Beppe Grillo e la guerra santa contro i giornalisti

Beppe Grillo lancia #chiedeteciscusa e #GiuriaPopolare contro i #Giornalisti.
Ma lui – che ha tantissimi lettori e dovrebbe essere responsabile dei contenuti che diffonde – ha mai fatto una rettifica? Ha mai chiesto scusa per una sola delle centinaia di BALLE che ha spammato per anni?

No, lui “la piazza” la conosce bene e ha passato anni fomentando rabbia da tradurre in consenso elettorale per il partito di cui è proprietario unico. Un partito che ha venduto alla gggente come “spontaneo” senza padroni e senza nessuno alle spalle. Poi “qualcuno” ha scoperto la Casaleggio. Hanno negato. Poi è diventata “una cosa normale”.


Si lui la piazza la conosce bene. Sa che basta millantare un complotto, parlare di poteri forti, lobby occulte, e la gggente ci crede. Basta dirgli che “la colpa dei loro mali” è altrove e da attribuire a qualcun altro. Basta promettergli un reddito aggratis senza lavorare per comprarsi le simpatie della gggente. Basta dire che “il debito pubblico” non dobbiamo pagarlo, ma rinegoziarlo.


Certo da uno abituato a condoni fiscali e condoni immobiliari che ti aspetti.
Da uno di cui non è dato sapere quanto incassa dal blog, dalla pubblicità, dove vadano questi soldi.
Da uno il cui movimento politico non è in regola con la legge sui partiti – per cui non può nemmeno chiederli i contributi pubblici – ma afferma che quei contributi “li restituisce”.


Da uno che “vogliamo gli scontrini” e i suoi parlamentari non rendicontano da anni…
Da uno che alle europee #vinciamonoi e non ha mai dichiarato a quale gruppo avrebbero aderito. E poi senza che nessun elettore lo sapesse sono andati con l’UKIP, coi nazisti svedesi. Oggi cambia e vuole andare in ALDE. Gli chiudono la porta in faccia e torna da Farage. E tutte le pecore belanti non si fanno una sola domanda, non assumono mezza posizione critica.
Caro Beppe, volevo scriverti che sei tu che devi #ChiedereScusa. E invece no. Siamo noi che dobbiamo toglierci il cappello di fronte a tanta genialità. Complimenti Beppe. Si certo, dovresti chiedere scusa ai bambini ammalati perché hai convinto alcuni genitori che i vaccini erano un complotto, o che l’HIV non esisteva (ma la rete lo ha dimenticato stai sereno). Ma cosa importa?


Basta che il tuo popolo clikki, che ti applauda, che ti difenda coi paraocchi in rete, che ti renda un eroe. Basta che tu gli dia “i potenti alla forca”, che alimenti questo senso apparente di catarsi collettiva stile VaffaDay. Perché si, che vuoi che sia immaginare un paese governato dai congiuntivi di Di Maio, da un Di Battista agli esteri (lui che voleva dialogare con ISIS), un Carlo Sibilia a Università e Ricerca (lui che ha le prove degli alieni nascosti in Area51). E potremmo continuare… quel governo sarà il tuo capolavoro. E finalmente l’emblema dell’Italia peggiore.
Grazie Beppe per mostrarci il fondo. Si dobbiamo chiederti scusa.


P.s. A proposito di fake news.
Sul blog è uscito un pezzo che magnificava le gesta dell’amministrazione Raggi.
Poi quei membri del complotto della macchina del fango dei poteri forti da mettere alla gogna (i giornalisti, nel caso specifico Repubblica) si son presi la briga di fare un fact-checking
Ovviamente, nessuno ha chiesto scusa per le numerose balle. Quelle sul blog però.


Grillo e la guerra santa ai giornalisti

In difesa di Virginia Raggi

Scritto da me, con questo titolo, può sembrare fuorviante o strano, ma in realtà lo penso davvero.
Io personalmente Virginia Raggi la difendo. Molto, ma molto meno, il popolo romano.
Certo, i romani avevano un’attenuante. Le classi politiche precedenti di ogni colore, il malaffare, la città lasciata a se stessa, le periferie non ne parliamo, Mafia Capitale (a proposito, dopo tanto clamore 113 persone indagate non sono nemmeno state rinviate a giudizio perché “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”, ma ovviamente è passato in sordina).


Hanno ceduto alle lusinghe ed alle facili promesse di un “pseudo nuovo” che si prometteva rivoluzionario. Eppure quello pseudo nuovo lo conoscevano bene. Sapevano chi era Virginia Raggi e conoscevano le beghe interne e la “qualità” della lunga lista di parlamentari laziali.
Perché dunque oggi attaccare una Virginia Raggi che tutti sapevamo essere quella che si è dimostrata?


Andiamo con ordine: quale novità nel fatto che fosse telecomandata da Grillo e nelle mani della Casaleggio? Lei, scelta con finte selezioni online dove si fronteggiavano Taverna, Lombardi, Di Maio, Di Battista e tutte le fronde di quel micromondo grillino degli ex meet-up che tutti conoscono. Scelta in una guerra di potere interno – che oggi emerge in tutta la sua esasperazione, e decisamente squallore – a caccia di una garanzia di riconferma per quattro comici-sparuti-guerrieri miracolati dal populismo. Scelta anche “aprendo e chiudendo” la possibilità di votare non si sa bene a chi, con dati verificabili da nessuno, e su cui nessuno di quelli anche chiamati a testimoniare in tribunale si presenta a spiegare.


Lei, tutto sommato un faccino pulito telepresentabile. Lei considerata dai “big” dell’ormai archiviato “direttorio” (Chi se lo ricorda? Scelto da chi? Nominato a fare che?) come una “non minaccia” alla loro leadership e visibilità. Già, dopo il “gran rifiuto” di Di Battista che dietro la linea della coerenza malcela le due verità personali: uscire dalla Camera e non pesare più per la corsa al Governo, doversi impegnare nell’amministrare (arte meno mediatica e più problematica). Macché.
Lei che tutti potevano “gestire” per mettere lì “i propri uomini” per rafforzare la propria capacità di rielezione e di potere personale.


Ma “sta porella” cui tutti hanno imposto qualcosa per stare lì, in fondo, che doveva fare?
Certo – lei – non è esente da furberie. Forse la più brillante in Campidoglio (soprattutto a scansarsela in tempi bui) se fosse rientrata come consigliere avrebbe da consigliere concluso la sua carriera. Già, la storia dei due mandati la ricordate? Due turni e poi a casa. È questo che brucia ai Frongia e compagnia. E questo “count down” scuote i movimentisti della prima ora. Quelli che hanno dato forza al Movimento e che oggi “che c’è da raccogliere” (risultati, visibilità e poltrone) rischiano di trovarsi “al secondo mandato e a casa”.
Ma non temete. Come sempre è stato nella creatura Grillina – come nella fattoria degli animali di Orwell – di notte qualcuno (nominato e scelto da nessuno) con sommi poteri cancellerà queste regole con qualche nuova opportunistica eccezione. E noi, qui, attendiamo la prossima.


Dunque la domanda è sempre la stessa, cosa ci si aspettava di più da questa furbetta che si è presentata come innocua, ha semplicemente omesso – piccolo opportunismo che derubrichiamo a peccato veniale – di dire che ha lavorato nello studio Previti (perché nel Movimento dei duri e puri non faceva bello)? Che ha omesso di dichiarare gli incarichi ricevuti da altre amministrazioni pentastellate (e di chi altri potevi fidarti), e che si è presentata come giovane avvocato acqua e sapone che al webbe tanto poteva piacere? Del resto a quella vittoria romana credevano in pochi, ed era un modo per uscirne puliti.


Certo, da un avvocato ci si poteva aspettare qualcosa in più di alcune nomine in abuso di potere in atto pubblico, ma in fondo che ha fatto? Quelli – i Romeo, i Marra, le Muraro – sono solo passate a incassare un credituccio, le hanno detto “nominami…” e lei, ingenua, ha solo assegnato dei ruoli. Del resto, di chi poteva fidarsi?
Scopre poi una polizza a lei intestata. Ovvio che sia “un amore non corrisposto”. Qualcuno – tra cui la Procura di Roma – parla e indaga su un “sistema polizze”. Ma si sa – il concetto è abbondantemente sdoganato – che la magistratura vede il marcio anche dove non c’è, non concepisce un amore non corrisposto. E la macchina del fango dei poteri forti che controllano la stampa di regime è pronto a fermare la rivoluzione. Si sa.
Dunque, da “sta porella”, un po’ tutti – cittadini rimani inclusi – ma che ci aspettavamo?
Che doveva fare, o meglio, che poteva fare?


Un non partito senza classe dirigente, senza persone capaci e formate, senza alcuna selezione, in preda alla guerra di potere interna, dove qualsiasi consiglio e suggerimento è un tassello che guarda altrove… e del resto “dopo anni di malgoverno vuoi che in pochi mesi si risolva tutto?”
Qualcuno potrebbe eccepire “risolvere tutto no, ma almeno una giunta…”
Già, la giunta. Dove nessuno di veramente alto e qualificato si assume la responsabilità di firmare un bilancio e alla terza sostituzione nomini al bilancio i tesoriere della tua campagna elettorale, che con tutto il rispetto non è proprio la stessa cosa.


Intanto ha detto due no pesanti. No alle Olimpiadi – che è tutto un magna magna – e no allo Stadio della Roma, che non costava un euro di soldi pubblici.
Ah no, quel no lo ha detto l’assessore all’urbanistica.
Già Berdini quello che ha detto “su certe scelte sembra inadeguata per il ruolo che ricopre. Sembra impreparata strutturalmente, non per gli anni” e “si è messa in mezzo a una corte dei miracoli”, “s’è messa vicino una banda”.
Il riferimento – spiega Repubblica – sembra essere a quei “quattro amici al bar” – così si chiamava la chat Telegram che comprendeva Raggi, l’ex vicesindaco Daniele Frongia, l’ex capo del personale Raffaele Marra (arrestato per corruzione il 16 dicembre) e l’ex capo della segreteria politica Salvatore Romeo, ora indagato insieme alla sindaca per abuso d’ufficio a proposito della sua nomina (con cui era passato dal ruolo di semplice dipendente a quello di dirigente mettendosi in aspettativa e con lo stipendio triplicato sopra i 100mila euro, poi ridotto a 93mila per l’intervento dell’Autorità anticorruzione).


Insomma, tutti ex, non sappiamo se sempre amici e sempre al bar, e qualche peccatuccio veniale sul quale – in coerente stile italico – ne vedremo ancora uscire fuori di cose. Perché sullo sfondo di questa vicenda quello che rimane è lo scontro “tra ladri di galline” dei big parlamentari di un movimento che ormai ha più correnti che eletti.
Disse Fassino a Grillo “provaci a fare un partito, vediamo se ci riesci”. Prendere voti “alla Grillo” è facile, è fare un partito che è tutta un’altra storia. E di questa mancanza, ancora una volta, davvero la colpa e della Raggi?
Io non credo. Lei al massimo ha colto la sua opportunità. Diciamo un’altra miracolata di quella corte dei miracoli senza arte né parte di un movimento che doveva rappresentare i cittadini, e che invece rappresenta la parte peggiore dell’italietta provinciale.

L’epopea dei rimborsi 5 stelle

Cominciamo dall’ultima bufala.
Secondo il cittadino-deputato Toninelli il Partito Democratico vorrebbe far multare il Movimento 5 Stelle per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Il deputato lancia l’allarme su Facebook con preghiera di «massima diffusione».
Secondo la sintesi di Toninelli l’emendamento al milleproroghe direbbe che «chi non si iscrive al Registro dei partiti per avere i finanziamenti pubblici, subisce una multa di 200.000 euro». Ma a rileggere il testo si scopre che l’emendamento dice tutt’altro: «Ai partiti e ai movimenti politici che non ottemperano all’obbligo di trasmissione degli atti di cui al secondo e al terzo periodo del presente comma, nei termini ivi previsti, o in quelli eventualmente prorogati da norme di legge, la Commissione applica la sanzione amministrativa di euro 200.000». e cosa dice il testo di legge emendato? L’articolo 9 comma 4 della legge 69/2012 afferma che i partiti sono tenuti a presentare i documenti relativi alla loro rendicontazione, tra cui «la relazione contenente il giudizio espresso sul rendiconto dalla società di revisione». Obbligo inserito non per ottenere i rimborsi elettorali ma per «garantire la trasparenza e la correttezza nella propria gestione contabile e finanziaria».E scopriamo quindi che il Movimento 5 stelle non è obbligato a chiedere i rimborsi elettorali e non rischia una multa perché non vuole usufruirne ma la rischia semmai perché – caso unico in tutto il parlamento – non presenta un bilancio consolidato.
Mica male per il partito di quel Beppe Grillo che avrebbe “aperto il parlamento come una scatoletta di tonno” e che lo avrebbe reso una casa trasparente.


Beppe Grillo aveva annunciato il politometro per misurare redditi e patrimonio dei politici prima durante e dopo l’attività politica. Nel 2013 Luigi Di Maio dichiarava zero euro, e nell’ultimo anno ha dichiarato 98.471 euro. E così anche i vari Fico (che viveva di rendita a spese di mamma e papà) o Di Battista. Tutti poco distanti dai 100mila euro annui.
Il partito nato nel giorno di San Francesco, e che al Santo avrebbe dovuto ispirarsi (cit. Casaleggio) aveva anche promesso che i propri eletti non avrebbero percepito più di 2500 euro al mese. Poi passati a 3.000, poi ” a discrezione”, ma da rendicontare sul famoso sito. Peccato che da oltre un anno quel sito non sia aggiornato.
Peccato anche dei soldi delle spese di funzionamento dei gruppi parlamentari – cifre spese a discrezione dei gruppi stessi – on si abbia rendicontazione: parliamo di poco meno di 50mila euro a parlamentare all’anno, che assommano nel caso specifico a circa 6 milioni, che per cinque anni di legislatura fanno 30milioni di euro, cui il M5S non ha di certo rinunciato.


Come detto altre volte, il Movimento 5 Stelle afferma in continuazione di aver rinunciato a 45milioni di euro di rimborsi elettorali. E come detto altre volte la cosa sarebbe vera se il M5S rispettasse la legge e avesse davvero diritto a quei soldi. Violando la legge, non presentando i propri bilanci, non può nemmeno fare istanza, figuriamoci ottenere quelle cifre.


Ma c’è un escamotage tutto loro fa rientrare dalla finestra quello cui non si ha diritto che entri dalla porta.
I parlamentari pentastellati richiedono mensilmente circa il doppio, in rimborsi, di un “normale” parlamentare di altri partiti.
Facciamo qualche esempio. Mario Giarrusso a novembre 2015 ha incassato 3.362 euro di quota fissa di indennità (restituendo 1.662 euro) cui ha aggiunto 10.066 euro di “rimborsi e spese varie”: alloggio (francescano) 1.880 euro, 1.182 euro di trasporti (nonostante le agevolazioni!)); vitto, 1.149 euro (ha mangiato il triplo di una famiglia media italiana messa assieme); attività sul territorio, 713; collaboratori, 4.678. Non si allegano ricevute, scontrini, dettagli.
Carlo Sibilia a ottobre ha incassato 3.245 euro di indennità, più rimborsi per 10.516 euro.
Luigi Di Maio, a ottobre ha incassato 3.246 euro, restituendo 1.694 euro ma aggiungendo 10.516 euro di rimborsi, di cui 9.710 euro per «attività ed eventi sul territorio». Nessuna fattura, ricevuta, scontrino.


Normalmente, un parlamentare può legittimamente richiedere questi rimborsi per lo svolgimento della sua attività, ed altrettanto normalmente, questi rimborsi sono mediamente la metà di quelli richiesti dai 5 stelle. Altrettanto normalmente le spese per i collaboratori “regolari” sono pagate direttamente dalla camera di appartenenza, e quindi non figurano in questi rimborsi.
Sia chiaro, è tutto legale, si può fare, la legge lo consente.
Ma la domanda è, ha senso restituire 1.600euro per poi goffamente gonfiare un rimborso spese senza alcuna pezza d’appoggio, per usare semmai quei soldi per finanziare l’attività politica? Non è più lineare mantenere i rimborsi nella misura corretta e reale, e usare i soldi dei rimborsi elettorali per finanziare le attività sul territorio?
Perché alla fine, a ben vedere, il rischio è duplice.
Da un lato 10mila euro per 12 mesi per cinque anni per 120 parlamentari fa circa 72milioni.
Ovvero il doppio di quelli cui il M5S francescano, ha francescanamente rinunciato.
Dall’altro il rischio concreto è che essendo soldi che non vanno al partito ma usati dal singolo parlamentare, questi soldi servano e vengano adoperati per costruire ed alimentare il proprio piccolo orticello personale – e non attività collettive di tutto il partito/movimento (come sedi, sezioni, attività generali).

La politica e i mass media, un rapporto problematico

Il nuovo villaggio globale è sempre più simile ad un mondo “iperinformato” in cui spesso è difficile orientarsi, in cui la domanda di informazione viene spesso confusa con l’offerta di opinione, ed in cui mancano gli strumenti di discernimento e di individuazione del corretto confine tra ciò che è fatto, ciò che è notizia, ciò che è informazione e ciò che è opinione. Eppure, nella nostra cultura, è solo attraverso un corretto processo informativo che può trovare le sue basi quella coscienza e consapevolezza attraverso cui il cittadino esercita i suoi diritti, risponde e chiede conto dei doveri, e determina la vita dei processi democratici.


Qualsiasi sia quindi il medium di cui parliamo, occorre essenzialmente una riflessione critica sul sistema dell’informazione e dei mass media, su come spesso attraverso un legame non sempre chiaro e limpido la politica trasforma se stessa in fenomeno mediatico e il sistema dell’informazione diventa un pezzo della comunicazione politica, spesso quello centrale e determinante, ed in cui il web, lungi dall’avere una propria dimensione autonoma, finisce con l’essere territorio di amplificazione di questo o quel messaggio.
Tutto questo pone seri problemi a quei sistemi che si definiscono democratici.
 Innanzitutto problemi di accesso, legati ad esempio all’utilizzo del mezzo televisivo come medium principale della comunicazione di massa.


L’esasperazione della politica per media-eventi e l’eccesso di cultura dello scandalo riducono la possibilità di accesso per eventuali nuovi soggetti politici, e questo anche quando il rapporto diretto tra sistema televisivo, governance e governo non pongano vere e proprie barriere a tale accesso.
Se questo non è tanto rilevante in un sistema di tipo anglosassone, dove regole di deontologia professionale consolidate come “pezzi intrinsechi del sistema democratico” lasciano ancora prevalere il principio per cui “una notizia è una notizia” (e quindi anche i candidati con poche chance concrete hanno comunque un minimo accesso al sistema informativo), in altre democrazie questo principio (e la sua conseguente garanzia) è decisamente più labile.


Ciò pone un problema quindi oggettivo per il pluralismo democratico anche in considerazione della capacità di “raccolta fondi” necessaria ad ogni azione di ogni soggetto politico.
Pochi ad esempio sanno che negli Stati Uniti esiste comunque un sistema di finanziamento pubblico per concorrere anche alla carica presidenziale. Tuttavia quel sistema pone il candidato ad un bivio: ricorrere al finanziamento pubblico esclude completamente la possibilità di raccolta di fondi privati. E dato che in quel sistema i secondi sono decisamente superiori ai primi, difficilmente qualcuno ricorre alla soluzione pubblica.


In sistemi a democrazia meno partecipata (finanziariamente) il limite all’accesso alla comunicazione/informazione di massa limita enormemente la capacità di raccolta fonti e di organizzazione politica. 
E questo è un dato che possiamo anche leggere tenendo conto di ciò che avviene quando il sistema politico e sociale nel suo complesso arriva a un punto di rottura.
 È il caso della Spagna, come dell’Italia, della Grecia e di quasi tutti i paesi colpiti dalla recente crisi economica. Qui sostanzialmente il sistema dei vecchi partiti per decenni ha impedito l’accesso all’informazione come forma di comunicazione politica, di fatto “alimentando l’esistenza di se stessa” semplicemente impedendo che emergessero nuovi leader o nuove formazioni politiche.
 In termini di marketing veniva di fatto limitata la conoscenza di una più ampia gamma di “offerta politica” all’interno del sistema, obbligando i cittadini a scelte forzate tra quelli che venivano presentati come gli unici partiti/schieramenti possibili.
 Al variare delle condizioni economiche, e quindi sociali, del sistema paese nel complesso considerato, l’emersione di “partiti nuovi” è stata dirompente: non in tutte le direzioni della reale offerta politica, ma favorendo esclusivamente quei partiti con una forte connotazione populista e con un messaggio/programma fortemente virale e viralizzabile, spesso abbinato alle nuove forme dei media emergenti (come il web e i social network) che hanno integrato e talvolta sostituito pesantemente i tradizionali canali dell’informazione e della comunicazione.


Questa dirompenza – che va da Tsipras al Movimento 5 stelle a Podemos ma anche ai partiti neonazisti nei paesi dell’est europa come all’ UKIP in Inghilterra e al Salvinismo e Lepenismo italiano e francese (come possiamo notare ben oltre ogni idea di omogeneità e attraverso percorsi ideologici e sociali e programmatici eterogenei) – non ha nulla di politico nel senso tradizionale del termine ma va a riempire alcuni vuoti sostanziali dei partiti politici tradizionali.


Un’Europa che si è trasformata profondamente ed in un tempo complessivamente estremamente ridotto non ha avuto una classe politica capace di accompagnare, gestire e comunicare queste trasformazioni: la paura del nuovo e l’incertezza conseguente, amplificata dagli effetti della crisi economica e finanziaria globale, hanno semplicemente ricondotto ampie fasce dell’elettorato a questi soggetti che avevano alcune caratteristiche semplici ed immediatamente riconoscibili: lontananza dai partiti tradizionali, novità, non essere stati parte di alcun governo precedente, una forte critica all’Europa ed alle sue istituzioni e simboli, un forte richiamo alla tipicità locale/regionale/nazionale, una proposta politica basata sulla disintermediazione politica e una maggiore partecipazione e coinvolgimento diretto.


Il resto lo hanno fatto i “vecchi partiti”: gestendo poco e male la crisi, sottovalutando i fenomeni “esterni” alla tradizione della mediazione parlamentare, non comprendendo la domanda che veniva posta alla politica e snobbando elitariamente i nuovi soggetti politici che si affacciavano sulla scena.
 Un errore non solo di comunicazione che di fatto ha consolidato, trasformato e radicalizzato la forza di tutti questi partiti.
E tuttavia questa apparente “rivoluzione” che si è spesso nutrita di “web come nuovo medium” e morte dei media precedenti, era in sé – da un punto di vista della comunicazione politica – una farsa, un opportunismo che è stato presto compreso dai soggetti stessi della comunicazione e dell’informazione. 
Se guardiamo oggi ciò che avviene nei sistemi dell’informazione politica tradizionale possiamo osservare – sia quantitativamente che qualitativamente – come le nuove star dei programmi di giornalismo ed informazione politica siano proprio i “soggetti esterni” alla cd. politica dei partiti.
 Lanciati e sostenuti dalla propria organizzazione di supporters in rete, i rappresentanti di tutti questi nuovi soggetti politici sono i veri fenomeni tele-mediatici, capaci di sollevare spesso le sorti dello share dei tradizionali talk-show politici.


Se Donald Trump vale da solo il 50% dello share delle trasmissioni dei dibattiti delle primarie repubblicane americane, non sono da meno in Italia Salvini o Di Battista (per non citare la partecipazione di Grillo a Porta a Porta – segno inequivocabile che la televisione era e resta il medium per eccellenza per la politica di massa), per non parlare della Le Pen in Francia che può dettare tempi e condizioni per qualsiasi intervista, o di come ha riposizionato se stesso Varoufakis dopo le dimissioni da ministro delle finanze in Grecia.

Quello di Grillo non chiamatelo razzismo

L’altro giorno Beppe Grillo ha pubblicato sul suo blog un lungo articolo con una serie di proposte in materia di immigrazione. Come spesso fa per i temi più delicati (di recente un delirante attacco complottista verso Monica Maggioni), l’articolo non era direttamente a firma sua, ma “dava spazio” alle proposte di alcuni rappresentanti del MoVimento. A corredo del post una vignetta in stile ventennio, sia da un punto di vista grafico che contenutistico e stilistico.
Il tema non è nuovo sul blog di Grillo, e nemmeno tra i rappresentanti del suo Movimento.
Ne abbiamo parlato ad ottobre 2013, e già allora si trattava di una raccolta di materiali ed esternazioni perfettamente coerenti tra loro e precedentemente ad agosto.


Come scrissi già a maggio 2014 in realtà il tema non è però “un vero e concreto atteggiamento razzista”. 
Si tratta piuttosto di una strategia fondata essenzialmente su due concetti: Odio e paura. Se dovessimo sintetizzare in due parole gli elementi che con maggiore facilità attraggono elettorato e sostenitori massimalisti queste sono le due parole chiave.
 L’odio verso un qualsiasi diverso, ma anche verso qualsiasi nemico che venga additato come l’origine dei nostri mali: immigrati, euro, Europa, poteri forti, ma anche chi ha un’altra religione o semplicemente la pensa diversamente da noi e ci mette in difficoltà con il suo ragionamento. 
Paura è l’altra condizione necessaria: “cosa accadrebbe se…” condito da qualsiasi sciagura vera o presunta purché esprimibile in tre, massimo quattro parole. Anche qui la paura di perdere qualcosa, che sia un diritto, soldi, privilegi, posizione, ma soprattutto certezze, convinzioni, di dover mettere in discussione il proprio modo di vivere e pensare.
 Era il 22 aprile di quest’anno quando Grillo scrisse un allarmistico messaggio su Facebook “In arrivo un milione di immigrati. Bisogna agire subito!” rinviando per ulteriori informazioni sulla fantasiosa notizia inevitabilmente al link del suo blog.



A giugno – sempre sul tema immigrazione – è la volta di Di Maio, sulla sua pagina facebook. Una declinazione del tema e delle ricette per gestire questo fenomeno che mostravano tutta l’inadeguatezza del soggetto proponente, per non dire vera e propria ignoranza.

 La sociologa e giurista Iside Gjergji sul suo blog sul FattoQuotidiano a proposito dell’ultimo (cronologicamente parlando) post sul blog di Grillo parla di “razzismo a cinque stelle” e scrive: il post del pentastellato consigliere comunale di Torino, Vittorio Bertola, contenente proposte politiche in tema di immigrazione, non avrà procurato neanche un minimo spostamento del sopracciglio destro. Il post non rappresenta, infatti, nessuna novità circa le posizioni (cripto)fasciste e di destra, dunque razziste, espresse da molti esponenti di tale movimento, sia prima che dopo l’alleanza europea con Ukip. Un mix di ignoranza, di razzismo, di linguaggio da bar e di brama populista, mirante a togliere voti e simpatie a forze politiche più simili (almeno rispetto all’idea complessiva di società), ovvero al cartello elettorale Lega Nord-Casa Pound, permea molte parole delle proposte del consigliere. 



Lieti che il Fatto – testata da sempre molto vicina al M5S – se ne sia accorto.
Ma qui il razzismo c’entra poco. La questione è differente e più rozza, meno intellettuale, meno concettuale. Ben lontana dai vari “razzismi scientifici” che abbiamo conosciuto e conosciamo [che poi si tratta di una contraddizione in termini dal momento che la scienza se una cosa ha dimostrato è l’infondatezza delle ragioni del razzismo, ma questa è un’altra storia].
Quello di Grillo – e anche più dei suoi “eletti” – non è affatto razzismo. E a dirla tutta anche del tema immigrazione a loro, fondamentalmente, interessa nulla, tanto che anche quando presi in castagna e confutati, non si degnano nemmeno di un minimo di approfondimento o di replica. 
Il loro è becero, bassissimo, calcolo politico, demagogicamente parlando allo stato quasi puro. A scrivere questa volta è un consigliere comunale di Torino, altre volte fu Grillo che ricordava che “se avessero detto certe cose avrebbero preso percentuali da prefisso telefonico”. 



Qui si tratta di dire banalmente le cose che “tirano il sentiment”, in rete e nella piazza. Prendere i voti dicendo le più amene cretinaggini basta che siano efficaci sul territorio. Per Bertola nè più nè meno che uno spot personale a caccia di qualche votarello leghista. Per Beppe, inseguire Salvini sul suo terreno. Niente di più. È la solita formuletta chimico-matematica del “distillare l’odio, alimentando l’ignoranza e facendola crescere al fuoco lento della paura costante”. 
La formula è antica: è la paura del diverso, che diventa immediatamente nemico, cui vengono attribuiti tutti i mali patiti: dalla sua sconfitta il nostro benessere. È così da sempre, sino a Hitler con gli ebrei o con le razze inferiori. Ma almeno quello era razzismo “vero”, che pretendeva e inventava ragioni e fondamenti scientifici al suo fondamento.


Questo è solo e becero accattonaggio di qualche consenso facile.
 Distillando odio, alimentando ignoranza e paura.
 A Grillo c’è da fare i complimenti però, per riuscire a far stare insieme i neo accattonati voti leghisti, con i precedententi delusi del centrosinitra, che difficilmente avrebbero immaginato di condividere queste posizioni. Ma anche in questo il collante più vecchio del mondo fa il suo dovere: l’odio verso “la politica vecchia e corrotta” è un evergreen che unisce tutti… poi si vedrà. 
È una corsa contro il tempo, perchè un consenso così eterogeneo difficilmente lo tieni insieme a lungo, specialmente se “gli altri” fanno qualche riforma, o peggio ancora se con la nuova legge elettorale rischi di prendere tanti voti e molto pochi seggi.
 Da qui la spinta delle ultime ore: “andare ad elezioni il prima possibile”, pena scomparire e perdere consenso.
 Ma la storia insegna che se vinci le elezioni con un popolo in maggioranza fomentato dall’odio, dalla paura, e intriso di ignoranza e di “false informazioni” con cui hai alimentato questo odio e questa paura, poi, c’è un solo modo per governarlo. E questi tempi ce li eravamo lasciati alle spalle circa settant’anni fa.