Giulio Greco: “tutte le arti sviscerano la natura più profonda”



Ho sempre pensato che la versatilità fosse un grande pregio ed un bel talento da sfruttare, in barba ai piccini invidiosi che pensano ancora alla specializzazione della specializzazione.
Giulio Greco è l’esempio calzante di una generazione curiosa (bene, ne esistono ancora), che ha il coraggio di mettersi in gioco, non senza studiare.

Attore, editore, musicista, non ha mai pensato di rinunciare ad una di queste arti, proprio perchè crede che l’una sia di nutrimento all’altra, e che ogni mestiere che interpreta, gode delle conoscenze dell’altro.
Lo avrete visto in “Gangs of Milano” su Sky, in “SuperSex” su Netflix e nel film “Prophecy” su Disney+. Due film internazionali, uno con Andy Garcia, e nella serie che racconta la genesi di “Gomorra“; ma Giulio Greco nel frattempo scrive prefazioni, legge i miti greci, regista il suo nuovo EP, e basta una lettura veloce a questa sua intervista, per capire che la profondità emotiva e culturale, lo porterà sicuramente lontano.


Foto di Alessandro Rabboni
Styling di Alex Sinato
Grooming di Romina Carancini
Press Office Sara Battelli


Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda.

Total look Falconeri

– Come combaciano il mestiere di editore con quello di attore?

Uno rende vivo l’altro. Un punto è statico, tra due punti si crea energia, nel mio caso anche attrazione. Non sopporto questa tendenza nel voler “isolare” una forma d’arte. 
Sono cresciuto in una famiglia che mi ha fatto conoscere la musica, a partire dalla classica grazie a mio nonno che è stato primo violino dell’orchestra di camera del Belgio, mi ha portato a teatro, al cinema, nei musei, a mostre d’arte. Mia madre ha studiato e lavorato come attrice, mia zia è pittrice, mia sorella ha danzato. L’arte ha forme di espressione sempre nuove e in continua evoluzione.

L’incontro con Giuliano Ladolfi, mio socio che considero padre artistico e spirituale, e la conseguente costituzione della casa editrice che porta il suo nome, mi hanno completamente cambiato la vita. Il mondo dei libri mi ha permesso di tuffarmi nella conoscenza della poesia, narrativa, filosofia, nella tecnica della traduzione, dell’esposizione, del linguaggio.
Attore, editore, cantante si intersecano perfettamente permettendomi di sviscerare intuizioni e la mia intimità più profonda comunicando in modi diversi e alimentandosi l’un l’altro.

– Cosa è necessario cambiare del settore editoriale secondo te?

Soffermandomi sul panorama italiano, posso dire che la sovrapproduzione ha indubbiamente inciso sulla qualità.
Certo, le pubblicazioni settoriali hanno permesso l’approfondimento di molte tematiche per lo più sconosciute, ma ritengo che il legame “emporiocentrico” della nostra società ci stia, in realtà, impoverendo. 
Una società poco coesa viaggia in tutte le direzioni, ma ci dimentichiamo di chiederci quale sia una “direzione comune”. L’avvento dei social ha dato ad ognuno ciò che Warhol lanciava come una provocazione. Oggi mi chiedo: a cosa serve la notorietà senza calibrare un messaggio universale? A che scopo vomitare infiniti contenuti che poi scompaiono in un battito d’ali?

Bisogna lavorare per creare dei punti di incontro per discernere la nostra società, mettere basi solide per poter andare avanti.
Giuliano Ladolfi e Marco Merlin hanno iniziato a farlo nel 1996 con la rivista Atelier. Un lavoro mastodontico che vive di poesia, ma a mio parere coinvolge tutte le forme d’arte. Bisogna delineare una proposta forte, corroborata dallo studio approfondito dei testi più rilevanti e combattere la tendenza di avere più scrittori che lettori.

– Quali sono le somiglianze, se esistono, tra il ruolo dell’attore e quello dell’editore?

In una prima fase, la ricerca. Continua nelle luci e oscurità dell’essere umano. L’editore cerca prima lo scrittore attraverso i suoi testi, l’attore cerca il personaggio attraverso la curiosità, la sperimentazione e la relazione con gli altri. 
Successivamente, dopo aver fatto un lavoro di raccolta, di confronto e di scelta ponderata, arriva il tempo della rielaborazione e della condivisione con il pubblico dei lettori e degli spettatori.
Infine, importantissimo è il momento della risposta di questi ultimi. È sempre importante decifrare ciò che ha colpito e ha funzionato rispetto a ciò che si può migliorare per toccare corde sempre più profonde dell’animo umano.

Total look Grifoni

– Qual è il tuo personaggio di romanzo preferito?

Premetto che leggo principalmente filosofia, poesia e saggistica. Ho letto molta narrativa quando ero bambino e ragazzo e certamente mi ha fatto sognare. I romanzi che più mi hanno colpito sono quelli di avventura in paesi lontani e a tratti fantastici. Jules Verne mi ha rapito. Forse, però, oggi indico Robison Crusoe di Daniel Defoe. Un uomo che grazie all’ingegno, la volontà, la cultura è riuscito a sopravvivere e vivere con dignità combattendo contro la solitudine e i demoni della paura che si nascondono nelle profondità della nostra anima. Al personaggio di Robinson aggiungo eroi della mitologia greca a cui sono molto legato: Ulisse e Achille. Ragione, intuizione, ira, mente, fisico, creatività, potenza, amore sono spesso agli antipodi in questi due eroi mitologici ma combaciano nella loro grandezza d’animo. 

– Quale protagonista di un grande classico ti piacerebbe interpretare?

Il conte di Montecristo, Gatsby, Dorian Gray, Siddharta, Enea, Orfeo, Ettore… troppe sono le peculiarità che amo in ognuno di questi e troppe ne trovo in tanti altri. Il bello di questo mestiere è la metamorfosi

– Pensi ci sia un pregiudizio nel mondo del cinema, per chi arriva da altri settori?

Penso che ci siano pregiudizi enormi nella nostra società, a partire dall’aspetto fisico, alla provenienza territoriale, all’esperienza di vita, alle capacità particolarmente sviluppate. 

I social hanno appiattito la profondità culturale, anestetizzando attraverso vista e udito le menti critiche dell’essere umano. 
Credo sia importante rifondare un sistema critico basato su empatia, conoscenza, coscienza e tecnica.
Questo sia trampolino per coloro che valgono e dia loro la possibilità di suscitare emozioni e stimolare pensieri in coloro che partecipano portando la società ad un livello più elevato. Agli artisti è stato strappato l’onore e l’onere di essere traghettatori nella nostra epoca. Viviamo di pulsioni effimere che decadono e non conducono a niente.

– Come può aiutare il tuo mestiere nell’editoria, sul set? 

Per me è stato fondamentale per due aspetti principali: il primo è quello creativo. Grazie alla casa editrice ho potuto sperimentare sul campo, leggere, imparare da persone più grandi ed esperte di me.
Il secondo è quello espositivo: negli scorsi quindici anni ho avuto centinaia di occasioni per migliorare ed allenare la mia comunicazione e la mia capacità di espressione durante presentazioni e conferenze.
Ci sono grandi progetti in arrivo.
Non sarò mai sufficientemente grato a Giuliano Ladolfi.

– Qual è la tua caratteristica (di attore) principale?

La metamorfosi, ossia la trasformazione dell’aspetto esteriore e delle attitudini in cui mantengo inalterata la mia identità. 
Sono cresciuto in una famiglia con esempi molto distanti tra di loro. Grazie alla grande curiosità che ho coltivato sin da bambino, ho sempre cercato di raccogliere e sperimentare le diverse facce di coloro che mi accompagnavano nel percorso di crescita. Piccoli dettagli del corpo, della voce, dello sguardo, dell’abbigliamento, del modo di pensare, del rapporto interpersonale mi hanno plasmato attraverso un lato attivo e passivo, attraverso un’attività e la sua negazione.
Credo oggi di conoscere una importante pluralità di situazioni e personalità perché vi ho sempre posto molta attenzione. Non vedo l’ora di scoprirne altre affascinanti e di poterle un giorno metterle in pratica.

– Vedi questo come il tuo mestiere per la vita? 

Sì. Ma non solo. Il percorso mi sta portando sempre di più “dietro” la macchina da presa perché amo plasmare con gli altri artisti, gli altri esseri umani qualcosa di comune e meraviglioso. Credo nelle squadre, nel “tutto che è superiore alla somma delle parti”, nei giovani.
A questo aggiungo la musica, perché tra poco uscirò con il mio primo EP a cui ho lavorato con Francesco Arpino e di cui sono molto felice. La musica mi emoziona e mi sta insegnando a vivere in un modo diverso. E poi c’è il mistero, l’imponderabile… la magia.

– Cosa cambieresti delle dinamiche nel mondo del cinema italiano?

Non mi piace fare politica e nemmeno critica in questo senso. Domando solamente: siamo veramente in ascolto? Vogliamo veramente creare progetti di qualità che possano lasciare un messaggio importante?

Total look Dolce&Gabbana 

“Tits up” – Un mantra di vita da “La fantastica signora Maisel”

Ci troviamo nella New York di fine anni ‘50, in uno di quegli appartamenti di lusso dell’Upper West Side. Nell’atrio si diffonde un delizioso profumo di arrosto inebriante, intanto la domestica ci prende il cappotto. A quel punto giriamo l’angolo, oltre il lungo corridoio stampato a fiori, troviamo una graziosa cucina fin troppo animata. Il forno stride, e da una nuvoletta di fumo grigio si fa spazio un’esile figura armata di guanti da forno: Miriam “Midge” Maisel.

Miriam (Rachel Brosnahan), la cosiddetta fantastica signora Maisel, è graziosa tanto quanto la sua cucina: capelli cotonati, visino gentile, corpo da urlo. Insomma, incarna a puntino lo stereotipo di “donna perfetta”, ma non certo per questo è considerata fantastica. Il suo aspetto così femminile non è altro che una piccola sfaccettatura del suo personaggio stereotipato. Tutto ciò perché i bei vestiti, il trucco e i bigodini, le sono sempre stati familiari sin da quando imparò a camminare sui tacchi. 
D’altro canto, se nel suo bel quartiere tutte le donne sono abituate a indossare un certo attire, nelle profondità di una sudicia caffetteria adibita a locale notturno, il Gaslight Cafè, c’è n’è una di tutt’altra specie: Susie Myerson (Alex Borstein), aspetto ermafrodita, incrocio fra un 15enne e una donna cresciuta. Ed è per questo che il più delle volte la scambiano per un uomo; non male per gli affari di quel periodo!


Le due si incontrano per caso al Gaslight, dove il marito di Miriam, Joel (Michael Zegen), si esibisce in un pezzo comico. Persuasosi che si tratti di un hobby, è invece spinto da un insicuro e improbabile sogno di fare successo, oltre che da una moglie disposta a supportarlo con tutta se stessa. Difatti, quando Midge tenta di offrire a Susie la sua consueta e deliziosa punta di petto — con la speranza di poter ottenere degli orari di stand up decenti per suo marito — riceve in risposta solamente un rozzo rifiuto. 
Questa insolita reazione la destabilizza: per la prima volta nella sua vita Miriam non ottiene ciò che vuole, ed è proprio Susie a negarglielo.


La storia prende una brutta piega quando Joel, scosso dall’insuccesso dell’esibizione, decide di lasciarla per la sua sciocca segreteria temperamatite, amante da lungo tempo. Abbandonata casa, due bambini e una moglie, che rimpiangerà per tutta la vita, Joel incolpa Miriam per non averlo dissuaso dal continuare la carriera da comico. Miriam, d’altra parte, decide di fare del suo smarrimento, un’arma: si sbronza, esce di casa in camicia da notte, raggiunge il Gaslight in taxi e proprio lì si lascia andare nel suo primo vero numero da comica. Un numero fantastico.

Se per Mrs. Maisel la notizia di essere divertente non è niente di speciale, per Susie, che ha assistito all’intero spettacolo, rappresenta un miraggio. Convinta di aver visto in lei una “scintilla”, Susie si autoproclama la sua manager autoritaria.


Tutto questo accade nel primo episodio, come la lettura di un diario, tutto in un boccone e senza più segreti.

Seppure apparentemente incompatibili, le due donne iniziano ad avvicinarsi in un modo singolare. È Midge la prima a confidarsi, raccontando la sua nuova vita da madre single di giorno e neocomica di notte (nulla che non avesse già rivelato a una platea intontita dall’alcol quella famosa notte al Gaslight Cafè). Nonostante sia “un pizzico di panna montata a cui è cresciuta la testa”, fidarsi le riesce difficile, ma col tempo quell’incompatibilità tra le due donne si dimostra un limite ironicamente sbagliato.
È proprio la perfezione fittizia di Miriam che porta Susie a rivalutarla come amica. Realizza di aver incontrato una persona “spezzata” tanto quanto lei. Una donna che — nonostante il vantaggio di una famiglia benestante e una vita di beni e piaceri — ha sofferto e, dopo averci bevuto sopra, non ha cercato di aggiustare i pezzi, ma di ricostruirli.

Io sono la Signora Maisel, e buona notte.

– Miriam Maisel

Dopo svariati tentativi di inventarsi uno pseudonimo decente, Miriam decide di essere se stessa. Il palcoscenico è la sua seconda casa; unica titubanza è il momento prima di salirci. Per scaramanzia “Tits up” o “Tette in su” diviene mantra di vita, un rituale rivolto a tutto il pubblico femminile, pronunciato per infondere sicurezza laddove la paura prende il posto del coraggio.


Miriam diventa sempre più brava nella stand up comedy, ma se i familiari accettano la sua ridicola ossessione per i cappelli, quella per la comicità non trova una singola cappelliera per sé. I genitori della signora Maisel non ne vogliono sapere di cabarettisti, soprattutto se portano il suo nome. 

Rispetto allo stile del tempo, Midge scopre di avere un modo grezzo di fare comicità, usando tabù quali sessualità, gravidanze, per cui rischia la galera. Una notte dietro le sbarre non le farà cambiare idea su chi intende diventare: lei sa di essere bella, talentuosa e ossessionata dal proprio lavoro, ma vuole essere autentica nel desiderarlo.

Tutti i comici sono comici perché qualcosa nella loro vita è andata orribilmente male”, dice Miriam una sera rivolta al pubblico. Sul palco arrivano delle risate, ma l’osservazione è solo vestita da barzelletta. Traspare l’ironia di una sorte che ha giocato con lei e non ha vinto. Non è l’invulnerabilità a rendere La fantastica signora Maiselfantastica”, ma la forza di accettare la sofferenza per amore di qualcosa per cui valga la pena lottare. Significa rivestirsi di grinta e fronteggiare un audience intera rimanendo salda su dei tacchi scomodi. Non è magia, è quella sua commistione di timore e speranza che la rendono coraggiosa oltre ogni limite.

 I 6 FILM PIÚ ATTESI ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA

 I 6 FILM PIÚ ATTESI ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA

JOKER: FOLIE À DEUX 

È il sequel tanto atteso di Joker. 
Il protagonista è internato ad Arkham State Hospital in attesa del processo, quando incontra l’amore, una musicoterapeuta interpretata da Lady Gaga. 

JOKER: FOLIE À DEUX 

BABYGIRL 

La regia della danese Halina Reijn che affronta insieme i temi potere-sesso. Nicole Kidman nei panni di una Amministratrice Delegata (al potere) che si innamora dello stagista (Harris Dickinson) dolce al lavoro, autoritario a letto. Il marito tradito? Antonio Banderas 

BABYGIRL

MARIA 

Presentato in concorso il film Maria di Pablo Larraín sta facendo il giro del web per i 10 minuti di applausi ad Angelina Jolie nel ruolo della grande interprete Maria Callas. 
Si narra l’ultima settimana di vita della cantante, quella della disperata ricerca di una voce perduta. Ultimi momenti di vita nel ricordo della storia d’amore con Onassis che l’abbandona per sposare Jacqueline Kennedy e della dipendenza dai barbiturici che le offuscano i pensieri. 

Pierfrancesco Favino, il maggiordomo-autista Ferruccio; la domestica Bruna è Alba Rohrwacher; Valeria Golino è la sorella della Callas; Haul Bilginer, Onassis, e Alessandro Bressanello il marito-pigmalione. 

MARIA

BEETLEJUICE BEETLEJUICE

L’ironia di Tim Burton mette sempre un po’ di allegria al Festival del Cinema di Venezia, e dopo 35 anni ci fa una grande sorpresa: il ritorno di Beetlejuice – Spiritello porcello, con il cast originale, Michael Keaton, Winona Ryder Catherine O’Hara, e le new entry Jenna Ortega, Justin Theroux, Monica Bellucci, sua attuale compagna e musa.
In uscita nelle sale cinematografiche il 5 settembre

BEETLEJUICE BEETLEJUICE

WOLFS – LUPI SOLITARI

Action-movie intriso di humor, forse iI film tra i più attesi per l’accoppiata vincente Brad Pitt – George Clooney, amici inseparabili, fantastici sullo stesso set ed esilaranti sui red carpet. In “Wolfs Lupi solitari”, interpretano dei killer professionisti chiamati entrambi a coprire un crimine, far sparire corpi, cancellare prove.
Un film che non si prende troppo sul serio, con la regia di Jon Watts.

WOLFS – LUPI SOLITARI

THE BRUTALIST

E’ la rappresentazione del sogno americano, la storia di un architetto ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, arriva in America e viene notato da un magnate che gli commissiona un lavoro. La vita precedente fatta di povertà e umiliazioni verrà stravolta. Adrien Brody interpreta il protagonista al centro di una fotografia architettonica con la regia di Brady Corbet.

THE BRUTALIST

Chanel FW 2024-25: omaggio a Claude Lelouch e alla storia iconica della maison

Chanel FW 2024-25: omaggio a Claude Lelouch e alla storia iconica della maison

Già dalla colonna sonora, che riprende la musica di Pierre Barouh, si evince che l’advertising della Fall-Winter 2024-25 di Chanel è ispirato esplicitamente al film Un uomo e una donna del regista francese Claude Lelouch. In particolare è ripresa una delle scene finali (quella della cena), il viaggio in macchina, e le riprese di una serena spiaggia a Deauville

L’atmosfera in cui i due protagonisti sono immersi è infatti proprio quella della cittadina costiera normanna, cara alla maison poiché proprio lì nel 1913 Gabrielle Chanel inaugurò la sua prima boutique di moda, affascinata dal clima bucolico di quel luogo.

Possiamo notare come, attraverso un gioco di richiami, la scena dell’appuntamento dei due amanti, interpretati da Brad Pitt e Penelope Cruz, ben si presta all’esposizione della celebre Flap bag, dal momento che anche nel film, in primo piano, sul tavolo è esposta una borsa nera di forma analoga. 

Le inquadrature del paesaggio balneare che intervallano il dialogo tra i due protagonisti, inoltre, richiamano il legame di Chanel con il mare. È proprio negli anni di Deauville infatti che nasce la marinière, l’iconica maglia a righe orizzontali bianche e blu ispirata a quella dei marinai ed emblema dell’inconfondibile stile chic balneare ideato dalla stilista francese.

In un clima di erotismo raffinato, che ben si addice all’immaginario di Chanel, il cortometraggio aggiunge all’eleganza quel tocco di seduzione emblematico della maison.È in questa danza di allusioni ed eleganza che ad uno Chateaubriand mediamente cotto si sovrappone la calda passione dei corpi a cui si allude nel finale.

Genius, il film sul più grande editore di tutti i tempi

Genius non è solo un film sul grande scrittore Thomas Wolfe o sul grande editore Maxwell Perkins, Genius è un film che parla di una grande amicizia, quella di una penna eccellente che ha ispirato scrittori della Beat Generation come Kerouac e del primo grande editor degli autori, lo scopritore di Hemingway, Fitzgerald, Wolfe e Caldwell.

Cos’è l’amicizia se non la scoperta di avere al mondo qualcuno con cui poter parlare la stessa lingua, un’anima simile che può comprendere i tuoi umori, assecondare i tuoi gusti ed esaltarli, scoprire in te le qualità più nascoste ed elogiarle, uno spirito neutro a cui poter confidare i tuoi più intimi segreti e gli stessi occhi con cui guardare le luci di un palazzo che si accendono la notte, commuovendosi per l’immensità e la potenza della vita?

E’ questo il tipo di amicizia che ha legato due grandi uomini del ‘900, in un’America fatta di sogni e speranze, di grandi autori distrutti, di vite spentesi troppo presto.

Se il genio sregolato di Thomas Wolfe non aveva mai avuto alcun amico al di fuori del suo editore, Perkins era invece noto per la sua cordialità e l’affabilità con cui trattava i suoi protetti; un legame nato sull’onda della voracità della parola. Wolfe sempre con la penna in mano a scrivere fiumi di righe, Perkins totalmente dedito al mestiere e dentro le storie che andava via via leggendo, tanto da dimenticarsi di togliere il cappello a tavola.

Chi ha aiutato l’altro? Wolfe ha dato a Perkins un grande libro da vendere, Perkins ha dato a Wolfe una carriera, la realizzazione di un sogno, la visione d’insieme che sono i libri sul mercato, fatti non solo di un unico pugno, ma della maestria di una figura che sta nel backstage, per l’appunto l’editore. Un editore che taglia, che lima, che strappa parole che hanno fatto male nel venir fuori, che “arrivano dalle budella” come dice lo scrittore nel film di Michael Grandage, ma che grazie al rimodernamento di un professionista, diventano dei bestseller.

Genius è un bel film, non solo per l’eccellenza attoriale di Colin Firth (Max Perkins), che ha anche il dono di avere un viso amabile, ma perchè ci ricorda che esistevano (ne esistono oggi? Forse un paio) ancora degli editori interessati all’arte, alla letteratura, alla forza della parola, alla speranza che un libro potesse cambiare i pensieri, e modellare le anime oggi domani e nei secoli a venire. Oggi le grandi case editrici si sono date al gossip e all’influencer marketing. Cosa insegnamo, cosa impariamo, cosa ci rimane di tutta questa carta straccia? Dove sono i nuovi Roth, le piccole Plath?



Genius è un film del 2016 diretto da Michael Grandage
con Colin Firth, Jude Law e Nicole Kidman

“Vera”, il film su Vera Gemma disponibile su MUBI

Il film è la sintesi dell’ossessione sulla verità. “Vera”, vita vera, come il nome della protagonista Vera Gemma, che interpreta nessun altro al di fuori di se stessa.

Vera Gemma, figlia del grande attore e stuntman Giuliano Gemma, quello bello che faceva roteare pistole come fossero carte da gioco tra le mani, quel padre famoso che ogni figlio non vorrebbe, perchè il peso della notorietà grava sempre su chi lo segue. Solo i non famosi lo sognano, appesi all’illusione che il cinema e la celebrità regalano, nascondendo la polvere sotto il tappeto. In questo film tutto lo sporco salta fuori; con una secchezza e un minimalismo quasi da Nouvelle Vague, i registi Tizza Covi e Rainer Frimmel fanno sfilare le presenze venali e superficiali che circondano il mondo di Vera, dall’agente al fidanzato che chiede, dietro la finzione dell’amore, denaro.
Sarà sempre Vera a pagare, per il compagno, per una famiglia a cui si lega, vittima di un imbroglio.

Vera con Manuel

Vera viene rappresentata così com’è, eccentrica nel vestire, indossa sempre un cappello da cowboy, tacchi vertiginosi, gilet di pelliccia, e un trucco da trans. “Mi ispiro alle trans. Più somiglio a una trans e più mi sento bella. Da piccola ero innamorata pazza di Eva Robin’s.

Lo sguardo è sempre imbronciato, un po’ triste, amareggiato dalla vita, a volte rassegnato quando si parla di lavoro e di persone.
Vera è la figlia d’arte che potrebbe avere le porte spalancate, e invece le si chiudono in faccia, con una ferocia e una noncuranza che la porta a dire “basta”. Basta casting, basta film, buttandosi senza paracaduta nella vita vera.

È qui che si scontra con il padre di Manuel, disperato vedovo che vive nella borgata di Roma che tira a campare aggiustando motorini, vivendo nella casa dell’anziana madre (costretta a riempire secchi d’acqua alla fontana pubblica) e fingendo incidenti con il figlio per racimolare qualche spiccio dalle assicurazioni.
È così che si guadagna da vivere, così che irretisce Vera, arrivando a drogarla e derubarla di tutti i gioielli regalatole dal padre, nella sua piccola casa a Trastevere. Vera, combattuta se denunciarlo o no, preoccupata di quel figlio senza madre che potrebbe ritrovarsi a vivere pure senza un padre, rinuncia per compassione, come quando capisci che nella vita tutto ha un inizio ed una fine, e non puoi farci nulla se le regole sono queste, puoi solo accettarle, puoi solo accogliere la sofferenza o crogiolartici.

Vera Gemma con Asia Argento

È nella scena con l’amica di sempre Asia Argento, che si legge un momento di complicità e leggerezza, quando Asia la porta al cimitero acattolico di Roma, a vedere la tomba del figlio di Goethe. Una tomba senza nome, solo il “figlio di”, come si sentono le due donne, le figlie di Dario Argento e di Giuliano Gemma. Si chiedono se qualcuno ha pensato mai ai dolori di quel ragazzo, se hanno mai parlato dei suoi sogni e delle ambizioni, se lo hanno mai chiamato per nome. Qui Vera accenna un sorriso, quei sorrisi amari che si svelano solo nella complicità, come quando due animali braccati si annusano e si riconoscono; e così anche il dolore ha lo stesso odore.


Quanti avranno pensato che Vera Gemma sarebbe stata così talentuosa? Il film è stato premiato al Festival di Venezia 2022 Sezione Orizzonti con due premi: migliore attrice femminile e migliore regia.

È il pregiudizio ad averci fregato, come confessa lei con grande onestà, “non ho mai la faccia giusta, non sono mai abbastanza bella come mio padre, sono sempre sbagliata“, un viso segnato dalla chirurgia, pratica iniziata alla tenera età dalla madre.
Perchè ha voluto rifarci il naso?” – chiede Vera alla sorella mentre riguardano delle diapositive “erano così belli“.

Una ricerca ossessiva della bellezza, quella bellezza esteriore che ci mette tutti sotto torchio, sotto esame, dalla Barbie che ci regalano da bambine, alle mode che cambiano repentinamente. Eppure, la bellezza che vediamo in questo crudo e trasparente documentario, come attraverso un cristallo, è quella più pura, l’empatia più sacra, la genuinità più integra, la generosità più calorosa.
Vera è l’amica che vorrei.

Vera è Disponibile su MUBI.





Grand Hotel, una Greta Garbo un po’ troppo drammatica

Lirismo del divismo, “Grand Hotel” illumina nonostante l’età. è il ’32 quando il regista Edmund Goulding raccoglie i più grandi divi del cinema Hollywoodiano e li piazza davanti ad una camera per girare quello che sarà premiato agli Oscar nello stesso anno, come miglior film a MGM, e pellicola scelta per essere conservata nel Nation Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. 

Teatro di scena è il Grand Hotel di Berlino, non cercatelo perché non esiste, il set è stato interamente ricreato negli Studios purtroppo, peccato per gli appassionati di cinema che si sarebbero fiondati nelle sontuose stanze dei protagonisti.

Gente che va gente che viene, un tram tram di clienti che fa da sottofondo alle storie che si intrecciano tra i personaggi di diverso ceto sociale. Abbiamo il barone Felix von Geigern ( John Barrymore) che si rivelerà essere un ladro gentiluomo, molto amato per i suoi modi e il suo buon cuore, la ballerina russa, madame Grusinskaya (Greta Garbo), una diva viziata caduta in depressione al calar della carriera, il contabile Kringelein, un uomo dai giorni contati perchè malato di cuore, che decide di vivere i suoi ultimi momenti nello sfarzo totale, l’industriale Preysing, un arrogante panzone e la sua dattilografa, Flaemmchen, la grande Joan Crawford che ruba la scena alla bella Garbo forse a tratti troppo drammatica e teatrale per uno spettatore del 2023.

Wallace Beery e Joan Crawford in una foto pubblicitaria del film

La missione del ladro barone sembra andare in fumo, entrato nella stanza della ballerina per rubarle i collier di perle, assiste di nascosto alle angosce della povera donna in procinto di suicidarsi. Colto da compassione sbuca fuori dalle tende e la implora di fermarsi, confessandole di essere entrato furtivamente nella stanza perchè innamorato perdutamente di lei. E nella trappola dell’amore ci finirà sul serio, rischiando così di essere ammazzato dalla malavita che pretende quelle perle promesse. Ma il barone è troppo debole nei confronti del gentil sesso, e cercherà di ottenere quel denaro altrove. Si imbatterà nel povero Kringelein a cui ha regalato la sua amicizia, quell’uomo così solo e così desideroso di vivere; ruberà il cuore alla dattilografa che non ricambia, ormai pronto a scappare segretamente in Russia con la bella ballerina, che miracolosamente ha ripreso a brillare come i vecchi tempi e che vede il Sole in ogni angolo della stanza in bianco e nero.

Grand Hotel è un film romantico che ci ricorda quanto l’amore sia il vero salvatore, un film che denuncia i comportamenti degli anni ’30 nei confronti dei differenti ceti sociali, un film che apre gli occhi sulle vere identità delle persone (la timida dattilografa si scoprirà essere una calcolatrice pronta a vendersi al suo datore di lavoro per soldi, ma presa da compassione accompagnerà il signor Kringelein a Parigi, per gli ultimi suoi giorni di vita e di gloria.

Greta Garbo e John Barrymore (Photo by MGM Studios/Courtesy of Getty Images)



Edmund Goulding ci fa amare il buon ladro, così galante, di rara eleganza e calma, e così prodigo a salvare la vita di una star a fine carriera, ci conduce nelle stanze 170, 164, 168 sbirciando dalle fessure le storie segrete dei clienti d’albergo, ci appassiona con le telefonate d’amore e ci attanaglia trasformando il dramma in un thriller, perchè alla fine, qualcuno muore. Chi?

La similitudine (con Sergio Rubini)

Il Festival del Cinema di Venezia è finalmente iniziato, lo omaggiamo con questo cortometraggio prodotto da Snob Srl, interpretato dal grande Sergio Rubini, e scritto e diretto da Peppe Tortora.

Un maestro di scuola elementare, dopo essere stato preso in giro dal direttore, davanti alla classe, decide di raccontare ai suoi bambini il significato della parola “Similitudine“. Lo fa con la storia di un uomo di nome Pernillo, un ignorante ma furbo che decide di aprire una scuola per maiali.
Sergio Rubini è l’attore protagonista che interpreta il maestro, Roberto Ciufoli interpreta il direttore.
L’ambiente è essenziale per dare importanza solo alla narrativa; la musica è composta da Alberto Bof come accento alla narrazione.

Tratto da un racconto di Angelo Tortora
Scritto e diretto da Peppe Tortora
Il maestro: Sergio Rubini
Direttore della scuola: Roberto Ciufoli
Bambino: Romeo Ciufoli
Aiuto Regia: Jacopo Rosso Ciufoli
Direttore della fotografia: Valerio Di Lorenzo
Musica originale di Alberto Bof
Press Agent Rubini: Saverio Ferragina
Supervisione Costumi: Tommaso Basilio
Aiuto Costumista: Paola Ragosta
Acconciature: Concetta Argondizzo @simonebelliagency
Operatore: Andrea D’Andrea
Aiuto Operatore: Vittorio Penna
Correzione Colore: Claudia Pasanisi
Grazie al centro Anziani San Felice di Roma

Una produzione di SNOB Srl
Direttore Responsabile: Miriam De Nicolò

Sebastiano Pigazzi, il nipote di Bud Spencer oggi recita in “And just like that”, il sequel di “Sex and the city”

Della sua vita privata si sa poco, noi lo conosciamo perchè recita accanto a Sara Jessica Parker, in una delle serie tv più seguite di sempre, “And just like that”, il sequel di “Sex and the city, ma nella vita reale Sebastiano Pigazzi è un timido, così si racconta, un bambino che scriveva poesie un poco drammatiche, e che oggi ha il cassetto pieno di sogni…nel mondo del cinema.

Buon sangue non mente, perchè Sebastiano Pigazzi è il nipote di Bud Spencer, il nonno forzuto e buono che tutti avremmo voluto, una vita vissuta in America, e il cuore che lo riporta spesso a Roma, la città che ogni tanto fa sentire nostalgia dell’Italia.

Photographer Claudia Pasanisi

EIC/Interview Miriam De Nicolò

Stylist Diletta Pecchia

Grooming Barbara Bonazza

Press Office Agent Matteo Cassanelli – Mpunto

Stylist Assistant Giada Turconi

Press Office Assistant Laura Marazzi

Location Studiocane – Milan

Gilet e pantalone AGARW-UD, camicia ANTONIO MARRAS

Nel sequel di “Sex and the city, “And just like that”, interpreti il fidanzato di Anthony Marentino. Puoi svelarci qualcosa della storia?
Sarà una relazione omosessuale, che nasce come un gioco e diventa un amore romantico.

Com’è stato lavorave in un cast così affiattato, di una serie di così tanto successo?
Molto divertente, loro sono davvero accoglienti e gentili, mi hanno fatto sentire a casa, pensavo ci sarebbe stata tanta tensione e invece non avuto problemi ad integrarmi.

Hai portato nel tuo ruolo qualche carratteristica della tua italianità?
Beh si, il personaggio è italiano, non ho avuto scelta. Lui vorrebbe fare il poeta, scrive testi d’amore in un negozio di New York per un dollaro.

Anche tu ho letto che scrivi poesie
Beh scrivevo di più quando ero piccolo, ma non d’amore, ero un pessimista. Poi ho smesso altrimenti si sarebbe potuto pensare che fossi un Leopardi 2.0 un po’ troppo drammatico con tendenze suicide.

Da piccoli abbiamo un po’ tutti un lato drammatico.
Ma io avevo la tendenza ad andare sempre più verso il fondo. Ricordo che mia nonna a un certo punto mi disse: “Guarda che qualche volta puoi scrivere anche una poesia felice!“.

Perchè sei una persona sensibile. 
Si forse sono un sensibilone. 

Tendenzialmente si cerca di coprire questo lato forse perchè qualcuno potrebbe leggerlo come debolezza, quando in realtà è un grande pregio e una grande forza.
Sicuramente rende la vita più difficile. Anche se nell’arte può essere un’arma a tuo favore.

sx camicia ANTONIO MARRAS, pantalone ANGELO FRENTZOS dx giacca e pantaloni ANTONIO MARRAS

Attore con il sogno nel cassetto di regia e sceneggiatura.
Il mio mondo ideale, ma sai certe cose uno vorrebbe tanto farle, ma richiedono tempo.

Hai qualche progetto avviato?
La volontà non manca.

Quali sono i temi che vorresti sviluppare?
Sicuramente mi piacerebbe trattare il tema della moralità, mette sempre in discussione il giusto e lo sbagliato, vorrei spingere il pubblico a pensare, metterli in difficoltà, credo sia la cosa più interessante che possa regalare il cinema.

Moralità che si è un po persa in questo periodo storico. 
Si forse si è un po persa. Non sarò io a dire cosa è giusto o sbagliato, ma vorrei mettere in scena personaggi ambigui e lasciare al pubblico l’ultima parola. Un modo per  giocare con il cinema, riflettendo.

E tu da che parte stai? Ti senti più buono o cattivo?
Come tutti gli altri, qualche momento buono e qualcuno cattivo, direi umano.
Troppo spesso nel cinema vediamo separate le due metà, quando nella realtà siamo tutti entrambi i lati della medaglia.

Cè chi ammette di avere una parte piu preponderante rispetto l’altra.
Tutti hanno qualche motivazione, nessuno nasce cattivo.

Ti senti un ragazzo fortunato?
Molto fortunato, ovviamente tutti hanno vissuto qualche trauma, fa parte della vita, rende tutto più vivo.

E i tuoi traumi li puoi raccontare?
I traumi sono intimi, forse sono sempre stato un pò rabbioso, insoddisfatto.

Potrebbe essere il paragone con qualcuno del tuo grado di parentela?
No nessuno, non posso paragonarmi a mio nonno.

Hai un anneddoto carino da raccontare legato a tuo nonno Bud Spencer?
Ero piccolissimo, e mi ero attaccato ad una bottiglia d’acqua, ingollando senza sosta. Mamma e nonna hanno provato a fermarmi, ma solo il vocione del nonno è riuscito nell’intento, facendomi piangere. Era così imponente.

sx total look ANGELO FRENTZOS, dx total look DSQUARED, bracciale FERSERA

Perchè a tuo parere “Sex and The City” ha un seguito così grande?
Perchè parla di quattro donne che vivono la vita in modo un pò provocatorio e ha la capacità di raccogliere ogni tipo di personalità femminile, per cui è facile immedesimarsi. La scelta di girare in una città meravigliosa come New York, che ti sembra di vivere lì con loro, e soprattutto in chiave ironica.

La tua più grande passione oltre al cinema?
Stare con amici e persone a cui voglio bene.

Dove ti senti più a casa?
A Santa Monica, dove sono cresciuto.

Un luogo dell’italia che un pochino ti manca?
Dopo qualche tempo si sente sempre la mancanza di Roma.

Roma o i romani?
I romani no, ah ah.

Dovessi scegliere un periodo in cui vivere?
Per un giorno? Forse andrei a vedere l’antica Roma.

A fare il gladiatore? 
No a vederli.

Avessi scelto un mestiere diverso?
Il politico.

Sei legato a qualche partito?
No, ma trovo sia un’altra forma d’arte che può cambiare la vita a molte persone. Utopico, ma se ben gestita potrebbe aiutare realmente.


camicia GAËLLE

Tommaso Ragno

Actor Tommaso Ragno
Interview by Miriam De Nicolò
Photography Martina Mammola
Styling Allegra Palloni

Più andiamo avanti nella conversazione, più si comprende che la vita, per Tommaso Ragno, sia uno studio continuo sul mestiere dell’attore, e che queste ricerche siano diventate di natura così ossessiva, da averle incarnate con la sua carne stessa. Cita Sacha Guitry senza saperlo, quando dice che l’attore è pagato per provare sentimenti che non prova: l’intensità arriva già dalla voce. chiudendo gli occhi diviene più profonda e poi attenta, cauta, sibilante, triste quando parla dell’amore, decisa quando si riflette allo specchio.

La differenza tra la realtà del teatro e la realtà del cinema. 
James Stewart, un grande attore statunitense, diceva: “Nei film si tratta di creare momenti. Nessuno sa come questo accada. Ma il compito è di prepararsi al meglio affinché questi momenti accadano, perché nei film non è la performance a contare come la si intende in teatro. Non è esattamente così. Nei film si va per momenti.
La cosa grande del cinema è il potenziale che i film hanno di comunicare le cose visivamente: il cinema ti viene più vicino di qualunque altra cosa, la gente ti guarda negli occhi.”
Nel teatro invece, proprio perché la scena, lo schermo è un continuo campo totale si fa un lavoro che comporta l’uso di tutto il corpo, l’elemento tecnico (cavi, telecamere, ciak, etc.) che nel cinema e nella tv è primario in teatro diventa secondario, in teatro è l’elemento umano a esser centrale, è un flusso ininterrotto, in cui sei connesso direttamente al pubblico, che dovresti percepire come tuoi partners, come fossero attori a loro volta che partecipano a creare lo spettacolo.

Come si entra dentro il personaggio da interpretare? 
Direi in parte alla stregua di un atleta, laddove ciò che muove tutto è il muscolo dell’immaginazione, facendo spazio in sè stessi per lasciare che si manifesti questo fantasma, chiamato per convenzione “personaggio”. Si va a cercare qualcosa che speri venga a sua volta a cercare te. Una sorta di reazione chimica. Di chimica alchemica, alla maniera degli antichi alchimisti.

Hai dichiarato in una intervista “Ciò che mi differenzia è l’immaginazione” E’ questa la miglior qualità di un attore?
La qualità più importante sta nel modo di rielaborare le cose che hai imparato. Porto un esempio:  tu mi consigli vivamente un libro che hai letto e amato, e che a me invece non piace. Non è il libro a essere buono o cattivo, un libro è buono o meno a seconda di quanto lo è il suo lettore, e questa è in qualche modo una benedizione per i pessimi scrittori e una maledizione per quelli buoni. Mettiamo tu abbia letto “La ricerca del tempo perduto”…

Stai parlando del mio libro preferito, Proust è l’amore della mia vita. 
Nella vita ci si “incontra” per somiglianze, ecco La Recherche è un libro che ha significato moltissimo per me, l’ho letto la prima volta durante una tournée teatrale in Francia molti anni fa, e mi è sembrata, attraverso l’immenso sforzo linguistico dell’autore una sorta di Divina Commedia contemporanea. 
E mi torna in mente la descrizione del protagonista che va a teatro a vedere la leggendaria attrice Berma, con aspettative altissime, e ne rimane deluso. Tornerà anni dopo a vederla recitare, e prenderà parte allo spettacolo con una consapevolezza che somiglia a un risveglio, a un satori, semplicemente guardandola senza alcuna aspettativa. Un capitolo incredibile che spiega cos’è la recitazione. È un libro sapienziale, che continua a esser fondamentale nella mia vita di ogni giorno.

La Recherche è vita.
Vero. Un dispositivo perfetto per accendere luci in una centrale elettrica.

Hai mai interpretato un ruolo così impegnativo?
In Nostalgia di Mario Martone.

Una parte che ti è valsa il premio Nastro d’argento per l’interpretazione di Malomm.
Un uomo di malaffare appunto, che incontra il protagonista, Pierfrancesco Favino, in una scena di 9 minuti ricchi di difficoltà perché dovevamo portare sul set le sfumature di due vecchi amici che si incontrano dopo 40 anni, segreti nascosti, colori legati al passare del tempo e ai sentimenti contrastanti tra i due, per di più in dialetto napoletano. 
Sono felice di averlo fatto con un grande regista come Martone e con un attore di così grande generosità oltre che di immenso talento.

Riconosci di essere un grande attore? 
Non so esattamente cosa questo voglia dire, e non lo dico per modestia, perché la modestia è sempre falsa. Credo al fare con sincerità quello che mi viene proposto, credo nel lavoro, il lavoro su se stessi soprattutto e credo che si possa fare quasi tutto a patto di impegnarsi e di volerlo. Poi io come tutti dovevo pagare le bollette e potevo farlo con il mestiere che mi ero scelto. Ma anche se si è pagati per sentire sentimenti che non provi, si è anche  il tramite fra un mondo di fantasmi e un mondo di vivi. 
Alla mia età, è davvero molto più appagante fare il mestiere che faccio, rispetto alla gioventù. 

Quindi per te lo scorrere del tempo è un regalo?
Il fiore vero di un attore è quando lui invecchia“, è una frase del libro “Il segreto del Teatro No” di Zeami.
La gioventù ci abbraccia con i suoi fiori freschi, la bellezza, le cellule che si irradiano, ma nessun fiore, per quanto bello, è eterno, la bellezza vera del fiore sta nel fatto che cade e poi rifiorisce, e quando quella luce comincia a cambiare, quando si va verso l’apogeo della vita, emergono altri fiori, i fiori autentici. Ed è in questo continuo cambiamento che sta il mistero, e ogni età, per chi fa questo mestiere, nasconde un fiore diverso.

Ma Luce non è solo bellezza e gioventù
Vero, ma questo non lo sai quando sei giovane, non lo puoi sapere perché l’abbaglio delle cose è fortissimo ed è comprensibile che sia così. Solo oggi, i 55 anni mi hanno regalato la consapevolezza che ciò che mi accade ora, assume decisamente più sapore rispetto a solo 10 anni fa.  

Come si spiega l’amore? 
Non si spiega, secondo me, in fondo accettiamo che esistano anche cose inspiegabili. 
Forse, ma non ne sono del tutto sicuro, saprei spiegare cos’è un comportamento d’amore, più che un sentimento. Il sentimento d’amore mi pare sia un’entità intermittente, il comportamento d’amore un atto volontario.

Chi o cosa ami? 
Amo me stesso. Voglio dire che
ho cominciato a cercare di amare me stesso come fossi un’altra persona, ad amare di me ciò che nessun altro è obbligato ad amare. 

Quali aspetti di te? 
Gli aspetti oscuri, quelli meno condivisibili, irriducibili.
Ciò che è condivisibile porta con sé qualcosa di superficiale, anche se non privo di valore. 
Iosif Brodskij in “Dolore e ragione” dice questa cosa: “Se l’arte insegna qualcosa in primo luogo all’artista stesso, è proprio la dimensione privata della condizione umana, essendo la forma più antica, anche la più letterale, di iniziativa privata. L’arte stimola nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità, dell’individualità, della separatezza, trasformandolo da animale sociale in un Io autonomo.”
Sono molte, moltissime le cose che si possono condividere, un letto, un pezzo di pane, ma non, per esempio, una poesia di Rainer Maria Rilke, non un’opera d’arte o letteraria, che toccano la parte più profonda di noi stessi. Ed è giusto anche che sia così. 

Hai mai disprezzato qualcuno al punto di odiarlo?
Certo. Me stesso.

Carlo Cecchi, regista teatrale italiano con cui hai lavorato dice che qualche anno fa avevi paura di sedurre e oggi invece questo timore è passato. 
Il palcoscenico regala una profonda carica seduttiva, che non ha nulla a che fare con l’esibizionismo.
Ma si tratta di una seduzione che è somma del contesto, di una certa regia, di un’opera, di un personaggio. Di qualcosa che non sei tu. Ma qualcosa d’altro.

Quale dote vorresti avere di natura?
La capacità di amare. Ci si immagina coraggiosi finché non avvengono cose che mostrano magari quanto, in realtà, la viltà, la pigrizia abbiano la meglio sull’idea che si ha di sè. E allora può succedere si diventi coraggiosi per reazione, per dimostrare che non si è codardi. E magari si continua a essere codardi pur avendo mostrato di fatto un coraggio da leoni. Lo stesso, credo, per l’amore. Da giovani si tende ad amare se stessi, uno tende ad amare l’amore di se stesso e il suo amore dell’amore, dell’idea di amore. Ma quella capacità di amare cui ti parlo è qualcosa di attivo, credo, e trova la sua realtà solo nella relazione con l’altro. Che ti mostra la tua piccolezza, o la tua grandezza, a seconda.

Da chi credi d’essere amato? 
La cinepresa, ti amerà sempre, qualunque cosa tu faccia”, Michael Caine.

Domanda di rito, quanto sei Snob?
Conosci un lettore appassionato di Proust che non sia anche snob?





Il Whisky sul set, 5 film dove è protagonista

Non avrei mai dovuto passare dallo Scotch al Martini
(Humphrey Bogart, 14 gennaio 1957, ultime parole prima di morire)

La lista delle presenze sulle scene del distillato di malto piú amato dagli attori e dagli spettatori di tutti i tempi potrebbe tenerci incollati allo schermo per lungo tempo. Per questo motivo abbiamo scelto alcuni titoli non per la loro importanza cinematografica ma per portare all’orecchio di tutti gli appassionati qualche nome noto e qualcun altro meno conosciuto.

Daniel Craig interpreta James Bond in Skyfall

Skyfall (2012)

La particolaritá, oltre al prestigio di questa bottiglia, è che il Macallan 1962, fu distillato proprio lo stesso anno dell’uscita del primo film sull’agente 007. Quella stessa bottiglia fu firmata da Daniel Craig, nelle vesti di James Bond, e subastata per beneficenza.

Il sapore di questo whisky è incredibilmente complesso, con una profonda sfumatura color mogano e un’elegante armonia di aromi e sapori concentrati diversi, con un sentore speziato proveniente dal legno della botte e un lieve aroma di vaniglia, ma anche nocciola, cannella, e molto altro ancora.

Jack Torrance a “colloquio” col barban

Shining (1980)

Jack Torrance, interpretato dal grande Jack Nicolson diretto da Kubrick, beve una spettrale coppa di Jack Daniels nella scena del bar dove in realtà ha chiesto un Burbon. Il figlio di Jack nel film si chiama… si, proprio Daniel.

Dal colore ed aroma molto intensi, un sapore di cereali tostati ben marcato ed un fondo di vaniglia e caramello, come ci si aspetterebbe da un Tennesse che riposa per 2 o 4 anni in botti di rovere bianco tostata al suo interno avrà un livello di “bruciato” differente che attribuirà sapori ed aromi distinti ad ogni whisky.

Breaking Bad (2008-2013)

Nella serie acclamata dalla critica soprattutto per la sceneggiatura, la regia e le interpretazioni degli attori principali, il protagonista Walter White (Bryan Cranston) predilige un whisky Scozzese poco conosciuto al di fuori degli USA, il Dimpel Pinch.

Nato nel 1890 come apice della ricerca di un blend della marca esiste solo nella versione 15 anni affinato in botti americane di quercia bianca. Pepato al naso, morbido ed elastico ma con una struttura decisamente solida.

Lord Charlie Mortdecai, un “mercante d’arte” e truffatore

Mortdecai (2015)

Sicuramente non ricordiamo scena nella quale l’eccentrico protagonista, interpretato da Johnny Depp, appaia senza un drink. Ma indubbiamente la piú interessante del film è quella del risveglio nell’Hotel The Standard dove sul comodino troviamo una bottiglia di Lagavulin 16.

Un single malt scozzese invecchiato in botti di quercia e dall’inconfondibile sapore di fumo di torba del sud dell’isola, iodato e salino, con una dolcezza ricca e profonda. Ricordi di frutta secca e passa con un fondo quasi piccante.

Il Whisky, uno degli attori principali della serie.

Peaky Blinders (2013-2022)

Nella serie televisiva britannica ambientata nella Birmingahmil del dopoguerra, il protagonista Thomas Shelby (Cillian Murphy) afferma che: “Il whisky è un metodo di prova: ti dice chi è autentico e chi no.” offrendo e bevendo un Old Bushmills, attuale Bushmills 10years old.

Immaginiamolo come la porta di accesso ai più grandi single malt del mondo. Dalle botti di sherry e bourbon prende gli aromi di miele e vaniglia oltre al sentore di cioccolato bianco. Tanto complesso quanto accessibile.

Il saluto a questo viaggio nel mondo del cinema attraverso bottiglie e bicchieri di pregio lo facciamo dare da  Lt. Archie Hicox (Michael Fassbender)  che in Bastardi senza Gloria (2009) dice giustamente:

C’è un posto speciale all’inferno riservato alle persone che sprecano un buon scotch…”