I misteri della Chiesa

Non è mai facile assumersi la responsabilità di fare luce su inchieste o fatti apparentemente irrisolti e ricolmi di mistero. I segreti che regnano e sovrabbondano nel mondo della Chiesa, ad esempio, sono spesso oggetto di discussioni e dibattiti, ma spesso la verità è ben lontana dall’essere scovata. È oltremodo coraggioso avventurarsi nei sentieri impervi dell’universo ecclesiale per poterne svelare i numerosi insabbiamenti, con l’omertà che dilaga indisturbata a fungere da ostacolo.



Il film Spotlight diretto da Thomas McCarthy è un esempio di cinema di denuncia, un’opera storico-biografica a tinte thriller e dai contorni drammatici. Il tema inscenato riguarda proprio la Chiesa Cattolica e, nello specifico, la piaga degli abusi di minori ad opera di alcuni sacerdoti americani. Ecco i dettagli.



Nell’estate del 2001 irrompe nella redazione del “Boston Globe” un nuovo direttore, Marty Baron. Coadiuvato da Ben Bradlee Jr., egli ha un solo obiettivo in mente: il giornale deve tornare ad occuparsi in prima linea di tematiche scottanti, tralasciando i classici casi di routine. I nuovi investigatori chiamati in causa comporranno un gruppo chiamato “Spotlight”.


Michael Keaton e Mark Ruffalo in una scena del film
Michael Keaton e Mark Ruffalo in una scena del film



Il primo argomento a dir poco spinoso di cui Baron vuole che il giornale si occupi è quello relativo a un sacerdote che nell’arco di circa trent’anni è stato autore di una serie di atti di pedofilia nei confronti di numerosi giovani senza che contro di lui venissero presi provvedimenti esemplari. In maniera particolare, Baron è assolutamente convinto che il cardinale di Boston fosse perfettamente al corrente della grave situazione in atto, ma che abbia fatto di tutto per insabbiare le eventuali prove e per nascondere la realtà.



Grazie a questa inchiesta e all’iniziativa dei membri “Spotlight”, fu gettata luce su una quantità considerevole di abusi ai danni di minori in ambito ecclesiale.



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Bim Distribution a partire da giovedì 18 febbraio, Il caso Spotlight (o più semplicemente Spotlight) trasporta sul grande schermo lo scandalo che travolse la diocesi di Boston tra il 2001 e il 2002, generando una presa di coscienza su una situazione di cui nessuno sospettava l’esistenza.



Il regista statunitense Thomas McCarthy (di cui ricordiamo alcuni suoi film quali L’ospite inatteso, Mosse vincenti e The Cobbler) realizza così un’opera che fa delle indagini giornalistiche il suo fulcro centrale, ma senza sfociare nella retorica e nella demagogia appartenenti al genere. Gli investigatori, infatti, non vengono tratteggiati come eroi senza macchia che combattono il crimine come dei veri paladini della giustizia, ma come persone assolutamente normali, semplici e con qualche scheletro nell’armadio.



Tra i membri del team “Spotlight”, infatti, ve ne sono alcuni che avrebbero potuto far scoppiare il caso anni prima in virtù del materiale posseduto tempo addietro, evitando in tal modo atroci ed indicibili sofferenze a tanti giovani indifesi ed ignari del pericolo incombente. Tuttavia, non è stato così. Un’omissione di colpa che non ha risparmiato neppure le alte sfere ecclesiali né le povere vittime, che per paura di ritorsioni hanno preferito percorrere la via del silenzio.



Mark Ruffalo discute con Rachel McAdams e Brian d'Arcy James negli uffici della redazione del "Boston Globe"
Mark Ruffalo discute con Rachel McAdams e Brian d’Arcy James negli uffici della redazione del “Boston Globe”



Il cast selezionato per l’occasione è di tutto rispetto. Marty Baron è interpretato da Liev Schreiber (Salt, Il fondamentalista riluttante e Creed – Nato per combattere), mentre la squadra “Spotlight” è composta da Mark Ruffalo (Michael Rezendes), un sorprendente e rinato Michael Keaton (Walter Robinson), Rachel McAdams (Sacha Pfeiffer) e da Brian d’Arcy James (Matt Carroll), con John Slattery nei panni dell’editore Ben Bradlee Jr. e Stanley Tucci in quelli dell’avvocato Mitchell Garabedian.



Il caso Spotlight quindi non funziona solamente grazie agli attori prestati al servizio, ma soprattutto perché è in grado di affermare un dato di fatto inconfutabile: la Chiesa Cattolica ha collocato nei ranghi più alti alcuni suoi esponenti di maggior spessore, creando una vera e propria gerarchia e credendo di salvare la fede di molte persone celando la perversione di alcuni suoi membri, ma così facendo ha ottenuto l’effetto contrario, consegnando all’opinione pubblica, sospettosa e semplificatrice, una certa parte di clero la cui linea di condotta è ben distante da quella predicata.



Chiudiamo questo articolo con un passo tratto dal Vangelo secondo Matteo:



Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare”.

 

La metamorfosi dell’amore

Un’opera dai molteplici spunti riflessivi, contraddistinta da un tema quanto mai attuale e delicato ed interpretata da un grande attore protagonista. Può essere così riassunto l’ultimo film del regista britannico Tom Hooper, vincitore del Premio Oscar per Il discorso del re, intitolato The Danish Girl, che vede primeggiare un istrionico e poliedrico Eddie Redmayne, supportato efficacemente dall’attrice svedese Alicia Vikander. Entriamo nei meandri della pellicola.



Danimarca, inizi del ‘900. La vita del pittore paesaggista Einar Wegener è scissa in due parti: la prima vissuta accanto alla moglie a Copenhagen, mentre la seconda a Parigi con una nuova identità, nei panni (in tutti i sensi )di Lili Elbe. Oltre che per i suoi dipinti, Wegener sarà ricordato per essersi sottoposto per la prima volta nella storia ad un’operazione chirurgica con lo scopo di cambiare sesso.



L'attore Eddie Redmayne interpreta il pittore danese Einar Wegener. In questa scena la trasformazione è già completata: ora è Lili Elbe
L’attore Eddie Redmayne interpreta il pittore danese Einar Wegener. In questa scena la trasformazione è già completata: ora è Lili Elbe



Tutto ebbe inizio con un gioco erotico con la moglie Gerda, in cui Wegener si travestì da donna. Da quel momento in poi il pittore danese rimase fortemente attratto dall’abbigliamento femminile, che divenne un’irresistibile calamita. Col passare del tempo crebbe la volontà di trasformarsi definitivamente in una donna: Einar desiderava ardentemente diventare Lili.



La medicina dell’epoca lo considerava uno schizofrenico da internare il più presto possibile. Nonostante questo, Einar Wegener si rifugiò nella chirurgia sperimentale, pur consapevole che ciò che si apprestava a subire rappresentava un intervento mai eseguito prima e dai rischi incalcolabili.



Distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 18 febbraio dalla Universal Pictures, The Danish Girl racconta la storia di uno spirito libero intrappolato in una gabbia corporea che non riconosce come propria. Attraverso lo specchio dell’anima, Einar Wegener realizza di voler divenire Lili Elbe.



Non è azzardato affermare che il film si divida in due tronconi. Il primo narra e descrive le modalità con cui Wegener impara i movimenti dalle altre donne al fine di assumerli e padroneggiarli per completare la sua mutazione. Il secondo invece, molto più ampio, inquadra e si sofferma sull’esigenza del pittore di essere una donna a 360 gradi. In questa seconda parte, dunque, i corpi e i modelli femminili visualizzati nella prima sezione dell’opera scompaiono progressivamente, lasciando il posto alla mera trasformazione fisica, incarnata dal volto, dai lineamenti e dalle espressioni di Lili Elbe.



In un’esplosione continua di recitazione e primi piani, l’attore d’oltremanica Eddie Redmayne (di cui ricordiamo alcuni film quali La teoria del tutto, Jupiter – Il destino dell’universo e Les Misérables, pellicola diretta proprio da Tom Hooper) riesce ad ottenere meritatamente la nomination all’Oscar come miglior attore protagonista. Il suo Einar Wegener è un concentrato di mimesi e mutazione facciale, contorniato da un accentuato compiacimento nel ricoprire un ruolo dotato di un’indiscutibile eterogeneità somatica.



Accanto a Redmayne, nelle vesti della moglie Gerda Wegener, troviamo l’attrice scandinava Alicia Vikander (nota al pubblico per pellicole come Il quinto potere, Il settimo figlio e il recente Il sapore del successo, con Bradley Cooper), la quale riesce nell’intento di determinare le sorti di ogni scena nonostante non interpreti il ruolo da protagonista. Gli spunti più interessanti del film derivano proprio da lei, una sorta di motore emozionale nascosto che anima l’intera vicenda.


Lili Elbe (Eddie Redmayne) e Gerda Wegener (Alicia Vikander) affrontano insieme gli ostacoli della vita
Lili Elbe (Eddie Redmayne) e Gerda Wegener (Alicia Vikander) affrontano insieme gli ostacoli della vita



Dietro la macchina da presa troviamo il regista Tom Hooper (Red Dust e Il maledetto United, giusto per citare qualche esempio della sua filmografia), che con The Danish Girl ha saputo creare una pellicola gradevole e piacevole, caratterizzata da un tono leggermente retrò ed élite, elementi stilistici assolutamente inclini con la tipologia di film da lui diretti, vedasi a tal proposito Il discorso del re del 2010 e I Miserabili del 2012.



Ciò che spicca maggiormente in The Danish Girl sono gli sfondi e gli interni meravigliosi, nonché una rappresentazione cromatica praticamente perfetta (non per niente il protagonista è un pittore). La scenografia e la fotografia, quindi, combaciano armonicamente e il pubblico in sala potrà apprezzarne l’incantevole estetica.



Il tema sessuale viene affrontato con garbo e pudore. Le scene più erotiche, dai baci omosessuali alle inquadrature dei corpi nudi, vengono puntualmente (e forse eccessivamente) sfumate. Nonostante l’incombenza e la necessità di un’operazione chirurgica, non è dunque sbagliato affermare che The Danish Girl rappresenti la vittoria dello spirito e della mente nei confronti del corpo e della carne.            

L’idealismo contro la realtà

Chi di voi conosce Dalton Trumbo? Ebbene, fu uno dei più richiesti ed influenti sceneggiatori del panorama hollywoodiano degli anni ’40. Il regista statunitense Jay Roach ha deciso di dedicargli un film, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, con Bryan Cranston nei panni del celebre scrittore, affiancato da Helen Mirren, Diane Lane ed Elle Fanning. Entriamo nei dettagli.


Agli inizi degli anni ’40 Dalton Trumbo approda a Los Angeles iniziando la sua carriera come lettore per la Warner Bros e divenendo nel corso del tempo uno degli sceneggiatori più in voga del periodo. A questo proposito, degne di nota furono le collaborazioni con la Columbia, la MGM e la RKO. Punto di riferimento della scena sociale hollywoodiana, Trumbo era un convinto sostenitore del comunismo, schierandosi più di una volta in favore dei sindacati e dei diritti civili.


Bryan Cranston (Dalton Trumbo) ed Helen Mirren (Hedda Hopper) in una scena del film
Bryan Cranston (Dalton Trumbo) ed Helen Mirren (Hedda Hopper) in una scena del film



A causa della sua tendenza politica, nel 1947 Trumbo finì di fronte al Comitato per le Attività Antiamericane, rifiutandosi categoricamente di rispondere alle domande. Le conseguenze furono inevitabili: andò in prigione, perse la casa, il lavoro e la possibilità di esprimersi pubblicamente. Nonostante ciò, egli non si diede per vinto e continuò imperterrito a comporre sceneggiature sotto pseudonimo e a battersi fino ad ottenere la cancellazione della lista nera.


Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Eagle Pictures proprio in questi giorni, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo è un film biografico dal carattere idealista che marcia all’interno di un parallelismo concettuale insito nel protagonista della storia: da una parte troviamo l’impegno costante e continuo di Trumbo nel suo mestiere, con tanto di strenuo sforzo fisico per resistere al sonno e alla stanchezza, dall’altra, invece, trova posto il medesimo prodigarsi nella difesa ad oltranza delle proprie idee politiche e della libertà di pensiero a 360 gradi.


A tal proposito, infatti, è da sottolineare come Trumbo non solo lavorò alacremente per se stesso sotto falso nome durante gli anni più bui della sua esistenza, ma fornì una quantità consistente di materiale a tutti quei colleghi che come lui avevano fatto la stessa scelta di coerenza, divenendo delle vere e proprie vittime dell’ostracismo imperante dell’epoca.


Dalton Trumbo in compagnia della moglie Cleo Fincher, interpretata dall'attrice Diane Lane
Dalton Trumbo in compagnia della moglie Cleo Fincher, interpretata dall’attrice Diane Lane



In virtù di queste azioni, Trumbo manifestava a livello pratico un’etica di giustizia sociale intesa, soprattutto, come redistribuzione della ricchezza, cercando allo stesso tempo di far crollare a suon d’inchiostro il muro di gomma eretto sia dalla Commissione sia dalla paranoia del popolo americano nei confronti dei cosiddetti “Dieci di Hollywood”.


Dovendo muovere una critica all’opera di Jay Roach (di cui ricordiamo alcuni film dai toni sicuramente più leggeri quali Ti presento i miei, A cena con un cretino e Candidato a sorpresa) è possibile affermare che il piano idealista rappresentato da Dalton Trumbo non viene bilanciato da quello scenografico. Sebbene il percorso tematico contraddistinto dall’esclusione e dall’umiliazione personale del protagonista venga descritto e sviluppato in maniera completa e approfondita, non si può dire altrettanto per la sfera professionale, la quale, infatti, viene solo appena accennata.


Gli spunti positivi di certo non mancano. Basti pensare alle sequenze in cui Trumbo progetta Vacanze romane o disquisisce con l’estroverso Frank King (interpretato da John Goodman). Ma in una pellicola biografica incentrata su un personaggio di questa caratura e portata avremmo voluto assistere a molte più scene di questo tipo.


La lente d’ingrandimento del film di Jay Roach si sofferma in maniera particolare su Trumbo pater familias e sulla sua figura intesa come modello umano da seguire, prediligendo la vena dell’eroismo piuttosto che l’esplorazione delle sue opere principali. In questo senso, la divertente ed ironica sequenza con Otto Preminger e Kirk Douglas risulta tanto azzeccata quanto a se stante.


Elle Fanning è Niki, la figlia di Dalton Trumbo
Elle Fanning è Niki, la figlia di Dalton Trumbo



Veniamo al cast scelto per l’occasione. Un plauso va sicuramente speso per Bryan Cranston (noto attore statunitense, famoso al pubblico per le serie tv Breaking Bad e Malcolm, nonché per film come Contagion, Argo e Godzilla) nelle vesti di Dalton Trumbo, riuscendo nell’intento non indifferente di non risultare forzatamente più interessante rispetto al personaggio che incarna. Per questo film Cranston ha ricevuto una nomination ai Golden Globe, al BAFTA Award, agli Screen Actors Guild Award e ai Premi Oscar 2016 come miglior attore protagonista.


La celebre attrice britannica Helen Mirren (vincitrice del Premio Oscar nel 2007 per The Queen – La regina), invece, veste i panni della giornalista di gossip (ed ex attrice dell’epoca) Hedda Hopper, che spalleggerà e spronerà di continuo Trumbo nel corso delle sue vicende legali. Completano ed impreziosiscono il quadro Diane Lane nel ruolo della moglie Cleo ed Elle Fanning nella parte della figlia Niki.

Uno stravagante scrittore

A partire da giovedì 11 febbraio, esce nelle sale cinematografiche italiane The End of the Tour, distribuito dalla Adler Entertainment, un film che pone al centro dell’obiettivo della telecamera lo scrittore David Foster Wallace, interpretato dall’attore statunitense Jason Segel, intervistato dal giornalista David Lipsky (Jesse Eisenberg). Un incontro contraddistinto da confessioni ed omissioni reciproche, scomode domande e depistanti risposte. Un mix di elementi comunicativi documentati tra viaggi in aereo e sedute davanti alla tv dal regista James Ponsoldt.

 

1996. In occasione del tour promozionale dell’opera intitolata “Infinite Jest”, il romanziere e giornalista David Lipsky frastorna di domande incalzanti per ben cinque giorni lo scrittore David Foster Wallace al fine di intervistarlo per la rivista Rolling Stone.

 

È l’inizio di un lungo percorso che li vedrà condividere l’atmosfera di solitudine che circonda la casa innevata di Wallace, l’affetto dei suoi cani, i lunghi viaggi in auto e in aereo, l’ansia antecedente la lettura di un libro, la conoscenza con due amiche e le interminabili sedute dinanzi al piccolo schermo, la vera grande droga di Wallace.

 

Nel corso di questo arco temporale, i due si studieranno a vicenda, si confesseranno, si odieranno e talvolta arriveranno persino a invidiarsi l’uno con l’altro. Un incontro-scontro che rappresenterà un avvenimento a se stante. Da quel momento, infatti, Lipsky e Wallace non si rivedranno mai più.
Se si analizza di primo acchito The End of the Tour può sembrare un lavoro freddo e privo di pathos. In realtà non è così. Occorre infatti coglierne l’essenza per la quale è stato concepito, allo scopo di estrapolarne il calore profondo e la sua autentica natura.

Jesse Eisenberg (David Lipsky) e Jason Segel (David Wallace) in una scena del film
Jesse Eisenberg (David Lipsky) e Jason Segel (David Wallace) in una scena del film


Siamo perciò di fronte ad un film molto particolare, a primo impatto difficilmente assimilabile. David Wallace era uno scrittore ossessionato dall’idea di divenire la parodia di se stesso, con la logica conseguenza di perdere il contatto con la realtà circostante. La scelta di Jason Segel, in questo senso, risulta azzeccata. L’attore americano (noto al pubblico per alcune pellicole dal tono irriverente e goliardico quali Questi sono 40, Facciamola finita e Sex Tape – Finiti in rete, con Cameron Diaz) infatti compare sul grande schermo con la famosa bandana e con la consueta aria tormentata che lo contraddistingue. Un personaggio sicuramente (e per l’appunto) ai confini con la parodia, ma la sua performance attoriale è nel complesso più che soddisfacente.

 

È dunque possibile definire The End of the Tour come un prodotto a metà strada tra un documentario dal carattere biografico e un’opera di finzione. Una sorta di racconto molto simile a quelli che Wallace correggeva ai suoi studenti.

 

Il rapporto e le dinamiche intersoggettive tra intervistatore ed intervistato si mischiano e si confondono reciprocamente, creando un perfetto amalgama complementare all’interno della coppia. Nota di merito, in questa prospettiva, per Jesse Eisenberg (di cui ricordiamo film come The Social Network, Now You See Me – I maghi del crimine e il recente The Double) nei panni dell’incalzante reporter David Lipsky.

L'attore Jason Segel nelle vesti dello scrittore David Foster Wallace
L’attore Jason Segel nelle vesti dello scrittore David Foster Wallace


Dietro la macchina da presa troviamo il regista statunitense James Ponsoldt (di cui citiamo a titolo esemplificativo Off the Black del 2006, Smashed del 2012 e The Spectacular Now del 2013), il quale ha il merito di ricostruire il viaggio di Lipsky non come un’esperienza indimenticabile, bensì come un’immersione nell’umiltà. Il giornalista del Rolling Stone, infatti, cerca in tutti i modi di trovare il pertugio giusto per affondare le sue domande, ma i suoi tentativi vengono puntualmente vanificati da Wallace.

 

Sia Lipsky che Ponsoldt non potranno mai comprendere chi è veramente David Foster Wallace, né nell’arco di cinque giorni né nel corso dei 106 minuti di durata del film. Tuttavia, entrambi hanno avuto l’occasione di avvicinarsi, lasciandosi influenzare dal suo ego.

 

Infine, non mancano gli elementi creativi. Basti pensare, ad esempio, all’utilizzo di un tipo di linguaggio tutt’altro che comune per una pellicola destinata ad un pubblico variegato e quindi comprendente chi ancora non conosce David Foster Wallace.

Un astro nascente

Un fiore dal profumo inebriante sbocciato immediatamente. Questa potrebbe essere una delle definizioni più calzanti per la famosa attrice statunitense Jennifer Lawrence. In occasione dell’uscita nelle sale cinematografiche del nuovo film intitolato Joy, a partire da giovedì 28 gennaio, ripercorriamo le tappe fondamentali della breve, ma già intensa carriera di uno dei talenti più puri della scuderia hollywoodiana.

Jennifer Lawrence nasce a Louisville (Kentucky) il 15 agosto 1990. All’età di 14 anni convince i suoi genitori, Karen e Gray Lawrence, a condurla a New York per trovarle un agente ed intraprendere così la carriera di attrice.

L’esordio assoluto avviene con le serie tv TBS The Bill Engvall Show, grazie alla quale, per il ruolo interpretato, ottenne uno Young Artist Awards, e Cold Case – Delitti irrisolti.

Il 2008, invece, segna il debutto ufficiale sul grande schermo con le pellicole Garden Party e The Burning Plain – Il confine della solitudine, con Kim Basinger e Charlize Theron. In virtù di quest’ultima opera, la Lawrence riuscì ad aggiudicarsi il Premio Marcello Mastroianni in occasione della 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nello stesso anno comparve nel film The Poker House ed anche in questa circostanza fu premiata ai Los Angeles Film Festival.

Il successo è dietro l’angolo ed arriva puntuale a partire dal 2010. Il film Un gelido inverno consacra definitivamente il talento cristallino di un astro nascente del cinema in procinto di spiccare il volo nell’olimpo di Hollywood.

Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno
Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno


Per aver ricoperto il ruolo della protagonista Ree Dolly, Jennifer Lawrence conseguì numerosi riconoscimenti dalla critica, tra cui il National Board of Review Award per la miglior performance rivelazione femminile, nonché una nomination all’Academy Award nella categoria “miglior attrice protagonista” nel gennaio 2011.

Il 23 marzo 2012 esce nelle sale Hunger Games, tratto dall’omonimo romanzo best-seller di Suzanne Collins, in cui la Lawrence recita al fianco di Josh Hutcherson, Liam Hemsworth e del cantante rock Lenny Kravitz.

Hunger Games
Hunger Games


Per interpretare al meglio la parte della protagonista Katniss Everdeen ,l’attrice americana si prodigò in un duro allenamento che prevedeva esercizi acrobatici, tiro con l’arco, arrampicate sugli alberi e le rocce, combattimenti, corsa, parkour, pilates e yoga. La pellicola fu un vero successo ed incassò ben 152,5 milioni di dollari in soli tre giorni.

La scalata verso la gloria continua con il ruolo di Mystica nel film X – Men – L’inizio, il prequel della celebre saga degli eroi mutanti degli X – Men, coadiuvata, tra gli altri, da James McAvoy e Michael Fassbender.

Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X - men - L'inizio
Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X – Men – L’inizio

 

Coppia fissa

Nel corso della sua brillante e vincente carriera, Jennifer Lawrence ha recitato più volte a fianco del noto attore statunitense Bradley Cooper.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence


È il caso, per esempio, dell’opera intitolata Una folle passione, uscita nelle nostre sale cinematografiche il 30 ottobre 2014 e tratta dal romanzo omonimo di Ron Rash, con la regia di Susanne Bier.

Scena tratta dal film Una folle passione
Scena tratta dal film Una folle passione


La fama internazionale, tuttavia, giunge nel novembre 2012 con Il lato positivo, grazie al quale si aggiudicò un Oscar, un Golden Globe e altri riconoscimenti come miglior attrice.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo


Il suo sodalizio professionale con Bradley Cooper si rafforza e ne viene inaugurato un altro, quello con il regista David Owen Russell.

Il terzo film in compagnia di Bradley Cooper e il secondo con Russell in cabina di regia è American Hustle – L’apparenza inganna, con Christian Bale, Amy Adams e Jeremy Renner. La pellicola è uscita nelle sale italiane il 1° gennaio 2014.

Il cast di American Hustle
Il cast di American Hustle

 

Joy

A partire da giovedì 28 gennaio, grazie alla 20th Century Fox, sarà possibile prendere visione dell’ultimo film con protagonista Jennifer Lawrence, Joy, affiancata da Robert De Niro e, ovviamente, da Bradley Cooper e dalla regia di David O. Russell.

Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell "Joy"
Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell “Joy”. Sullo sfondo Robert De Niro


La pellicola racconta la storia di Joy Mangano, una sorta di Cenerentola moderna sognatrice. Alle prese con la superba e prepotente sorellastra, la ragazza trascorre le sue giornate a pulire casa con uno straccio. Tuttavia, incredibilmente, sarà proprio il brevetto di un semplice e banale panno per pavimenti che condurrà Joy fuori dalla sua insignificante esistenza. Ma la strada per il successo si rivelerà irta d’ostacoli e problemi da superare, un costante slalom tra tradimenti, delusioni ed umiliazioni…

Joy è una commedia drammatica a tinte fiabesche caratterizzata da una voce fuori campo che accompagna lo spettatore nei meandri della vicenda. Se qualcuno dovesse etichettare la nuova fatica di David O. Russell come una soap opera non andrebbe molto lontano dalla realtà. Il linguaggio tipicamente televisivo, infatti, regna sovrano e la scena in cui il producer Neil Walker (Bradley Cooper) spiega a Joy (Jennifer Lawrence) il controverso mondo delle televendite funge da testimonianza principale.

Per questo motivo l’amalgama tra la favola della ragazza che non ha mai smesso di sognare e che riesce a costruire dal nulla un impero imprenditoriale, e l’immaginario collettivo cinematografico non trova una sostanziale coesione strutturale. Nonostante ciò, la prova attoriale di Jennifer Lawrence risulta, come sempre, di ottima fattura.

Il fiore del Kentucky continua a sbocciare…

Steve Jobs: la rivoluzione dell’informatica

Il 5 ottobre 2011 scomparve Steve Jobs, noto fondatore della Apple Inc., nonché inventore del mouse, delle icone, dell’iPhone, dell’iPod e dell’iPad. Un imprenditore visionario che ha saputo ispirare il genio creativo del regista inglese Danny Boyle. Nasce così Steve Jobs – Il film, fresco d’uscita nelle sale cinematografiche italiane grazie alla Universal Pictures. Un’opera biografica con un cast d’eccezione, in cui spicca Michael Fassbender nei panni del compianto informatico statunitense.
 

 
Siamo nel 1984 e il conto alla rovescia per il lancio del primo Macintosh è partito. Quattro anni più tardi toccherà al NeXT, mentre nel 1998 sarà la volta del iMac. Costantemente accompagnato dalla fedelissima Joanna Hoffman (Kate Winslet), Steve Jobs (Michael Fassbender) dovrà affrontare gli imprevisti dell’ultimo momento, i classici ed immancabili contrattempi che puntualmente fanno la loro comparsa sotto le sembianze di alcuni personaggi: Lisa, la figlia diciannovenne (Perla Haney-Jardine), Chrisann Brennan, madre di Lisa (Katherine Waterston), Steve Wozniak, il partner da sempre collaboratore fin dagli inizi di Los Altos (Seth Rogen), John Sculley, amministratore delegato della Apple (Jeff Daniels) ed Andy Hertzfeld, l’ingegnere del software (Michael Stuhlbarg).
 
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Il film di Danny Boyle (di cui ricordiamo Trainspotting, The Millionaire e 127 ore) è dotato di un’ottima ed intuitiva idea grafica. D’altra parte non poteva essere altrimenti, dato che stiamo parlando di un inventore informatico che ha fatto dell’anomalia il suo credo principale. Ispirato alla biografia di Walter Isaacson, Steve Jobs – Il film è altresì basato sul punto di vista del drammaturgo Aaron Sorkin, il quale, lungi dal raccontare la classica storia a tutti già nota del successo professionale affiancato dagli insuccessi nel campo privato, mischia le carte in tavola, mettendo in primo piano il successo umano ottenuto attraverso numerose fatiche e inanellando diversi momenti di decadenza personale, rappresentata da sogni andati in frantumi e addirittura da umiliazioni pubbliche. Tutto ciò non deve farci ingannare. Steve Jobs è un uomo caparbio, arrogante e anticonformista. Egli è altresì perfettamente consapevole dei suoi limiti e dei lati deboli del suo carattere, ma altrettanto saldo nei suoi difetti. Tuttavia, proprio grazie a queste qualità e a questi lati negativi della sua personalità, egli riuscì a creare prodotti imperituri e rivoluzionari. È proprio in questo contesto che Jobs viene dipinto come un leader a cui non interessa il gradimento della folla. Per lui ciò che conta è lasciare un segno indelebile nella storia. In fin dei conti il popolo, col passare del tempo, capirà, e Lisa, in rappresentanza della critica del volgo, farà lo stesso.
 
La pellicola è completamente ambientata dietro le quinte. Attraverso le lenti degli occhiali del protagonista Michael Fassbender, il pubblico prenderà visione di un artista le cui doti personali hanno fatto la differenza nel mondo dell’informatica. Steve Jobs era un mix di tecnica e capacità interpretativa, una sorta di direttore d’orchestra in grado di far suonare ogni singolo strumento in perfetta armonia con la propria concezione dell’arte.

 

Approfondimenti e curiosità
 

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Steve Jobs (24/02/1955 – 5/10/2011)

 
Steven Paul Jobs nacque a San Francisco il 24 febbraio del 1955. Egli fondò la Apple Inc. e la società NeXT Computer. Fu inoltre amministratore delegato di Pixar Animation Studios (prima dell’acquisto da parte della Walt Disney Company). Una delle sue invenzioni più importanti e rivoluzionarie fu l’”Apple Lisa”, il primo Pc dotato di mouse. Jobs fu uno dei primi informatici ad intuire le diverse funzionalità e potenzialità del mouse e dell’interfaccia a icone presenti sui Xerox Star arrivando a realizzare il Macintosh.
 
Il 2003 segna l’inizio della parabola discendente della salute di Steve Jobs. A causa di una rara forma di tumore maligno al pancreas da poco riscontrata, egli sviluppò il diabete di tipo 1, lasciando temporaneamente il posto di amministratore delegato di Apple a Tim Cook per circa due mesi.
 
Nell’aprile del 2009 Jobs subì un trapianto di fegato nel Tennessee.
 
Il 17 gennaio 2011 Apple annunciò che Jobs aveva richiesto un nuovo congedo medico.
 
Il 5 ottobre dello stesso anno, a soli 56 anni, Jobs morì a causa di una recrudescenza del carcinoma con conseguente arresto del sistema respiratorio.
 
Il 12 febbraio 2012, in occasione della cerimonia di consegna dei Grammy Awards, la National Academy of Recording Arts and Sciences insignì Steve Jobs con un’onorificenza ufficiale postuma per aver fortemente contribuito alla creazione di prodotti e tecnologie che hanno saputo trasformare le modalità di ascoltare la musica, guardare la televisione e i film e leggere i libri.