Le parafilie di Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee ora su Netflix

Nella mia libreria esiste una sezione totalmente dedicata ai serial killer, una passione quasi ossessiva che arriva dall’adolescenza, la curiosità morbosa di capire cosa si cela nella mente di un pazzo.
Perché tendenzialmente un omicida seriale uccide in un momento di follia, quando in materia giuridica si dice sia “incapace di intendere e volere”, vittima di un raptus. Non è il caso del serial killer più spietato d’America, Jeffrey Dahmer, perfettamente vigile e senziente nell’atto di uccidere. E ad ammetterlo è lui stesso in aula di Tribunale quando davanti al Giudice decide di non farsi difendere, aggiudicandosi infine 957 anni di prigione.

Ma facciamo un passo indietro, chi è Jeffrey Dahmer?
Jeff è un bambino molto solo, padre assente per lavoro e madre affetta da depressione post parto con problemi di nervi sin dalla gravidanza, quando assumeva una dozzina di pastiglie con Jeff ancora in grembo.
Nei pochi momenti in cui i due genitori stanno insieme, li vede litigare, urlare, sbattere porte e confessa di aver visto più volte la madre picchiare Lionel Dahmer, il padre. Jeff si chiude in sé stesso, non ha amici con cui giocare, nessuno con cui parlare, ma scopre presto, con l’aiuto del padre, chimico accademico, una strana passione: la tassidermia.
Lionel lo porta nei boschi a scegliere le carcasse animali che andranno poi ad eviscerare, trattare, sezionare, gli insegnerà come sbiancare le ossa e preservare gli scheletri degli animali, convinto fosse per il figlio, un mero interesse scientifico. E’ il primo vero trasporto del piccolo Jeff che probabilmente effettua un transfer di piacere (il suo unico momento di gioia e condivisione con il proprio genitore) in quelle che saranno le viscere e la sua lucentezza.

Jeffrey Dahmer nelle fasi evolutive

Da adulto, nella fase seriale, Dahmer ricercherà quella lucentezza, stringendo tra le mani gli organi interni delle sue vittime e facendoci sesso con i corpi aperti e sezionati. Una parafilia che si accumula all’antropofagia (ingestione di carne umana) necrofilia (sesso con i cadaveri) e vampirismo (ingestione di sangue altrui).
I necrofili, a differenza dei sadici, cercano di mantenere integro il cadavere per poi consumare un rapporto sessuale con esso, perché temono le richieste di un soggetto normale, necessitano invece di un oggetto passivo, su cui avere il totale controllo.

“Era l’unico modo per evitare le loro richieste e per farli rimanere con me il più a lungo possibile”, questa la dichiarazione dell’assassino durante gli interrogatori. Dahmer aveva subìto il trauma dell’abbandono quando, una volta che i genitori si separarono, la madre scappò con il secondo figlio ancora bambino, lasciando solo Jeffrey in età adolescenziale. Momento cruciale e di ascesa perché inizia una fase di alcolismo, di totale solitudine e soprattutto il primo omicidio.

Attratto da un autostoppista diretto ad un concerto, Jeffrey promette un passaggio ma lo invita in casa per una birra, quando il ragazzo capisce che il serial killer avrebbe temporeggiato, si spazientisce e vuole andarsene, è quella la miccia che accende la furia omicida del bambino che c’è in lui, quello abbandonato da tutti, che oggi non può più accettare di rimanere solo. Lo uccide con un manubrio per poi strangolarlo con lo stesso, abusa del cadavere, secca in forno le ossa per poi frantumarle e spargerle nel giardino, un modo per averlo sempre vicino a sé.

Jeffrey Dahmer a processo

L’iter dei successivi omicidi sarà sempre lo stesso, Dahmer aveva prestato servizio militare come medico da campo in cui aveva imparato a somministrare medicinali, sonniferi, droghe che userà per immobilizzare ed addormentare le vittime rendendole inermi.
Attirando soggetti per lo più giovani, neri, di ceto sociale basso, con la scusa di scattargli delle foto in cambio di denaro, Jeff Dahmer colleziona vittime su cui sperimenta le sue follie diaboliche; cerca di renderli degli zombie, praticando delle lobotomie approssimative, che permettono al corpo di rimanere in vita ma che tolgono la possibilità di azione. Non ci riuscirà, i ragazzi moriranno a causa dell’iniezione di acido muriatico nel foro inflitto sulla testa.

alcuni teschi intatti ritrovati nella casa di Dahmer. Credits Netflix

La serie racconta e sottolinea gli sforzi continui della vicina di casa Glenda Cleveland, insospettita dalla fetida puzza che arrivava dal bocchettone dell’aria e dai rumori notturni incessanti del trapano, che la Polizia di Milwaukee aveva ripetutamente ignorato, compresa la notte in cui avevano riportato il corpo di un quattordicenne, in evidente stato confusionale, nudo e impossibilitato a camminare, nell’appartamento del suo carnefice, per poi essere ucciso e cannibalizzato la notte stessa.

Siamo nel maggio degli anni ’90 in una strada dove vive la comunità africana e in un periodo storico dove il bianco aveva più voce dei neri, dove gli omosessuali venivano derisi ed evitati, insomma un connubio perfetto di reietti della società su cui Dahmer, belloccio, fisicato e bianco, può affondare le mani senza intralci, uscendone al massimo con qualche multa per atti osceni in luogo pubblico, come quando si masturba in pubblico ripensando al primo omicidio.
Reiterare il piacere come fece, fregandosi, l’altro serial killer definito il più affascinante della storia, Ted Bundy, durante il soliloquio in aula mentre difendeva sé stesso ripercorrendo (inutilmente per il processo in quell’istante) le azioni ed i dettagli macabri sulle vittime, con un ghigno soddisfatto ed eccitato.
Jeffrey Dahmer imprimeva quel piacere, sessuale (quasi tutti i moventi sono di natura sessuale), conservando dei pezzi di ossa, come i teschi che teneva nell’armadio o i genitali essiccati in qualche cassetto.
Ha sempre dichiarato di non aver mai ucciso per odio, ma solo per il bisogno di non rimanere solo, per dormire a lungo con qualcuno, per avere un corpo accanto a sé che non lo comandasse a bacchetta come avevano fatto in precedenza, madre, padre, nonna. Si è sempre dichiarato sano di mente perché consapevole delle atrocità che stava commettendo, ma impossibilitato a smettere (era talmente forte l’impulso, che cercava la vittima successiva prima ancora di essersi sbarazzato dell’ultimo corpo).

i resti delle carni umane congelate trovate nel suo freezer (credits Netflix)
scorte di acido muriatico trovate nel suo appartamento (credits Netflix)
gli attrezzi che usava per sezionare i cadaveri (credits Netflix)
il barile che usava per sciogliere i corpi, trovato nella camera da letto (credits Netflix)
foto dell’appartamento durante l’arresto (credits Netflix)

Ossessionato dagli horror (l’Esorcista III era il suo film preferito) e dalla Bibbia Satanica, per caricare la violenza omicida ed entrare nel personaggio, il serial killler indossava delle lenti a contatto gialle, convinto che potessero regalargli lo stesso potere dei posseduti sui corpi e sulla realtà.

La visione di DAHMER Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, serie Netlix creata da Ryan Murphy e Ian Brennan e divisa in 10 puntate, è da legare a Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer, diretta dal candidato agli Oscar Joe Berlinger (lo stesso di “Conversazioni con un killer: Il caso Gacy”), registrazioni reali delle conversazioni tra l’omicida e il suo avvocato. Sono confessioni crude e spietate che non mostrano rimorsi, alcun segno di empatia verso le vittime, ma che soprattutto non celano dettagli, piuttosto vi si riscontra la necessità di esternarli (comportamento atipico nei serial killer che giustificano la propria malvagità nascondendo i fatti).

E’ utile per comprendere a fondo la psicologia di un uomo malato, che forse nasce con una predisposizione alla psicopatia (la madre che incinta assume quantità di pillole, un dna di malati di nervi) e che sviluppa parafilie nel corso della vita (le attività di tassidermia con il padre), unito al trauma dell’abbandono (la madre scappa di casa con l’altro figlio e lo lascia solo in casa in età adolescenziale. Il padre assente).

Ci si chiede, come sarebbe cresciuto se avesse ricevuto le giuste attenzioni, l’affetto di una famiglia, l’amore di altri esseri umani? Avrebbe potuto salvarsi dalla malattia? Quanto il comportamento sociale di un nucleo (famiglia, lavoro, amici) può modificare il nostro comportamento e la nostra intelligenza emotiva? Un essere malato può riconoscere il malessere e fare autodiagnosi, ed infine chiedere aiuto?
Sono infinite le domande che ci poniamo e che necessiterebbero di un approfondimento scientifico descritto da un esperto; resta chiaro che l’amore è forse la più grande medicina e che, la sua mancanza, può generare dei mostri in carne ed ossa.

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