La Madonna di Pontassieve del Beato Angelico

L’opera, che probabilmente era lo scomparto centrale di un polittico perduto, proviene da una chiesa di Pontassieve, presso Firenze. È attribuita al Beato Angelico o, secondo alcuni studiosi, è frutto di un’ampia collaborazione di aiuti.

La Madonna con il Bambino è seduta su un trono, alla cui base sotto il gradino si legge un’iscrizione frammentaria che faceva riferimento ai committenti: Antonio di Luca, Piero di Nicola e Ser Piero.


La Madonna di Pontassieve del Beato Angelico


Il sacro gruppo è rappresentato frontalmente, sullo sfondo del trono coperto da un drappo rosso. Una luce dorata di grande fascino si irradia tutt’intorno e, grazie ad una particolare lavorazione della foglia d’oro, si rifrange in tanti raggi. È la luce divina che inonda la scena e circonda la Vergine Maria e il Frutto del suo grembo. Oltre a questa funzione simbolica, la luce contribuisce alla resa plastica dei volumi dei corpi e anima le pieghe delle vesti, sottolineando realisticamente la storicità dei personaggi.

Il trono è un elemento che caratterizza la regalità: dunque Maria è la regina-madre del Cristo re; caratterizza anche la sapienza di Dio: dunque lei è il vertice di un disegno eternamente concepito dalla Trinità; ma il sedile piuttosto basso e privo di schienale allude al modello della Madonna dell’umiltà: dunque colei che è la Sovrana dell’universo si considera per sempre «la serva del Signore».

Tipiche dell’Angelico sono le proporzioni allungate, con le dita della mano della Vergine affusolate. Tra la Madre e il Figlio sgorga un contatto pieno di fiducia e di tenerezza, che sfocia in un mistico abbraccio.

Le Opere di misericordia di Santi Buglioni

Sulla facciata dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia è possibile ammirare un bellissimo fregio in terracotta invetriata dalla vivace policromia, tipica della bottega dei Della Robbia.

Questa famiglia di celebri artisti si specializzò nella produzione di opere in terracottainvetriata e per generazioni ne custodì il segreto, detenendone praticamente il monopolio e assicurandosi molte commissioni nell’Italia del rinascimento.


Tra i discepoli che frequentarono la bottega emerse Benedetto Buglioni, al quale si deve una lunetta con l’Incoronazione della Vergine e lo stemma dell’ospedale. Il nipote Santi è l’autore del fregio principale, raffigurante le Opere di misericordia.


Le Opere di misericordia di Santi Buglioni


Nei bellissimi pannelli sono rappresentate vivide figure fortemente espressive. Le sette opere, Vestire gli ignudi, Albergare i pellegrini, Assistere gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti, Dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, sono intervallate dalle figure simboliche delle virtù cardinali e teologali inquadrate da lesene decorate: la Prudenza, la Fede, la Carità, la Speranza, la Giustizia.


Il fregio venne eseguito su commissione del direttore dell’ospedale Leonardo Buonafede, che compare nelle scene in abito bianco con mantella nera, a presiedere le quotidiane attività dell’istituto. Sull’ultimo pannello a destra viene rappresentato, al posto del Buonafede, il suo successore Bartolomeo Montichiari.


È evidente l’insegnamento proposto dal fregio: la fede cristiana si esprime nelle virtù e deve completarsi nelle opere a favore del prossimo, soprattutto delle persone più bisognose.

Ha detto un santo: «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».

Il Cristo Giudice di Coppo di Marcovaldo

La volta del Battistero di Firenze è interamente decorata da bellissimi mosaici che raffigurano episodi biblici, storie di Giovanni Battista e il Giudizio Universale. L’opera, su fondo oro, si svolge in sei fasce, mentre ogni scena è distinta dalle altre mediante colonnine pittoriche.

La zona absidale è dominata dalla gigantesca figura del Cristo Giudice, alta più di otto metri, che appare in un cerchio che definisce la sua divinità. Ai suoi lati, su tre fasce sovrapposte, notiamo gli angeli che annunciano il giudizio, la Vergine Maria, il Battista e gli Apostoli. Ai piedi del Cristo, al suono delle trombe angeliche, i morti sorgono dai loro sepolcri e si compie la divisione dei beati dai dannati.


Il Cristo Giudice di Coppo di Marcovaldo


Gesù indossa la vestepurpurea tipica dell’imperatore e siede su un trono formato dai cerchi celesti: egli, dunque, è al di sopra dei cieli e domina incontrastato, perché per i credenti il suo regno, a differenza di tutti i regimi umani, non avrà mai fine. Ben visibili, sulle mani e sui piedi, sono i segni della sua passione: il Cristo glorioso porterà in eterno la «memoria» della croce e della sofferenza trasfigurata nell’amore.


L’intero ciclo fu compiuto in pochi decenni fra il Due e il Trecento probabilmente da mosaicisti veneti, ma su disegni e cartoni forniti dai migliori artisti fiorentini dell’epoca. Qui lavorarono, oltre ad alcuni maestri anonimi, anche personalità più conosciute, quali Gaddo Gaddi, Meliore di Jacopo e soprattutto Coppo di Marcovaldo e il suo allievo Cimabue, dal quale avrà inizio la rivoluzione artistica occidentale che troverà in Giotto il suo grande interprete. Perciò l’insieme dei mosaici del Battistero costituisce un saggio collettivo della pittura fiorentina immediatamente precedente a Giotto e, nonostante il suo impianto tradizionale, mostra già un nuovo senso della monumentalità delle figure e del loro risalto plastico.

Il Crocifisso di San Giovanni della Croce di Salvador Dalì

Spettacolare è l’effetto prodotto da questo dipinto, oggi custodito nel Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow. Ciò dipende da un’intuizione geniale: Gesù crocifisso non è visto da sotto in su né in posizione frontale, come lo potrebbe osservare qualsiasi persona umana, ma è considerato dall’alto verso il basso, cioè come lo vede Dio Padre!


Questa intuizione non è originale di Salvador Dalì. Il pittore catalano, infatti, disse di essersi ispirato a un disegno di un grande santo spagnolo del Cinquecento, San Giovanni della Croce, e da un sogno: Dalì vede Gesù senza corona di spine, con il corpo perfetto e privo di ferite, aderente al legno della croce ma senza chiodi. La croce è protesa verso il basso e sospesa immobile in uno spazio oscuro che si illumina nella parte inferiore a definire un preciso paesaggio. La terra riceve luce dal cielo e anche il Cristo è illuminato dall’alto, così che il suo braccio sinistro proietta l’ombra sul legno del patibolo. È dunque l’Eterno Padre la sorgente di luce che illumina il mondo e rende ragione della morte del Figlio.


Come il nucleo dell’atomoche esplode (sono ancora impressioni descritte da Dalì), Gesù crocifisso si pone nella storia e nel cosmo come la più grande energia, capace di ricostruire dal di dentro l’universo.

L’ardito scorcio che caratterizza la parte superiore del quadro cambia direzione nella zona inferiore, per far emergere un paesaggio, quello di Port Lligatin Spagna, con un lago, una barca e dei pescatori: un riferimento alla realtà storica e ambientale che non esclude una possibile allusione alla barca di Pietro, cioè la Chiesa, che riceve luce per navigare nel mondo, dove è inviata per illuminare le genti.

La Risurrezione di Cristo di Piero della Francesca

Il celebre affresco, miracolosamente scampato ai drammatici eventi della seconda guerra mondiale, è custodito nel Museo Civico di Sansepolcro (AR).

Al di là di un’immaginaria apertura, Gesù si erge sul sepolcro ridestandosi alla vita, mentre quattro soldati romani giacciono vinti dal sonno.

La figura del Risorto è solenne e divide in due parti il paesaggio. Quello a sinistra, infatti, è invernale e arido; quello a destra, primaverile e rigoglioso: è il segno che il passaggio di Cristo dalla morte alla vita coinvolge l’intera natura.

È evidente il contrasto tra la parte inferiore e terrena dei soldati e quella superiore della divinità, che sempre vigila.


La Risurrezione di Cristo di Piero della Francesca


La costruzione geometrica della composizione rende i personaggi quasi astratti e immutabili, come dei tipi definitivamente caratterizzati. A questo effetto contribuisce la costruzione «atletica» della figura di Cristo, ben eretta e modellata anatomicamente come una statua antica, con un ginocchio appoggiato sul bordo, a sottolinearne l’uscita dal sarcofago, e la mano destra che regge il vessillo crociato, emblema del suo trionfo. Egli viene consapevolmente dipinto al di fuori delle regole prospettiche che imporrebbero una veduta dal basso, come avviene per le teste dei soldati. Cristo appare così sottratto alle leggi terrene dello spazio e del tempo per essere eternamente presente.


La linea dell’orizzonte mette in risalto la spalle e la testa di Cristo. Il cielo sullo sfondo è sfumato, perché l’artista pone l’evento della risurrezione all’alba. Questo particolare va compreso in senso cronologico, ma, soprattutto, in senso simbolico: è l’alba di un mondo nuovo che sta sorgendo davanti agli occhi degli osservatori.

Gesù emerge dal sepolcro scoperchiato senza staccarsi da terra, in modo naturale sebbene trionfante, perché non più in balia della morte ma tornato alla vita.

La Risurrezione di Lazzaro di Caravaggio

Nel quadro, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, Caravaggio ha immaginato la scena in un luogo chiuso, una catacomba, sul cui pavimento appaiono teschi e ossa di defunti. Per tutta l’altezza della pala, sulla sinistra, il pittore ha rappresentato un pilastro che svetta come una torre a definire lo spazio. Qui era stato seppellito Lazzaro, un amico di Gesù.

In questo luogo, nel quale la morte aveva celebrato la sua ennesima vittoria, entra il Signore della vita. Come Dio nella Creazione di Adamo di Michelangelo chiamava all’esistenza l’umanità stendendo la sua mano, così Gesù allunga il suo braccio chiamando nuovamente alla vita colui che era sceso nella fossa.


La Risurrezione di Lazzaro di Caravaggio


E quella fossa si apre al comando di Gesù: accanto a lui vediamo un uomo che, inondato dalla luce, solleva la pietra tombale permettendo, così, che altri conducano fuori il cadavere di Lazzaro. La luce, che è la protagonista di tante opere di Caravaggio, qui diventa materia salvifica che squarcia l’oscurità dell’antro e definisce i vari personaggi.

Tutti rimangono strabiliati di fronte al miracolo di uno che, morto da quattro giorni e ormai in decomposizione, ritorna alla luce. Tra loro si evidenziano un uomo dietro il Cristo, del quale si intravede il volto con l’espressione della bocca nell’atto di gridare, e il necroforo che sorregge il cadavere.


Il corpo di Lazzaro, semicoperto da un lenzuolo, è colto in una rigida posizione diagonale, nello straordinario e difficile equilibrio tra la vita e la morte. Mentre la sua mano sinistra si solleva dalla zona del teschio e delle ossa, la destra è energicamente sollevata per rispondere al gesto di Cristo e costituisce il punto centrale della tela.

Sul lato destro Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, si protendono in un atto di affetto verso il fratello, accogliendo con fede e gratitudine Cristo, vera luce del mondo.

Il Cenacolo di Leonardo da Vinci

Il dipinto, che copre una parete del refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie in Milano, si riferisce al racconto dell’ultima cena, consumata da Gesù prima della sua morte, in base al Vangelo di Giovanni: Gesù annuncia che verrà traditoda uno dei suoi amici. Leonardo modifica lo schema iconografico tradizionale per esprimere il significato più intimo e profondo dell’episodio.

In una sala semplice e armoniosa, in primo piano appare la lunga tavola della cena. Alcuni elementi prospettici, come il soffitto a cassettoni, gli arazzi alle pareti e le tre finestre del fondo, concorrono a definire l’ambiente.


Il Cenacolo di Leonardo da Vinci


Al centro è la figura di Cristo, dalla forma piramidale per le braccia distese. Ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, poiché ha appena finito di pronunciare la frase più triste che sia uscita dalle sue labbra: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà». Con il suo atteggiamento di serenità intima e profonda, Gesù costituisce l’asse centrale della scena, non solo sotto l’aspetto stilistico e prospettico, ma anche sotto il profilo simbolico e spirituale. Ogni particolare è esposto con grande accuratezza e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Attorno a Gesù gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, simmetricamente equilibrati. Il risultato complessivo di questa collocazione è quello di un rapido rimbalzare di emozioni e di scelte, simile a successive ondate che si propagano a partire da Cristo, come un’eco delle sue parole che si diffonde generando i più diversi stati d’animo e le più diverse reazioni. La psicologia dei singoli personaggi è approfondita, senza compromettere mai la percezione unitaria dell’insieme.


Ciò che colpisce particolarmente nel celebre affresco è un dettaglio di grande originalità. Infatti nelle scene dell’ultima cena dipinte da precedenti pittori, era Giuda ad essere raffigurato da solo, di solito al di qua del tavolo. Leonardo invece presenta il traditore insieme agli altri apostoli e sottolinea la solitudine di Gesù, isolandone la figura. Il Messia dona se stesso in un estremo atto di amore, eppure i suoi discepoli non lo comprendono e, in sostanza, lo abbandonano.

È il dramma nel quale ogni cristiano è coinvolto nella sua vita.

Il Partenone di Atene

Il Partenone di Atene è uno dei templi più importanti dell’antichità, che, attraverso varie fasi, è giunto fino a noi. Fu inaugurato nell’anno 432 prima della nascita di Cristo. Con la sua costruzione, il centro religioso diventa anche il centro della città. Nelle sue linee architettoniche manifesta solennità e limpida chiarezza: infatti, nella coscienza di quell’antico popolo prima del cristianesimo, esso era destinato a diventare la casa della divinità.

La dea a cui era dedicato è Atena, la dea vergine (parthènos, in greco, significa vergine), che nella religione romana sarà chiamata Minerva. È la dea della sapienza, che sconfigge la barbarie ed effonde la sua benevolenza. Perciò anche la decorazione dello scultore Fidia, oggi per la gran parte custodita al British Museum di Londra, mette in risalto la vittoria della luce sulle tenebre e la partecipazione del popolo all’incontro con l’essere divino.


Il Partenone di Atene


Il Partenone, come gli altri templi pagani, era diviso in due parti: un atrio di ingresso, circondato dal solenne colonnato, e una cella all’interno, nella quale si custodiva l’immagine della dea illuminata da due grandi finestre.

L’uomo cerca Dio. Viene attratto e affascinato dall’Essere Assoluto e, nello stesso momento, avverte tutta la distanza che lo separa da lui. Nella mentalità dei credenti, a qualsiasi tradizione culturale essi appartengano, anche Dio cerca l’uomo e lo accompagna nel suo cammino, manifestandosi a lui secondo tempi e modalità diverse. L’incontro tra l’uomo e Dio e il rapporto che ne deriva è lareligione.


È evidente che tutto ciò potrebbe essere soltanto un’illusione, destinata a mostrarsi vuota e inconsistente; l’uomo credente, invece, ritiene che l’esperienza religiosa sia un fatto serio e valido, anzi l’esperienza più seria e costruttiva della vita umana. Né la scienza è in grado di risolvere questo problema. Infatti la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, ma non può dimostrare nemmeno la sua “non esistenza”. L’uomo, perciò, ha davanti a sé un campo aperto: può credere e può non credere.

Se decide di credere ed entra in rapporto con Dio, esprimerà questo rapporto attraverso alcuni segni, uno dei quali è la costruzione di un tempio: un luogo che, in qualche modo, possa favorire l’incontro, custodirne la memoria e riproporlo quotidianamente.

Il Partenone realizza in pieno questi valori.

La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti

È l’alba del mondo.

Su uno sfondo naturale spoglio e arido, si staglia la figura di Adamo, che, quasi sul ciglio di un abisso, tende un braccio verso Dio. Questo «contatto a distanza» delle dita è come una scintilla vitale che passa dal Creatore alla creatura e infonde energia nell’uomo, in modo tale che egli inizia a sollevarsi da terra e a distinguersi da quella materia dalla quale (e della quale) è stato fatto.

L’Eterno si avvicina in volo, con la veste purpurea. È circondato da un gruppo di angeli, impegnati nello sforzo di partecipare all’azione divina e descritti in vari atteggiamenti. Il gruppo è inserito in un grande manto violetto, gonfio di vento, che abbraccia Dio e gli angeli in una curva dinamica. Con il braccio sinistro l’Onnipotente cinge una figura femminile, la Sapienza, perché è soprattutto nella creazione dell’uomo che egli manifesta il suo infinito provvidenziale ordinamento.


La Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti


In questo celeberrrimo affresco della Cappella Sistina Michelangelo ha tenuto ben presente l’insegnamento della Bibbia, che presenta Dio come «il vegliardo, i cui capelli sono candidi come la lana»: così si era espresso il profeta Daniele.

Adamo, dal corpo anatomicamente definito, poggia il braccio sul ginocchio piegato, in un significativo effetto di risveglio. Solleva lentamente il corpo e alza il dito ancora incerto verso quello assolutamente fermo di Dio. A differenza dell’intenso ritratto di Dio Padre, «l’antico dei giorni» ricco di bellezza e di energia, con la capigliatura grigia e la lunga barba fluttuante nell’aria, il volto di Adamo, di profilo e leggermente volto all’indietro, non assume un’espressione precisa: infatti l’uomo è un progetto aperto, chiamato a diventare sempre più somigliante al suo Creatore.

La Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio

La colpa fa la sua comparsa nella storia. E, con la colpa, le tragiche conseguenze che da quel momento accompagneranno la vita delle singole persone e dell’umana società. Per i credenti il peccato è allontanamento da Dio, cioè allontanamento dalla luce, dalla vita, dalla verità e dalla giustizia.

Il dipinto di Masaccio, nella chiesa fiorentina del Carmine, esprime con una potentissima sintesi questo dramma che si colloca all’origine. È il peccato originale, il primo della storia, che è anche il modello esemplare di ogni altro peccato.

L’affresco riecheggia le dolorose parole della Bibbia: Adamo ed Eva improvvisamente presero coscienza di essere nudi, cioè assolutamente poveri e fragili, privi della grazia di Dio ed esposti a sprofondare in quel baratro dal quale la mano del Creatore li aveva preservati.


La Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio


La tragedia delle origini si manifesta in un’atmosfera cupa e pesante, su uno sfondo arido e oscuro. L’uomo e la donna hanno perso la loro primitiva bellezza e si riducono a essere delle larve. Eva apre la bocca come una ferita ed esplode in un urlo selvaggio carico di dolore e di disperazione. Adamo abbassa il capo e, poggiando i piedi su una terra ormai diventata ostile, si avvia sulla strada della vergogna. Coloro che Dio aveva creato a sua immagine e secondo la sua somiglianza sono ridotti al livello di una realtà inerte e brutale.

La scena, nella sua essenzialità, è dinamica e fortemente emotiva anche grazie ad una energica illuminazione che modella i corpi dei nostri Progenitori e li definisce in forme statuarie. Il peccato di Adamo ed Eva si trasmetterà all’intera famiglia umana.

L’amicizia: una voce del medio evo

La teoria aristotelica costituisce la base anche della concezione dell’amicizia espressa da Tommaso d’Aquino. Ma forse Tommaso penetra ancora più a fondo nell’esperienza umana. Egli vede nell’amicizia il grado più elevato dell’amore: in essa, infatti, l’amore viene radicalizzato e assume delle sfumature qualitativamente altissime. Non basta, cioè, una concordanza di vedute o una convergenza d’interessi: è necessario che l’accordo amichevole sia fondato su una tensione e una volontà che cerca il bene dell’altro proprio perché tale, cioè dell’altro.


Questo amore, d’altra parte, deve essere scambievole. Non c’è amicizia in un rapporto unilaterale, per quanto generoso possa essere. Anzi, tale reciprocità è un incontro che modifica coloro che lo realizzano: non, quindi, una semplice somma di due amori, ma una sintesi nuova e più perfetta.


Altra caratteristica indispensabile dell’amore amichevole è la stabilità. Un affetto passeggero non può ancora essere considerato amicizia. Così pure la semplice simpatia si trasforma in amicizia soltanto se si espande in un rapporto di fedeltà, di perseveranza, di continuità. Di solito ciò è possibile quando la simpatia viene assunta in una coscienza riflessa e viene scelta positivamente.


L’amicizia, inoltre, proprio perché è un’esperienza interpersonale, non può restare al livello della semplice volontà o del sentimento interiore, ma è necessario che si espliciti in gesti manifestativi, che mostrano, concretizzano e costruiscono il rapporto.


L’amicizia culmina in un atteggiamento di mutua presenza. Si realizza, qui, un amore creativo, in forza del quale l’amico sente in sé la presenza dell’altro come qualcosa che faccia parte della sua vita e della sua stessa personalità.


Infine Tommaso s’interroga sul fondamento ontologico e sulla stessa condizione di possibilità del fenomeno dell’amicizia. Tale fondamento consiste in una certa affinità che si stabilisce tra due persone. Si tratta di un’affinità a due dimensioni: un’affinità di convenienza (parola da intendersi in senso etimologico, non in senso moralistico) in base alla quale esiste una convergenza di sentimenti, d’idee e di scelte; e un’affinità di differenza, in base alla quale nasce un’esigenza di mutua integrazione, una volta constatata la diversità. Dalla tensione e dal bilanciamento tra queste due energie nasce il rapporto amichevole.


L’amicizia, conclude Tommaso, è dunque buona, nel senso filosofico del termine: essa, cioè, corrisponde al fine dell’uomo ed è positivamente orientata verso il suo conseguimento. Non solo. Dal confronto con la beatitudine, sembra legittimo affermare che l’amicizia è l’esperienza più buona che la persona umana possa compiere, quella che è sommamente ordinata al suo fine: infatti essa esprime e, almeno parzialmente, anticipa nella sua struttura la stessa beatitudine.


A differenza del pagano Aristotele, il cristiano Tommaso (per giunta anche santo!) veniva illuminato e aiutato anche da una frase del Vangelo secondo Giovanni (15,15), una delle più belle sintesi di tutta la spiritualità cristiana. Racconta dunque il Vangelo che Gesù, la sera prima di essere ucciso, cenando per l’ultima volta con i suoi discepoli, disse loro: «Non vi chiamo più servi […], ma vi ho chiamato amici». L’ideale della fede ebraica si esprimeva con il concetto di servo; l’ideale cristiano, invece, si esprime non solo con quello di figlio, ma anche con quello di amico. E dunque la beatitudine, che è lo scopo di tutta l’esistenza umana e cosmica, trova nell’amicizia uno dei suoi simboli più alti e una reale anticipazione.