Steven Spielberg e Tom Hanks: la coppia vincente

Da Salvate il soldato Ryan a Prova a prendermi, da The Terminal fino ad arrivare al recente Il Ponte delle spie. Nell’ambito cinematografico il duo composto da Steven Spielberg e Tom Hanks rappresenta indubbiamente una collaborazione professionale vincente e ben assortita.

 

Prima di analizzare i passaggi più importanti della filmografia realizzata in tandem, introduciamo brevemente i protagonisti di questo articolo con le loro rispettive biografie.

 

Steven Spielberg

 

Il celebre regista statunitense nasce a Cincinnati (Ohio) il 18 dicembre 1946 da genitori ebrei. Ritenuto all’unanimità uno dei cineasti più influenti di sempre, Steven Allan Spielberg agli albori della carriera fu un membro dei cosiddetti “movie brats”, una corrente artistica che contribuì fortemente alla nascita della Nuova Hollywood targata anni ’70, in compagnia dei colleghi ed amici Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma e George Lucas. Spielberg vinse due premi Oscar come miglior regista per il capolavoro Schindler’s List del 1993 e per il famoso Salvate il soldato Ryan del 1998 con protagonista Tom Hanks. Sempre nel 1993 conseguì il Leone d’oro alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre nel 1987 si aggiudicò il Premio alla memoria Irving G. Thalberg. Infine, fondò, insieme a Jeffrey Katzenberg e David Geffen, la Amblin Entertainment e la DreamWorks.

 

Tom Hanks

 

Il noto attore americano Thomas Jeffrey Hanks nasce a Concord (California) il 9 luglio del 1956. La fase embrionale della sua carriera prende forma a partire dagli anni ’80 in occasione della serie tv Henry e Kip (Bosom Buddies), grazie alla quale iniziò a farsi a conoscere. Da quel momento in poi, Hanks recitò in numerosi film, riscuotendo un enorme successo sia di pubblico sia di critica. Egli può vantare 5 nomination agli Oscar, vincendone due consecutivamente come miglior attore per Philadelphia del 1994 e Forrest Gump del 1995.

 

Le pellicole

Il primo film diretto da Steven Spielberg con protagonista Tom Hanks (nelle vesti del capitano John Miller) è Salvate il soldato Ryan (1998).

 

Tom Hanks ( capitano John Miller ) in Salvate il soldato Ryan (1998)

 

La storia è incentrata sullo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. I primi 24 minuti dell’opera sono stati quelli più apprezzati dalla critica e dal pubblico in sala. In questa fetta di tempo il regista inscena in maniera diretta e senza fronzoli lo sbarco degli alleati sulle coste della Normandia, abbandonando l’enfatizzazione patriottica e l’esaltazione eroica dei precedenti lavori su questo tema. Salvate il soldato Ryan è stato co-prodotto da Spielberg ed Hanks e costò ben 120 milioni di dollari. Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, la pellicola ricevette 11 nomination all’Oscar, aggiudicandosene 5: miglior regia, fotografia, montaggio, sonoro ed effetti sonori.

 

Il secondo film frutto della coppia Spielberg-Hanks fu Prova a prendermi del 2002.

 

Prova a prendermi, 2002

 

L’opera narra le vicende di Frank Abagnale Jr., un truffatore che si spacciò pilota d’aereo, medico ed avvocato pur di poter vivere. Il personaggio è interpretato da Leonardo Di Caprio, mentre il ruolo dell’agente dell’FBI Carl Hanratty viene ricoperto da Tom Hanks, un esperto in frodi bancarie che farà di tutto pur di catturare il suo antagonista. La pellicola incassò ai botteghini la bellezza di 164 milioni di dollari e l’attore Christopher Walken (nei panni del padre di Frank) ottenne la nomination per l’Oscar come miglior attore non protagonista.

 

Nel 2004, invece, è la volta di The Terminal, con l’affascinante Catherine Zeta-Jones protagonista femminile.

 

The Terminal, 2004

 

In questo caso Tom Hanks è Viktor Navorski, personaggio ispirato alla storia del rifugiato iraniano Mehran Nasseri, il quale, nel 1988, visse per un certo periodo bloccato all’interno del terminal 1 dell’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle. Tuttavia non mancano le modifiche: Spielberg, infatti, ambienta la vicenda a New York ed Hanks Navorski diventa un cittadino dell’Europa Orientale. Presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu girato in soli tre mesi.

 

Piccola curiosità. Nel 2009 Spielberg ed Hanks produssero la miniserie The Pacific. Basata sulle guerre del Pacifico, vede come protagonisti tre marines rimasti bloccati nel suddetto Oceano.

 

Il Ponte delle Spie

 

L’ultimo lavoro frutto della collaborazione tra Steven Spielberg e Tom Hanks è Il Ponte delle Spie, un serrato e teso spy-movie uscito ad ottobre 2015 che può vantare ben 6 candidature all’Oscar.

 

Il film è ambientato a Brooklyn nel 1957 e racconta la storia di Rudolf Abel, un pittore arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Il clima ostile derivante dalla guerra fredda fra America ed Unione Sovietica non fa sconti a nessuno e l’uomo viene etichettato come un terribile nemico da condannare. Ma la democrazia esige che venga processato per ribadire i principi costituzionali americani. L’incarico della sua difesa viene affidato all’avvocato James B. Donovan, che fino a quel momento si era occupato di assicurazioni. Attirandosi lo scontento della moglie Mary, del giudice e dell’intera opinione pubblica, Donovan prende a cuore la causa. Nel frattempo però un aereo spia americano viene abbattuto dai militari sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero in Russia. Ecco che all’orizzonte s’intravede la possibilità di effettuare uno scambio e sarà proprio Donovan, incaricato dalla CIA, a gestire la delicata trattativa di negoziazione.

 

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla 20th Century Fox, Il ponte delle spie è un film thriller in cui le premesse narrative alla Hitchcock cedono progressivamente il posto ad uno sviluppo sempre più letterario. Lo svolgimento tematico, infatti, assume un carattere leggendario e il presente risulta quanto mai oscuro (emblematica in questo senso l’immagine tombale di Berlino).

 

Tom Hanks si trova perfettamente a suo agio nei panni dell’avvocato James B. Donovan. Sotto il suo cappotto e il suo ombrello (spesso sotto una pioggia battente) egli non incarna la giustizia, egli è giusto. Un uomo che onora il suo lavoro, ma che non vuole sapere veramente se il suo assistito è colpevole o innocente. A Donovan pare incredibile che il suo cliente Rudolf Abel (interpretato dall’attore inglese Mark Rylance, noto per pellicole quali Blitz, Anonymous e The Gunman, in uscita nel 2016 con Il gigante gentile, con la regia nuovamente affidata a Steven Spielberg) si disinteressi completamente circa il suo destino. Ma questo fa parte del suo mestiere. Alla fine a lui non importa tutto ciò, l’unica cosa che conta è cercare di assolvere la propria funzione, salvare la vita di una persona, a prescindere dal tipo di uomo che bisogna difendere. È proprio in quest’ottica che Donovan non reputa Abel come una spia sovietica o una minaccia, ma semplicemente come una persona che necessita del suo aiuto e della sua difesa. Nel corso dei giorni egli lo considererà come una sorta d’amico, individuando in lui un colore ed una profondità.

 

Una delle scene più significative è quella iniziale, dove Abel è intento a dipingere il suo autoritratto tramite l’utilizzo di uno specchio. L’immagine riflessa e quella impressa sulla tela riguardano la stessa persona, ma sono comunque differenti: la prima ritrae un’oggettività superficiale, mentre la seconda è il prodotto dello scorrere del tempo e dei pensieri che si sono susseguiti nelle ore dell’operazione, lasciando la traccia del suo autore. Il valore semantico intrinseco di questa scena è riassumibile nella frase pronunciata da Donovan al tenente Powers:

Non conta quello che di te penseranno gli altri, ma quello che sai tu”.

 

Per tutti questi motivi, Il ponte delle spie è un film straordinariamente attuale. In una società in cui regnano sovrani i sospetti, le intercettazioni e le false ed affrettate identificazioni di una persona col suo credo, il suo costume o la sua provenienza, l’opera di Steven Spielberg farà riflettere non poco il pubblico presente in sala.

 

TRAILER 

Jurassic Park, il più grande spettacolo dopo il giurassico

«Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo, due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?» 


Il vero messaggio di Jurassic Park è tutto qui, nelle parole di Alan Grant (Sam Neill), il paleontologo convinto da John Hammond (Richard Attenborough) a visitare il più grande parco dei divertimenti, un parco in cui torneranno in vita le creature più affascinanti che la storia della terra abbia mai conosciuto: i dinosauri. Le perplessità di Alan Grant sono confermate da Ian Malcolm (Jeff Goldblum): «La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui mi sconvolge», dice. «Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un bambino che gioca con la pistola del padre.» Un pericolo autodistruttivo, insomma. La natura ha le sue leggi e se i dinosauri e l’uomo non hanno vissuto nella stessa era, questo era dovuto alla loro evidente incompatibilità.


Grant e Malcolm non saranno affatto smentiti quando si ritroveranno a dover fuggire da un Tirannosaurus Rex, liberato grazie all’interruzione del sistema di sicurezza. In realtà le recinzioni del parco sarebbero state sicure se Dennis Nedry non avesse disattivato l’impianto e rubato gli embrioni per venderli a un pezzo grosso della concorrenza. E la notte in cui Nedry tenta la fuga è una notte apocalittica, metafora della rabbia della natura per l’uomo ribelle, reo di aver tentato di stravolgere le sue regole o piuttosto di barare. Jurassic Park, per la fama e il successo che ha raccolto nel corso degli anni, non ha nemmeno bisogno di essere raccontato. Divenuto uno dei maggiori incassi della storia del cinema, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, permise a Steven Spielberg di superare gli incassi di E.T. – L’extraterrestre. Il 1993 fu un anno fortunatissimo per il regista, che sfornò, oltre a Jurassic Park, anche Schindler’s List, film che lo consacrò tra i grandi del cinema e che gli permise di aggiudicarsi due Oscar, miglior film e miglior regia. Dopo quella fortunata doppietta, però, Spielberg non è stato più quello di una volta (a parte l’Oscar per Salvate il soldato Ryan) e sebbene si sia sempre impegnato ad alternare film commerciali (come il quarto, deludente, Indiana Jones e La guerra dei mondi) a film d’autore (come Munich o War Horse), l’apice lo ha raggiunto tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, proprio con Jurassic Park.


Un film che, al di là di tutto, riprende le tematiche topiche dei suoi film, come l’infanzia, già centrale in E.T., Indiana Jones e il tempio maledetto, L’impero del sole e Hook – Capitan Uncino. Il sapore del film spielberghiano è palese anche grazie allo splendido accompagnamento musicale di John Williams, non nuovo a lavorare con il regista. Se uno dei temi cari a Spielberg è l’infanzia, non potevano mancare due giovani protagonisti come Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards), nipoti di John Hammond, che accompagnano Alan Grant, la dottoressa Sattler (Laura Dern) e Ian Malcolm nella visita al parco. Tim è un fan sfegatato del dottor Grant, mentre Lex è una giovanissima hacker (non a caso sarà lei a ripristinare l’elettricità). Proprio il dottor Grant dimostra di non provare molta simpatia per i bambini quando, nel prologo del film, un ragazzino, mentre Grant rinviene un fossile, paragona un Velociraptor a un grosso tacchino e il paleontologo fa di tutto per spaventarlo descrivendogli che cosa può capitare se dovesse trovarsi di fronte un animale primitivo così pericoloso. Ma nel corso della visita, Grant si trova da solo con i due ragazzi: le macchine che li avrebbero accompagnati durante la visita sono state distrutte dal T-Rex e loro sono costretti a tornare alla base a piedi, attraversando l’intera isola con la speranza di non imbattersi in Velociraptor o altre specie aggressive.


Sono proprio gli incontri con i predatori, però, a rientrare tra le scene da cineteca. La prima è la comparsa del T-Rex, con un primo piano del suo occhio illuminato appena dalla torcia di Lex; un occhio che è il simbolo del male, proprio come lo era quello dello squalo, sempre di spielberghiana memoria. E questo sarebbe un altro tema che ritorna: la lotta fra l’uomo e la natura (lì lo squalo, qui i dinosauri), una natura sempre più maligna e terrificante, ma questa volta figlia dell’uomo stesso. I dinosauri sono come il mostro di Frankenstein: John Hammond ha cercato di riportare in vita qualcosa che doveva essere morto, di cui la natura stessa aveva decretato la morte; qualcosa che si è rivoltato contro il suo stesso creatore perché si è ritrovato in un’epoca sbagliata e in un contesto sbagliato. Altra scena da antologia è l’inseguimento in cucina dei Velociraptor, con Lex e Tim nascosti e i due predatori che riescono ad aprire la porta, fino all’epico grido di Lex mentre uno dei due dinosauri l’attacca, stroncato da un vetro infranto poiché l’immagine a cui andava incontro il dinosauro era soltanto il riflesso della ragazza.


Il finale di Jurassic Park, con il T-Rex che salva, involontariamente, Grant, la dottoressa Sattler e i due ragazzi dall’assalto dei Velociraptor, e la bandiera del parco che crolla al ruggito del Tirannosauro, era abbastanza aperto per lasciare allo spettatore le conclusioni su una possibile ribellione dell’uomo alle leggi di madre natura. Proprio per la sua grandezza e per la spettacolarità delle animazioni – nonché per la sostanziale novità del tema – il secondo capitolo del franchise, Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), anch’esso diretto da Spielberg, uscirà sempre sconfitto da ogni confronto con il primo. D’altronde le possibilità narrative offerte da un materia simile non sono tantissime, e il rischio che si correva – trappola in cui è poi caduta la sceneggiatura – era riproporre qualcosa di già visto sfruttando l’onda del successo, ma senza quel valore aggiunto che era stata la vera arma segreta di Jurassic Park.


Quattro anni dopo gli incidenti avvenuti sull’Isla Nublar, la società di John Hammond, la InGen, è fallita ed è Peter Ludlow, nipote di Hammond, ad avere ereditato la ditta. Oltre a Isla Nublar, Hammond aveva occupato un’altra isola, l’Isla Sorna, in cui i dinosauri crescevano prima di essere trasferiti a Isla Nublar al raggiungimento dell’età adulta. Ma Isla Nublar è stata abbandonata in seguito all’arrivo di un uragano, che aveva distrutto le strutture. I dinosauri, però, sono ancora lì. Proprio un incidente, occorso nel prologo, con una famiglia di turisti, la cui bambina si era imbattuta in un branco di Compsognathus, spinge Hammond a richiamare il dottor Malcolm, che nei quattro anni successivi alla disavventura nel Jurassic Park aveva cercato di denunciare le mostruosità nascoste nell’Isla Nublar. Hammond vorrebbe che Malcolm stendesse un rapporto sull’isola e sulle condizioni degli animali ma soprattutto che fermasse chi vuole catturarli per farne delle attrazioni in un parco di San Diego. Malcolm è scettico ma quando Hammond gli rivela che anche Sarah (Julianne Moore), la sua ragazza, è lì sull’isola, la missione scientifica si trasforma in una missione di salvataggio. A Malcolm si unirà, clandestinamente, anche la figlioletta Kelly.


Il resto sa molto di già visto: le aggressioni dei dinosauri, gli inseguimenti, la roulotte (al posto della macchina in Jurassic Park) sospesa nel vuoto, ma soprattutto l’arrivo del T-Rex a San Diego con la sua furia distruttrice, un richiamo evidente a icone della fantascienza catastrofica come King Kong e Godzilla, qualcosa che fa storcere non poco la bocca e rimpiangere l’immensità e la poesia di Jurassic ParkMa il fondo lo si tocca con il terzo film, Jurassic Park III. Al ritorno di Sam Neill e di Laura Dern corrisponde, però, un cambio in regia, Joe Johnston al posto di Spielberg. È inevitabile che la magia ormai si sia persa e che si rimpianga perfino Il mondo perduto, nonostante i limiti di essere un sequel senza tante grosse novità. Ancora un’azione di salvataggio, ma stavolta sarà Alan Grant, anziché Malcolm, a tornare a Isla Nublar. Gli effetti speciali non hanno più niente di speciale (si vede benissimo che i dinosauri sono finti!) e il soggetto è diventato un fiacco pretesto per allungare una trama che si è già diradata ben oltre le proprie possibilità. Di Jurassic Park è rimasto soltanto l’accompagnamento musicale, a rievocare qualcosa che non c’è più, ma questo non basta, tant’è che il film si era aggiudicato la nomination ai Razzie Awards del 2001 come Peggior Remake o Sequel.


Jurassic Park, rappresentando la novità (messa anche in prospettiva di un’epoca in cui il 3D era lontano anni luce), non poteva che suscitare incanto: i dinosauri di Spielberg giganteggiavano sullo schermo con un realismo mai visto prima; e a essi si univano azione, ironia, stupore (e l’entusiasmo immancabile di John Hammond). Il mondo perduto dimostrava già di essere una forzatura: la forza di Jurassic Park risiedeva anche nella simpatia del cast, da Alan Grant ai due ragazzini; dalla dottoressa Sattler al dottor Malcolm (l’unico recuperato, a parte le comparse di Hammond e dei nipotini cresciuti, ma solo nella parte iniziale). L’evocazione di Godzilla e di King Kong non avevano fatto che abbassare non soltanto la credibilità stessa del film ma di tutto il franchise, che ormai aveva virato verso stereotipi noiosi. Con Jurassic Park III, infine, c’è il ritorno di Alan Grant e della dottoressa Sattler (comunque marginale) ma non del tocco magico che Spielberg aveva saputo dare ai suoi primi dinosauri.


In Jurassic World ritornerà lo stesso Tirannosaurus Rex di Jurassic Park, arrabbiato come nel 1993 e pronto a fare nuove vittime. L’utilizzo massiccio del 3D, coadiuvato dal supporto della grafica digitale, renderanno l’apertura del parco dei dinosauri un vero e proprio evento mondiale.