’uomo senza gravità, director Marco Bonfanti, Dop Michele D’Attanasio. Italy-Belgium 2019


La vicenda, divisa in fasi temporali, è una favola ancorata alla realtà che ripercorre 45 anni della storia personale del protagonista che muore e rinasce come l’araba fenice. Con garbo, con leggerezza appunto, si possono dire le cose bisbigliandole, perché in un mondo violento si può guardare la realtà più dura con gli occhioni teneri di Oscar e tutto può farti volare. Chi scrive è rimasto colpito da due aspetti tematici del film: la riflessione sull’identità maschile che passa per una nuova coscienza virile della propria vulnerabilità, finalmente accettata e metabolizzata, e una rappresentazione della televisione come metafora dell’apparenza. Se da un lato lo zaino simboleggia l’innocenza e la scuola che ci tiene ancorati alla realtà e con i piedi per terra ma anche l’amore (è legato ad Agata l’unica donna nella vita di Oscar che nella maturità è impersonata da Silvia d’Amico) il rosa, colore pop dell’ottimismo (la vie en rose) trasformato dai mass media nell’epitome del trash, rimanda a Dumbo ed è la risposta a un mondo pesante e aggressivo(qualche riferimento anche alla situazione politica attuale?). Oscar vuole volare ma tutti lo tengono giù, anche il suo agente, uno spregiudicato dottor Faust televisivo Vincent interpretato abbastanza bene da David Fedeli, che però rivela anche il suo lato umano. E veniamo al ruolo della televisione, altro fulcro tematico del film ambientato negli anni’80, l’epoca del Berlusconismo e della televisione rampante che azzera l’autenticità essendo solo ‘un bancomat che dà e toglie’. Dice Elio Germano del suo personaggio: “ Oscar non sa stare con i piedi per terra, ama scrivere, cerca di nascondere la sua diversità per essere accettato, e quando la mostra al mondo viene mercificato e la mercificazione è sempre una violenza, nel film grande sapienza registica e c’è una grande ricerca di semplicità dietro cui c’è però un lavoro complesso; io mi sono ritrovato appeso per ore a dei macchinari che il pubblico non potrà vedere, ma credetemi non è stato facile”. E la vita si sa è dura soprattutto per chi vuole affermare la ragione dei più deboli.


The actors Michela Cescon (Natalia) and Elio Germano (Oscar) acting during a scene L’uomo senza gravità, director Marco Bonfanti, Dop Michele D’Attanasio. Italy-Belgium 2019

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L’uomo senza gravità, director Marco Bonfanti, Dop Michele D’Attanasio. Italy-Belgium 2019

La favola Giap di Antonio Marras

La favola Giap di Antonio Marras

Di Enrico Maria Albamonte

“Ho voluto ricreare un ponte fra la mia terra, la Sardegna, e il Giappone attraverso la moda che è cultura, bellezza e artigianato. Ho scelto di sfilare al Teatro dell’Elfo perché qui ho compiuto la mia prima esperienza da regista di cui in questi giorni potete vedere gli esiti. Per la mia nuova collezione primavera-estate 2020 ho sviluppato il concetto del kimono ispirandomi alle stampe di Lucia Pescador e ai capi vintage orientali che ho sempre collezionato”, così Antonio Marras, lo stilista di Alghero famoso in tutto il mondo per il suo stile etno-chic, chiosa la sua ultima collezione femminile, affiancato dal figlio Efisio Marras che già disegna la linea più giovane dell’azienda. Più che una vera e propria sfilata quella di Antonio Marras è una performance teatrale, animata da ballerine e geishe dalle ipnotiche movenze che insieme alle modelle che sfilano sul palcoscenico formano suggestivi tableau vivants. I capi non si vedono in modo molto nitido ma sono sicuramente ricchi di soluzioni stilistiche di grande impatto e di sofisticata ricercatezza dalla vena glocal. Il nuovo nomadismo chic veleggia verso la favola giap della principessa Shiro innamorata del pastore Bangioi. Gli abiti fazzoletto si alternano al denim ricamato, i kimono di seta liquida scivolano piacevolmente sul corpo, alcuni completi sono in patchwork e alcuni calzoni pigiama sono ripresi alla caviglia, il rosa geranio si alterna all’azzurro più soave, il trench si avvicenda al completo tricot dai motivi geometrici, gli outfit in bianco e nero sembrano pennellati ad arte. Lampi di rosso e black per la sera che è il coronamento di una collezione complessa e fin troppo doviziosa dove il talento sartoriale e la sensibilità decorativa si stemperano nell’armonia compositiva, laddove il caos trova una ragion sufficiente nell’ordine intrinseco alla estetica magniloquente del grande creatore che ricordiamo con piacere come direttore creativo di Kenzo.

Il mood disco-glam de Le Piacentini

Il mood disco-glam de Le Piacentini

Di Enrico Maria Albamonte

Un diluvio di paillettes, un trionfo di spalmature effetto shiny, rasi lucenti, donne sensuali e globetrotter. La musa di Le Piacentini per la collezione di ready-to-wear primavera-estate 2020 disegnata dalle sorelle Alessandra e Francesca Piacentini è un’autentica falena che ama tutto ciò che luccica e disdegna le mezze misure. La collezione, giovane, fresca e iper glamour è giocata su gonne succinte o lunghe e ammicca ai favolosi anni’80. Quelli del leggendario Studio 54 di New York in cui lo stilista Halston e Andy Warhol si scatenavano nelle danze insieme a Bianca Jagger, Blondie, Liza Minnelli e Paloma Picasso. L’ispirazione nasce da una memorabile scena del cult-movie di Brian De Palma ‘Scarface’ in cui la splendida Michelle Pfeiffer, che vedremo al cinema in autunno nel nuovo capitolo di ‘Maleficent’ firmato Walt Disney, scende una scala fasciata da un provocante abito da sera a base di scolli abissali e spacchi ammalianti.



Ma nell’immaginario delle due designer romane c’è anche Farah Fawcett ai tempi delle ‘Charlie’s Angels’ e Sharon Tate, bellissima nei suoi completi sgargianti di satin giallo canarino. La collezione, ricca di tagli sartoriali, di languidi drappeggi e di dettagli smart come gli stivali a tacco alto in pelle bianca, è un inno alla gioia e si dipana attraverso una serie di giacche, pantaloni e gonne in paillettes da caveau, rese preziose da un diluvio di paillettes rebrodée con fili d’argento e perline molto glam rock.



Il capo must è l’abito più bodyconscious, presentato in molteplici versioni per sedurre e scandire il tempo delle donne dinamiche di oggi che viaggiano e lavorano senza rinunciare alla femminilità. I completi in denim metallizzato e in bouclé spalmato evocano un ologramma scintillante, il jersey e il raso più luminoso si declinano in capi dall’allure facile e contemporanea. Le Piacentini conferma la sua vocazione sartoriale con i ricami e i tagli arditi: le asimmetrie caratterizzano le tute sporty-chic e le bluse up-to-date. Molti capi sono fatti per valorizzare le donne dalla mattina alla sera grazie a una serie di key-items intercambiabili. Un guardaroba easy ma prezioso giocato sui più decisi contrasti cromatici: la palette alterna il rosa geranio al turchese e al giallo sole senza escludere il nero inchiostro più notturno e misterioso e un tocco di verde acqua. Un eveningwear destinato a una donna assertiva e seducente, romantica e un po’ gipsy nelle esuberanti mise sfrangiate boho-chic che definiscono un’anima nomade ma molto classy, assolutamente ageless.


L’erotismo emancipato di N.21

L’erotismo emancipato di N.21

Di Enrico Maria Albamonte

Asimmetrie, giochi di tagli sartoriali, colori squillanti o estremamente sommessi, linee fluide e calibrate ma anche morbidamente sensuali. La nuova collezione primavera-estate 2020 di N.21 presentata a Milano in via Archimede, nello spazio di Alessandro Dell’Acqua che oltre a essere direttore creativo di N.21 è anche stilista della maison Rochas, è un inno alla moda genderless: la sfilata è una co-ed, la prima realizzata in questa formula dal brand N.21. Il tema botanico dei primi exit, declinati sia al maschile che al femminile con il giromanica aperto ad asola sotto il braccio, cede lentamente il passo agli abiti drappeggiati per lei in rosa pallido e ad abiti in chiffon che diventano sottovesti quando perdono le maniche. Il verde smagliante in tonalità smeraldo domina le tuniche a rete ricamate di paillettes, il nylon stampato è virato in abiti paracadute, gli abiti da sera total black sono ornati da civettuoli nodi di lustrini e svelano la schiena nuda, le gonne plissettate sono metà in pelle e metà in chiffon. L’uomo, quasi sempre in bermuda, realizzati anche in materiali couture come il faille di seta lucido, sfoggia look rilassati e dégagé corredati da stivaletti, indossa camicie in cady con lunghi fiocchi e maglie spalmate di cristalli. Dice lo stilista commentando la sua ultima collezione: “Ho voluto una sfilata co-ed con le collezioni femminile e maschile perché mi interessa dare un’unità narrativa alla mia idea di moda. Credo che la Moda sia un concetto unico e globale e che soltanto chi indossa gli abiti che ne sono espressione la personalizza, cioè la rende del proprio genere e le trasferisce la propria personalità. E da questa convinzione è sempre partito il mio metodo di lavoro. Ecco perché la prima ispirazione di questa collezione è un senso di erotismo che si emancipa dalle espressioni esclusivamente sessuali e diventa un mezzo per parlare con il corpo. Ed ecco anche perché ho disegnato degli abiti uguali per la donna e per l’uomo, senza cadere nella trappola del no-gender ma facendo incontrare i due generi –femminile e maschile -nell’intreccio continuo delle referenze delle linee, dei volumi e dei tessuti”. E sicuramente la collezione corrisponde alle intenzioni dello stilista napoletano.