L’amicizia: le voci dell’antichità

L’amicizia è stata da secoli oggetto di riflessione da parte di pensatori e, naturalmente, educatori e ha costituito un notevole capitolo dell’etica. Di solito è stata considerata come un dato esperienziale ricco di vitalità e di significato.


Così, ad esempio, si esprime Cicerone:


«Godo a tal punto del ricordo della nostra amicizia da sembrarmi di essere stato felice solo per il fatto di essere vissuto con Scipione [si tratta di Scipione Emiliano, scomparso da poco]. Insieme abbiamo avuto lo stesso interesse per le occupazioni pubbliche e private, la stessa casa, la stessa esperienza di guerra; e soprattutto la massima armonia dei desideri, delle inclinazioni, delle idee: in ciò è tutta la forza dell’amicizia»


Il primo a trattare esplicitamente e con una certa vastità il tema dell’amicizia fu Aristotele.

È noto come l’etica aristotelica sia contraddistinta dal conseguimento della felicità per mezzo delle virtù, la maggiore delle quali è la theoria, cioè la contemplazione. Però tale conseguimento, che è proprio dell’individuo, non può avvenire senza un rapporto sociale: infatti l’uomo è, per sua natura, un animale sociale (animal politicum). Perciò è nella stessa natura dell’uomo che si fonda la capacità relazionale.


L’uomo, sociale per natura, concepisce dei fini che sono comuni ad altri uomini. Nell’aspirazione a un fine comune è da ricercarsi l’origine dell’amicizia e la sua specificità rispetto ad altri tipi di relazione umana. In concreto: essendo diversi gli scopi comuni che gli uomini possono desiderare di conseguire, se ne deduce che diverso sarà il modo di realizzare la reciproca convergenza. Questa, pertanto, sarà graduale, a seconda dello scopo inteso: il piacere, l’utilità e la virtù. Il tipo di relazione corrispondente alla virtù è il più profondo, perché in tale scopo viene annullato ogni sfruttamento egoistico, ogni strumentalizzazione: ognuno desidera che l’altro sia virtuoso e, quindi, consegua la felicità.


Concretizzando maggiormente questo ragionamento e salendo dal piano della natura a quello delle persone storicamente esistenti, Aristotele dice che l’amicizia è necessaria sia all’uomo che ha già raggiunto la felicità sia a colui che è infelice: nel primo caso perché questa stessa felicità si dispiega in una comunione gioiosa, nel secondo perché l’amicizia costituisce un conforto e un incoraggiamento.


Questa sintesi aristotelica costituisce quanto di meglio il pensiero dell’antichità precristiana ci abbia lasciato riguardo al nostro tema. All’interno di tale sintesi, altri due pensatori hanno accentuato alcuni particolari elementi, restando comunque al di sotto dello Stagirita: si tratta di Epicuro e del citato Cicerone.


La filosofia epicurea affronta soprattutto il problema morale e, in un periodo di notevole benessere e di grande sbandamento culturale (periodo molto simile al nostro … prima della crisi!), ripropone esplicitamente l’eterno problema della felicità. La felicità è l’«atarassia», la calma assoluta e soave, l’assenza della preoccupazione e degli affanni. Il criterio di giudizio per essere sicuri di camminare verso la felicità è il piacere, cioè l’assecondamento metodico e calcolato di ogni tendenza della natura. È a questo punto che s’inserisce la riflessione sul fenomeno dell’amicizia.


«Di tutte le cose che la saggezza offre agli uomini per la felicità della vita, la più grande è il conseguimento dell’amicizia». Dunque l’amicizia è considerata da Epicuro nel contesto della ricerca della felicità e del piacere. Ciò, se da una parte deve rendere cauti nel giudicare Epicuro come un filosofo volgare, dall’altra, rispetto alla posizione di Aristotele, comporta inevitabilmente una diminuzione della purezza dell’amicizia. Difatti Epicuro ben volentieri collega l’amicizia a un certo interesse, una certa utilità egoistica.


Al disinteresse assoluto come nota costitutiva della vera amicizia, invece, ritorna nuovamente Cicerone, che al nostro tema dedica un’intera opera filosofica, il Laelius. In quest’opera il grande oratore romano prospetta anche una definizione dell’amicizia: «omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio». Se, dunque, la benevolentia e la caritas sono delle qualità inalienabili dell’amicizia, questa non può essere caratterizzata dall’interesse e dal calcolo.


Cicerone, ancor più di Aristotele, accentua l’aspetto sentimentale, parlando dell’amicizia come di un’inclinazione dell’anima congiunta a un sentimento amoroso.

GUARDARE NELLA STESSA DIREZIONE – Una riflessione sull’amicizia

«Non camminare davanti a me» – dice l’anonimo cinese – «potrei non seguirti; non camminare dietro di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre amici».


Queste sensazioni riecheggiano nel verso di una canzone di Michel Pergolani, intitolata, appunto, L’amicizia: «L’amicizia vuol dire […] guardare nella stessa direzione».



L’amicizia è un fatto tipicamente umano: la sua struttura implica necessariamente un consenso d’intelligenze e di libere volontà. È possibile, al limite, l’amore fra un uomo e un oggetto inanimato (amore chiaramente unilaterale!), ma mai assolutamente un’amicizia. Ora, se si considera che la specificità dell’uomo nell’universo sperimentabile consiste nella conoscenza e nella libertà, vediamo come l’amicizia si inserisca perfettamente in questa condizione «naturale», cioè tipica di ogni essere umano.



La sfera psichica, si diceva all’inizio, comprende anche emozioni e sentimenti. Analizzata lungo i secoli, soprattutto a partire da Cartesio essa viene affrontata in una chiave più scientifica e sperimentale e diventerà oggetto di studio sempre più preciso e articolato.

Nella nostra società occidentale, nella quale i fenomeni di massificazione tendono ad aumentare in maniera nevrotica, si ha l’impressione che il valore dell’amicizia tenda a eclissarsi. Ciò è particolarmente evidente per molte persone anziane. Con lo spegnersi dell’eros e la scomparsa dei legami familiari, la loro principale risorsa affettiva potrebbe essere l’amicizia.

Purtroppo si nota come anche quest’ultima non venga molto apprezzata e, di conseguenza, coltivata nel vissuto contemporaneo, al punto che l’unica amicizia che rimane loro non è quella che si stabilisce con altri esseri umani, ma con gli animali domestici, soprattutto cani e gatti. Questo, di per sé, non ha nulla di sconveniente, anzi è un fatto molto bello, che ci richiama a una comunione con gli altri esseri della natura. Diventa, tuttavia, un’esperienza malinconica e perfino frustrante quando si riduce a un ripiego e a un surrogato dell’amicizia fra creature umane.

Un contributo alla soluzione di questo problema potrebbe venire da un percorso educativo e auto-educativo che, nella frenesia della vita moderna, privilegi il dialogo tra le persone.

È proprio la persona che esige un posto centrale nell’attuale cultura. Si tratta di sviluppare una soggettività che, adeguatamente provvista di autostima, si orienti a vivere con gli altri e per gli altri. Naturalmente ciò non prescinde dall’impegno per realizzare strutture politiche, sociali ed economiche sempre più giuste; ma la persona in quanto tale non si esaurisce in queste strutture. Solo nel volto dell’altro la persona trova risposta al proprio cammino. La sollecitudine per l’altro diventa la vera cifra di ogni civiltà. Forse in questo è possibile comprendere in che cosa consista la causa principale del disagio della modernità.

Un simile disagio è avvertito non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri. Sembra che il moltiplicarsi delle azioni, lo scintillio delle cose, i desideri artificialmente indotti, il potere dei mass-media, la fascinazione della realtà virtuale abbia preso il posto dell’ascolto interpersonale disinteressato. Invece solo la capacità di ascoltare l’altro è in grado di liberarci dall’arroganza e dal pregiudizio.

Cos’è l’amore? L’amicizia

Oltre all’affetto e all’eros, l’esperienza umana conosce una terza tipologia dell’amore: l’amicizia. Anche questo sentimento appare nell’età adolescenziale e si presenta con alcune caratteristiche dell’eros e altre simili all’affetto.


Con l’affetto condivide l’espansività: l’amicizia è un sentimento pluridirezionale, non si concentra su una sola persona, ma è capace di dilatarsi verso molti soggetti. Con l’eros condivide il senso di responsabilità: cioè è esigente.


Ma, a differenza degli altri due, l’amicizia prescinde quasi completamente dal dato biologico e sessuale, perché essa consiste in un orientamento personale intessuto di confidenza e di solidarietà, nel quale la componente razionale gioca un ruolo di primo piano. È una forma di amore più «spirituale» delle altre.


C’è, poi, un altro aspetto assolutamente indispensabile all’amicizia: la reciprocità. Si può vivere l’eros «a senso unico» e, almeno in parte, anche l’affetto: cioè è possibile innamorarsi di una persona senza che quest’ultima lo sappia e lo voglia; anche nell’affetto si vivono simili situazioni, cioè una forma di amore non (o non sempre) corrisposto, quale a volte quello dei genitori verso i figli. Invece non è possibile essere amici senza che i due (o più) lo sappiano e lo vogliano. La reciprocità rientra nella responsabilità imbevuta di razionalità.


Ovviamente, nella concretezza dei percorsi esistenziali queste forme di amore molte volte convivono, s’intrecciano, si condizionano e si completano reciprocamente. L’affetto, in tal modo, può sfociare nell’amicizia; questa può costituire l’anticamera dell’eros; l’eros, a sua volta, può assumere le modulazioni dell’affetto. Più difficile è passare dall’eros all’amicizia («Ma amici mai», cantava qualche anno fa Antonello Venditti), ma non è impossibile. Si può passare da una forma di amore all’altra: ma, appunto, è «altra». La riflessione teorica può aiutarci a comprendere meglio il vissuto, ad affrontarlo con maggiore chiarezza e ad intervenirvi con una consapevolezza più adeguata.


Se è vera, almeno a grandi linee, la descrizione dell’affettività finora proposta, appare chiaro che una delle principali caratteristiche dell’amicizia risiede nella facoltà di scegliere.


Laddove questa facoltà non si esprime, o si esprime poco, si parla preferibilmente di «compagni», non di amici. È il caso, ad esempio di una scolaresca: i compagni di scuola sono un gruppo nato non da una opzione reciproca, ma da una organizzazione. Lo stesso linguaggio viene usato in un’aggregazione nella quale il dato prevalente non è l’affettività, ma un’azione da compiere o un risultato da raggiungere: perciò si parla di «compagni di squadra», non di amici, perché lo scopo dell’aggregazione non è il rapporto tra le persone ma lo svolgimento di un’azione sportiva o di altro genere. In questo senso, molto illuminante è il linguaggio marxista: ciò che sarebbe dovuto prevalere è la trasformazione del mondo mediante il cambiamento radicale delle strutture economiche, anche attraverso un’azione violenta, perciò i militanti si chiamano compagni. Oggi questa parola ha subito un notevole slittamento semantico e, da espressione comunitaria, tende a rinchiudersi nel privato della coppia: «il mio compagno», «la mia compagna».


Gli amici, dunque, hanno la possibilità di scegliersi. Proprio questo particolare fa sì che l’amicizia sorga soprattutto nell’adolescenza. Tra bambini, infatti, prevale la compagnia, i «compagni di gioco».


L’amicizia consiste nella comunanza d’idee e nella condivisione dei valori, nella reciproca confidenza, nelle esperienze da compiere insieme, nell’accompagnamento psicologico che volentieri si esprime e si espande in un’ottica di gratuità, nel fattore evolutivo che segue il divenire delle persone.

Cos’è l’amore? L’eros

Durante la pubertà inizia a manifestarsi una particolare sfumatura dell’amore, cioè l’eros. Questa è un’esperienza che è stata preparata dallo sviluppo fisiologico e, in un primo momento, si presenta sotto la forma dell’attrazione sessuale, cioè un interesse verso le persone dell’altro sesso proprio in quanto dell’altro sesso.


È interessante notare come esista certamente un rapporto tra bambini e bambine; ma esso, nell’età della fanciullezza, si esprime prevalentemente come un coinvolgimento dei maschietti tra loro e delle femminucce tra loro. È proprio nel passaggio alla scuola media, cioè nella preadolescenza, che l’attenzione si sposta verso l’«altra metà del cielo».


L’attrazione sessuale è un dinamismo generico e diffuso: non si concentra su una sola persona, ma riguarda rispettivamente il mondo maschile e il mondo femminile in genere. Diverso, invece, sarà l’innamoramento: in questo caso l’attenzione si concentra su una persona precisa, così che non ci si innamora dell’uomo o della donna, ma di «questo» uomo o di «questa» donna singola.


Tali passaggi sono aspetti di un movimento psico-fisico nel quale la componente sessuale appare di fondamentale importanza. Ciò fa risaltare, in questo tipo di amore, un notevole coefficiente biologico.


Tutto ciò, oltre che dall’evidenza e dall’esperienza, è confermato anche da recenti studi di neurochimica, che trovano posto non solo sulle riviste specializzate ma anche sui più diffusi organi d’informazione. Ne dava notizia, ad esempio, il Corriere della Sera nel luglio 2010, commentando che «i facili amori estivi rischiano di esporre i neo-innamorati a un’esperienza che, dal punto di vista neurochimico, non è tanto diversa da quella del tossicodipendente che resta senza la sua dose».


Sotto questo profilo, l’eros è affine all’affetto: infatti anche l’esperienza dell’amore tra fratelli (nel senso primario della parola) si fonda su una base biologica. L’affetto, però, si espande verso altri soggetti sia nell’ambito della famiglia sia al di fuori di essa, a differenza dell’eros che, nel vertice dell’innamoramento, tende a escludere altri. È, cioè, un amore selettivo, anzi esclusivo. Segno di questa esclusività è la gelosia: un’appartenenza, che esprime l’esigenza di fedeltà, non tollera interferenze e non ammette di condividere il sentimento con terzi, anzi non consente nemmeno che si compiano i gesti simbolici che esprimono e potenziano tale sentimento. È un tipo d’amore nel quale tende a prevalere la logica della totalità.


Un’altra differenza rispetto all’affetto consiste nel fatto che l’eros è estremamente esigente: richiede un impegno personale molto intenso, una donazione totale o tendente alla totalità, una responsabilità nei confronti dell’altro che mobilita in maniera unica la concentrazione fisica e mentale dei soggetti coinvolti.


L’eros irrompe nella vita dell’adolescente e lo conquista, attuando e valorizzando le componenti della sua personalità, suscitando in lui/lei un’energia psichica inattesa, un coraggio insospettabile, una vitalità mai provata in precedenza. Non a caso le antiche mitologie consideravano questa specie di amore come un dio, cioè qualcuno/qualcosa a cui non si è in grado di resistere. In alcune raffigurazioni artistiche, poi, il dio appariva armato di arco e frecce e con gli occhi bendati: chiara allusione all’imprevedibilità e alla spontaneità di un simile sentimento amoroso, la cui sensazione è come quella di una ferita, una sensazione che ti cattura dall’interno, ti svuota da qualsiasi altro interesse e, se non trova una corrispondenza, ti prostra profondamente.


Spontaneità si diceva. Infatti non si può scegliere a mente fredda di innamorarsi di una persona. È un fenomeno che accade all’improvviso, senza una motivazione razionale che sia in grado di fornire una spiegazione sufficiente. Non si sceglie eros: si è scelti da eros.

Cos’è l’amore? L’affetto

Nel 1968, dopo il fallimento della Primavera di Praga sotto l’avanzata dei carri armati sovietici, un giornalista occidentale chiese a un cittadino ceco: «Per voi i russi cosa sono?». Il giornalista si aspettava una serie di parolacce, quali «despoti, tiranni, dittatori» e via imprecando. Invece il ceco candidamente rispose: «Sono dei fratelli» e per lo stupito interlocutore aggiunse la spiegazione: «Infatti i fratelli non si possono scegliere!».


Questa barzelletta, come ogni storiella, nasconde una grande verità: al di là della contingenza storica che un giovane di oggi forse neppure conosce, si impone il grande valore che «i fratelli non si possono scegliere». Essi, infatti, ci vengono dati dai genitori e consegnati alla nostra cura, come noi veniamo affidati alla loro.


Anche quando il concetto di fratellanza si amplia e assume significati metaforici e simbolici, questo aspetto non viene meno. Se, ad esempio, nell’ottica cristiana si parla di «fratelli», ciò significa che il credente dovrà accogliere tutti perché tutte le persone gli sono state affidate da Dio; oppure la fratellanza umanistica e illuministica esprime tale concetto evidenziando come tutti apparteniamo ad un’unica «famiglia» umana, cioè a qualcosa che precede i singoli e le scelte che essi possano compiere nella loro vita; oggi di grande attualità appare l’esperienza della «fraternità musulmana», che sottintende una condivisione religioso-politica a prescindere da eventuali sfumature, come quelle che si stanno verificando in questi anni nella politica interna ed estera di tanti paesi del Medio Oriente.


Il sentimento che unisce i fratelli è l’affetto. Esso è un tipo di amore.

Gli altri tipi principali sono l’eros e l’amicizia.


Ora, tutte e tre queste esperienze convergono nel fatto che, appunto, sono amore. E amore significa benevolenza, cioè voler bene. E voler bene significa volere «il» bene di qualcosa o di qualcuno. Se, ad esempio, io amo la mia patria, desidero il suo bene; così pure, se amo la mia squadra del cuore, desidero che vinca il campionato o che, almeno, non sia declassata nelle serie inferiori.


Naturalmente, nella concretezza della vita, l’amore, nelle sue varie forme, è una mescolanza di energie centripete ed energie centrifughe, di bisogno e di dono, di egoismo e altruismo. La realtà, cioè lo stimolo esterno, arriva alla nostra coscienza e stimola in noi non solo una conoscenza, ma anche una reazione emotiva, cioè una risonanza immediata alle sollecitazioni. L’individuo si adatta alla realtà, elaborando una risposta sempre più strutturata.


La costruzione della personalità si articola, dunque, non solo in base ad un quadro teorico di valori conosciuti, ma anche (e forse soprattutto) grazie ad un intreccio di sentimenti che si sviluppano dalla sfera istintiva a quella emotiva. Si genera, così, un dinamismo formato da simpatia, accoglienza, tenerezza, attenzione, protezione, impegno, intimità, completamento e arricchimento personale, esigenza di donazione, che supera l’indifferenza, modera l’aggressività e contribuisce fortemente alla maturazione psicologica.


Il sentimento di amore che s’instaura tra fratelli, dicevamo, è l’affetto. Esso consiste, anzitutto, nell’esperienza della familiarità, cioè nel ritmo di scambi poco esigenti, quasi «dati per scontati», che si colorano di semplicità, di umiltà, di quotidianità. È un sentimento eterogeneo, cioè tiene poco conto delle differenziazioni sessuali, e tendenzialmente universale, cioè si orienta non solo verso i parenti, ma anche verso persone con cui si entra in rapporto più o meno occasionale, senza che si stabiliscano particolari attese o richieste.

L’amicizia nel disagio della modernità

Indubbiamente il contesto sociale e tecnologico incide sulla qualità dei rapporti, anche di quelli amicali. Neppure i sentimenti più profondi riescono a sfuggire a tante circostanze esteriori sfavorevoli. Senza per questo trasformarsi in barbosi laudatores temporis acti, è evidente che, quando esistevano ancora dei borghi pieni di cortili e di piccole aree verdi, con le botteghe del droghiere e le osterie di una volta, senza l’assordante rumore del traffico e dei rischi che esso comporta, era molto più facile incontrarsi e socializzare, condividendo tempi più distesi e spazi più conviviali.


Di questo squilibrio risente tanto l’affetto quanto l’amicizia quanto l’eros. Difatti, anche queste esperienze profondamente umane subiscono le conseguenze dei ritmi convulsi e spersonalizzanti della società di massa e del dilagare della comunicazione virtuale.


Un certo inaridimento dell’insieme dei rapporti sociali non favorisce quel tipo di rapporti che si appellano all’amore. E, d’altra parte, proprio questo inaridimento spinge a ricercare tali rapporti, che non si limitano a concetti utilitaristici e strumentali o addirittura basati su egoismo e furbizia, calcolo e opportunismo.


Tale fenomeno era già stato intuito da intellettuali e poeti. Pensiamo, ad esempio, ad Antoine de Saint-Exupéry quando nel 1943, alla vigilia della nostra società globalizzata, scriveva il suo capolavoro, Il Piccolo Principe. In quella favola di straordinaria intensità, ad un certo punto una volpe chiede al principe di poter entrare nella sua vita: «Gli uomini» – dice la volpe- «non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma, siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami».


Forse anche una dilagante mentalità pedagogica, incentrata sulla soddisfazione immediata dei desideri o perfino dei capricci, contribuisce alla formazione di una società meno amichevole, così da privilegiare obiettivi inautentici se non perfino nocivi e, viceversa, trascurare le persone e le loro realtà.


L’amicizia, come e più di ogni altra forma di amore, non è un dato acquisito una volta per sempre, ma un processo: e, come tale, richiede tempo, impegno, investimento di energie e di speranze. La mancata attenzione verso di essa si traduce in una sorta di rachitismo spirituale, in una graduale dissoluzione dei rapporti sociali, in una dispersione progressiva e inarrestabile delle potenzialità psicologiche più autentiche e profonde.


L’amicizia si colloca ai livelli superiori della consapevolezza e della scelta esistenziale; nondimeno anche il contesto culturale complessivo può incidere più o meno profondamente su di essa, sino ad indebolirla o comunque a non favorirla, come un seme che, pur avendo in sé il principio del proprio sviluppo, ha bisogno di un terreno adatto per attecchire e fruttificare. La fiducia è il vero terreno di coltura dell’amicizia.


L’amicizia, a sua volta, crea un ambiente amabile e fiducioso, sicuro, sereno; genera un clima che non solo rende possibile un’adeguata comunicazione tra le persone, ma si riflette all’interno dei nuclei familiari, favorendo il dialogo tra i coniugi e con i figli.


A partire da questa dimensione familiare, tipica anche dell’affetto, l’amicizia si manifesta anche come una «virtù politica», tale da favorire la costruzione di convivenze ordinate e felici, educando gli individui alla socializzazione e alla relazionalità. Essa è un «luogo» di fondazione del politico stesso.


Formidabile, in questo senso, fu l’intuizione dei pensatori illuministi che la società non poteva basarsi solo sull’uguaglianza e sulla libertà. Occorreva un altro principio, la fraternità, cioè il rapporto tra le persone concrete che formano un insieme sociale. Se, come dicevamo all’inizio, tale fratellanza presuppone il fatto di non poter scegliere, la capacità di entrare in relazione con gli altri in modo costruttivo è invece affidata alla libera decisione di ognuno: una realtà, perciò, del tutto simile all’amicizia.


Alla luce del percorso storico che, soprattutto nell’Occidente, si è compiuto a partire dall’illuminismo, possiamo affermare senza ombra di dubbio che i tentativi di realizzare la libertà e l’uguaglianza sono stati molto più numerosi ed efficaci di quelli miranti a realizzare la fraternità amichevole. Basti pensare alla grande rivoluzione liberale dell’Ottocento e al socialismo-comunismo del Novecento per rendersi conto di come il terzo valore della Rivoluzione Francese attenda ancora un movimento capace di incarnarlo e proporlo veramente all’ordine del giorno di una prassi politica e culturale.


La forza politica e comunitaria dell’amicizia non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva.


Dal passato è possibile attingere stimoli ed esperienze: pensiamo, tra l’altro, al modello epicureo e a quello filantropico dello stoicismo; alla fraternità di Francesco d’Assisi e delle confraternite medioevali; al pensiero erasmiano e a quello di Campanella fino ai socialisti utopistici e al comunitarismo. C’è, dunque, ancora tanta strada da percorrere per psicologi, pedagogisti, educatori e operatori culturali, affinché «un’amicizia si faccia politica».

Il Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio

Strano percorso quello delle opere di Caravaggio: alcune sono ultra documentate, di altre invece sappiamo quasi niente.

Uno dei più grandi artisti di tutti tempi (e oggi in assoluto il più “gettonato” presso l’opinione pubblica) nacque a Milano nel 1571. Il suo nome è Michelangelo Merisi e sarà universalmente noto con il nome della piccola città lombarda, Caravaggio appunto, della quale la famiglia era originaria. In Milano frequentò la bottega del pittore Simone Peterzano, uno degli artisti che in quegli anni collaborava con l’arcivescovo Carlo Borromeo nel proporre un’iconografia secondo le indicazioni del concilio di Trento, da poco concluso.

Intorno all’età di venti anni, il Merisi lascia la Lombardia e si trasferisce a Roma. Qui si farà conoscere e apprezzare per una serie di opere, che gli meriteranno l’incarico di decorare con le Storie di San Matteo la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi in occasione del giubileo del 1600. A questa importante commessa seguì quella per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, quella della Cappella Cavalieri in Sant’Agostino e diverse altre.


Ma, come si diceva, mentre i suddetti incarichi sono ben documentati, una serie di altri dipinti non è accompagnata da alcuna testimonianza scritta. Il Riposo durante la fuga in Egitto appartiene a questo secondo gruppo.

L’opera, attualmente custodita nella Galleria Doria Pamphilj di Roma, potrebbe risalire agli ultimi anni del Cinquecento, quando il giovane pittore stava acquistando fama nella Città Eterna. Non si sa niente riguardo al committente né alla destinazione: forse per un altare in una chiesa o per la cappella in un palazzo. A dispetto di questa mancanza d’informazioni, però, ci troviamo davanti a un capolavoro di straordinaria bellezza e di eccezionale immediatezza comunicativa.

Il soggetto raffigurato è un episodio che non si trova nei Vangeli, ma solo negli scritti apocrifi, che sono libri non approvati dalla Chiesa ma che hanno avuto un grande influsso nella predicazione e nell’arte: durante la fuga in Egitto, la Santa Famiglia si ferma per una sosta. Ne parla il cosiddetto Pseudo Vangelo di Matteo, il quale dedica quattro capitoli al viaggio compiuto dai profughi di Nazareth per mettersi in salvo da Erode che voleva uccidere il bambino e, perciò, aveva decretato la strage degli innocenti. Ecco il testo dello Pseudo Matteo:


Il Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio


«Giunti a una certa grotta, volevano riposarsi in essa e la beata Maria discese dal giumento e, seduta, teneva il fanciullo Gesù nel suo grembo. […] Nel terzo giorno di viaggio avvenne che la beata Maria, stanca per il troppo calore del sole nel deserto, vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: “Mi riparerò alquanto all’ombra di questo albero”. Giuseppe dunque la condusse premuroso presso la palma e la fece scendere dal giumento» (Ps Mt 18,1; 20,1).

L’arte medievale e soprattutto rinascimentale aveva già magnificamente illustrato l’episodio: basti pensare ad alcuni quadri di pittori fiamminghi o, più vicini al Nostro, i bellissimi dipinti del Correggio (1520) e del Barocci (1573). Anche grazie al confronto con questi illustri precedenti, il quadro di Caravaggio si presenta come una profonda sintesi di arte popolare e arte classica greco-romana. Il pittore riprende i simboli che la tradizione aveva elaborato per descrivere l’avvenimento, ma li rielabora, così da ottenere una scena originale.

La sosta, sembra dire il Merisi, è una pausa necessaria per il riposo: non è né la solenne contemplazione del mistero (come in Correggio) né un gioco a contatto con la natura (come nel Barocci). Sulla destra, infatti, vediamo la Madonna vinta dalla stanchezza, che, letteralmente, crolla in preda al sonno. Sedutasi sotto l’albero, è dolcemente piombata nel torpore: la testa si reclina su quella del neonato e la mano destra scivola in giù.


Allora, per assecondare il riposo della giovane madre e del bambino, un angelo scende dal cielo e inizia a suonare un’armonia divina, mentre San Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino spalanca il grande occhio di fronte a tanta meraviglia. Alcuni studiosi sono riusciti perfino a decifrare la melodia: si tratta di un brano del fiammingo Noel Baldewijn, che era stato pubblicato in Italia nel 1519. Le parole sono prese dal Cantico dei Cantici: «Quam pulchra es et quam decora … Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, piena di delizie!». Sono le parole che, nel libro biblico, lo sposo dice alla sposa. Qui, riprendendo un antico simbolismo, è Dio stesso che le rivolge a Maria, sua “sposa” e madre del suo Figlio incarnato.

Caravaggio realizza un ambiente; e anche in questo non fa altro che riprendere uno schema precedente, quello di una scena sacra inserita in un paesaggio. Ma egli sottolinea con vigore il significato simbolico delle piante. Come già altri prima di lui, toglie la palma di cui parlava lo Pseudo Matteo a favore della quercia, accanto alla quale sorge una pianta di alloro; il braccio sinistro di Maria sfiora un cespuglio di spine, mentre ai suoi piedi compaiono il cardo e il tassobarbasso; l’intera scena, poi, appare inquadrata tra uno stelo di grano a destra e una piccola damigiana di vino a sinistra. Questo insieme di particolari crea uno straordinario messaggio simbolico, che allude al mistero della sofferenza di Gesù (le spine e il cardo) e al suo glorioso trionfo nella risurrezione (l’alloro, la quercia e il tassobarbasso), che il mistero eucaristico continuamente rappresenta e ripresenta.


Guardando l’intera composizione, notiamo che da sinistra a destra si evidenzia un cammino qualitativo, che va dagli esseri inanimati (le pietre, il sacco, il vino) all’animale all’uomo all’angelo al divino e dall’aridità della terra alla natura rigogliosa: è il cammino della salvezza.

Tra i personaggi e con l’ambiente si stabilisce una profonda comunione, al punto che quasi non c’è spazio tra le figure.

Al di là del grande valore estetico, il quadro propone un messaggio di straordinaria importanza. Ciò che vediamo è una famiglia, colta in un momento di riposo ma in una situazione di difficoltà. Sembra che il triste inverno della violenza abbia il sopravvento. Ma non dimentichiamo che l’angelo di Caravaggio ha le ali di una rondine: è l’annunzio di una primavera di libertà e di speranza.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio letterario

Parte II



Vivere la pazzia: Enrico IV di Luigi Pirandello


L’autore che forse più di tutti ha meditato sulla follia e, anzi, l’ha assunta come strumento di analisi della realtà è Luigi Pirandello, celebre scrittore italiano, nato ad Agrigento in Sicilia nel 1867 e morto a Roma nel 1936.


Non c’è nulla di fisso e immutabile nella realtà: questa è l’amara riflessione di Pirandello. L’uomo è finzione e la sua vita scorre tra incubo e sogno. Siamo costretti dalla società ad assumere dei ruoli e delle caratteristiche che non vorremmo; siamo costretti, tutti, a indossare una «maschera», un’immagine fittizia in contrasto con i nostri reali sentimenti e le naturali inclinazioni. Compito dell’arte, e del teatro in particolare, è quello di «denudare» e «smascherare» le nostre persone per far emergere l’irrazionalità e la contraddizione insita nella stessa realtà.


Attraverso le sue opere, il grande scrittore siciliano si applica nell’osservazione delle abitudini umane, rilevando l’illogica condotta degli uomini che non di rado raggiunge il paradossale e il grottesco. Enrico IV è uno di questi testi, tra i più belli e famosi.


La vicenda vede protagonista un uomo, di cui ignoriamo il nome, che è uscito di senno in seguito ad una caduta durante una cavalcata in costume. In quell’avvenimento, accaduto venti anni prima, egli impersonava l’imperatore di Germania che, nel lontano Medio Evo, aveva polemizzato con il papa Gregorio VII ed era stato da questi umiliato prima di essere ricevuto nel castello di Canossa grazie alla mediazione della contessa Matilde. Per tutti questi anni, dunque, il protagonista è stato considerato pazzo; ma, tornato d’un tratto alla ragione, si rende conto di essere escluso dal mondo degli affetti di quanti lo circondano: anzi, ha ricordato perfettamente che la caduta era stata causata dal suo rivale in amore, Tito Belcredi, che gli ha rubato l’amore di Matilde Spina e l’ha sposata. Perciò preferisce continuare a farsi credere pazzo, per poter osservare la vita e la sua illogica condizione come dal di fuori, ma anche per poter agire «in verità».


Il dramma, in tre atti, è ambientato nella villa del signore impazzito addobbata come la sala del trono dell’imperatore medievale. Anche i vari personaggi, pur avendo nomi moderni, vengono da lui chiamati, e si chiamano tra loro, con appellativi antichi: Lolo si chiama Landolfo, Franco prende il nome di Arialdo e così via, in un crescendo di finzioni e di maschere.


Nel primo atto vengono introdotti gli ospiti: donna Matilde Spina con la figlia diciannovenne Frida, il marchese Carlo Di Nolli e il barone Tito Belcredi, cui si aggiunge il dottor Dionisio Genoni, un medico incaricato di cercare una soluzione per la malattia mentale del padrone di casa. Il medico suggerisce che, per far guarire l’infermo, si potrebbe ricostruire la scena durante la quale accadde il sinistro. Agli occhi di Enrico, essi sono personaggi del Medio Evo: Matilde di Canossa, Ugo di Cluny, Pietro Damiani, la duchessa Adelaide e via … mascherando. Il dialogo che si stabilisce tra loro e con il protagonista è tutto incentrato sull’ambiguità del linguaggio, sull’equivoco delle identità, sul mutamento delle cose.


Nel corso del secondo atto viene allestita la scena, secondo i suggerimenti del dottore, per riproporre la situazione che anni prima aveva causato la follia del padrone di casa. La figura di Matilde di Canossa, però, non può essere interpretata dalla Spina, ormai avanti negli anni. Il ruolo, perciò, viene affidato a Frida, identica alla madre da giovane, il cui ritratto fa bella mostra nella sala. La ragazza in un primo momento sta al gioco, ma presto si rende conto che sarà lei al centro dell’attenzione di Enrico, il «pazzo». E in effetti intorno all’amore per Frida, ritenuta Matilde, si stabilisce un intenso dialogo tra Enrico e la signora Spina, ritenuta la madre di Matilde, in un crescendo di allusioni, dubbi, sospetti. La tensione cresce di tono, fino a quando, usciti tutti, il protagonista resta solo con un valletto:

ENRICO: Non capisci? Non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti, buffoni spaventati! E si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro addosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di far il pazzo!


Alla fine del secondo atto, pertanto, lo spettatore è avvertito che Enrico è cosciente della propria pazzia. Dunque, non è pazzo, ma si finge tale per mettere in esecuzione un disegno che ha preso posto nella sua mente forse già da anni: vendicarsi di quanto era successo tanto tempo prima.


ENRICO: Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare. […] Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni.


Il dramma raggiunge l’esasperazione. Da una parte Enrico si abbandona a un’amara riflessione filosofica sull’incapacità degli esseri umani di comunicare tra loro in una condizione di verità; dall’altra, ormai ha maturato una terribile decisione.


Giungiamo, così, al terzo atto. Tutto si svela:

ENRICO: Già. Ma vedi? È che, cadendo da cavallo e battendo la testa, fui pazzo per davvero, io, non so per quanto tempo … circa dodici anni. (Rivolto a Belcredi) E non vedere più nulla di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono; il posto preso da altri, per esempio … che so! Ma supponi nel cuore della donna che tu amavi; e chi era morto; e chi era scomparso … tutto questo, sai? Non è stata mica una burla per me, come a te pare!


Poi, un giorno, all’improvviso gli tornò il senno:


ENRICO: E allora, dottore, vedete se il caso non è veramente nuovo negli annali della pazzia! – preferii restar pazzo. Viverla – con la più lucida coscienza – la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d’un sasso che m’aveva ammaccata la testa. […] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo qua; e lo faccio, quieto! – Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia.


In uno slancio allucinato Enrico sguaina la spada e ferisce a morte Belcredi, consumando in tal modo la vendetta. Infine continua a fingersi pazzo, sfuggendo così anche alle responsabilità di fronte alla legge. Il sipario cala sulla crudele soddisfazione di un uomo isolato, che ha trovato nella follia la chiave d’interpretazione più autentica della realtà.


In Pirandello, dunque, il sonno della ragione non genera i mostri. Anzi! È la ragione a essere imprigionata nelle convenzioni e a diventare, perciò, incapace di comprendere la verità. La falsità è nella struttura stessa delle cose. Solo la pazzia ci rende sinceri, perché costituisce un punto di rottura con l’apparenza: il sonno della ragione, pertanto, permette di vedere i mostri che regnano in noi e attorno a noi.


L’assopimento della ragione resta con tutta la sua ambiguità e relatività. Esso è capace di dare vita alle ombre. Ma è anche in grado di proiettare luce sulle ombre della vita. Ancora una volta, tutto torna nelle mani e nella responsabilità della persona. Tutto torna al mistero della libertà. Ogni generazione umana dovrà guardare in faccia i «mostri» che eredita dalle precedenti e sarà chiamata a liberarsene. Utilissima sarà la ragione. Utilissimo sarà anche il suo sonno. Perché, shakespirianamente, sempre ci saranno più cose in cielo e in terra di quante ne possa contenere la nostra filosofia.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio letterario

Il fiume di Virginia Woolf


Virginia Woolf chiuse i suoi giorni terreni con un suicidio: era il 28 marzo 1941. La scrittrice inglese era nata a Londra nel 1882. Fin dall’infanzia, essendo figlia del critico sir Leslie Stephen, aveva respirato in famiglia un’atmosfera culturalmente elevata. In età adolescenziale, dopo la morte della madre, iniziò a manifestare atteggiamenti di ribellione nei confronti del padre e, nello stesso tempo, della mentalità dominante che voleva la donna sottomessa all’uomo e relegata tra le pareti domestiche. Sposò Leonard Woolf, un editore, con il quale andò a vivere a Bloomsbury: presso la loro abitazione si raccolse un gruppo d’intellettuali fortemente critico nei confronti della morale borghese della cosiddetta «società vittoriana». La Woolf scrisse romanzi e racconti, anche come forma di rimedio ad alcuni problemi mentali che la stavano progressivamente interessando. Sotto l’aspetto stilistico, se i suoi primi scritti sono ancora in una linea tradizionale, con Monday or Tuesday e Jacob’s room iniziano ad evidenziarsi i motivi e i ritmi autobiografici che caratterizzeranno le sue opere maggiori.


Virginia Woolf fu una delle prime scrittrici femministe sia in senso politico (tra l’altro, sostenne il movimento per il voto alle donne) sia soprattutto in senso culturale. Mrs Dalloway, Orlando e To the lighthouse sono i testi della sua maturità: pur riecheggiando l’influsso di James Joyce, essi presentano un’impronta personale, che si esprime in un’ampia struttura, un impianto classico, un linguaggio musicale. Fin dai titoli, estremamente semplici, la Woolf manifesta la consapevolezza di voler mostrare la potenza simbolica in cose e persone apparentemente «quotidiane». Gli eventi più semplici fanno parte del ritmo universale della vita.


La scrittrice era afflitta da turbe psichiche, ansie e paure. Tra una crisi e l’altra, nonostante forti debilitazioni, riuscì a comporre molti testi. Anzi, a una sua amica scrisse: «La pazzia è una cosa terrificante, da scongiurare, ma nella sua tempesta di lava io trovo la maggior parte delle cose che scrivo». Questi suoi smarrimenti aumentarono con lo scoppio della seconda guerra mondiale e i bombardamenti tedeschi su Londra. Virginia avvertì che un intero mondo stava per scomparire e ne stava nascendo uno nuovo, fatto di cattiveria e di violenza, e di fronte al quale si sentì impotente. Questa consapevolezza costituì l’ultima spinta verso il suicidio.


Tra le sue opere principali, emerge Mrs Dalloway, libro che vide la luce nel 1925.


La protagonista è Clarissa, una donna della società londinese, moglie di un conservatore, che sostiene i principi tradizionali della politica e ha una sua visione dei diritti della donna. In Clarissa sorgono sentimenti opposti a quelli del marito: infatti avverte un bisogno di libertà e di indipendenza e diventa sempre più cosciente di quanto la condizione femminile abbia bisogno di riscatto e di dignità. Perseverando, tuttavia, nel suo stile di vita fatto di rapporti sociali superficiali e vuoti, Clarissa entra in conflitto con se stessa. Apparentemente felice e perfetta, in realtà si addentra in un tunnel di tristezza e d’insoddisfazione, che si esprime anche nella sfera affettiva ed emozionale. La donna si sente soffocare in questa situazione di ambiguità e di frustrazione e prende sempre più coscienza di vivere una vita diversa da quella che vorrebbe.


Tutta la vicenda del romanzo è racchiusa in un giorno di giugno del 1923. La signora Dalloway si reca a comprare dei fiori per un ricevimento che ha intenzione di dare la stessa sera. All’improvviso, distratta da un’auto che passa rumorosamente per la strada, vede Septimus, un veterano della prima guerra mondiale, che sta passeggiando con la moglie Lucrezia. L’uomo, essendo afflitto da turbe mentali, è costretto a frequentare uno psicologo. Dopo aver comprato i fiori, la protagonista torna a casa, dove riceve la visita inaspettata di un amico d’infanzia; questi, a sua volta, incontrerà la coppia precedente dallo psicologo. Septimus, in seguito alla visita medica, dovrà essere rinchiuso in una clinica; ma egli preferisce suicidarsi sotto gli occhi della moglie. Poco più tardi, ha inizio il party di Clarissa, al quale partecipa anche lo psicologo, in ritardo a causa del suicidio di Septimus. Appresa la notizia della morte di lui, la protagonista del romanzo, pur non conoscendolo personalmente, prova una forte inquietudine e si riconosce nella vicenda del suicida. È questo decesso a svegliarla dal delirio onirico nel quale stava precipitando in modo permanente e suscita in lei una profonda meditazione sulla morte.


Come si vede, dunque, la trama del racconto è estremamente ridotta. In una prima parte del libro, Clarissa è presentata mentre passeggia per le vie di Londra, tutta presa dai ricordi di parenti e amici. L’autrice si concentra sui monologhi interiori della protagonista, i moments of being: qualsiasi oggetto contiene in sé la chiave per avviare le nostre memorie. Così anche una foglia che cade dall’albero suscita in Clarissa il ricordo della sua passione per la danza o per le cavalcate in campagna. È un flusso continuo, il cosiddetto «flusso di coscienza», profondamente introspettivo: tutto ciò che, come un fiume, passa nella mente della protagonista in questo breve segmento di tempo è il vero soggetto del racconto. Continuità e discontinuità, memoria e progetto, coscienza del tempo, fissità e divenire, volontà di potenza e consapevolezza di fragilità, i «no» accumulati e la perdita delle speranze, …


Man mano che ci si addentra nel racconto, appaiono i vari personaggi che, nell’insieme, formano quella società borghese della quale la Woolf era parte integrante ma dalla quale cercava di prendere le distanze. Clarissa «è» Virginia. Ella incarna quella società inglese di inizio Novecento, con i pregi e i difetti; è un prodotto tipico di quella cultura, ma lei vive questa appartenenza con un senso di angoscia. Avverte la frustrazione di un ruolo sociale che non riesce più a condividere. Avverte un conflitto lacerante con se stessa e con il mondo di valori che è stata costretta a rappresentare.


Coprotagonista è Septimus. Anzi, potremmo considerarlo un alter-ego della protagonista. In lui Clarissa-Virginia trova lo sfogo da se stessa e dal proprio «mostro» interiore: Septimus, una figura degna di Shakespeare, è sull’orlo della follia e precipita in una solitudine sempre più oscura.


Altro personaggio è Sally, una donna verso la quale Clarissa sente attrazione. Il suo carattere ribelle e privo di regole esercita un fascino misterioso e potente su di lei. Eppure Sally ha sposato un uomo di umili condizioni; perciò Clarissa non la va a visitare. Contraddizioni che si accumulano e s’intrecciano nella straordinaria partitura della narrazione.


Altri personaggi, altre contraddizioni: Clarissa è stata innamorata di Peter Walsh, ma ha sposato Richard Dalloway. Il primo è uno spirito libero, il secondo è ricco, nobile e ben inserito nella società. Ancora: la signora Kilman, insegnante della figlia, con la sua cieca fiducia in Dio, rappresentante di una religione esteriore e dispotica. E potremmo continuare, proprio come il fiume di ricordi e di sensazioni che fanno pressione nella coscienza di Clarissa.


Ebbene, proprio in questo «carcere» nel quale Clarissa vive e agisce, irrompe il mondo reale con la notizia della morte di Septimus, «uno sconosciuto, forse un folle, morto gettandosi dalla finestra». Ecco, un folle! È grazie alla follia del suicida che Clarissa prende coscienza della follia dorata e contraddittoria nella quale lei è immersa.


Il sonno della ragione ha generato, sì, il mostro del suicidio, ma anche la presa di coscienza di un’universale vulnerabilità, il punto terminale di un percorso.


Identificandosi con le sue creature letterarie, qualche giorno prima della morte Virginia Woolf scrisse al marito: «Carissimo, sento proprio che sto per impazzire di nuovo. So che non possiamo assolutamente affrontare di nuovo quei momenti terribili. E questa volta non guarirò».


Le acque del fiume Ouse, nel Sussex, accolsero il corpo di Virginia Woolf. Alle 11,30 del mattino, all’età di 59 anni, la grande scrittrice prese il bastone da passeggio e, dopo essersi messa una pesante pietra nella tasca del vestito, si immerse nel corso d’acqua e si lasciò annegare.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio filosofico

Parte II


L’autore che più di tutti ha contribuito, nel bene e nel male, a prospettare la problematica del sonno della ragione è Friedrich Nietzsche.


Il suo pensiero, poco sistematico ma ricco di immagini poetiche e di spunti paradossali, risulta ancora oggi di grande fascino per la sua forza contestataria e innovativa. Tra le opere di Nietzsche, di singolare importanza per il nostro argomento appaiono La nascita della tragedia del 1871 e Così parlò Zarathustra del 1883-1885.


Nietzsche si era accostato alle opere di Schopenhauer: da loro aveva imparato che il dolore è l’essenza stessa del mondo e che la natura e il cosmo sono crudeli a causa del grande processo di produzione e dissolvimento a cui sono fatalmente soggetti. Ora, la violenza distruttiva della natura cammina di pari passo con la sua forza creativa; dunque, nell’essere, crudeltà e felicità appaiono inestricabilmente legate e vanno accettate in quanto reali. L’uomo proposto da Nietzsche vive all’unisono con l’essere: accetta il dolore, lo sperimenta su di sé, non lo rimuove, anzi lo assume come momento insuperabile del ciclo vitale.


Qui, però, si pone la differenza tra i due grandi filosofi tedeschi: ambedue partono dalla constatazione della «terribilità del reale»; ma, dinanzi a questo dato, i percorsi speculativi si muovono in direzioni diverse, anzi contrapposte.


Schopenahuer sceglie di opporsi al mondo, prospettando un comportamento etico che miri a superare l’intima struttura della realtà, cioè l’egoismo.

Per Nietsche, al contrario, se l’essere è feroce, l’unica cosa da fare è consentire con questa ferocia e partecipare attivamente alla «festa» del mondo. L’uomo deve affermare se stesso, sforzandosi di rimuovere ogni ostacolo.


Chi è capace di ciò è il «superuomo», il nichilista che accetta la vita, che sopporta questo mondo e il divenire. Egli si sostituisce a Dio, imponendo, con la sua volontà di potenza, la propria soggettività e la pienezza dell’io. La morale tradizionale, imbevuta di cristianesimo, è quella degli schiavi e dei deboli e niente altro esprime il loro rancore e la loro frustrazione di fronte al fallimento a cui sono condannati; mentre, nel superamento dell’umanità, c’è la vera via della salvezza.


Nietzsche smaschera la pretesa di una verità assoluta, perché tutte le nostre convinzione sono collocate in un determinato punto di vista, in una prospettiva entro la quale conosciamo e giudichiamo il mondo. Perciò egli afferma: «Esiste soltanto un vedere prospettico». I nostri concetti, perciò, sono relativizzati da questa prospettiva: un albero, ad esempio, è conosciuto da uno studioso, da un turista o da un povero bisognoso di legna sotto tre prospettive diverse che ne condizionano la conoscenza.


Sottratto alla schiavitù dei falsi valori, l’uomo superiore può impegnarsi nell’amore e nell’esaltazione della vita, nel flusso continuo dell’esistenza, nell’esuberanza della forza e della fierezza. L’uomo è l’essere supremo, fonte di tutti i diritti, che, completamente partecipe del vitalismo del mondo, costantemente si realizza con una volontà di potenza in una ebbrezza dionisiaca.


«Dionisiaco» è opposto ad «apollineo». Esso è il simbolo dell’accettazione integrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti e della volontà di affermarla; è l’oscuro impulso creativo che si oppone alla forma ordinata e standardizzata. Tutta la realtà si basa sulle due potenze, in lotta perenne tra loro e con momentanee conciliazioni. Una loro originale applicazione si ha nel campo dell’arte: lo spirito apollineo domina la scultura, che è armonia di forme, mentre il dionisiaco domina la musica, che è ebbrezza ed esaltazione entusiastica.


Solo il dionisiaco, però, ha permesso ai Greci di sopravvivere, perché ha trasfigurato l’orrore della tragedia nella bellezza dell’arte.

Nel gennaio del 1889, a Torino, Nietzsche ebbe un crollo psichico.

Il sonno della ragione prendeva il sopravvento sulla sua vita personale.

Il sonno della ragione genera i mostri? Un approccio filosofico

Parte I


Nella storia delle riflessione umana, il pazzo è apparso non solo come una persona «fuori dal mondo», ma come uno che vede il mondo da un punto di osservazione diverso rispetto a quello dei più. In sostanza, la follia mette in risalto i limiti stessi della ragione, indicandole che, per parafrasare Hegel, «non tutto ciò che è reale è razionale» e, in modo particolare, non tutto ciò che esiste può essere contenuto nei limiti della ragione.

Già Platone aveva affrontato il tema, in modo specifico nel Fedro, uno dei suoi dialoghi più celebri, composto intorno al 370 a C. Il grande filosofo si pone la questione se sia più credibile colui che è in preda all’esaltazione oppure chi ne è privo. Egli vede nella «mania» un momento prelogico, che si esprime in quattro forme di follia, cioè l’arte divinatoria, il rapimento mistico, il furore poetico e l’amore. L’uomo, ovviamente, deve superare queste esperienze per tendere alla conoscenza. Tuttavia avverte quasi una forma di nostalgia per una rivelazione della verità che venga non dall’umano ragionamento ma come da una illuminazione dall’alto. «I più grandi doni» – scrive – «ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino». Platone porta tre esempi: le sibille, i guaritori e, soprattutto, i poeti e conclude con un’asserzione folgorante: «La saggezza proviene dagli uomini, la follia da Dio», in quanto essa è impulso originario e naturale, indipendente dall’arbitrio umano.


In Platone, dunque, la follia si presenta non come una forza distruttrice, ma come un’ispirazione divina e un amore alla vita.

Un’eco di questa interpretazione forse è possibile riscontrarla anche nel pensiero cristiano. Nel Nuovo Testamento, infatti, San Paolo presenta la vicenda di Gesù Cristo come «la follia di Dio» che si è manifestata più sapiente della sapienza degli uomini. Culmine della vita spirituale, perciò, non sarà la visione razionale del filosofo, ma la condivisione del cammino di Gesù.

Il Medio Evo cristiano, a sua volta, oscillerà tra questi due atteggiamenti: da una parte la ricerca di una grande impostazione razionale, che culminerà nelle Summae teologiche e filosofiche di un Tommaso d’Aquino, di un Bonaventura da Bagnoregio e di un Giovanni Duns Scoto; dall’altra la consapevolezza che non tutto il reale è riconducibile al controllo della ragione, per cui si darà ampio spazio alla credenza nei miracoli, alla potenza delle vere o presunte reliquie dei santi, alle «feste dei folli», al ricorso alla stregoneria e così via.


Con la luce del Rinascimento, proprio quando la razionalità trionfa nella scienza e nell’arte, il tema della follia tornerà a interessare i pensatori. Uno dei più celebri tra loro, Erasmo da Rotterdam, ne farà oggetto di riflessione nell’Elogio della Follia, opera talmente brillante da costituire uno dei simboli dell’intero periodo. Nell’opera, che vide la luce nel 1511, la Follia esalta se stessa e si presenta come una componente indispensabile dell’esistenza umana: senza di essa, la vita non sarebbe pensabile nelle sue molteplici sfaccettature. Erasmo prospetta una tagliente satira contro le condizioni religiose e sociali del suo tempo, mettendo alla berlina la presunta saggezza dei monaci e dei teologi. In campo morale, poi, la follia tende alla santità perché essa, nel senso di Platone e di San Paolo, si eleva al di sopra delle apparenze e tende alla semplicità di una vita vissuta nella fede e nella carità.

A distanza di un secolo Giordano Bruno riprende il tema di un approccio alla realtà che non si risolva unicamente nella dimensione razionale. Egli vede nell’«eroico furore» una forma più alta della razionalità: esso è uno sforzo consapevole, un impeto di conoscenza e un dinamismo di amore. Chi è preso da un tale furore è il vero sapiente, colui che va oltre i limiti del finito, si libera dai legami che lo tenevano avvinto alle cose contingenti e può giungere ad amare l’infinito, cioè Dio, e in Dio ama nel contempo tutte le cose.


La vera follia, dunque, è la pretesa del razionalismo di poter dominare tutto con la ragione, perché facilmente dal razionalismo si passa all’ideologia che è una pretesa onnicomprensiva. Bisogna perciò contemperare ragione e «follia», intelletto e sentimento, perché, secondo l’intuizione di Blaise Pascal, la ragione non è l’unico strumento conoscitivo: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende».

Questa problematica ritornerà sempre nel corso della storia. Tappe importantissime della cultura, ad esempio, saranno il Romanticismo, che riflette sul momento oscuro ed estatico dell’originario atto creativo, e, in tempi più recenti, la psicoanalisi di Freud, che scruta nelle profondità dell’animo umano quell’abisso oscuro e magmatico che sfugge alla consapevolezza.