In difesa di Virginia Raggi

Scritto da me, con questo titolo, può sembrare fuorviante o strano, ma in realtà lo penso davvero.
Io personalmente Virginia Raggi la difendo. Molto, ma molto meno, il popolo romano.
Certo, i romani avevano un’attenuante. Le classi politiche precedenti di ogni colore, il malaffare, la città lasciata a se stessa, le periferie non ne parliamo, Mafia Capitale (a proposito, dopo tanto clamore 113 persone indagate non sono nemmeno state rinviate a giudizio perché “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”, ma ovviamente è passato in sordina).


Hanno ceduto alle lusinghe ed alle facili promesse di un “pseudo nuovo” che si prometteva rivoluzionario. Eppure quello pseudo nuovo lo conoscevano bene. Sapevano chi era Virginia Raggi e conoscevano le beghe interne e la “qualità” della lunga lista di parlamentari laziali.
Perché dunque oggi attaccare una Virginia Raggi che tutti sapevamo essere quella che si è dimostrata?


Andiamo con ordine: quale novità nel fatto che fosse telecomandata da Grillo e nelle mani della Casaleggio? Lei, scelta con finte selezioni online dove si fronteggiavano Taverna, Lombardi, Di Maio, Di Battista e tutte le fronde di quel micromondo grillino degli ex meet-up che tutti conoscono. Scelta in una guerra di potere interno – che oggi emerge in tutta la sua esasperazione, e decisamente squallore – a caccia di una garanzia di riconferma per quattro comici-sparuti-guerrieri miracolati dal populismo. Scelta anche “aprendo e chiudendo” la possibilità di votare non si sa bene a chi, con dati verificabili da nessuno, e su cui nessuno di quelli anche chiamati a testimoniare in tribunale si presenta a spiegare.


Lei, tutto sommato un faccino pulito telepresentabile. Lei considerata dai “big” dell’ormai archiviato “direttorio” (Chi se lo ricorda? Scelto da chi? Nominato a fare che?) come una “non minaccia” alla loro leadership e visibilità. Già, dopo il “gran rifiuto” di Di Battista che dietro la linea della coerenza malcela le due verità personali: uscire dalla Camera e non pesare più per la corsa al Governo, doversi impegnare nell’amministrare (arte meno mediatica e più problematica). Macché.
Lei che tutti potevano “gestire” per mettere lì “i propri uomini” per rafforzare la propria capacità di rielezione e di potere personale.


Ma “sta porella” cui tutti hanno imposto qualcosa per stare lì, in fondo, che doveva fare?
Certo – lei – non è esente da furberie. Forse la più brillante in Campidoglio (soprattutto a scansarsela in tempi bui) se fosse rientrata come consigliere avrebbe da consigliere concluso la sua carriera. Già, la storia dei due mandati la ricordate? Due turni e poi a casa. È questo che brucia ai Frongia e compagnia. E questo “count down” scuote i movimentisti della prima ora. Quelli che hanno dato forza al Movimento e che oggi “che c’è da raccogliere” (risultati, visibilità e poltrone) rischiano di trovarsi “al secondo mandato e a casa”.
Ma non temete. Come sempre è stato nella creatura Grillina – come nella fattoria degli animali di Orwell – di notte qualcuno (nominato e scelto da nessuno) con sommi poteri cancellerà queste regole con qualche nuova opportunistica eccezione. E noi, qui, attendiamo la prossima.


Dunque la domanda è sempre la stessa, cosa ci si aspettava di più da questa furbetta che si è presentata come innocua, ha semplicemente omesso – piccolo opportunismo che derubrichiamo a peccato veniale – di dire che ha lavorato nello studio Previti (perché nel Movimento dei duri e puri non faceva bello)? Che ha omesso di dichiarare gli incarichi ricevuti da altre amministrazioni pentastellate (e di chi altri potevi fidarti), e che si è presentata come giovane avvocato acqua e sapone che al webbe tanto poteva piacere? Del resto a quella vittoria romana credevano in pochi, ed era un modo per uscirne puliti.


Certo, da un avvocato ci si poteva aspettare qualcosa in più di alcune nomine in abuso di potere in atto pubblico, ma in fondo che ha fatto? Quelli – i Romeo, i Marra, le Muraro – sono solo passate a incassare un credituccio, le hanno detto “nominami…” e lei, ingenua, ha solo assegnato dei ruoli. Del resto, di chi poteva fidarsi?
Scopre poi una polizza a lei intestata. Ovvio che sia “un amore non corrisposto”. Qualcuno – tra cui la Procura di Roma – parla e indaga su un “sistema polizze”. Ma si sa – il concetto è abbondantemente sdoganato – che la magistratura vede il marcio anche dove non c’è, non concepisce un amore non corrisposto. E la macchina del fango dei poteri forti che controllano la stampa di regime è pronto a fermare la rivoluzione. Si sa.
Dunque, da “sta porella”, un po’ tutti – cittadini rimani inclusi – ma che ci aspettavamo?
Che doveva fare, o meglio, che poteva fare?


Un non partito senza classe dirigente, senza persone capaci e formate, senza alcuna selezione, in preda alla guerra di potere interna, dove qualsiasi consiglio e suggerimento è un tassello che guarda altrove… e del resto “dopo anni di malgoverno vuoi che in pochi mesi si risolva tutto?”
Qualcuno potrebbe eccepire “risolvere tutto no, ma almeno una giunta…”
Già, la giunta. Dove nessuno di veramente alto e qualificato si assume la responsabilità di firmare un bilancio e alla terza sostituzione nomini al bilancio i tesoriere della tua campagna elettorale, che con tutto il rispetto non è proprio la stessa cosa.


Intanto ha detto due no pesanti. No alle Olimpiadi – che è tutto un magna magna – e no allo Stadio della Roma, che non costava un euro di soldi pubblici.
Ah no, quel no lo ha detto l’assessore all’urbanistica.
Già Berdini quello che ha detto “su certe scelte sembra inadeguata per il ruolo che ricopre. Sembra impreparata strutturalmente, non per gli anni” e “si è messa in mezzo a una corte dei miracoli”, “s’è messa vicino una banda”.
Il riferimento – spiega Repubblica – sembra essere a quei “quattro amici al bar” – così si chiamava la chat Telegram che comprendeva Raggi, l’ex vicesindaco Daniele Frongia, l’ex capo del personale Raffaele Marra (arrestato per corruzione il 16 dicembre) e l’ex capo della segreteria politica Salvatore Romeo, ora indagato insieme alla sindaca per abuso d’ufficio a proposito della sua nomina (con cui era passato dal ruolo di semplice dipendente a quello di dirigente mettendosi in aspettativa e con lo stipendio triplicato sopra i 100mila euro, poi ridotto a 93mila per l’intervento dell’Autorità anticorruzione).


Insomma, tutti ex, non sappiamo se sempre amici e sempre al bar, e qualche peccatuccio veniale sul quale – in coerente stile italico – ne vedremo ancora uscire fuori di cose. Perché sullo sfondo di questa vicenda quello che rimane è lo scontro “tra ladri di galline” dei big parlamentari di un movimento che ormai ha più correnti che eletti.
Disse Fassino a Grillo “provaci a fare un partito, vediamo se ci riesci”. Prendere voti “alla Grillo” è facile, è fare un partito che è tutta un’altra storia. E di questa mancanza, ancora una volta, davvero la colpa e della Raggi?
Io non credo. Lei al massimo ha colto la sua opportunità. Diciamo un’altra miracolata di quella corte dei miracoli senza arte né parte di un movimento che doveva rappresentare i cittadini, e che invece rappresenta la parte peggiore dell’italietta provinciale.

Monnezzopoli a 5 stelle

“Attendi a dirci da soli che siamo onesti. Non basta dircelo da soli. Devono dirlo gli altri che siamo onesti. Altrimenti sembra che a furia di dirlo abbiamo qualcosa da nascondere.”
Beppe Grillo. E come dargli torto?


Roma, 05 ago 2016 – “Ricordo con grande nostalgia, e anche un po’ di tenerezza, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Paola Taverna e Roberta Lombardi, in aula Giulio Cesare, a leggere a gran voce stralci delle intercettazioni dell’inchiesta di Mafia Capitale. Oggi i parlamentari del Movimento 5 Stelle torneranno in Campidoglio a leggere le intercettazioni tra Buzzi e l’Assessora Muraro come fecero nel dicembre 2014? E chiederanno anche le dimissioni dell’Assessora con la stessa veemenza con cui sono soliti scagliarsi contro il Partito Democratico? Attendiamo, fiduciosi, di sapere cosa intende fare la Sindaca Raggi, se preferisce mettere la testa sottoterra o se avrà il coraggio di ritirare le deleghe alla sua assessora che per discontinuità col passato, a quanto pare, non brilla affatto”.
Questa la nota di Giulia Tempesta, consigliere comunale PD di Roma.
E verrebbe da chiedersi, semplicemente e banalmente, come darle torto?


Il titolo è di oggi, 5 settembre, del Corriere della Sera:
L’accusa dei pm: all’Ama era garante del patto segreto con il ras dei rifiuti
La Procura di Roma sospetta di un accordo illecito tra il proprietario di alcuni impianti cittadini, Manlio Cerroni, e l’assessora all’Ambiente, all’epoca dei fatti consulente della municipalizzata del Campidoglio, per spartirsi lo smaltimento della spazzatura.
Continua il Corriere: “Esisteva un accordo illecito tra l’ex dirigenza di Ama e il ras dei rifiuti Manlio Cerroni per spartirsi lo smaltimento della spazzatura. Un patto segreto concluso grazie alla mediazione di Paola Muraro, che negli ultimi dodici anni è stata consulente dell’azienda municipalizzata ed era delegata proprio al controllo di quegli impianti. È questo il sospetto che nei mesi scorsi ha convinto il pubblico ministero Alberto Galanti a iscriverla nel registro degli indagati per abuso d’ufficio e violazioni delle norme ambientali.”


Ecco i fatti, più o meno, per quanto sinora è dato sapere.
Come ricostruito da Repubblica “una telefonata tra le carte di Mafia capitale rivela un inedito rapporto diretto tra l’assessora all’Ambiente di Roma, allora solo consulente della azienda rifiuti, Paola Muraro, e il ras delle cooperative rosse Salvatore Buzzi, in carcere dal dicembre di due anni fa per associazione a delinquere di stampo mafioso.”


Il 20 settembre del 2013 alle 17.08 “Salvatore Buzzi chiamava Paola Muraro di Ama spa”, scrivono i magistrati nell’ordinanza di 88mila pagine sugli intrecci del “Mondo di mezzo”, la ragnatela di rapporti instaurati da Buzzi e dal boss della Magliana, Massimo Carminati. Una telefonata per chiedere lumi sullo stato di una pratica per poter partecipare a un appalto milionario per la raccolta dei rifiuti. La Muraro “gli riferiva che la richiesta di chiarimenti era stata inviata dal Cns di Bologna, ed entro il giorno dopo sarebbero dovuti arrivare i chiarimenti, dal momento che la busta “B” sarebbe stata aperta alle ore 13. Buzzi confermava dicendo che avrebbe avvisato subito”.
Così sempre in quel 20 settembre del 2013, mentre si intrecciavano interessi che hanno portato alla sbarra Panzironi e l’ex dg Ama Fiscon insieme a Buzzi, secondo l’accusa per averlo favorito, dopo le informazioni ricevute dalla Muraro, parte la seconda telefonata. Alle successive 17 e 11, ovvero 3 minuti dopo le informazioni ricevute dall’attuale assessora all’Ambiente, Buzzi invia un sms al suo collaboratore Lucci: “Avvisa Bologna richiesta partita ora” e subito dopo un altro messaggio a uno dei big di Legacoop Lazio, Salvatore Forlenza: “Richiesta partita ora da Ama”.
Il riferimento è a una gara da 21,5 milioni, suddivisa in 4 lotti, per la raccolta dei rifiuti, indetta da Ama e alla quale partecipò il consorzio bolognese Cns di cui Buzzi era consigliere di vigilanza. Ma Buzzi aveva anche un interesse diretto: una volta aggiudicato l’appalto, la gestione dei servizi sarebbe andata alle sigle del suo circuito. Per conoscere i dettagli dell’aggiudicazione e informarsi sullo stato della pratica, ma soprattutto per ribattere in tempo ai chiarimenti chiesti da Ama alla Cns, Buzzi chiama direttamente proprio Paola Muraro, passata da consulente Ama ad assessora della giunta grillina di Virginia Raggi, che non si sottrae.
L’intercettazione evidenzierebbe come la Muraro era molto più che una consulente in Ama. Ed è a lei che Buzzi si rapporta, così come faceva con i vertici delle aziende e addirittura col sindaco di Roma Gianni Alemanno per le questioni più delicate.
Questa telefonata mostrerebbe come la Muraro era un suo contatto in Ama, e che – altro che consulente – era in grado di sapere cose che riguardavano appalti. Non una consulente esterna che nulla sapeva, e che non si è accorta di alcuna anomalia in nessuno dei quattro impianti su cui doveva vigilare e su cui ora c’è un’inchiesta della procura di Roma per truffa e frode.
Bastava Buzzi, su cui per mesi come fosse il diavolo in persona il M5S si è scagliato? 
No. Nel mirino della magistratura romana finisce anche un altro rapporto della Muraro, quello con Manlio Cerroni. I dubbi del pm Alberto Galanti è che ci siano stati tra loro contatti da cui l’imprenditore potrebbe essersi avvantaggiato.
Scrive Repubblica “Non è un caso, hanno sottolineato gli investigatori, che indagano sospettando un’associazione per delinquere tanto sull’affare Tmb quanto sul tritovagliatore di Rocca Cencia di proprietà di Cerroni, che proprio due settimane fa, in diretta streaming, contestando l’operato del dg di Ama, Daniele Fortini, la Muraro abbia proposto di rimettere in funzione proprio quel tritovagliatore, dato in affitto a un’altra azienda collegata a Cerroni.”


A porsi la domanda centrale è invece il sito di informazione Linkiesta


“Cos’ha a che fare Manlio Cerroni, «il re dei monnezzari», e il suo business sui rifiuti, con il mondo del Movimento cinque stelle, le sue idee e poi le sue pratiche?” 
Questa la ricostruzione.


La domanda che qualunque militante sincero dei cinque stelle si sta ponendo in queste ore per ricostruire il faticoso puzzle che è la verità a Roma, può trovare qualche traccia interessante in una storia illuminante di questi anni, che siamo in grado di svelare. Negli anni a cavallo tra il 2012 e 2013 Gianroberto Casaleggio, in parallelo con la costruzione del Movimento cinque stelle – le avvisaglie del «boom», che in tanti non avevano sentito, c’erano già state nelle amministrative del 2012, e ovviamente in tutto l’autunno e inverno dello Tsunami Tour – fondò assieme ad alcuni suoi amici un network parallelo al Movimento, chiamato Think Tank Group.
C’erano fin dalla fondazione alcuni imprenditori, professionisti, e in seguito anche parlamentari del M5S di strettissima fiducia della Casaleggio (David Borrelli, che oggi è europarlamentare e è forse l’uomo più fidato di Davide Casaleggio, e Vito Crimi) e della Lega.
Ma soprattutto, assieme a Casaleggio e a Grillo – i cui nomi in un secondo momento furono tolti dalla schermata del Think Tank Group – fondatore del gruppo fu Antonio Bertolotto, presidente della Marcopolo engineering.
Marcopolo è l’azienda leader italiana di rigassificatori, anche se ha chiesto da poco il concordato preventivo. Si occupa da trent’anni della «messa in sicurezza della discarica attraverso la captazione, la depurazione e distruzione del biogas che viene valorizzato come combustibile per produrre energia verde». Possiede più di quaranta impianti, e alcuni anche nell’area di Roma. In particolare ad Albano. In pratica Bertolotto ha lanciato il business (pionieristico, trent’anni fa) degli impianti che trasformano in biogas i gas delle discariche e del processo di compostaggio dei rifiuti.
Un’azienda green, cos’ha a che fare con Manlio Cerroni?
Ad Albano la Marcopolo ha, in modo del tutto legittimo, operato in stretta partnership con la Pontina Ambiente, assieme alla Colari una delle società di compostaggio di Cerroni. Cerroni smaltisce i rifiuti, e Bertolotto ci estrae biogas.


Il legame era talmente stretto e strutturale che Marcopolo, che ha sede legale in provincia di Cuneo, a Roma risponde al medesimo indirizzo e numero civico (sulla via Ardeatina) e allo stesso numero di telefono dell’azienda di Cerroni.
Altro particolare interessante, nell’elenco dei fondatori di Think Tank Group Bertolotto compare come presidente di una onlus, la Sosesi. Come se il rapporto tra quel network – così vicino ideologicamente e materialmente al neonato Movimento – e il business dei rifiuti non fosse proprio coincidente con la propaganda cinque stelle sui rifiuti zero e la raccolta differenziata al 90%.
Non c’è nulla di male naturalmente a lavorare con Cerroni (che è indagato per l’impianto di trattamento meccanico di Rocca Cencia, quello che la neo assessora Paola Muraro chiese a Daniele Fortini di utilizzare, ottenendone un sacrosanto, legalitario rifiuto). Ma il cortocircuito è incredibile: il M5S, che ha fatto tutta la propaganda pubblica e l’ascesa politica con le campagna sul blog (della Casaleggio) sui rifiuti zero e la differenziata, ha nel suo network (tra i fondatori) l’imprenditore big dei rigassificatori, amico storico di Gianroberto Casaleggio, con cui cofondò il Group.


Ma il legame Casaleggio-M5S e rifiuti risale a molto prima. Già nel 2004 – ovvero dalla sua nascita – l’uomo marketing nonché socio (non lo è più dal 2013) è Enrico Sassoon, giornalista, dal 1977 al 2003 nel gruppo Il Sole-24 Ore, già direttore responsabile di L’Impresa-Rivista Italiana di Management, della rivista Impresa Ambiente e del settimanale Mondo Economico. Da suo curriculum pubblico apprendiamo anche che «è stato direttore scientifico del gruppo Il Sole-24 Ore».
Nel 1998 Sassoon è stato amministratore delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy, di fatto una lobby indirizzata a favorire i rapporti commerciali delle corporation americane in Italia.
Enrico Sassoon, con la moglie, Cristina Rapisarda, ha costituito la “Global Trends”.
La signora Rapisarda è stata coordinatrice di Agenda 21 a fianco dell’ex Assessore all’Ambiente della Regione Campania Walter Ganapini il quale ha stipulato protocolli di intesa di vantaggio con la Italcementi (cliente di Global Trends) per gli inceneritori, e in particolare i cementifici a cui si fa riferimento sono l’Italcementi di Pontecagnano, la Cementir di Maddaloni e Moccia di Caserta, (qui la Italcementi è indagata per favoreggiamento mafioso).
Contemporaneamente Sassoon era anche Direttore Responsabile della rivista Affari Internazionali nonché anche “amministratore delegato” di una casa editrice – la “Strategiqs Edizioni Srl” (che non ha nemmeno un indirizzo mail, né un sito internet – ma che pubblica l’edizione italiana della Harvard Business Review in Italia!).
Di questa società è presidente un brillante napoletano, Alessandro Di Fiore, che oltre a presiedere la casa editrice presiede anche l’European Centre for Strategic Innovation.
Nato come product manager della Colgate-Palmolive fonda la Venture Consulting che confluisce gruppo Tefen, oltre a diventare prestissimo Vice Presidente di “The MAC Group” (Gemini Consulting) – gruppo presieduto da Cesare Romiti, anch’egli membro nell’American Chamber of Commerce in Italy e dell’Aspen Institute.
Manco a dirlo, nel comitato di redazione della rivista figura anche “Roberto” Casaleggio.


Nessuno vuole per forza pensar male, ma ricordiamo che il Movimento Cinque Stelle è sempre stato quello “contro le lobby” a prescindere, contro i presunti gruppi di interesse che “governano l’Italia dietro le quinte”.
Eppure è anche l’unico partito politico che non presenta bilanci, che non adempie ad obblighi di trasparenza contabile sui finanziamenti, che di fatto è un’associazione costituita da tre persone a casa di Beppe Grillo, che ne detiene logo e marchio.
Non ha assemblee, organi elettivi, e che è stato recentemente condannato da un tribunale che ha sancito che “essendo di fatto un partito politico come gli altri ha l’obbligo di prevedere forme di gestione interna del dissenso” non potendo semplicemente prevedere un’espulsione per decisione monocratica del proprietario.
Va anche ricordato – a onor di cronaca – che spesso Grillo ha tuonato contro le “cattive municipalizzate” e che le massime tensioni con i suoi amministratori eletti (primo tra tutti Pizzarotti) si sono avute proprio per divergenze sulla gestione di rifiuti e inceneritori.


Oggi tutti questi rapporti – quantomeno strani – rischiano di gettare quantomeno un’ombra di sospetto (onestamente legittimo) tra quali e quanti interessi differenti e specifici i vertici del Movimento (da Grillo a Casaleggio) abbiano invece tutelato e rappresentato in questi anni.
Nulla di male, per carità.
Basta dirlo. Almeno per quella tanto sbandierata trasparenza, onestà, di cui il Movimento si fanno vanto come ne fosse l’unico detentore.
Ora, liberi di chiamarla fumosamente “macchina del fango”, ma tutte queste vicende hanno un concreto odore di spazzatura vera.

La sfida della governabilità

In questi giorni sono piovute le più svariate analisi sul voto, in quello stile tutto nostro per cui i CT del lunedì sono anche i politologi del post voto. Personalmente mi ha stupito, e non poco, questo silenzio a sinistra in attesa che Renzi desse l’interpretazione autentica. Dopo di che tutti a ripetere con varie declinazioni il verbo.
Anche questo è segno dei tempi: una sinistra che ci aveva abituato ad essere talvolta anche troppo prolissa e minuziosa nei distinguo e nell’analisi delle virgole maiuscole, si mostra attonita in attesa che venga indicata la via.


E comunque è vero: il voto al M5S non è solo un voto di protesta. È anche un voto di “richiesta di alternativa” e di un ricambio generazionale che non riguarda solo l’anagrafe, ma soprattutto i cognomi (più che i nomi) e la classe dirigente. E conta molto poco che il suo successo non sia “tutto suo”. Se riavvolgessimo il film ad esempio di Roma, e avessimo avuto un unico candidato del centrodestra, è probabile che la debacle per il Pd sarebbe stata più ampia, e che al ballottaggio avremmo visto (per esempio) il duo Meloni-Raggi. E forse in quel caso, non è così scontato che avrebbe vinto la Raggi, o certamente non in misura così dilagante.
Gran parte di questo risultato è stato dovuto al Pd che ha perso, ma anche alla comunicazione del Pd nel polarizzare a tutti i costi il paese in “o con noi o contro di noi”, polarizzando e unendo ciò che non si sarebbe mai unito.


Il Movimento Cinque Stelle non si è candidato tuttavia “a fare politica”. Questo è bene ricordarlo oggi, ma soprattutto tenero a mente per la valutazione di ciò che avverrà domani. Il M5S si è candidato ad amministrare grandi città. Per questo andrà valutato e su questo andrà promosso e bocciato. La campagna elettorale è finita. Anche se non tutti se ne sono accorti.
A Torino Chiara Appendino ha mandato come primo atto il preavviso di sfratto ai vertici di Compagnia di San Paolo e Iren. Adesso attendiamo dalla neo-sindaco, figlia di Domenico, vicepresidente esecutivo di Prima Industrie, i “nomi nuovi” e relativi curricula. Per questi ed i molti altri dirigenti che dovrà nominare, a cominciare dalla giunta.


A Roma è ancora più complesso. Il nuovo sindaco è Virginia Raggi, avvocato che ha fatto pratica allo studio Previti senza menzionarlo quando si è candidata, e che non ricorda bene il suo reddito, ma non cita un paio di consulenze con la Asl di Civitavecchia: ricordiamo però due dettagli, il primo è che Civitavecchia è amministrata da un sindaco Cinque stelle, e il secondo è che a concedere quella consulenza (senza “prendere” il nome dall’elenco predisposto ed in cui la Raggi non figurava) è stata la dirigente Gigliola Tassarotti, che è anche la madre della deputata M5S Marta Grande. Verrebbe da chiedersi cosa avrebbero detto “loro” se fosse successo in casa Pd. Ma è storia.


A lei toccherà nominare la giunta capitolina dopo gli scandali di Mafia Capitale e soprattutto nel quadro di sfiducia generale. Ma non solo. Il comune di Roma ha ottantotto società partecipate, cui la nuova giunta dovrà indicare altrettanti presidenti, amministratori delegati e i vari membri dei consigli di amministrazione. Poi ci sono i direttori generali, la questione olimpiadi (la Raggi ha detto no, poi vediamo, poi decide la rete, poi una consultazione popolare), poi c’è la questione strade e trasporti, una linea della metro da completare. E poi c’è un passivo di dodici miliardi.
Anche nel suo caso attendiamo questi tanti e tanti nomi “nuovi” e i relativi curricula e competenze.
Li valuteremo su questo, serenamente, ma con quel rigore e senza indulgenze che il M5S ha urlato nelle mille piazze d’Italia contro la “vecchia politica dei partiti”.


E tuttavia – a meno che il M5S non decida di “cambiare le regole ad personam” – non potremo beneficiare del voto confermativo per nessuna delle due tra cinque anni: sono entrambe al secondo mandato politico (in quanto ex consiglieri comunali) e quindi non potranno candidarsi. 
Ma siamo in Italia, e siamo anche abituati a che si facciano deroghe su tutto. Vedremo anche in questo caso quanto il M5S saprà essere “rivoluzionario”.

Il M5s e la magistratura

Alle volte succede.
Succede che quando sei all’opposizione con tre o quattro consiglieri sia facile gridare agli scandali altrui. Succede che quando sei un partito piccolo – e basta con questa storia di chiamarsi movimenti, associazioni, o mongolfiere che dir si voglia – sia anche facile “filtrare” e verificare.
Succede che, quando il potere non lo hai e non lo gestisci, a nessuno importi infiltrarti, appoggiarti, coinvolgere persone nei tuoi calcoli politici: perché semplicemente non conti.
E alle volte invece succede che quando “cresci”, allora sì che diventi appetibile. E quando diventi “un po’ più grande” di un’aiuola isolata cominciano avvenir fuori le magagne.
E queste sono sempre di due tipi, a restare nell’ambito della sostanziale onestà.
La prima, è quella che qualcuno il pensierino a “infiltrarsi” lo fa, e semmai metti in lista – a volte succede – qualcuno che “appare” onesto e trasparente, e poi quel qualcuno, pur di arrivare, pur di essere eletto, ne combina di cotte e di crude. Spesso – a voler restare nell’ambito della sostanziale onestà – anche a tua insaputa.


La seconda, è che quando amministri compi degli atti, e di questi atti ne rispondi. Eh si, alle volte succede che indipendentemente dal colore politico e dal simbolo elettorale, la magistratura – ordine dello Stato a ciò preposto – debba “verificare” gli atti che l’amministratore pubblico compie. E succede, alle volte, che quegli atti non sempre siano “perfetti”. Per quanto esistono delle garanzie: quegli “avvisi” che appunto ti avvisano che su quell’atto e per quel tale motivo la magistratura sta indagando sul tuo operato.
E succede anche che sia semplicemente questione di tempo: non è che un sindaco possa essere indagato prima di amministrare, né la magistratura possa indagare prima che l’atto amministrativo sia stato perfezionato.


Ora è anche vero che alle volte succede che per anni sia facile ripetere “arrestano voi”, e noi siamo onesti, puliti, fuori dalla casta, e finisce anche che ci credi da solo. Anche quando sai perfettamente che è ben diverso essere opposizione unicellulare o amministrare un comune.
Ma se finisci con il credere al tuo slogan, sbandierato in cento piazze e mille comizi, succede che poi quando tocca a te (perché succede) riprendi slogan da prima repubblica del tipo “contro di noi inchieste come manganelli”, o parli di inchieste politicizzate, a orologeria, o anche torni al concetto di “toghe rosse” a giorni alterni. 
Atti dovuti quelli contro i tuoi avversari, atti politici quelli contro la tua parte politica.
Stupisce – o forse no? – che a parlare di inchieste a orologeria e politicizzate sia una giovane avvocato allieva di Cesare Previti che si candida a sindaco di Roma con il Movimento Cinque Stelle.
Difesa d’ufficio che in qualche modo sorge spontanea visto che ormai, settimana dopo settimana, avvisi di garanzia sono arrivati – per le più disparate motivazioni – a tutti gli amministratori del movimento di Beppe Grillo.


Un elenco che va dalla nota vicenda di Quarto – con il seguente imbarazzo di vertici alla Fico e Di Maio ignari di ogni cosa a giorni alterni, anche quando smentiti dai verbali della magistratura – sino a Civitavecchia, e da qui a toccare due sindaci sotto i riflettori: prima Nogarin, sindaco di Livorno, che fa assumere a tempo indeterminato persone da una società che dopo pochi giorni mette in liquidazione, e poi Pizzarotti, per un abuso di potere sulle nomine in teatro.
Una percentuale che, rapidamente, sta arrivando a toccare il 100% degli amministratori a cinque stelle.
Per carità: chi amministra compie atti, e atto dovuto della magistratura è indagare sulla loro correttezza, così come atto di garanzia prima di tutto dei diritti dell’indagato quello di comunicare che è sotto indagine e per quale motivo.


Ma ci si aspetterebbe, da chi sino a ieri è stato irrimediabilmente forcaiolo, nel rivendicare il suo essere “nuovo”, che almeno lasci a casa questo garantismo a giorni alterni, per cui quando tocca a te allora le indagini sono manganelli.
Perché questi sono toni che non fanno bene al paese, alla politica, alle campagne elettorali, e non si addicono, francamente, ad un giovane avvocato. A meno che non abbia argomenti, e non sappia cosa dire, e disperatamente, farebbe miglior figura ad appellarsi alla “clemenza della corte”.