Malcolm & Marie, un litigio in bianco e nero


Malcom & Marie

Una coppia rientra in casa (la Caterpillar House in California all’interno di una riserva naturale, su un unico piano e pareti vetrate), dopo la première del film di cui lui è regista. Lei, Zendaya, in un meraviglioso abito lungo con spacco profondo in seta lamè cut-out con corpetto intrecciato sul seno, unico capo ad essere indossato per metà film (oggi anche in vendita in pre-ordine sul sito di Aliétte per 1200 dollari) è la prima a varcare la soglia di casa. Il nervosismo è nell’aria, mentre cucina in men che non si dica dei maccheroni al burro e formaggio, mentre lui euforico per il successo della serata e per qualche bicchiere ( di whisky?) vorrebbe solo festeggiare.


106 saranno esattamente i minuti dell’intero litigio (se questa è la durata minima di una discussione di coppia, mi chiedo perchè la vendita di pantoprazolo non sia aumentata) in cui dopo numerose insistenze del protagonista (il sexy ex giocatore di football americano John David Washington, ma d’altronde è figlio di Denzel) si scopre che Marie ce l’ha a morte con Malcolm perchè non l’ha citata tra i ringraziamenti; lei che è stata la musa ispiratrice della storia, ex tossicodipendente che ha abbandonato il sogno di diventare attrice per uscire dal dramma della droga.


E’ una battaglia in bianco e nero (certamente rende la fotografia più elegante e lascia che ci si concentri sui dialoghi) dove colpisce più profondamente chi affonda cattiverie, chi recrimina, chi offende, chi gioca sulla gelosia, chi umilia.
Lui, chiuso nell’orgoglio, lei in un malcelato masochismo, sembrano riappacificarsi a intermittenza con baci molto lontani da quella che potrebbe essere definita come “passione”.

Malcolm & Marie



Marie, catturata l’attenzione appena entrata nella stanza che sarà teatro di tutto il film (di intento godardiano basato sull’autenticità della coppia – autenticità parola ridondante nei dialoghi), si imbruttisce a mano a mano che va avanti la discussione (ha qualche attinenza con la relazione di coppia? Con il modo che lui ha di vederla?); dopo un bagno che avrebbe dovuto essere purificante, che avrebbe dovuto sciogliere le tensioni, Marie struccata, abbandonati i tacchi, l’abito da grande soirée e le lunghe ciglia artificiali, si scopre in tutte le sue debolezze: la gelosia nei confronti dell’attrice che il compagno ha scelto per il suo film, le scene di nudo che Malcolm ha voluto inserire, la delusione per non essere stata ringraziata davanti al pubblico; Marie piange e attacca, si dispera e affonda un’altra coltellata. Ma quella a soffrire di più è lei, questo lo si intuisce, dall’atteggiamento di Malcolm irritato quando lei incalza dopo un bacio, mentre lui vorrebbe solo divertirsi e godersi la serata (quante scene similari ha vissuto ciascuno di noi?!)

Zendaya in “Malcolm & Marie.”


Sam Levinson, regista di “Malcolm & Marie“, verso la fine si trastulla con altisonanti citazioni cinematografiche, vomita critiche agli addetti al settore che non capiscono a volte un film può essere semplice e solo esercizio di stile anziché cavilloso lavoro concettuale, ma questo non ci scandalizza, lo fanno in tanti. Piuttosto, riuscire a rendere un ping pong teatrale efficace, è assai arduo quando gli attori non sono poi così esperti; Zendaya non sempre risulta credibile, manca di pathos, peccato perchè a mantenere alto almeno il fuoco di alcune scene (come quelle delle presunte riappacificazioni) avrebbe reso l’insieme più magnetico, per lo meno per giocarsi al meglio la sua bellezza.
John David Washington è più interessante da muto a petto nudo, perchè forzato nelle battute in cui dichiara il suo amore, con ironia, con quel ritmo black della camminata e dei gesti.
La storia è interessante e ci obbliga all’immedesimazione, è un litigio come miliardi di altri litigi che avvengono ora nel mondo, lui che non capisce il malumore di lei, lei che nega fino all’esaurimento e che esplode quando ormai è troppo tardi.


Il picco di interesse sale quando finalmente Marie confessa la sua vera pena: è offesa perchè non è stata scelta come attrice protagonista dal suo compagno, che ha preferito una donna dalla corporatura diversa dalla sua, più femminile a suo dire, “lo so che genere di donna ti piace”. Ha perso in questo modo la possibilità di raccontare la “sua” storia, di dimostrare a se stessa e agli altri che anche lei può farcela, lei che ha tentato il suicidio, e che ora invece ha un motivo in più per farsi del male.
E’ in canottiera bianca e mutandine, capelli bagnati (ricorda molto la scena con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut) che si dirige a letto quando Levinson si tira la zappa sui piedi con un “Grazie” recitato da Malcolm. E ai registi dobbiamo ricordare che l’inizio e la fine sono le scene più importanti, come le prime e le ultime frasi di un libro, e che banalizzarle può rovinare un intero lavoro.

“Don’t look up” siete voi



Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta.
In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.

Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta.
Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.



Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.

L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo.
La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.


I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).

Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).

Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)

E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.


Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).



Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.

E’ stata la mano di Dio

La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?

E’ questa la chiave del film di Paolo SorrentinoE’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.

Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare.

“Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?”
“Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”

Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.

la scena del film nel dialogo con Capuano



In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.

Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.

E’ stata la mano di Dio



Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.

una scena del film

La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.

Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case.
Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele

Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
Che saglie chianu chianu
E tu sai ca’ nun si sulo