Biancaneve e i sette nani, la follia di Walt Disney

Il 21 dicembre 1937 presso il Carthay Circle Theatre di Los Angeles, al termine della proiezione in anteprima di quella che era stata definita una follia, il pubblico, composto tra gli altri da star del calibro di Charlie Chaplin, Shirley Temple, Clark Gable, Judy Garland e Marlene Dietrich, concesse una standing ovation al primo lungometraggio animato della storia. L’artefice di quella follia era Walt Disney e quel film era Biancaneve e i sette nani. All’epoca Walt Disney era un cineasta talentuoso che si era fatto conoscere prima per le Alice Comedies, nei primi anni ’20, e poi, soprattutto, per la serie di Mickey Mouse (dopo aver perso i diritti per Oswald the Lucky Rabbit) e delle Silly Symphonies, cortometraggi animati molto distanti dalle produzioni seriali di Tex Avery o dei fratelli Fleischer (creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro).


Mickey Mouse era il simbolo del New Deal, il coraggioso americano che combatteva la paura della Grande Depressione con la positività che era tipica anche del suo creatore, Walt Disney (anche se, secondo alcuni, a disegnarlo sarebbe stato Ub Iwerks). Dall’altro lato c’erano le Silly Symphonies, anch’esse portatrici dei valori del New Deal e già capaci di per sé di rivoluzionare, dal punto di vista tecnico, il cinema d’animazione, ad esempio per l’introduzione della multiplane camera, capace di dare profondità all’immagine (in The Old Mill, 1937) o per aver regalato per la prima volta il colore (in Flowers and Threes, 1932) a delle produzioni fino a quel momento piuttosto spartane e dipendenti dai più importanti lungometraggi live action.


In realtà già qualcuno aveva provato a nobilitare un tipo di cinema che sembrava soltanto il surrogato di quello con attori in carne e ossa. Un primo tentativo l’aveva fatto l’argentino Quirino Cristiani, i cui film furono però distrutti in un incendio; in seguito c’era stata anche Lotte Reiniger con Le avventure del Principe Achmed (1923), realizzato con la tecnica delle silhouette. Ma nessuno di loro era stato in grado di dare ai cartoni animati un’impronta hollywoodiana, così come accadde per Biancaneve e i sette nani. D’altronde anche Max Fleischer – forte concorrente di Disney – avrebbe tentato la stessa operazione due anni dopo, con I viaggi di Gulliver (1939), ottenendo risultati tutt’altro che gratificanti. Gli ingredienti del successo di Disney erano piuttosto semplici, prelevati da una nota fiaba dei fratelli Grimm e riadattati secondo la visione del mondo di Walt Disney: da un lato una fanciulla dal volto e dal cuore candido, orfana prima della madre e poi del padre; dall’altro una matrigna – una regina – gelosa della crescente bellezza della sua figliastra nonché della sua giovinezza e della sua squisita bontà.


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Un primo tentativo di affronto: l’ordine a un cacciatore, uccidere la fanciulla e portare il suo cuore in uno scrigno. Ma il cacciatore, impietosito da Biancaneve, la lascia andare e così la fanciulla trova rifugio presso una casetta, al di là del bosco. Qui vivono i sette nani, che all’inizio lei scambia per dei bambini. I nani, i cui nomi rispecchiano le peculiarità caratteriali (Dotto, Gongolo, Eolo, Mammolo, Cucciolo, Brontolo e Pisolo), tornano a lavorare nelle miniere, mentre Biancaneve, calatasi più nel ruolo di ragazza-madre che di principessa, si occupa delle faccende domestiche, con l’aiuto degli animali della foresta, lavando e cucinando. Intanto la regina scopre che il cacciatore non le ha portato il cuore di Biancaneve ma quello di un cinghiale, così decide di muoversi in prima persona per annientare una volta per tutte la sua nemica e per essere lei «la più bella del reame». Ora rivela la sua vera natura: è una strega, una profonda conoscitrice di formule alchemiche mostruose, capaci di tramutarla in una vecchia megera; e capaci anche di trasformare il frutto del peccato originale, la mela – una bellissima mela rossa – in un’arma letale. L’ingenuità di Biancaneve non può nulla contro la furbizia della strega. Giunta alla casetta dei nani, è sufficiente offrirle la mela per assicurarsi che Biancaneve non si tirerà indietro: basta un solo morso per ucciderla.


Nel frattempo, gli animali della foresta corrono alla miniera per richiamare i nani e per avvertirli che Biancaneve è in pericolo. A sconfiggere la strega sarà il Fato, che la farà precipitare sghignazzando da un burrone, mentre tenterà di schiacciare i nani «come formiche». Quanto a Biancaneve, c’è un solo modo per risvegliarla da un sonno tutt’altro che mortuario: il bacio del vero amore, che potrà esserle dato da un giovane, un principe che già aveva dimostrato di amarla, quando aveva ascoltato la sua candida voce mentre raccoglieva l’acqua dal pozzo. Una fiaba con una trama semplice, lineare, con pochi ma essenziali personaggi, ognuno dei quali con una funzione ben precisa: la strega come antagonista, i nani come aiutanti, il principe come risolutore/salvatore; e Biancaneve che, passiva, attende il compiersi della propria sorte. Essere odiata perché lo Specchio Magico rivela alla regina che non è lei «la più bella del reame». C’è invidia, c’è odio, c’è soprattutto la profonda consapevolezza che la fanciulla potrebbe oscurarla. Questo è il moto dell’azione, che si sviluppa attraverso le celeberrime canzoni della Disney, che fanno diventare il film una vera e propria operetta.


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Una follia, già. Una follia che nel 1937 trasformò Disney e la sua azienda in colossi cinematografici, con incassi da capogiro, considerata l’epoca. Soltanto Via col Vento, due anni dopo, sarebbe riuscito a fare meglio. Ma Walt Disney non era uno capace di accontentarsi; e così, da vero self-made man, desiderò moltiplicare il proprio successo con qualcosa di ancora più ambizioso. I profitti di Biancaneve lo portarono a realizzare un nuovo studio, a Burbank, dove ora risiedono i Walt Disney Studios. Ma l’inizio della guerra e lo sciopero del ’41, a causa dei numerosi licenziamenti, non gli facilitarono le cose, per cui il film successivo, Fantasia (1940), troppo all’avanguardia per quei tempi, non fu abbastanza apprezzato, pur essendo la geniale unione tra cultura alta e cultura popolare: la musica e il cartoon, o meglio la musica classica e Topolino, simbolo aziendale decaduto, rilanciato nell’episodio L’apprendista stregone dopo che, nei cortometraggi tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40, il successo di Paperino lo aveva quasi oscurato. Paperino era infatti diventato lo strumento di propaganda anti-nazista di Walt Disney, incarnando lo spirito dell’americano per eccellenza, esemplato in un cortometraggio – talvolta male interpretato – come Der Fuherer’s Face, laddove sognava di essere un nazista, per poi risvegliarsi da quel tremendo incubo e baciare la Statua della Libertà.


Film di propaganda, dunque. L’impegno politico di Walt Disney, che sarebbe diventato collaboratore di J. Edgar Hoover nella caccia ai comunisti, è indiscutibile sin dai primi cortometraggi di Topolino, ma anche in Biancaneve non mancano messaggi coraggiosi: l’iperattivismo dei nani è un inno al lavoro. Sono americani che non si perdono d’animo, che anche nei momenti più difficili continuano a lavorare con positività, instancabili. La stessa cosa la fa Topolino, che anzi, come già detto, incarnava l’essenza stessa del New Deal di Roosevelt. Dall’altro lato, come elemento negativo, troviamo il Lupo Ezechiele, che nei Tre porcellini (1933), secondo Ejzenštein, rappresentava la disoccupazione. E non a caso la canzone canticchiata da due dei tre porcellini (quelli più scansafatiche) era “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”, un testo scritto da Frank Churchill e inno del New Deal durante la Grande Depressione, citato anche da Frank Capra in Accadde una notte (1934). Capra, non a caso, era amico di Walt Disney.


Oltre a un forte richiamo alla realtà politica dell’epoca, però, Biancaneve è anche ricco di simboli. Per esempio Biancaneve che invoca l’amore quando raccoglie l’acqua del pozzo, ovvero le emozioni raccolte dal subconscio. E anche le personalità dei nani non sono casuali: si va dall’ingenuità infantile di Cucciolo alla saggezza di Dotto, con Brontolo a simboleggiare l’intolleranza e la vecchiaia e Gongolo e Mammolo negli stadi intermedi dell’innamoramento. Tutte le fasi della vita, scandite in sette personalità diverse. Ma i film di Walt Disney, non soltanto Biancaneve e i sette nani, sono stati interpretati anche in maniera tutt’altro che positiva. La metamorfosi della regina in vecchia, ad esempio, secondo un utente spagnolo di YouTube, alluderebbe a un’invocazione a Satana: «Polvere di mummia, per invecchiare; per tingere le vesti, il nero della notte; per arrochire la voce, risata di strega; per imbiancare i capelli, un urlo di terrore; turbine di vento, per agitare il mio odio». Sono ingredienti che hanno l’obiettivo di terrorizzare lo spettatore e di inquietarlo per il potere oscuro della regina e per le sorti di Biancaneve. Ma se così non fosse stato, se la regina non avesse avuto questi poteri oscuri, il film avrebbe perso interesse e non avrebbe avuto successo.


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Pur essendo tratto da una fiaba dei Grimm, il film ha alcune fondamentali differenze che addolciscono il contenuto e che riadattano la storia per il pubblico a cui Disney voleva rivolgersi: le famiglie americane che amano l’entertainment e il dolce sapore del lieto fine. Perché nel mondo di Walt Disney tutto deve finire bene e anche storie profondamente drammatiche come potevano essere il Peter Pan di Barrie (il triste isolamento del bambino in un mondo che gli impedisce di crescere e che lo porterà ad allontanarsi dalla famiglia), o simboliche come il Pinocchio di Collodi – devono avere i tratti tipici della “disneynità”. Per cui, se nella fiaba dei Grimm la strega tenta più volte di uccidere Biancaneve, prima soffocandola con una cintura e poi con un pettine avvelenato, nella Biancaneve di Walt Disney è sufficiente la mela avvelenata; in secondo luogo, il bacio del principe non esiste per i Grimm: Biancaneve si risveglia in maniera del tutto casuale, quando un principe (che non l’ha mai vista se non dopo essere stata avvelenata con la mela) la conduce nel suo castello e nel corso di una caduta Biancaneve riesce a espellere il boccone avvelenato. Niente di romantico, quindi. E anche la punizione del Fato è un’invenzione di Walt Disney: la matrigna, invitata alle nozze di Biancaneve con il principe, è costretta a indossare delle calzature incandescenti e a ballare, finché non muore. Varianti essenziali, come si è già detto, per identificare alcuni elementi con la Biancaneve di Disney, non con quella dei Grimm.


Le trasposizioni più recenti della celeberrima fiaba non fanno altro che restituire alla storia di Biancaneve il tema essenziale che Disney aveva cercato di celare: la sessualità. Perché in fondo la regina vuole uccidere Biancaneve perché è gelosa di lei, della sua bellezza, ma soprattutto della sua femminilità; una femminilità pericolosa perché le può sottrarre il suo sposo. Un elemento che nel film della Disney non è per niente accentuato, cosa che accade invece in Biancaneve (2012) con Lily Collins e Julia Roberts, laddove le due donne arrivano addirittura a contendersi il principe. È chiaro che, anche per il pubblico a cui è destinato Biancaneve e i sette nani (le famiglie, ma soprattutto i bambini, la cui sessualità è ancora latente), due donne che, per conquistare un uomo, esprimono al massimo la propria femminilità non sono affatto concepibili, anche se, nella Sirenetta (1989), questo elemento verrà fuori. Ma si tratta di un periodo differente, e soprattutto con un’azienda del tutto rinnovata e orfana di Walt Disney. Purtroppo le esigenze di marketing portano però anche a una rilettura di fiabe classiche secondo una visione moderna e di genere totalmente diverso che va a snaturare la morale stessa della storia, trasformandola in un futile intrattenimento fine a se stesso. È ciò che accade in Biancaneve e il cacciatore, sempre del 2012, che segue il filone di altre fiabe ritornate al cinema in live action come il deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton o come lo pseudo-horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011); oppure, infine, l’altrettanto deludente e inutile remake La Bella e la Bestia (2014).


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Tornando a quella notte del 21 dicembre 1937, la follia di Disney si era rivelata una scommessa più che vincente: il successo al botteghino per il primo lungometraggio animato della storia, escludendo i tentativi – di cui si è già accennato – di Quirino Cristiani e di Lotte Reiniger, fu straordinario. Walt Disney, due anni dopo, si aggiudicò l’Oscar alla carriera e fu lodato da Chaplin e da Ejzenštein, che definì Biancaneve il più grande film mai realizzato. Tramandato per intere generazioni, amato da ogni famiglia, senza distinzione di sesso o di età, Biancaneve e i sette nani è il più grande classico fra tutti i classici Disney, una pietra miliare della settima arte, innovativo tanto quanto lo sarebbe stato Quarto Potere soltanto tre anni dopo ma molto più popolare. Un’esplosione incontenibile di emozioni, dettate da situazioni anche piuttosto naïf, ma assolutamente originale, se si considera l’epoca in cui è nato. Un film di quasi ottant’anni fa – settantotto, per essere precisi – ma immortale tanto quanto il suo creatore, un uomo che voleva farsi ibernare per ottenere l’immortalità e che è riuscito a salvaguardare il proprio nome, la propria fama, attraverso personaggi innocenti e genuini come dei bambini, divenuti tra i maggiori simboli della cultura popolare, non soltanto di quella occidentale.


Sergio Leone e la Trilogia del Dollaro

Un cavaliere solitario arriva a San Miguel, un paesino del confine tra Messico e Stati Uniti. Non ha un dollaro in tasca, ma ha l’aria sorniona di chi è svelto a sparare, e nel vecchio West questo basta e avanza. Dopo aver assistito al sopruso ai danni di un bambino, lo straniero arriva dal proprietario del saloon del paese, Silvanito, che gli spiega la situazione: è in atto una guerra tra le due famiglie più potenti, i Baxter, che vendono armi, e i fratelli Rojo (Don Benito, Esteban e Ramon), che vendono alcol. «I Baxter da un lato, i Rojo dall’altro. E io nel mezzo. Aveva ragione il campanaro: c’è da arricchirsi in questo paese». È questo l’inizio di Per un pugno di dollari (1964) – remake de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa – primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro, completata da Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), tutti e tre diretti da Sergio Leone, che oltre a lanciare Clint Eastwood (all’epoca un giovane attore con qualche parte minore all’attivo) definirà un genere, i cosiddetti “spaghetti western” (produzioni di film western italiani con budget ridotto), diventandone uno dei registi più importanti.


La Trilogia del Dollaro si discosta notevolmente dai classici western americani, per esempio i film di John Ford. Nell’epopea di Leone non ci sono buoni e cattivi (nonostante il titolo del terzo film faccia pensare il contrario). Ci sono piuttosto uomini che agiscono soltanto per se stessi, per arricchirsi. Lo straniero senza nome, che qui sarà chiamato Joe, mentre nei due film successivi sarà rispettivamente il Monco e il Biondo, è il massimo esempio dell’opportunismo: è uno che fa di tutto per raggiungere i propri obiettivi. È disposto a bluffare, a uccidere e anche a rischiare la vita. Lo fa in Per un pugno di dollari, quando si trova tra i due fuochi, i Baxter e i Rojo, riuscendo ad attuare un doppiogioco piuttosto rischioso per un uomo qualunque, ma non per uno così furbo. Quando però Ramon Rojo (un mefistofelico Gian Maria Volonté) scopre di essere stato ingannato, lo cattura e lo fa torturare dai suoi uomini, riducendolo in fin di vita. In seguito alla fuga di Joe, Ramon scarica tutta la propria rabbia sui Baxter, incendiando la loro casa e uccidendoli a sangue freddo. Aiutato dal becchino, intanto, Joe riesce a fuggire e a preparare, poco alla volta, la sua implacabile vendetta.


Lo scontro finale – supportato dalle epiche musiche di Ennio Morricone, fondamentali per connotare i film di Leone e per diversificarli dagli ordinari film western americani – è diventato ormai leggendario. Mentre Ramon e i suoi uomini torturano Silvanito per sapere dove si è nascosto lo straniero, si sente un’esplosione: dinamite. Il fumo avanza davanti ad alcune case ormai disabitate. E poi, poco alla volta, compare un uomo. Appare come un fantasma ma è piuttosto un abile illusionista. E con l’illusione affronta Ramon, che gli scarica tutti i proiettili dritto al cuore. L’uomo intanto grida: «Al cuore, Ramon! Per uccidere un uomo lo devi colpire al cuore! Sono parole tue, no?». Non solo. Ramon aveva anche detto: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.»


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Non si tratta soltanto di un duello in cui si decide chi vive e chi muore ma anche chi ha ragione. Joe sfida Ramon in tal senso, smentendo le sue forti convinzioni, sparare al cuore ed essere più forte solo perché usa un fucile al posto di una pistola. Di fronte all’invulnerabilità di Joe, Ramon, resosi conto di aver finito i proiettili, prova un attimo di panico. Intanto Joe gli mostra il suo segreto: una lastra d’acciaio a fungere da giubbotto antiproiettile. Una scena enfatizzata dai lunghi momenti di silenzio, dai primi piani sugli sguardi e da altre, interminabili, pause. Dopo aver sparato agli uomini di Ramon, la sfida diventa un faccia a faccia: un uomo con la pistola e un uomo col fucile. Joe spara prima alla corda che lega il povero Silvanito. Poi getta per terra la pistola e invita Ramon a raccogliere il fucile, a caricare e a sparare. Sarà una sfida soprattutto di velocità. Il finale è scontato, con la vittoria di Joe, che riporta la pace a San Miguel ma che fugge poco prima che arrivino le forze governative. Al galoppo verso nuove avventure. Verso un altro mucchio di dollari.


Nel film successivo, Per qualche dollaro in più, Joe è conosciuto come il Monco. La mano fuori uso è quella martoriata dalle torture di Ramon. Ma ora non è più un cavaliere solitario doppiogiochista: ora è diventato un cacciatore di taglie a tutto tondo e il suo obiettivo è catturare lo spietato Indio (ancora Gian Maria Volonté, sempre più mefistofelico), un bandito messicano senza scrupoli che vuole rapinare la banca di El Paso. Stavolta, però, ci sarà qualcuno a contendersi il bottino con lui: si tratta del Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), che con Indio ha un conto in sospeso, poiché il bandito, in passato, aveva ucciso la sorella e il cognato del colonnello. La donna, dopo essere stata violentata dall’Indio, si era sparata un colpo proprio con la sua pistola. Quindi è la vendetta, oltre che i soldi, a muovere il colonnello.


Unitosi al Monco – mosso invece soltanto dai soldi – il colonnello lo convince a far evadere da una prigione un ex scagnozzo dell’Indio, per poi introdursi nella sua banda e spiare dall’interno le sue mosse. Obiettivo del colonnello è lo scontro frontale con l’Indio, ossessionato dalla musica di un carillon, al termine della quale è solito sparare. Questo secondo film riprende alcuni elementi del primo: c’è un cavaliere solitario (Joe in Per un pugno di dollari, qui il Monco, ma il personaggio è lo stesso) che vuole arricchirsi; c’è una sconfitta (l’Indio che scopre il Monco e il Colonnello e li fa pestare dai suoi uomini) e c’è, infine, un duello letale, anche questa volta mosso dalla vendetta, ma per un’azione narrata soltanto in un flashback anziché nella linea temporale del film. L’elemento aggiuntivo è il Colonnello, spalla ideale del Monco, rispetto al quale si dimostra molto più saggio e metodico. Discorso simile vale per il terzo e ultimo film della trilogia, Il buono, il brutto e il cattivo, in cui l’azione però non è mossa dalla vendetta ma soltanto dai soldi, ancora una volta. L’intreccio, però, è più complesso; e se Per un pugno di dollari rispettava le unità aristoteliche di luogo (tutto il film è ambientato a San Miguel), in questo caso lo scenario cambia spesso e porta le strade dei tre protagonisti a intersecarsi in maniera del tutto casuale.


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Il Biondo (Clint Eastwood) e Tuco (Eli Wallach) si arricchiscono grazie alla taglia sulla testa di Tuco, truffatore, ladro, omicida e rapinatore: il Biondo prima lo consegna e poi lo libera, facendo aumentare ogni volta il bottino. I due si imbattono in una carovana, in cui un moribondo, un certo Bill Carson, rivela a Tuco l’esistenza di un bottino di duecentomila dollari sotterrati in una tomba. Prima di morire, Carson fa in tempo a dire a Tuco soltanto il nome del cimitero, mentre al Biondo, in fin di vita proprio per colpa di Tuco – che si era vendicato perché il Biondo, a sua volta, lo aveva abbandonato nel deserto dopo aver intascato la taglia –, rivela il nome della tomba in cui cercare il tesoro. Sulle tracce di Carson c’è anche uno spietato killer che si fa chiamare Sentenza (Lee Van Cleef). Tutto ciò sullo sfondo di una guerra civile che non conosce pietà per nessuno. I tre film sono legati dal motivo comune che scatena il plot narrativo (i soldi) e dallo stesso protagonista (il cavaliere senza nome) nonché da una struttura narrativa con qualche variante e con l’aggiunta di attori importanti al fianco della star Clint Eastwood, che per la Trilogia del Dollaro riuscì, tra un film e l’altro, sull’onda del successo, a far aumentare progressivamente il proprio ingaggio.


Tre film entrati nell’immaginario collettivo e diventati fonte di ispirazione per registi come Quentin Tarantino (che dedica Kill Bill proprio a Sergio Leone), Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Stanley Kubrick, John Woo, Brian De Palma, Robert Zemeckis (che lo cita nel secondo e nel terzo film di Ritorno al futuro) e Robert Rodriguez (C’era una volta in Messico, ultimo film della cosiddetta trilogia Mariachi, richiama C’era una volta il West o C’era una volta in America, altri due film di Leone). Stephen King, per il personaggio di Roland Deschain della Torre Nera, si è rifatto al cavaliere senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro.Quanto allo stesso Clint Eastwood, l’esperienza con Leone lo ha fatto crescere molto come attore ma lo ha fatto diventare anche e soprattutto un regista di primissimo livello, portandolo a vincere l’Oscar con Gli spietati e con Million Dollar Baby. A questi si sono aggiunte altre perle immortali come Gran Torino, Un mondo perfetto, Mystic River e l’ultimo, American Sniper, capace di incassare circa 547 milioni di dollari totali partendo da un budget di 60.


Al di là del contributo circa la carriera di Clint Eastwood, Leone ha profondamente rinnovato il linguaggio del cinema; e lo ha fatto, in particolare, con quello che è considerato il suo capolavoro, C’era una volta in America (1984), un disincantato racconto sui ricordi, la vita, l’amicizia, l’amore, l’infanzia, il sogno, l’illusione. Una vastità di temi enorme, unita a un cast eccezionale (Robert De Niro, James Woods, Joe Pesci). Dotato di un’incredibile sensibilità per la caratterizzazione dei suoi personaggi e per la capacità di farne emergere la profonda umanità, Sergio Leone, con la Trilogia del Dollaro, ha rivoluzionato tecniche, linguaggi e generi, introducendo nel cinema personaggi, situazioni e stereotipi in netta contrapposizione con i classici western. Su tutti, spicca la figura dell’uomo senza nome, un cavaliere solitario che non può legarsi a nessuno, in cerca soltanto di soldi.


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Eppure anche la sua ricerca infinita potrebbe essere stata generata da qualcosa di grave che gli è accaduto in passato (di cui non si dice mai nulla). Lo si lascia intendere in Per un pugno di dollari, quando libera Marisol e la sua famiglia dalla prepotenza di Ramon, innamorato della donna. «Perché fate tutto questo per noi» gli chiede il marito di Marisol; «È una storia troppo lunga da raccontare ora», risponde lui. Un motivo molto forte. Qualcosa che tormenta Joe/il Monco/il Biondo ma che mai sarà svelato. Sempre ammesso che qualcuno non decida di farlo rivivere, rimettendogli il poncho, il sigaro e quello sguardo profondo che sono il marchio di fabbrica del più affascinante personaggio tra gli affascinanti film di Sergio Leone.

Lovecraft, il Maestro dell’orrore cosmico

Se c’era una cosa che Howard Phillips Lovecraft aveva compreso della narrativa, non soltanto di quella fantastica, di sicuro riguardava il suo più antico potere: esplorare infiniti mondi, possibili e impossibili. Lovecraft, poeta del sogno, dell’incubo e dell’orrore cosmico, è riuscito a narrare di luoghi molto lontani e molto diversi dalla sua Providence, la soffocante città di provincia in cui era costretto a vivere. Oppresso dalla madre e dalle zie, Lovecraft lasciò Providence nel 1924 dopo il matrimonio con Sonia Greene, per trasferirsi a New York. Un soggiorno che durò pochissimo e che lo avrebbe costretto a tornare a Providence due anni dopo: e sarebbe stato proprio nella cupa città del Rhode Island che avrebbe dato vita ad alcuni tra i suoi racconti più celebri, il primo tra i quali fu Il richiamo di Cthulhu, proemio di quel grande, immenso poema che comprenderà altre storie da incubo come La città senza nome, L’orrore di Dunwich, Colui che sussurrava nelle tenebre e Il Colore venuto dallo spazio, e che avrebbe dato origine ai cosiddetti miti di Cthulhu.


Il solitario di Providence sapeva benissimo che soltanto grazie al sogno e alla sua straordinaria inventiva avrebbe attraversato quei luoghi lontani che lo affascinavano fin da bambino: e così ha visto i deserti remoti dell’Arabia nella Città senza nome, ispiratigli dalle letture appassionanti delle Mille e una notte; ha visto città maledette come Dunwich e Innsmouth, capaci di celare orrori cosmici, esseri di altri mondi che dominano l’uomo nell’oscurità; ha visitato anche i remoti ghiacciai nell’Antartide in Alle montagne della follia, omaggio a Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe.Non è però soltanto pura fantasia. Nei suoi racconti, Lovecraft ha anticipato anche le teorie sull’origine aliena dell’uomo, secondo cui alcune costruzioni megalitiche, come la piramide di Giza o Stonehenge, sarebbero state opera non soltanto delle civiltà antiche ma anche di una razza aliena antichissima, che il solitario di Providence chiama Grandi Antichi e che proviene dal pianeta Yuggoth (vale a dire Plutone). È probabile che quello che Lovecraft identificava come Yuggoth fosse Nibiru, a cui si attribuiva la responsabilità della fine del mondo nel 2012.


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Tutte queste fantasie, solo in apparenza legate ai turbamenti di un uomo che si svegliava con frequenti emicranie e che era scosso da terrificanti incubi, confluiscono nel maledetto e innominabile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred. Questo libro – omaggiato da Sam Raimi ne La Casa, in cui è chiamato Necronomicon Ex Mortis – è una costante della narrativa matura di Lovecraft, in cui una delle entità ricorrenti è Cthulhu: «Signore degli Abitatori del Profondo, Iniziatore dei Sogni. Cthulhu è rappresentato tra gli Elementi dell’Acqua e in astrologia dalla forma dello Scorpione, noto agli Akkadi come Girtab, Colui che Afferra o Colui che Trafigge, cui ci si deve inchinare. Geograficamente Cthulhu è collegato all’Ovest… il regno dei morti nell’antica religione egizia.» (Necronomicon – Il libro segreto di H.P. Lovecraft, Fanucci, 1979, p. 88).


Il Necronomicon sarebbe stato scritto, quindi, dal folle arabo Abdul Alhazred. Una follia dovuta a dieci anni di solitudine, «nel grande deserto dell’Arabia meridionale […], e Dahna, o “Deserto Cremisi” dei moderni, ritenuto dimora di spiriti maligni e mostri mortiferi. Di questo deserto coloro che pretendono di averlo attraversato, narrano molte strane e incredibili meraviglie.» Lovecraft riuscì a far credere che davvero esistesse un libro dei morti in grado di risvegliare i Grandi Antichi: in Storia del Necronomicon, il solitario di Providence ne raccontava le vicissitudini editoriali (la traduzione in latino di Olaus Wormius, quella in inglese di John Dee; il ritrovamento, nel 1968, da parte di Sprague de Camp, biografo di Lovecraft, di un manoscritto in un oscuro dialetto curdo intitolato “Al Azif”) ma soprattutto raccontava la vita del suo autore maledetto: Abdul Alhazred lo scrisse a Damasco, dove trovò la morte, «afferrato da un mostro invisibile nella piena luce del giorno e divorato davanti a un gran numero di testimoni agghiacciati.» Nei racconti, però, Lovecraft non concede molte informazioni sulla vita di Abdul Alhazred nonché sulle circostanze che lo portarono a scrivere il Necronomicon.


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“Avevo un amico che aveva approfondito lo studio dell’occulto. […] Nella sua biblioteca vidi il Necronomicon (nell’edizione rarissima, in lettere gotiche, stampata in Germania nel 1653). Egli non mi permise né di leggerlo né di sfogliarlo perché, come disse, era dubbio che lo stesso arabo pazzo Alhazred sapesse quanto fosse pericoloso per chi non era in grado di prendere le giuste precauzioni. Inoltre, dubitava che io avessi la pazienza o la capacità di premunirmi.” (da Il lupo mannaro di Ponkert)


A cercare il libro maledetto sono personaggi grotteschi che vogliono risvegliare il grande Cthulhu, in attesa da «strani eoni» nella città sotterranea di R’lyeh. Uno di questi è Wilbur Whateley, un individuo che potrebbe essere nato dall’abominevole unione tra una donna e un’entità aliena: “Alto quasi due metri e quaranta, portando una valigia nuova comprata a poco prezzo allo spaccio di Osborn, questo scuro gigante dall’aspetto caprino comparve un bel giorno ad Arkham, alla ricerca del tremendo volume tenuto sotto chiave nella biblioteca dell’Università: l’orribile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, nella versione latina di Olaus Wormius, stampato in Spagna nel diciassettesimo secolo.” (da L’orrore di Dunwich)


Il Necronomicon ha la fama di essere un libro proibito, a cui nessuno dovrebbe osare avvicinarsi. Le poche copie esistenti sono sorvegliatissime. Le cose proseguirono sul metro ora descritto, sino alla notte in cui Williams acquistò il Necronomicon, opera infame di Abdul Alhazred, l’arabo folle. Sapeva dell’esistenza del volume sin da quando aveva solo sedici anni, ed era spinto dal suo incipiente amore per il bizzarro a perseguitare con strane domande un vecchietto ricurvo che vendeva libri usati a Chandos Street. In seguito, chiese anche ad altri: “e sempre si meravigliava nel vedere come tutti impallidissero parlando del volume. Il vecchio libraio gli aveva detto che ne esistevano soltanto cinque copie, uniche sopravvissute agli scandalizzati editti con i quali uomini di religione e di legge avevano perseguitato il libro. Tutte queste copie erano sotto chiave, vigilate con cura accresciuta dallo spavento da custodi che avevano osato iniziare la lettura dell’odioso testo in caratteri gotici.” (da Il successore)


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Un libro talmente pericoloso che alcune delle sue pagine sarebbero state perfino strappate, dice Lovecraft in una lettera a Clark Ashton Smith del 18 novembre 1930: “Quanto all’araba Città delle Colonne, sì, ho sentito parlare delle rapide visioni concesse di tanto in tanto ai viaggiatori fanatici. Si dice che l’arabo pazzo Abdul Alhazred vi abbia dimorato per qualche tempo nell’VIII secolo d.C., prima della stesura dell’abominevole e innominabile Necronomicon. Oh, sì, Abdul citò l’incontro con il ghoul, e parlò di altre sue avventure. Ma qualche lettore timoroso ha strappato le pagine in cui l’episodio del sotterraneo sotto la moschea arriva al culmine. Stranamente, le stesse pagine mancano anche nelle copie della Harvard e della Miskatonic University. Quando ho scritto all’università di Parigi per avere delle informazioni sul testo scomparso, un gentile aiuto-bibliotecario, M. Leon de Verchères, mi ha scritto che mi avrebbe fatto avere una copia fotostatica delle pagine mancanti non appena avesse compiuto le formalità necessarie per accedere al temibile volume. Sfortunatamente, non molto tempo dopo, sono venuto a sapere dell’improvvisa follia di M. de Verchères e della sua reclusione, dopo il suo tentativo di bruciare lo spaventoso libro che aveva appena preso in consultazione. In seguito, le mie richieste hanno ottenuto scarsi risultati, e non ho ancora trovato nessuna delle poche copie rimaste del Necronomicon.”


Il libro dell’arabo pazzo può anche comparire accanto ad altri libri innominabili e maledetti, anche se quello di Alhazred è «il peggiore di tutti»: “Indicatami una sedia, un tavolo e una pila di libri, il vecchio lasciò la stanza; quando mi sedetti a leggere, mi accorsi che i libri erano venerabili e ammuffiti, e che comprendevano il bizzarro Marvels of Science del vecchio Morryster, il terribile Saducismus Triumphatus di Joseph Glanvil, pubblicato nel 1681, lo sconvolgente Daemonolatreia di Remigius, stampato nel 1595 a Lione, e il peggiore di tutti, l’innominabile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, nella proibita traduzione in latino di Olaus Wormius; un libro che non avevo mai visto, ma di cui avevo udito sussurrare cose mostruose” (da La cerimonia).


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Poco dopo, sempre nel racconto La cerimonia, Lovecraft lo chiamerà «detestabile». «Odioso testo» ne Il successore, uno «spaventoso libro» nella lettera a C.A. Smith, mentre ne L’orrore di Dunwich arriverà a definirlo «mostruosa bestemmia»: “La presenza dei tre uomini sembrò destare la cosa morente, e questa cominciò a mormorare, senza voltare né sollevare la testa. Il Dottor Armitage non ha registrato per iscritto i suoni da essa pronunciati, ma afferma con una certa sicurezza che non disse nulla in inglese. All’inizio, le sillabe sfuggivano a ogni associazione con qualsiasi idioma terrestre ma, verso la fine, si udirono dei frammenti sconnessi evidentemente ricavati dal Necronomicon, quella mostruosa bestemmia per la cui ricerca quella cosa era morta. Questi frammenti, come se li ricorda Armitage, suonavano all’incirca così: «N’gai, n’gha’ghaa, bugg-shoggog, y’hah: Yog-Sothoth, Yog-Sothoth…». E andavano spegnendosi nel nulla, mentre i succiacapre strillavano in un crescendo ritmico, nella loro attesa scellerata.”


Per quanto la maggior parte di questi racconti siano narrati in prima persona, con questi appellativi Lovecraft non fa altro che prendere posizione ed esprimere il proprio giudizio sul Necronomicon: si tratta di un vero e proprio vaso di Pandora, la porta che consente l’ingresso sulla Terra a incubi inimmaginabili, dai nomi impronunciabili e bestiali. La visione del mondo di Lovecraft non è antropocentrica ma cosmocentrica: l’uomo è solo una marionetta impotente guidata da entità supreme, che non sono gli extraterrestri di cui hanno raccontato innumerevoli romanzi e film di fantascienza, ma qualcosa di più. Sono le paure più angoscianti dell’uomo stesso, quelle paure che i personaggi di Lovecraft cercano di nascondere, impedendo la lettura del Necronomicon, o che accettano deliberatamente, rinunciando ad affrontarle – per poterle quindi esorcizzare – e preferendo la sottomissione. Se, infine, riescono a vedere qualcosa, a sfiorare soltanto la verità di ciò che si nasconde negli abissi terrestri, diventano folli proprio come Abdul Alhazred.


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È quello che accade al protagonista di Dagon, uno dei racconti giovanili di Lovecraft, risalente al 1917: “Sbigottito, e tuttavia pervaso da quel brivido di piacere che ben conoscono gli scienziati e gli archeologi di fronte all’imponderabile, scrutai con maggiore attenzione ciò che mi stava attorno. […] Sulla superficie dell’immensa pietra potevo ora distinguere alcune iscrizioni e delle rozze figure scolpite. Le scritte erano in geroglifici che mi risultavano ignoti, ma che in un certo senso erano riconoscibili, perché si rifacevano a simbolismi figurativi dal valore universale. Tra forme confuse, scorgevo le immagini di pesci, anguille, polipi, crostacei, molluschi, balene ed esseri simili. Altre incisioni, però, delineavano creature marine ignote al nostro mondo. Creature le cui forme in decomposizione – mi resi conto – io avevo osservato nella palude di melma nera sorta dal fondo dell’oceano. […] Ero perso in fantasticherie su quel passato così remoto da superare tutte le più ardite teorie antropologiche, immerso nella luce lunare che creava bizzarri riflessi sull’acqua silente, quando, d’improvviso, la vidi. Con un solo lieve risucchio a testimonianza della sua emersione, la cosa incredibile scivolò fuori dall’acqua tenebrosa davanti ai miei occhi. Titanica e repellente, la mostruosa creatura si lanciò verso il monolito, poi lo cinse con le sue gigantesche braccia coperte di squame, curvando la testa orribile ed emettendo urla ritmate. Fu in quel momento, credo, che caddi in preda alla follia.”


Il mostruoso pantheon lovecraftiano, oltre a Dagon, il dio-pesce, comprende anche Azathoth, «il dio cieco e idiota che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo»; Nyarlathotep, il «caos strisciante»; e Cthulhu, che giace semi-morto a R’lyeh, una «città-cadavere costruita incalcolabili eoni prima della storia conosciuta, da enormi, ripugnanti forme che gocciolarono dalle stelle oscure».


La genesi di tutta questa cosmogonia va ricercata nella passione del solitario di Providence per Lord Dunsany, a cui Lovecraft si era ispirato per i suoi primi racconti. Alla lettura di Lord Dunsany, però, come si è già detto, Lovecraft affiancava quelle di racconti ambientati nelle terre esotiche d’Oriente. Queste, coniugate con i suoi incubi quotidiani, diedero vita a una struttura narrativa articolata, caratterizzata da un linguaggio particolarmente evocativo, che tuttavia non gli avrebbe dato alcuna gratificazione: il solitario di Providence visse in ristrettezze economiche fino alla morte, costretto a lavorare a revisioni di altri autori. Qualcuno lo pubblicò su Weird Tales, ma subì anche pesanti stroncature dalla critica, tanto da convincerlo, in alcuni momenti, ad abbandonare la propria carriera letteraria, se non quando fosse stato sicuro che ciò che avrebbe scritto fosse stato accettabile. Purtroppo non ebbe tempo nemmeno per pensarci, a un’ipotesi del genere, poiché un cancro lo stroncò nel 1937, a soli 47 anni. Morto l’uomo, nasceva il mito.


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Un mito la cui operazione letteraria non fu molto diversa da quella di J.R.R. Tolkien, che nel 1917 – quando Lovecraft scriveva Dagon e il ciclo di Cthulhu era forse soltanto in fase embrionale – concepiva Il Silmarillion, la Bibbia della sua Terra di Mezzo. La differenza fondamentale è però l’esito e la visione del mondo: per Tolkien lo scontro manicheo tra il Bene e il Male porta alla vittoria del primo, mentre per Lovecraft l’uomo non ha alcuna speranza di salvezza. Non c’è spazio per gli eroi di Tolkien né per Hobbit coraggiosi: l’uomo è una vittima del cosmo, un impotente strumento nelle mani di esseri maligni, del tutto incapace di essere padrone del proprio destino poiché troppo pauroso per affrontare le sue stesse paure. Questo si ricollega a una celebre frase pronunciata da Franklin Delano Roosevelt, di cui H.P. Lovecraft era un sostenitore, il 4 marzo 1933, riferendosi alla Grande Depressione: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa».


La paura a cui si riferiva Roosevelt è distruttiva, ma lo è anche quella di Lovecraft: è una paura che conduce l’uomo nei luoghi più reconditi dell’abisso, in quell’abisso folle da cui nessuno può fuggire. In tal senso, Abdul Alhazred è colui il quale vede la paura da vicino; e il risultato è l’inspiegabile distico che apre il Necronomicon:


Non è morto ciò che può vivere in eterno,
E in strani eoni anche la morte può morire.

Amici miei, la tragicommedia all’italiana

Pietro Germi aveva iniziato a lavorare ad Amici miei dopo il 1972. Ma a causa dell’aggravarsi di una malattia di cui soffriva da tempo, la regia fu affidata a Mario Monicelli, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana insieme a Dino Risi e a Luigi Comencini. Monicelli aveva già diretto pietre miliari del cinema italiano come I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959) e L’armata Brancaleone (1966). Il film uscì nel 1975, poco dopo la morte di Germi, a cui i titoli di testa sono dedicati: «Un film di Pietro Germi».


Il cuore della vicenda è quella toscana popolare e goliardica che sarà rivisitata negli anni Novanta da Pieraccioni, mentre l’emblema stesso della fiorentinità sarà quel Benigni capace di trattare argomenti seri (l’olocausto, la mafia, la guerra ecc.) in maniera leggera. In questo caso, l’unico grande argomento è l’amicizia, o meglio il valore dell’amicizia, intesa come strumento per evadere da una quotidianità grigia, squallida e insoddisfacente, per tuffarsi in avventure (o “zingarate”) che hanno la freschezza e il sapore della gioventù. Eppure i cinque protagonisti sono tutt’altro che giovani. Sono ormai cinquantenni ma si conoscono da una vita: compagni di scuola, di militare e di vagabondaggi, sono pronti a farsi beffe l’uno dell’altro e a tornare amici subito dopo. Per loro l’amicizia è l’unica vera cosa che conta.


Lo sa bene Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), un ricco – grazie a sua moglie – capace di sperperare tutto quello che possedeva, per ritrovarsi a vivere in uno scantinato (pagato dai suoi amici), e a dover badare a un’amante molto più giovane di lui, Titti, di cui è gelosissimo e che ha tendenze bisessuali. Non è molto diversa la situazione degli altri componenti della banda, a incominciare dall’architetto Melandri (Gastone Moschin), sbandato proprio come Mascetti. Melandri vuole però una donna e la trova in Donatella, moglie di Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), primario della clinica presso cui Mascetti, Melandri e gli altri due amici, Perozzi (Philippe Noiret) e Necchi (Duilio Del Prete), erano stati ricoverati dopo una delle loro tante zingarate. Melandri riesce a conquistare Donatella grazie all’aiuto dei suoi amici (che parlano con lei al telefono facendole credere che a parlare fosse lo stesso Melandri) ma c’è una trappola: Sassaroli accetta che Donatella si trasferisca da Melandri, ma pretende che con lei vadano anche il cane Birillo, le due figlie e la governante tedesca. I due si accordano per visite bisettimanali di Sassaroli a moglie e figlie, ma il dottore non risparmia critiche, anche pesanti, sulla mediocrità di Melandri, il che è appoggiato dagli altri tre amici, che vogliono vendicarsi per la fuga repentina di Melandri dalla clinica e per aver nascosto l’esito positivo dell’incontro con Donatella.


Allo stesso Melandri si deve una frase che riassume l’intero senso del film: «Ragazzi, come si sta bene fra noi, fra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?». Le donne fungono solo da cornice, così sono gli uomini a innescare, con le loro “supercàzzole”, gli unici legami profondi. Personaggi che si sentono soli al di fuori della loro cerchia, di una banda che li unisce come fratelli e che li fa sentire davvero a casa. Perché essere accettati da una famiglia è il loro reale problema. Lo è per esempio per il giornalista Giorgio Perozzi, che ha un rapporto ostile sia con sua moglie, da cui è separato, sia con suo figlio Luciano, stufo di doverlo rimproverare per i suoi comportamenti immaturi. Anche Perozzi, come Mascetti e Melandri, trova nel sesso una parziale compensazione del vuoto che lo circonda (ogni tanto accetta di incontrare delle prostitute). È proprio da Perozzi che ha inizio il racconto del film: un nuovo giorno – l’alba – e lui che non ha nessuna voglia di tornare a casa. Vuole ritrovare i suoi amici, per ridere, scherzare e godersi la vita nonostante sia cosciente di non poterlo fare, ma ha voglia di sorridere e di dimenticare.


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Nel secondo capitolo, Amici Miei – Atto II (1982), si scopre qualcosa di più sulla vita di Perozzi, che gli amici sono andati a trovare al cimitero. Così si era chiuso il primo film: con la morte di Perozzi, che nessuno riteneva vera, segno che a furia di scherzare si rischia di fare sul serio. In questo flashback, quindi, si svela il motivo del rancore di Luciano verso suo padre: perché Perozzi era stato lasciato da sua moglie e come si era comportato con il bambino in seguito; i tentativi di sbolognarlo a Mascetti, che glielo restituisce dopo nemmeno un giorno; la geniale trovata per convincere sua moglie Laura a riprendersi il bambino: Laura aveva lanciato invettive contro l’amante di Perozzi, Anita, la moglie del fornaio. In seguito a un incidente in cui muoiono sette persone, Perozzi fa credere a sua moglie che anche Anita fosse morta, al fine di far germogliare dentro di lei i sensi di colpa e di dimostrarle con Anita è tutto finito. Tattica perfetta per poterle restituire quel bacchettone di suo figlio.


Il secondo episodio, tuttavia, rispetto al primo è molto più cinico: dal lucido e disincantato ritratto di Luciano sul proprio diario nelle poche ore in cui si era ritrovato a vivere nello scantinato di Mascetti, presentato come un monolocale di lusso; momenti drammatici che si ricollegano a eventi storici locali, come l’alluvione che colpì Firenze nel 1966; o la stessa situazione familiare di Mascetti, con sua moglie Alice che di nuovo (come nel primo film) tenta il suicidio e impazzisce, mentre sua figlia è incinta di uno sconosciuto e per questo Mascetti vorrebbe farla abortire; o lo scherzo del rigatino (l’abbigliamento tipico dei facchini degli alberghi, utile per una fuga invisibile), seduzione e abbandono dell’aspirante attrice di turno, in questo caso una contorsionista, che finirà, dovendo esibire le proprie abilità a Sassaroli, per essere rinchiusa in una valigia. Tutto questo fino al drammatico finale, in cui Mascetti, in seguito a una trombosi, si ritrova su una sedia a rotelle. È agli amici che esprime il proprio rammarico per non poter più fuggire dalla trappola della famiglia «Guardatela come è contenta» dice riferendosi a sua moglie. «Finalmente sono tutto suo. Mi possiede, non posso più scappare. Mi lava, mi pettina, mi mette il borotalco. Vogliono per forza che mi senta utile. Ma a me non m’importa di essere utile. Sono sempre stato inutile. […] Per favore, non mi venite a trovare più. Quando vi vedo, penso, ricordo, vi invidio. Facciamo come si faceva per il povero Perozzi: fuori uno. Così fate lo stesso col povero Mascetti: fuori due. Tanto non c’è più scopo, non mi diverto più.»


Amici miei – Atto II si era chiuso con una gara di velocità tra paraplegici a cui aveva partecipato il povero Mascetti dopo l’attacco di trombosi. Il terzo episodio, Amici miei – Atto III (1985), conferma il cast dei primi due film ma vede un cambio alla regia, affidata a Nanni Loy. L’azione si sposta dalla campagna a una casa di riposo, dove Mascetti è stato ricoverato. Dopo la morte di Alice, il suo umore è migliorato, così da tornare il “bischero” di una volta. Necchi, Melandri e Sassaroli lo vanno a trovare di frequente e non mancano, come al solito, gli scherzi sciocchi che caratterizzano la banda. Per esempio far credere agli altri anziani di essere sintonizzati su un canale rivolto alla terza età, mentre sono loro stessi che, attraverso il cavo di una videocamera, trasmettono contenuti altamente volgari e irriverenti.


Melandri, dopo aver raggiunto Mascetti presso la casa di riposo, riesce a fidanzarsi ma non a sposarsi. La nipote della futura sposa avverte Mascetti che quella che sembra una gentildonna è in realtà una poco di buono. Per salvare Melandri da un matrimonio che potrebbe rivelarsi pieno di tradimenti, Mascetti seduce la futura sposa e filma il momento del loro incontro, dimostrando così a Melandri le tendenze adulterine di colei che vuole portare all’altare. Melandri tronca senza pensarci due volte e ringrazia Mascetti: segno, per l’ennesima volta, che il matrimonio, per la banda di Amici miei, non è qualcosa di felice ma qualcosa di assolutamente infelice (non a caso Mascetti migliora dopo la morte di sua moglie) e da cui bisogna fuggire a tutti i costi. Lo farà anche Necchi, che convince sua moglie Carmen ad abbandonare il bar che gestiscono per trasferirsi nella casa di riposo con Mascetti e Melandri, nonostante Carmen sia del tutto contrariata per questa decisione, visto che si sente ancora in grado di lavorare.


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Non mancano, nel frattempo, le solite burle, per esempio far credere a un uomo ricoverato nella casa, un certo Lenzi, che Mascetti e Melandri partecipano a delle messe nere e che si vendono al diavolo per avere in cambio l’elisir della giovinezza. Da buoni toscani, non possono che citare Dante («Pape Satàn, aleppe!») durante il falso rito; e il risultato è far credere a Lenzi di essere davvero tornato giovane (in realtà lo truccano a pennello). Sassaroli dirà agli altri, responsabili indiretti per la morte di Lenzi, che in realtà gli hanno fatto solo un favore, alleviandogli le pene della morte (ma soprattutto della vecchiaia).


Ormai, però, tutti questi scherzi, più che far ridere, fanno pena. Nei primi due film si rideva piangendo e il desiderio dei tre protagonisti di sentirsi ancora giovani, di fare ancora quegli stessi sciocchi scherzi che facevano da giovani, di non avere relazioni serie tranne che tra loro stessi (nemmeno quindi con le mogli, che erano anzi di intralcio) – tutto questo aveva un che di drammatico, di estremamente malinconico: l’età avanza ma loro cercano di fare qualunque cosa per sentirsi ancora vivi. Seppur anziani, ostentano energie che non posseggono più. In tal senso il finale di Amici miei – Atto III è particolarmente significativo, nel momento in cui Necchi e Sassaroli ritentano il celeberrimo scherzo del treno del primo film: schiaffeggiare i passeggeri in partenza, affacciati ai finestrini. In quel caso era stato emblematico Perozzi che, tra le vittime del treno, trovava suo figlio Luciano.


Ma ora Perozzi non c’è più e Necchi, dal canto suo, non ce la fa più a saltare; e infine i treni sono diventati più alti. Ora accade il contrario e sono quindi i passeggeri a schiaffeggiare l’allegra banda di “bischeri”, anche se Mascetti, sempre sulla sedia a rotelle, spruzza dell’inchiostro con una peretta ai passeggeri, segno che, pur essendo invalido, non è cambiato per niente. Intanto Sassaroli – molto prevedibilmente unitosi agli altri tre – è diventato direttore della casa di riposo, dopo aver venduto la clinica di cui era primario. Finalmente riuniti, i quattro “bischeri” possono far baldoria fino alla fine dei loro giorni, celebrando la loro infinita vitalità.


La morale, in sostanza, è non avere legami: tutti e cinque i protagonisti non vogliono legarsi a nessuno se non tra loro stessi. Le mogli non servono: sono meglio le amanti, perché le donne, secondo una visione del tutto misogina, sono utili soltanto per soddisfare degli impulsi sessuali perenni, al di là dell’età. Il matrimonio, insomma, è qualcosa di troppo serio, con delle regole a cui non si può e non si vuole sottostare. Era proprio per questo che Mascetti, nel finale del secondo film, sottolineava di avere un solo scopo, vale a dire sentirsi libero. E l’amicizia diventa, per tutti loro, sinonimo di libertà. Che è la libertà di burlarsi l’uno dell’altro, di perdonarsi nonostante le “supercàzzole”, di fare ciò che si vuole. Una complicità che non ha eguali, di cui le donne non possono – non devono – essere rese partecipi.


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Eccezione è Melandri, l’unico che cerca di nutrire dei sentimenti sinceri ma ogni volta c’è qualcosa che ostacola il compimento del suo amore: nel primo film si innamora di Donatella, la moglie di Sassaroli; poi, nel secondo, riesce a sposarsi (dopo essersi perfino battezzato) ma proprio quando la sua sposa sta per concedersi, a causa dello straripamento dell’Arno tutto va in fumo (preferisce salvare i suoi quadri e i suoi incunaboli!); e infine si innamora, nel terzo film, di una donna che, a un minimo tentativo di seduzione, cede al primo che capita (in quel caso Mascetti). Da qui deriva la dipendenza totale di Melandri al gruppo di amici e l’impossibilità di chiudere il cerchio e di arrivare, dopo fasi costanti che prevedono l’innamoramento, il desiderio e la seduzione, anche al possesso della donna. L’amore non può quindi coesistere non tanto con l’amicizia ma con quegli amici, che avranno sempre la priorità. Accade la stesa cosa a Necchi quando sua moglie Carmen lascia la casa di riposo in seguito all’invito, da parte del direttore – visti i continui comportamenti poco consoni alle regole da parte di Mascetti, Melandri e Necchi – ad andarsene. Anche Necchi preferisce gli amici: è quindi come Melandri, pur avendo in parte compiuto il ciclo amoroso (perlomeno si è sposato).


L’unico profondo legame è insomma tra gli amici: un legame che li unirà fino alla morte. Non c’è donna che tenga, ma loro sono inseparabili. Per l’amicizia rinunciano a ogni cosa. In cambio ottengono una fedeltà molto più sicura di quella coniugale, capace di soddisfarli fino in fondo, fino a farli sentire incredibilmente vivi.

Fantozzi, ritorno al cinema in versione restaurata

Un personaggio creato per placare il senso di inferiorità degli italiani. È così che potremmo definire il ragionier Ugo Fantozzi. Perlomeno così ne ha parlato Paolo Villaggio, suo creatore e interprete: «Prototipo del tapino, quintessenza della nullità.» Una nullità che, dopo una decina di film, capaci di registrare i mutamenti sociali della società italiana dagli anni ’70 all’alba del Duemila, ritornerà al cinema con le sue prime due disavventure: Fantozzi (dal 26 al 28 ottobre) e Il secondo tragico Fantozzi (dal 2 al 4 novembre), film diretti da Luciano Salce e usciti rispettivamente nel 1975 e nel 1976, restaurati per l’occasione in 2K. Così, tutti coloro i quali vorranno dimenticare le proprie disgrazie, potranno farlo ridendo per l’ennesima volta di quelle del popolare ragioniere dell’Ufficio Sinistri, famoso per la celeberrima nuvola fantozziana e per le sue espressioni tipiche («Com’è umano, lei!») ma anche per il servilismo verso i superiori dai nomi lunghissimi (come la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare o il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam).


Oltre alla frequente sottomissione, non soltanto di Fantozzi ma di tutti i suoi colleghi, una peculiarità della serie è però l’errato uso del congiuntivo, come si evince da questo dialogo:


Filini: «Allora ragioniere, che fa, batti?»

Fantozzi: «Ma come, ragioniere, mi dà del tu?»

Filini: «No, intendevo batti lei».

Fantozzi: «Ah… congiuntivo…»


Sfortunato, vigliacco, disastroso in qualunque iniziativa prenda (anche se il più delle volte le iniziative le prende il ragionier Filini, e si tratterà di disastri quasi sicuramente), Fantozzi nasce grazie a due libri di Paolo Villaggio, ispirato da un collega dell’attore genovese all’Italsider. Villaggio pubblicava le sue storie sull’Europeo, per poi raccoglierle nel libro edito da Rusconi nel 1971. Qualche anno dopo il successo del libro, si iniziò a progettare un film. Tra i candidati a vestire i panni di Fantozzi c’erano Ugo Tognazzi e Renato Pozzetto. La scelta di affidare il personaggio al suo stesso creatore (che immancabilmente ne ha assunto la maschera, tanto da portare al cinema anche i suoi cloni, per esempio Fracchia) si è rivelata azzeccatissima soprattutto nei primi due film, diretti da Luciano Salce, i migliori di una saga che, con il passare degli anni e l’invecchiamento degli attori, non ha fatto altro che svuotarsi di quella verve comica che la caratterizzava, per diventare soltanto la ripetizione ormai fiacca e noiosa delle stesse gag.


C’è però un altro aspetto che non va trascurato, ovvero l’aspetto tragicomico: perché Fantozzi non riesce in nessuna impresa e tutto quello che cercherà di fare, per un motivo spiegato nella sua stessa natura (essere una «nullità», o come lo chiamerebbero i suoi superiori, una «merdaccia»), non andrà mai a buon fine. Fantozzi è un mediocre, uno che abbassa la testa e che accetta di non avere amici al di fuori dell’azienda, di avere una moglie bruttina ma devota, che lo stima ma non lo ama; di avere una figlia ancora più brutta (non a caso interpretata da un uomo) e di essersi – inspiegabilmente – innamorato di una collega tutt’altro che bella. Dunque tutto ciò che fa è negativo e tutte le sue scelte sono terrificanti e catastrofiche.


Ma c’è un altro Fantozzi, nascosto dietro al ragioniere perennemente sottomesso e capace di farsi “crocifiggere in sala mensa”. L’altro Fantozzi è quello che si ribella contro lo snobismo intellettuale dei potenti, per esempio il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, che l’aveva assunto soltanto perché Fantozzi si era dichiarato un grande amante del cinema tedesco delle origini, e che propone ai dipendenti, nel cineforum aziendale, La corazzata Potëmkin (trasformata in Corazzata Kotemkin) solo per ostentare un gusto cinematografico superiore (in realtà, però, il film di Sergej M. Ėjzenštejn, trasformato in Serghei M. Einstein, durava circa 75 minuti, non tre ore come si dice nel Secondo tragico Fantozzi). Senza trascurare che quegli stessi dipendenti preferiranno, subito dopo la ribellione di Fantozzi, vedere in successione Giovannona Coscialunga, L’Esorciccio e La polizia s’incazza.


Il grido di protesta di Fantozzi («Per me La Corazzata Kotemkin è una cagata pazzesca!») è quindi l’urlo disperato di chi è costretto a tacere per non essere troppo anticonformista e non sentirsi una voce fuori dal coro. È una ribellione che esprime una frustrazione collettiva dettata dalla paura e dal servilismo, poiché tutti gli impiegati detestano quel film ma nessuno ha il coraggio di parlare per non pagarne le conseguenze; e così si preferiscono i falsi elogi, quando il professor Riccardelli apre il dibattito, dopo aver fatto inginocchiare Fantozzi sui ceci perché l’ha scoperto mentre si era addormentato durante la proiezione. E allora: «Quando vedo quei dettagli degli stivali, io vado in estasi» dice Filini, per poi esagerare, chiedendo addirittura di vederlo daccapo. «Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto» aggiunge il Geometra Calboni. La verità è l’esatto opposto. Perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirlo; nessuno avrebbe contraddetto il professor Riccardelli. Ma per Fantozzi la delusione per non essersi goduto in pace la partita Italia-Inghilterra era stata troppa. Perfino il cronista lo aveva sbeffeggiato quando, dopo la chiamata di Filini, era stato costretto ad abbandonare la poltrona: «Scusate l’emozione, amici che state comodamente seduti davanti ai teleschermi, nessuno escluso, ma sono centosettant’anni che non vedevo una partenza così folgorante degli Azzurri!» Tutto era perfetto, perfino il «programma formidabile» di Fantozzi: «Calze, mutande, vestaglione in flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero.»


«Lui è ossessionato dal potere», ha detto Villaggio. «Ha paura. È un uomo che sa di essere inutile. Se lui muore un giorno o si ammala in ufficio, nella Megaditta non se ne accorge nessuno. Essendo ossessionato dall’idea di essere del tutto inutile, cerca disperatamente il servilismo, e allora c’è la stagione di Natale, dove quasi due mesi prima ci si comincia a piazzare nei punti strategici quando passano i potentissimi, a cui dicevano: “A lei e alla sua famiglia i più servili auguri di buon Natale”. Quel “servili” era la chiave per capire com’erano disperatamente sudditi. Mai Fantozzi si permette di contraddire un potente. Anche adesso, detto francamente: c’è la tendenza alla gerarchia.» La crescita gerarchica è direttamente proporzionale alle umiliazioni subite. Lo fa capire Filini a pranzo, in mensa, riferendosi alle partite di biliardo del Feroce Cavalier Catellani, eletto «Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni»: «Il ragionier Vitti: sette partite perdute: due scatti.»


Quando Fantozzi ne parla con Pina, è lei stessa a chiedergli di perdere qualche partita. «Mai», risponde Fantozzi, «piuttosto preferisco fare la fame, mangiare cipolla… a parte che non ho mai toccato una stecca di biliardo in vita mia. Ho la mia dignità, io…» Coraggioso. Ma torna se stesso poco dopo, quando aggiunge: «E poi, non oserei più guardarti in facc…», e vedendo Pina, nel letto, si rende conto di quanto sia brutta. Di conseguenza, che è costretto a perdere per poter crescere di livello nella Megaditta. La scena successiva smentisce l’effimera ostentazione della propria dignità da parte di Fantozzi, alle prese con un maestro di biliardo, proiezione della severità scolastica nella prima metà del Novecento, con punizioni esemplari come la stecca sui dorsi delle mani. Per non «confessare alla moglie la vergognosa verità», Fantozzi le fa credere di avere una relazione extraconiugale. Ma la sua inettitudine gli impedisce di fare anche questo: così una notte Pina lo aspetta sveglia a casa, e lui, togliendosi la giacca, rivela il corpetto da biliardo. Scoperto in pieno. Disperato, si butta sul letto, ma non può sfogare la propria disperazione neanche così, perché Pina ha già «separato i letti».


Arriva la sera della partita con il Cavalier Catellani. Fantozzi, come al solito, subisce, ma «al trentottesimo “coglionazzo” e a 49-2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie» e così, spinto da un moto di orgoglio inedito, osa dire: «Mi perdoni un attimo… vorrei fare un tiro io adesso…» È lo stesso Fantozzi che grida che La corazzata Kotemkin è «una cagata pazzesca». È il Fantozzi che si prende un briciolo di rivincita in una vita perennemente mediocre. E se lì erano seguiti ben 92 minuti di applausi, qui segue non un trionfo, ma una fuga con rapimento della madre del Cavalier Catellani, alla cui statua tutti gli impiegati dovevano inchinarsi e su cui puntualmente Fantozzi urtava. «Fondamentalmente», dice Villaggio, «lui è un brav’uomo. In casa è un tirannosauro.»
È un «tirannosauro» perché dominare la famiglia è la sola rivalsa che gli è concessa, non essendo in grado di dominare la società ed essendo destinato all’infelicità. È per questo che è un personaggio tragico.


«Lui ha liberato gli italiani dal timore di essere isolati in un certo tipo di incapacità a vivere, a essere felici» continua Villaggio. «Nella cultura consumistica la settimana bianca, le coppe, le spiagge infernali, i prezzi osceni, la moglie terribile: in quel tipo di sfortuna e di incapacità di essere felici, secondo i dettami della cultura consumistica – che diceva: “Consuma e sei felice. Fai delle vacanze e sarai felice” – lui faceva le vacanze, andava alla settimana bianca, andava al mare e tornava massacrato, ma massacrato assolutamente infelice. Gli italiani vivevano la stessa tragedia e avevano paura di essere anomali, poi lentamente un terapeuta gli ha detto: “No, guarda, non sei un fenomeno isolato: tutti quelli che subiscono quel tipo di cultura sono destinati a essere infelici”.» Bisogna quindi leggere tra le righe un messaggio di netta opposizione alla cultura consumistica, a cui Fantozzi si adegua, senza però trovare la felicità che disperatamente ricerca.


In tutta la saga, presentata come serie di film comici ma in realtà piena di pessimismo, non c’è un solo personaggio in grado di cambiare le cose, capace di dare una svolta e di interrompere i soprusi del potere e l’avversità del destino. È incapace di farlo Pina, servile quanto Fantozzi, tanto da rispondere «Obbediamo» alla chiamata improvvisa di Filini proprio quando sta per incominciare Italia-Inghilterra. È devota e affezionata a Ugo ma non lo sprona mai a reagire per i torti subiti. Tuttavia, Pina è l’unica che tenterà di ribellarsi alla piatta vita da casalinga a cui il matrimonio con Fantozzi l’ha destinata, e soprattutto quando sarà interpretata da Milena Vukotic (nei film di Salce, Pina era Liù Bosisio), la sua personalità cercherà di emergere, anche se l’affetto coniugale si trasforma in pena, intesa più come vergogna che compassione.


Il ragionier Filini si annovera tra i dipendenti inferiori, proprio come Fantozzi, per cui, a parte organizzare gite, partite di calcetto tra scapoli e ammogliati (in cui però lui farà l’arbitro), non ha nessuna possibilità di emergere, condannato, insomma, a non scalare la gerarchia aziendale. Questo lo fa invece Calboni, che si sposerà con la perenne fiamma di Fantozzi, la signorina Silvani. Calboni è opportunista e arrogante, uno che può schiacciare Fantozzi in qualunque momento. Dall’altro lato, la signorina Silvani sfrutta l’infatuazione di Fantozzi per chiedergli favori o per scaricare su di lui il proprio lavoro. Considerati questi personaggi e la loro natura, nel momento in cui Fantozzi cerca di risollevare le proprie sorti, qualcosa puntualmente tende ad andare male. I suoi momenti di gloria sono pochi e la ribellione al potere lo fa apparire più sicuro di sé (perfino la signorina Silvani, dopo la celebre frase sulla Corazzata Kotemkin, gli dice: «Che bravo, Fantozzi!»). Saltuari momenti di gioia in una vita del tutto infelice: in una vita condannata alla sofferenza da quella malattia incurabile che si chiama mediocrità (o inettitudine) e che è il male tipico dell’italiano-medio, timoroso di uscire da una condizione che non lo soddisferà mai ma che lo farà sentire sicuro di essere ancora se stesso.

Nelle sale con “The Martian”, Ridley Scott prepara il sequel di “Prometheus”

Nonostante la sua versatilità, Ridley Scott si è fatto apprezzare soprattutto come regista di film di fantascienza e di film storici dai toni epici. I suoi primi due film di grande successo sono stati Alien (1979) e Blade Runner (1982), mentre quando ha provato a cimentarsi con argomenti storici, a parte Il Gladiatore (2000), non gli è andata benissimo, se si pensa anche all’ultimo, Exodus – Dei e Re (2014), che negli Stati Uniti si è rivelato un flop di incassi, non coprendo nemmeno i costi di produzione (per non parlare, poi, della feroce censura in Egitto e in Marocco per le varie incongruenze storiche e per la scelta – discutibilissima e legata alle politiche di marketing tipicamente hollywoodiane – di far interpretare dei personaggi biblici a degli attori americani, dai tratti occidentali).


Ad ogni modo, il genere in cui il regista ha dimostrato di trovarsi più a suo agio è stata la fantascienza, e il fatto che il 2 ottobre esca nelle sale americane The Martian – Il sopravvissuto (in Italia uscirà il 1° ottobre) e che in cantiere ci sia il sequel di Prometheus (2012) non sorprende affatto. The Martian, tratto dal romanzo di Andy Weir L’uomo di Marte, è una versione futuristica di Robinson Crusoe in cui l’isola deserta è sostituita con il Pianeta Rosso, uno dei luoghi più ricorrenti della fantascienza, tanto da ispirare innumerevoli scrittori e sceneggiatori, affascinati dal mistero che si cela dietro al pianeta del sistema solare più simile e più vicino alla Terra. Uno dei primi a lasciarsi incantare da Marte fu H.G. Wells nel romanzo La guerra dei mondi (1897), da cui sono stati tratti due film, l’ultimo dei quali di Steven Spielberg (2005), in cui i marziani erano esseri superiori ai terrestri dal punto di vista tecnologico ma incapaci di difendersi dai batteri atmosferici. Anche Frank Herbert, nel suo ciclo di Dune (da cui è stato tratto l’omonimo film di David Lynch, basato sul primo romanzo su una serie di sei libri), si è probabilmente ispirato a Marte, visto che il pianeta Arrakis è una vasta landa desertica.


Ossessionato da Marte era Doug Quaid in Atto di forza (1990). Quaid addirittura sogna di visitarlo e per questo si rivolge a una società che si occupa di viaggi mentali, desiderando ottenere la memoria di un agente segreto. Atto di forza, basato su un racconto di Philip K. Dick, ha avuto un remake, Total Recall (2012), non all’altezza però del film di Paul Verhoeven, già buono di per sé. Diversa è stata invece l’interpretazione di Tim Burton, che in Mars Attacks! (1996) ha voluto parodiare i cliché dei film di fantascienza sull’invasione aliena, aggiungendoci quell’umorismo nero tipico dei suoi film, mentre in Mission to Mars (2000) di Brian De Palma, il pianeta rosso diventa la meta di una spedizione di soccorso, che si trova a far fronte all’inspiegabile mistero del volto – o di quello che sembra un volto – che compare sulla superficie marziana.


Un anno dopo Mission to Mars, ecco un altro maestro del cinema che propone la sua interpretazione di Marte: è John Carpenter con il criticatissimo Fantasmi da Marte (2001), con la solita idea della colonizzazione da parte dei terrestri. Un’idea, questa, recuperata da alcuni classici di fantascienza degli anni Cinquanta: ad esempio Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, a cui si devono meriti letterari che superano abbondantemente i confini della narrativa di genere (si pensi a Fahreneit 451), visto che si sottolinea la somiglianza tra la colonizzazione possibile di Marte e quella del Nuovo Mondo, con critiche nemmeno troppo celate sul comportamento dei colonizzatori nei confronti dei nativi marziani. Altro autore apprezzatissimo è stato Arthur Clarke, che nel romanzo Le sabbie di Marte (1951) ipotizza addirittura una convivenza tra le due razze.


Non poteva mancare Isaac Asimov, autore di numerosi cicli di fantascienza, ma anche di una serie per ragazzi che ha per protagonista Lucky Starr: e il primo romanzo di questa serie, Lucky Starr, il vagabondo dello spazio (1952), è ambientato proprio su Marte. Un decennio dopo, anche Robert A. Heinlein ambienterà su Marte quello che è considerato il suo capolavoro, Straniero in terra straniera (1961), con cui si aggiudicò il Premio Hugo. In questo caso, però, si tratta di un viaggio opposto, ovvero da Marte verso la Terra. In particolare, è il ritorno a casa di un uomo allevato dai marziani, che deve pian piano reintegrarsi tra i terrestri. Infine, tornando ai film ambientati su Marte, l’ultimo in ordine di apparizione è stato il John Carter (2012) targato Disney, basato però sul romanzo di Edgar R. Burroughs Sotto le lune di Marte (1916).


È evidente, quindi, che il tema sia tutt’altro che nuovo e che letteratura e cinema (ma anche i fumetti, ad esempio Nathan Never) vi abbiano attinto in abbondanza, saccheggiando una buona parte delle soluzioni narrative che un contesto simile avrebbe potuto proporre. Quanto a Ridley Scott, il regista non ha dimenticato che gran parte del suo successo lo deve – come si è detto – ad Alien, saga che ha coinvolto registi del calibro di James Cameron (Aliens – Scontro finale), David Fincher (Alien 3) e Jean-Pierre Jeunet (Alien – La clonazione) e che ha portato a una contaminazione (o crossover) con un’altra serie di enorme successo come Predator. In parallelo al sequel di Prometheus, che si intitolerà Alien: Paradise Lost, e che sarà diretto dallo stesso Ridley Scott, si svilupperà Alien 5, diretto stavolta da Neill Blomkamp (District 9, Elysium, Humandroid), di cui il regista del Gladiatore sarà produttore e supervisore. Più che Alien 5, la numerazione effettiva sarebbe 2.5, visto che si colloca, a livello cronologico, tra Aliens – Scontro finale e Alien 3. Nel film di Blomkamp tornerebbe il Caporale Dwayne Hicks, ma ci sarà spazio anche per la protagonista assoluta della saga, Ellen Ripley, interpretata, come sempre, da Sigourney Weaver.


Ridley Scott pensa, invece, a quello che è accaduto prima del suo Alien. Il regista ha ammesso che tra Prometheus e Alien non c’era alcun legame, nonostante la distanza temporale, nella finzione narrativa, sia di una trentina d’anni circa (Prometheus è ambientato nel 2091; Ripley incontra per la prima volta gli xenomorfi nel 2122). Nemmeno nel cosiddetto Prometheus 2 ci saranno collegamenti diretti con Alien, ma bisognerà attendere almeno il terzo o il quarto sequel prima di poter tornare alla franchise del film del 1979. Il titolo, insomma, potrebbe trarre in inganno. Chiaro che non si tratti di una casualità: il richiamo al poema di John Milton permette di dare già una prima chiave di lettura; o meglio, la questione alla base del film l’ha proposta Michael Ellenberg, produttore esecutivo del primo Prometheus: «Cosa accadrebbe se si potesse incontrare Dio, ma questi si rivelasse essere il diavolo?».


Nessuna risposta, perlomeno non prima del 2017: Alien: Paradise Lost dovrebbe entrare in produzione nella primavera del 2016. L’obiettivo dei sequel, secondo Ridley Scott, sarà spiegare come e perché sono stati creati gli xenomorfi. «La domanda più semplice era: “Chi diavolo c’era nella nave trovata in Alien? Chi c’era al suo posto e perché portava quel carico? E dove andava?”», ha detto Ridley Scott. «Ci ho pensato per un po’ ma ero troppo impegnato e non avevo davvero nulla in mente e così, quando ho finalmente archiviato Alien vs Predator ho pensato: “Sai una cosa? Questa sì che è una buona idea”. Più ne parlavo e più pensavo: “Dannazione…” Il film [“Prometheus 2”] stavo per chiamarlo Alien: Paradise Lost perché ho pensato che avesse una connotazione inquietante l’idea, perché prepara la nostra concezione e l’idea di Paradiso, qualcosa suggerito dalla religione, e la religione dice “Dio” e poi Dio, che ci ha creati, e questa è una cosa sicura».


«Se c’è il Paradiso», ha aggiunto Scott, «non può essere quello che si pensi che sia. Il Paradiso ha qualcosa che lo rende estremamente sinistro e inquietante.» La sceneggiatura di Alien: Paradise Lost sarà scritta da Jack Paglen e Michael Green. Nel cast, come in Prometheus, Noomi Rapace e Michael Fassbender.



FONTE: MOVIEPILOT

TIFF, Tokyo International Film Festival: dal 22 al 31 ottobre 2015 la 28ma edizione

Manca ancora un mese alla 28ma edizione del Tokyo International Film Festival (TIFF), una delle rassegne più importanti sul cinema asiatico.


LA SCORSA EDIZIONE – Nel 2014, ad aggiudicarsi il premio più importante, il Tokyo Sakura Gran Prix, era stato Heaven knows what, film drammatico di Josh e Benny Safdie sulla vita di strada dei giovani drogati di New York, tratto dal libro di Arielle Holmes Mad love in New York City. Un film iperrealistico, con uno stile quasi da documentario, sull’amore viscerale che lega Harley, interpretata dalla stessa Arielle Holmes, e Ilya, dipendenti non soltanto l’una dall’altro ma anche dall’uso dell’eroina.


GLI SPECIALI – Per quanto riguarda la 28ma edizione, in programma dal 22 al 31 ottobre 2015, nuova sezione sarà “Japan Now”, che intende valorizzare la cultura e la poliedricità del Giappone. A inaugurarla, il regista Masato Harada, che nel corso della sua lunga carriera è riuscito a cimentarsi tanto nelle tematiche sociali quanto nel puro intrattenimento. Harada era stato premiato al Blue Ribbon Awards con il suo Climber’s High (2008), basato sullo schianto di un aereo della Japan Airlines contro il monte Takamagahara, una tragedia che provocò la morte di oltre cinquecento passeggeri. Tra gli altri film del regista, che saranno proiettati al TIFF con i sottotitoli in inglese, ci saranno anche Kamikaze Taxi (1994), Chronicle of My Mother (2011), Kakekomi (2015) e The Emperor in August (2015).


Secondo pezzo forte, per tutti gli amanti del brivido, sarà una sezione intitolata “Masters of J-Horror”, dedicata a maestri giapponesi dell’horror come Hideo Nakata (regista di Dark Water e The Ring, da cui è tratto il più noto remake hollywoodiano), Takashi Shimizu (noto per Ju-on: Rancore e The Grudge, ma anche per il recente remake in live action di Kiki – Consegne a domicilio, famoso per la versione animata dello Studio Ghibli di Miyazaki e Takahata) e Kiyoshi Kurosawa (Journey To the Shore, Tokyo Sonata ma soprattutto Cure, capace di abbattere i confini di genere e fondamentale per la crescita del J-horror): i loro film saranno proiettati per tutta la notte del 28 ottobre.


Il TIFF, che nel 2014 aveva dedicato una rassegna sulla saga di Evangelion, quest’anno omaggerà il mondo di Gundam, franchise nato nel 1979 grazie al regista Yoshiyuki Tomino e prodotto dalla casa giapponese Sunrise, con uno speciale intitolato proprio “The World of Gundam”. Un evento imperdibile per tutti gli appassionati delle saghe sui robot giganti: in totale, saranno ben 26 i film in programmazione, comprendenti cortometraggi, film tv e serie animate, da quella classica, la Universal Century del 1979, fino a quelle più recenti, Gundam SEED e Gundam 00. In Giappone, Gundam è poco meno di una divinità, tanto da essere il primo anime ad aver avuto una statua a grandezza naturale di circa 18 metri, raffigurante il capostipite della saga. Lo speciale “The World of Gundam” sarà affiancato dalla proiezione del film di Akira Kurosawa Quelli che camminavano sulla coda della tigre, adattamento di una commedia kabuki che la censura giapponese accusò di aver deriso la tradizione della forma artistica. Nel secondo dopoguerra, anche le autorità americane vietarono la maggior parte delle opere di kabuki, tra cui proprio il film di Kurosawa, credendo che avrebbe promosso i valori feudali.


APERTURA E CHIUSURA – Ad aprire la nuova edizione della kermesse nipponica sarà però l’ultimo film di Robert Zemeckis, The Walk, tratto da un libro di Philippe Petit, il funambolista che il 7 agosto 1974 camminò su un filo tra le Torri Gemelle del World Trade Center. Risultato di questa folle impresa furono 45 minuti di puro brivido a oltre 400 metri di altezza. Non è però la prima volta che l’esperienza di Petit si trasforma in un film: nel 1984 era uscito il cortometraggio di Sandi Sissel, High Wire, anche se la notorietà di Petit si deve soprattutto al film di James Marsh, Man on Wire – Un uomo tra le torri, con cui nel 2009 il regista britannico si aggiudicò l’Oscar per il Miglior documentario. The Walk, distribuito dalla Warner Bros e in uscita il prossimo ottobre, sarà interpretato da Joseph Gordon-Levitt (Inception, Il cavaliere oscuro – Il Ritorno), fortemente voluto da Zemeckis. L’attore sarà affiancato da Ben Kingsley (Shinder’s List, Shutter Island, Hugo Cabret, Ender’s Game, Exodus – Dei e Re), Charlotte Le Bon (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà) e James Badge Dale (The Departed, World War Z). A chiudere la rassegna ci sarà invece The Terminal, un film drammatico di Tetsuo Shinohara sull’annullamento delle emozioni e sull’importanza dei sentimenti.


I FILM IN CONCORSO – Più di 1400 titoli presentati, ma finora tre sono quelli in concorso. Il primo è Foujita di Kohei Oguri, film biografico sul pittore giapponese che visse nella Parigi degli anni Venti, famoso per i suoi nudi femminili e amico di Picasso e Modigliani. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Foujita coglierà l’occasione per un ritorno alle origini, nel suo amato Giappone, in un piccolo paese del nord, accanto a sua moglie. Un ritorno che gli permetterà di riscoprire il fascino della sua terra.
Secondo film selezionato è Sayonara di Koji Fukada. Tutt’altra tematica: lo scenario è un Giappone post-apocalittico contaminato dalle radiazioni. Il governo ordina ai residenti di abbandonare il paese, ma una donna e il suo androide saranno lasciati in balia della solitudine e di una morte che aleggia sempre nell’aria.
Terzo, e per ora ultimo, film in gara è The Inerasable di Yoshihiro Nakamura, in cui uno scrittore indaga su una serie di misteriosi suicidi che lo condurranno verso una verità sconcertante.


I SUCCESSI INTERNAZIONALI – All’interno della sezione “World Cinema”, e fresco del successo ottenuto alla 72ma Mostra del Cinema di Venezia, troveremo invece Everest di Baltasar Kormákur, che ha per oggetto un’altra impresa, dopo quella di Petit nel film di Zemeckis, vale a dire la scalata della vetta più alta del mondo da parte di Rob Hall (Josh Brolin) e della sua Adventure Consultants, che il 10 maggio 1996 guidarono un gruppo di dilettanti appassionati di alpinismo sul monte Everest.
Sempre ispirato a una storia vera, e in particolare a un’icona intramontabile del cinema, è Life di Anton Corbijn, film biografico sull’amicizia tra James Dean (Dane DeHann), simbolo del ribellismo giovanile anni ‘50 e reduce dalle riprese della Valle dell’Eden, e il paparazzo Dennis Stock (Robert Pattinson), che sogna di pubblicare una sua foto su una copertina di Life.
Presidente di giuria del TIFF 2015 sarà Bryan Singer (X-Men, Operazione Valchiria, Superman Returns, Il Cacciatore di Giganti).

The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio nello Studio Ghibli

«Sono un uomo del XX secolo. Io non voglio affrontare il XXI.»


L’uomo del XX secolo è Hayao Miyazaki, maestro del cinema d’animazione giapponese, spesso riconosciuto come il Walt Disney del Sol Levante. È con questa frase che Miyazaki pare volersi congedare una volta per tutte dal proprio regno, quel regno dei sogni e della follia richiamato dall’omonimo documentario di Mami Sunada, The Kingdom of Dreams and Madness: un viaggio attraverso la nascita dei capolavori indiscussi dello Studio Ghibli, a cui è legato il nome di Miyazaki insieme a quello di un altro grande maestro, Isao Takahata, a cui si deve, oltre al commovente Una tomba per le lucciole (al cinema da novembre 2015, pur essendo del 1988), La storia della principessa Kaguya (2013). Miyazaki ha raggiunto il punto più alto della propria carriera con La città incantata (2001), vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2002 e dell’Oscar come miglior film d’animazione nel 2003 (prima e unica volta per un anime), capace di superare al box office nipponico persino Titanic. Ma non si devono trascurare altri indimenticabili film come Nausicaa della Valle del Vento (1984), Laputa – Il castello nel cielo (1986), La Principessa Mononoke (1997) e Il castello errante di Howl (2005), fino ad arrivare a Ponyo sulla scogliera (2008) e Si alza il vento (2013).


Ma The Kingdom of Dreams and Madness non racconta la carriera di Miyazaki e Takahata. Si tratta piuttosto di uno sguardo iperrealistico, in presa diretta, sul funzionamento dello Studio Ghibli: i ritmi intensi, l’assegnazione del ruolo da protagonista a Hideaki Anno, i pensieri di Hayao stesso, il lavoro di Takahata (che compare solo fugacemente), una sessione di doppiaggio di Si alza il vento che porta Miyazaki alla commozione… Il cineasta giapponese è uno che sa come si lavora sodo (lo fa ogni giorno, dalle 11 alle 21, esclusa la domenica), e che esige la cura di ogni minimo dettaglio. Una cura maniacale che gli ha portato via cinque anni, perlomeno per realizzare il suo ultimo film, Si alza il vento, presentato al Festival di Venezia nel 2013. Sarà l’ultimo in tutti i sensi e The Kingdom of Dreams and Madness è il diario di quest’ultima fatica, incominciato nel 2012 e concluso nei primi mesi del 2013. La regista Mami Sunada ha detto che la Disney Giappone voleva farle fare un dvd commerciale sullo Studio Ghibli, ma una volta entrata nella regno del fantastico duo Miyazaki-Takahata si era resa conto che quell’ultimo anno sarebbe stato molto diverso dagli altri, e così aveva optato per un documentario. La premiere di The Kingdom of Dreams and Madness si è tenuta durante il Festival di Toronto del 2014, ma il film è stato reso disponibile in dvd o in video on-demand soltanto dal 27 gennaio 2015.


«Ci sono molti documentari sullo Studio Ghibli che in Giappone sono stati trasmessi in tv», ha detto Mami Sunada. «Per questo quando il signor Suzuki [produttore ed esecutivo dello Studio Ghibli, ndr] prende una decisione, ciò che chiede è: “Che cosa si può fare di nuovo?”. In quest’anno davvero insolito e indimenticabile sono stati fatti sia Si alza il vento sia La storia della principessa Kaguya, quindi ho deciso che sarebbe stato proprio questo su cui avrei incentrato il documentario – il confronto tra i due registi, il loro storico rapporto professionale – e come ognuno occupa il proprio posto nello studio. Questa era la cosa su cui volevo soffermarmi.»


Miyazaki non scrive copioni ma storyboard, e i suoi assistenti iniziano la produzione da questi disegni prima che lui li abbia finiti. Quando accoglie Sanada nella sua casa-studio, Miyazaki filosofeggia sull’arte e sull’umanità per sentirsi come qualcuno che viene a patti con il lavoro di una vita. E così parla dolcemente del suo modo di fare film, in particolare di come la famiglia dello Studio Ghibli vede il cinema. In Si alza il vento c’è qualcosa di talmente personale da portarlo alle lacrime dopo l’anteprima: è la prima volta per un suo film.


Si alza il vento è un film biografico sui sogni “belli ma maledetti” di Jiro Horikoshi, un ragazzino miope che progetta aerei, non potendo pilotarli. Proprio Miyazaki, da piccolo, sognava il volo. Sognava che il suo corpo sfiorasse le nuvole sulle città giapponesi di Utsunomiya e Kanuma, dove era cresciuto; in altri sogni, la magia lo avrebbe improvvisamente tagliato fuori, e lui avrebbe fatto un giro su se stesso e sarebbe sfrecciato verso il basso, risvegliandosi con un salto prima di toccare per terra. Suo padre, Katsuij, gestiva una compagnia chiamata Miyazaki Airplane, che produceva alette di coda per aerei da combattimento giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. In occasione di una visita alla fabbrica, il giovane Hayao fu incantato dalla bravura meccanizzata delle parti, per esempio il modo in cui un filo si univa a un albero e gestiva un timone. Ma non riusciva a collegare in modo consapevole gli oggetti che suo padre faceva ogni giorno e ciò che sognava.


«Nella mia testa, erano totalmente separati», ha detto il regista. «Probabilmente si tratta di un ottimo caso di studio psicoanalitico. Amavo gli aerei perché erano delle macchine incredibili, ma la velocità e l’altezza del volo – queste erano cose che capivo subito, da bambino. Penso che un sacco di persone abbiano fatto i miei stessi sogni.» Del film in sé per sé, però, ce n’è ben poco. Sanada concede qualche spezzone di Si alza il vento solo in fase di montaggio: d’altronde questo è molto più che un semplice documentario su un anno di vita dello studio. Il film di Sanada, non a caso, riesce a dare il meglio di sé quando la regista trasmette la consapevolezza che si tratta di uno studio e di una voce creativa in un periodo di transizione e forse nella sua fase crepuscolare. La musica, il tono, l’oggetto dei due film, la candida riflessione di Miyazaki – tutto concorre a dipingere il ritratto di qualcosa di meraviglioso che sta per finire. E il ritratto che ne emerge non è soltanto quello di un regista che ama ciò che fa ma anche delle persone che sono coinvolte nel processo creativo e che, ognuno nel proprio piccolo, contribuiscono a trasformare una faticosa catena di montaggio in qualcosa che sembra avere vita propria. Perché i personaggi di Miyazaki e Takahata riflettono la straordinaria umanità e la sorprendente sensibilità dei loro creatori.


Sunada, che in precedenza aveva lavorato come aiuto-regista in alcuni film di Hirokazu Kore-Eda e a una manciata di altri progetti, si rende conto che c’è una buona ragione per cui questo film esista ben al di là del fatto che si possa realizzare. Il suo documentario non è solo un lamento per la fine dello Studio, ma tende ad anticipare la fine stessa: e così, dal primo giorno in cui inizia le riprese nello Studio Ghibli, Sunada è fin troppo consapevole che il suo sarà un elogio. Quando confessa che «il futuro è chiaro: cadrà a pezzi», è come se Miyazaki leggesse dal copione. Se però lo immaginate come un nonnetto adorabile dagli occhi splendenti di meraviglia, potreste restare delusi. Dal film di Sunada emerge un uomo molto diverso: un uomo cortese e un operaio diligente benedetto da un colpo di genio. Ma è un uomo segnato allo stesso tempo da momenti di cinismo, risentimento e insicurezza che alludono a qualcosa di cupo dietro alle sue creazioni. «Non mi sono mai sentito felice nella mia vita quotidiana», dice. «Il cinema porta solo sofferenza.»

Jurassic Park, il più grande spettacolo dopo il giurassico

«Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo, due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la benché minima idea di che cosa possiamo aspettarci?» 


Il vero messaggio di Jurassic Park è tutto qui, nelle parole di Alan Grant (Sam Neill), il paleontologo convinto da John Hammond (Richard Attenborough) a visitare il più grande parco dei divertimenti, un parco in cui torneranno in vita le creature più affascinanti che la storia della terra abbia mai conosciuto: i dinosauri. Le perplessità di Alan Grant sono confermate da Ian Malcolm (Jeff Goldblum): «La mancanza di umiltà di fronte alla natura che si dimostra qui mi sconvolge», dice. «Lei non vede il pericolo che è insito in quello che fa? La potenza genetica è la forza più dirompente che esista e lei se ne serve come un bambino che gioca con la pistola del padre.» Un pericolo autodistruttivo, insomma. La natura ha le sue leggi e se i dinosauri e l’uomo non hanno vissuto nella stessa era, questo era dovuto alla loro evidente incompatibilità.


Grant e Malcolm non saranno affatto smentiti quando si ritroveranno a dover fuggire da un Tirannosaurus Rex, liberato grazie all’interruzione del sistema di sicurezza. In realtà le recinzioni del parco sarebbero state sicure se Dennis Nedry non avesse disattivato l’impianto e rubato gli embrioni per venderli a un pezzo grosso della concorrenza. E la notte in cui Nedry tenta la fuga è una notte apocalittica, metafora della rabbia della natura per l’uomo ribelle, reo di aver tentato di stravolgere le sue regole o piuttosto di barare. Jurassic Park, per la fama e il successo che ha raccolto nel corso degli anni, non ha nemmeno bisogno di essere raccontato. Divenuto uno dei maggiori incassi della storia del cinema, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton, permise a Steven Spielberg di superare gli incassi di E.T. – L’extraterrestre. Il 1993 fu un anno fortunatissimo per il regista, che sfornò, oltre a Jurassic Park, anche Schindler’s List, film che lo consacrò tra i grandi del cinema e che gli permise di aggiudicarsi due Oscar, miglior film e miglior regia. Dopo quella fortunata doppietta, però, Spielberg non è stato più quello di una volta (a parte l’Oscar per Salvate il soldato Ryan) e sebbene si sia sempre impegnato ad alternare film commerciali (come il quarto, deludente, Indiana Jones e La guerra dei mondi) a film d’autore (come Munich o War Horse), l’apice lo ha raggiunto tra gli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, proprio con Jurassic Park.


Un film che, al di là di tutto, riprende le tematiche topiche dei suoi film, come l’infanzia, già centrale in E.T., Indiana Jones e il tempio maledetto, L’impero del sole e Hook – Capitan Uncino. Il sapore del film spielberghiano è palese anche grazie allo splendido accompagnamento musicale di John Williams, non nuovo a lavorare con il regista. Se uno dei temi cari a Spielberg è l’infanzia, non potevano mancare due giovani protagonisti come Tim (Joseph Mazzello) e Lex (Ariana Richards), nipoti di John Hammond, che accompagnano Alan Grant, la dottoressa Sattler (Laura Dern) e Ian Malcolm nella visita al parco. Tim è un fan sfegatato del dottor Grant, mentre Lex è una giovanissima hacker (non a caso sarà lei a ripristinare l’elettricità). Proprio il dottor Grant dimostra di non provare molta simpatia per i bambini quando, nel prologo del film, un ragazzino, mentre Grant rinviene un fossile, paragona un Velociraptor a un grosso tacchino e il paleontologo fa di tutto per spaventarlo descrivendogli che cosa può capitare se dovesse trovarsi di fronte un animale primitivo così pericoloso. Ma nel corso della visita, Grant si trova da solo con i due ragazzi: le macchine che li avrebbero accompagnati durante la visita sono state distrutte dal T-Rex e loro sono costretti a tornare alla base a piedi, attraversando l’intera isola con la speranza di non imbattersi in Velociraptor o altre specie aggressive.


Sono proprio gli incontri con i predatori, però, a rientrare tra le scene da cineteca. La prima è la comparsa del T-Rex, con un primo piano del suo occhio illuminato appena dalla torcia di Lex; un occhio che è il simbolo del male, proprio come lo era quello dello squalo, sempre di spielberghiana memoria. E questo sarebbe un altro tema che ritorna: la lotta fra l’uomo e la natura (lì lo squalo, qui i dinosauri), una natura sempre più maligna e terrificante, ma questa volta figlia dell’uomo stesso. I dinosauri sono come il mostro di Frankenstein: John Hammond ha cercato di riportare in vita qualcosa che doveva essere morto, di cui la natura stessa aveva decretato la morte; qualcosa che si è rivoltato contro il suo stesso creatore perché si è ritrovato in un’epoca sbagliata e in un contesto sbagliato. Altra scena da antologia è l’inseguimento in cucina dei Velociraptor, con Lex e Tim nascosti e i due predatori che riescono ad aprire la porta, fino all’epico grido di Lex mentre uno dei due dinosauri l’attacca, stroncato da un vetro infranto poiché l’immagine a cui andava incontro il dinosauro era soltanto il riflesso della ragazza.


Il finale di Jurassic Park, con il T-Rex che salva, involontariamente, Grant, la dottoressa Sattler e i due ragazzi dall’assalto dei Velociraptor, e la bandiera del parco che crolla al ruggito del Tirannosauro, era abbastanza aperto per lasciare allo spettatore le conclusioni su una possibile ribellione dell’uomo alle leggi di madre natura. Proprio per la sua grandezza e per la spettacolarità delle animazioni – nonché per la sostanziale novità del tema – il secondo capitolo del franchise, Il mondo perduto – Jurassic Park (1997), anch’esso diretto da Spielberg, uscirà sempre sconfitto da ogni confronto con il primo. D’altronde le possibilità narrative offerte da un materia simile non sono tantissime, e il rischio che si correva – trappola in cui è poi caduta la sceneggiatura – era riproporre qualcosa di già visto sfruttando l’onda del successo, ma senza quel valore aggiunto che era stata la vera arma segreta di Jurassic Park.


Quattro anni dopo gli incidenti avvenuti sull’Isla Nublar, la società di John Hammond, la InGen, è fallita ed è Peter Ludlow, nipote di Hammond, ad avere ereditato la ditta. Oltre a Isla Nublar, Hammond aveva occupato un’altra isola, l’Isla Sorna, in cui i dinosauri crescevano prima di essere trasferiti a Isla Nublar al raggiungimento dell’età adulta. Ma Isla Nublar è stata abbandonata in seguito all’arrivo di un uragano, che aveva distrutto le strutture. I dinosauri, però, sono ancora lì. Proprio un incidente, occorso nel prologo, con una famiglia di turisti, la cui bambina si era imbattuta in un branco di Compsognathus, spinge Hammond a richiamare il dottor Malcolm, che nei quattro anni successivi alla disavventura nel Jurassic Park aveva cercato di denunciare le mostruosità nascoste nell’Isla Nublar. Hammond vorrebbe che Malcolm stendesse un rapporto sull’isola e sulle condizioni degli animali ma soprattutto che fermasse chi vuole catturarli per farne delle attrazioni in un parco di San Diego. Malcolm è scettico ma quando Hammond gli rivela che anche Sarah (Julianne Moore), la sua ragazza, è lì sull’isola, la missione scientifica si trasforma in una missione di salvataggio. A Malcolm si unirà, clandestinamente, anche la figlioletta Kelly.


Il resto sa molto di già visto: le aggressioni dei dinosauri, gli inseguimenti, la roulotte (al posto della macchina in Jurassic Park) sospesa nel vuoto, ma soprattutto l’arrivo del T-Rex a San Diego con la sua furia distruttrice, un richiamo evidente a icone della fantascienza catastrofica come King Kong e Godzilla, qualcosa che fa storcere non poco la bocca e rimpiangere l’immensità e la poesia di Jurassic ParkMa il fondo lo si tocca con il terzo film, Jurassic Park III. Al ritorno di Sam Neill e di Laura Dern corrisponde, però, un cambio in regia, Joe Johnston al posto di Spielberg. È inevitabile che la magia ormai si sia persa e che si rimpianga perfino Il mondo perduto, nonostante i limiti di essere un sequel senza tante grosse novità. Ancora un’azione di salvataggio, ma stavolta sarà Alan Grant, anziché Malcolm, a tornare a Isla Nublar. Gli effetti speciali non hanno più niente di speciale (si vede benissimo che i dinosauri sono finti!) e il soggetto è diventato un fiacco pretesto per allungare una trama che si è già diradata ben oltre le proprie possibilità. Di Jurassic Park è rimasto soltanto l’accompagnamento musicale, a rievocare qualcosa che non c’è più, ma questo non basta, tant’è che il film si era aggiudicato la nomination ai Razzie Awards del 2001 come Peggior Remake o Sequel.


Jurassic Park, rappresentando la novità (messa anche in prospettiva di un’epoca in cui il 3D era lontano anni luce), non poteva che suscitare incanto: i dinosauri di Spielberg giganteggiavano sullo schermo con un realismo mai visto prima; e a essi si univano azione, ironia, stupore (e l’entusiasmo immancabile di John Hammond). Il mondo perduto dimostrava già di essere una forzatura: la forza di Jurassic Park risiedeva anche nella simpatia del cast, da Alan Grant ai due ragazzini; dalla dottoressa Sattler al dottor Malcolm (l’unico recuperato, a parte le comparse di Hammond e dei nipotini cresciuti, ma solo nella parte iniziale). L’evocazione di Godzilla e di King Kong non avevano fatto che abbassare non soltanto la credibilità stessa del film ma di tutto il franchise, che ormai aveva virato verso stereotipi noiosi. Con Jurassic Park III, infine, c’è il ritorno di Alan Grant e della dottoressa Sattler (comunque marginale) ma non del tocco magico che Spielberg aveva saputo dare ai suoi primi dinosauri.


In Jurassic World ritornerà lo stesso Tirannosaurus Rex di Jurassic Park, arrabbiato come nel 1993 e pronto a fare nuove vittime. L’utilizzo massiccio del 3D, coadiuvato dal supporto della grafica digitale, renderanno l’apertura del parco dei dinosauri un vero e proprio evento mondiale.

Terminator, il Giorno del Giudizio non è scritto

Nella prima metà degli anni Ottanta, James Cameron era un regista semisconosciuto che all’attivo aveva soltanto un film, Piranha paura (1981), sequel dell’horror di Joe Dante Piranha del 1978. Era un film a basso costo che non aveva suscitato nessun clamore, né di pubblico né di critica. Ma Cameron non si arrese a quel primo insuccesso, e grazie a un incubo incorsogli durante un ricovero in ospedale per intossicazione alimentare, trovò l’ispirazione per realizzare il film che avrebbe dato il via alla sua straordinaria carriera da regista.


Gli ingredienti erano tanto semplici quanto efficaci: dei toni cupi, con una tensione sempre presente e un cyborg dalle sembianze umane, una minaccia proveniente dal futuro, indistruttibile, portatrice di morte tanto quanto di notizie catastrofiche. Per il ruolo delicatissimo del cyborg fu scelto Arnold Schwarzenegger, che da poco aveva raggiunto la fama internazionale con l’epic fantasy Conan il barbaro (1982) di John Milius. Proprio il volto inespressivo di Schwarzenegger, che diventerà poi un’icona degli action movie, è stato la vera chiave del successo di Terminator (1984), capace di incassare poco più di 38 milioni di dollari con un budget di appena 6,4 milioni. Due anni dopo Terminator, Cameron diresse Aliens – Scontro finale (1986), sequel di Alien (1979) di Ridley Scott, a cui sarebbero seguiti tutti gli altri successi del regista canadese, tra cui il celeberrimo e premiatissimo Titanic (1997) e Avatar (2009), rispettivamente il secondo e il primo maggior incasso di sempre nella storia del cinema.


Cameron si era rivelato insomma un Re Mida del cinema, capace di moltiplicare in milioni di dollari i budget concessigli dalle mega-produzioni hollywoodiane. Ma l’ascesa alla sua grande carriera di regista è legata a quel cyborg senza sentimenti, un T-800 (Arnold Schwarzenegger) proveniente dal futuro, dal 2029. In questa realtà, le macchine, grazie a un’intelligenza artificiale chiamata Skynet, sono riuscite a ribellarsi e a prendere il controllo della Terra, causando la distruzione dell’umanità. La resistenza è guidata da John Connor, figlio di Sarah Connor (Linda Hamilton). Ed è proprio lei che il T-800 deve uccidere: la deve uccidere prima che metta al mondo John, affinché il continuum temporale possa essere modificato. Ma anche la resistenza ha inviato qualcuno indietro nel tempo: si tratta del soldato Kyle Reese (Michael Biehn), che dovrà proteggere Sarah dal cyborg Terminator, programmato per uccidere.


Il Terminator incomincia la propria scia di omicidi cercando tutte le Sarah Connor sull’elenco del telefono. Ruba i vestiti a tre punk, si procura le armi e va verso il proprio obiettivo. Dall’altro lato c’è Sarah Connor, che già in Terminator – ma soprattutto nel sequel, Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991) – diventa una nuova Ellen Ripley, una donna-guerriero che non deve vedersela con entità aliene ma con un robot quasi invincibile. La regia di Aliens – Scontro finale per James Cameron, in tal senso, non è una casualità, e serve senz’altro per definire meglio i connotati della seconda Sarah Connor, quella che si ritroverà a dover fronteggiare i fantasmi del passato e a essere rinchiusa in un manicomio criminale proprio per aver cercato di distruggere una fabbrica di computer e di armamenti militari destinati a Skynet.


Se Terminator poteva, in un certo senso, essere autoconclusivo, con la distruzione finale del cyborg (la cui CPU – ma questo si apprende solo in una delle scene tagliate – sarà recuperata da due scienziati della Cyberdyne Systems, a cui si dovrà la creazione di Skynet), il secondo film della serie, Terminator 2, approfondisce non soltanto il rapporto tra uomo e macchina ma connota di maggiore umanità il cyborg stesso. Nel finale del cupo Terminator, la mano del cyborg scarnificato che si allungava verso Sarah Connor era la metafora della morte che si avvicina (non a caso il cyborg, al di sotto del rivestimento di pelle umana, è uno scheletro con gli occhi rossi). Nel secondo capitolo della serie, Sarah Connor deve fronteggiare una minaccia ancora più grande, vale a dire i propri incubi sul Giorno del Giudizio, che pare sempre più vicino. Stavolta, però, non dovrà proteggere soltanto se stessa ma anche suo figlio John, un tredicenne scapestrato di Los Angeles. Sarah è in manicomio e Kyle è morto nello scontro con il cyborg. Anche John crede che le storie sul Giorno del Giudizio e sulle macchine impazzite siano frutto solo della follia di sua madre, ma deve ricredersi quando si ritrova ad affiancare un tipo un po’ strano, serio, freddo, granitico e implacabile: questi altri non è che un nuovo Terminator, che ha le stesse sembianze di quello che anni prima aveva cercato di uccidere sua madre. Ora è stato inviato per un’altra missione: proteggere John Connor.


Il T-800, però, non è da solo, perché in quella dimensione temporale è arrivato anche un T-1000 (Robert Patrick), un cyborg moderno, fatto di metallo liquido, capace di assumere le sembianze di qualunque persona con cui entri in contatto ma anche di trasformare parti del proprio corpo in armi da taglio. Il T-1000 è stato inviato per uccidere non Sarah Connor ma John Connor. Dopo aver aiutato sua madre a fuggire dal manicomio criminale, per John si prospettano delle avventure mozzafiato accanto a un cyborg che, poco alla volta, assumerà degli atteggiamenti sempre più umani e che diventerà molto più che un semplice surrogato di padre. «Guardando John, con quel robot, tutto mi divenne chiaro» dice Sarah Connor. «Il Terminator non si sarebbe mai fermato, non lo avrebbe mai lasciato, né lo avrebbe mai fatto soffrire, non lo avrebbe picchiato né lo avrebbe sgridato, né avrebbe trovato scuse per non stare con lui; gli sarebbe sempre stato accanto e sarebbe stato pronto a morire per proteggerlo. Di tutti i padri putativi fin troppo umani che si erano avvicendati attraverso gli anni, questo robot sarebbe stato l’unico uomo giusto. In un mondo pazzo era la scelta più sensata.»


Il messaggio più forte di tutta la saga è però legato alla concezione antropocentrica, racchiusa nelle parole di John Connor a sua madre: «Il futuro non è scritto. Il vero fato è quello che ci scegliamo noi.» Un antropocentrismo che però è smentito dal terzo film, Terminator 3 – Le macchine ribelli (2003), fotocopia – perlomeno nella struttura narrativa – del secondo, con l’aggiunta di un po’ di ironia, a stemperare parecchio il clima di alta tensione che si avvertiva nel predecessore ma soprattutto in Terminator. Il cyborg è tornato, John Connor (Nick Stahl) è cresciuto ma il Giorno del Giudizio non è stato cancellato: è stato solo rinviato. Il futuro, in questo caso, va accettato. Questa volta il T-850 (identico al T-800) dovrà proteggere la futura moglie di John, Kate Brewster (Claire Danes), da un TX, che stavolta ha le sembianze di un’avvenente bionda (Kristanna Loken). Adesso John scopre di dover accettare suo malgrado il destino e di dover subire in maniera del tutto passiva la sconfitta dell’uomo di fronte all’ascesa della tecnologia. Così l’importante non è distruggere Skynet – non per ora – ma mettersi in salvo, affinché la battaglia non sia persa prima ancora del suo inizio.


Mentre i primi tre film erano ambientati in un contesto contemporaneo e suscitavano terrore per una minaccia soltanto evocata, che gravava nell’aria senza mai avvicinarsi del tutto, con Terminator Salvation (2009) siamo finalmente di fronte proprio allo scenario post-apocalittico descritto da Sarah Connor. Siamo nel 2018 e John Connor (Christian Bale) non è ancora diventato il leader della resistenza, anche se parla ai superstiti dell’umanità attraverso la radio. Oltre a distruggere Skynet, un altro obiettivo lo assilla: trovare il giovane Kyle Reese, il suo futuro padre, colui che dovrà tornare indietro nel tempo per salvare sua madre dal T-800 che cercherà di ucciderla; perché ora i paradossi temporali sono nell’aria (Ritorno al futuro insegna) e se i cyborg dovessero uccidere Kyle, allora anche John morirà. Tutta l’umanità cesserà di esistere poiché quella linea temporale sarà modificata. Ma ora John avrà un alleato del tutto speciale: non più un T-800, un cyborg che di umano ha soltanto la pelle, ma un uomo vero e proprio, che possiede ancora un cuore, un cuore vero. Si tratta di Markus Wright (Sam Worthington), che nel 2003 era stato giustiziato con un’iniezione letale ma il cui corpo era stato recuperato al fine di poterlo fare infiltrare nella resistenza: Markus altri non è che il primo Terminator dalle sembianze umane, metà uomo e metà macchina. L’evoluzione dei progetti di Skynet.


Terminator Salvation, molto più che nei primi tre film, esaspera il rapporto tra l’essere umano e la tecnologia: Markus è il contrario di RoboCop, che dall’esterno era robot ma con il cervello da uomo. Markus invece si sente un uomo a tutti gli effetti e la sola cosa che mai le macchine potranno prendere sarà proprio il cuore, da intendersi non soltanto come muscolo vitale ma anche come bontà, sensibilità o più semplicemente umanità. «Che cos’è che ci rende umani?» si chiede Marcus. «Qualcosa che non si può programmare, che non si può mettere in un chip: è la forza del cuore umano, la differenza tra noi e le macchine.» Quel cuore, oltre a salvare John Connor nello scontro finale con il T-800 che lo aveva quasi ucciso (come gli era stato profetizzato in Terminator 3), è destinato a salvare tutta l’umanità, in un mondo in cui l’ultimo sole non è ancora tramontato e in cui il destino, come dice John Connor, non è scritto ma è quello che ci creiamo.


I primi tre film costituirebbero un nucleo narrativo a parte se non fosse per le numerose citazioni di Terminator Salvation: John che guarda la foto di sua madre, la stessa che si vede nell’ultima scena di Terminator; la frase «Vieni con me se vuoi vivere», usata sia da Kyle Reese in Terminator sia dal T-800 in Terminator 2; o anche You Could Be Mine dei Guns N’Roses, canzone che riecheggia da uno stereo ad altissimo volume quando John Connor deve fermare i cyborg in moto, stessa canzone di Terminator 2, la sua preferita da adolescente. Il problema fondamentale di Terminator Salvation, però, risiede nella sua stessa progettazione. Così, mentre i due film di James Cameron riuscivano, in qualche modo, a soddisfare il pubblico per un finale aperto ma tutto sommato consolatorio – con la frase conclusiva di Sarah Connor a regalare un po’ di speranza dopo tanto orrore («Il futuro, di nuovo ignoto, scorre verso di noi, e io lo affronto per la prima volta con un senso di speranza, perché se un robot, un Terminator, può capire il valore della vita umana, forse potremo capirlo anche noi») – il film di McG era stato progettato come primo tassello di una nuova trilogia, ambientata non più nella giungla urbana dei primi tre Terminator ma in un universo post-apocalittico che avrebbe concluso la saga una volta per tutte. Purtroppo i guai finanziari della Halcyon Company, che detiene i diritti della franchise, avevano obbligato la produzione ad abbandonare il progetto, lasciando così in sospeso la storia di John Connor e della resistenza.


Terminator: Genesys, in tal senso, aprirà una nuova era, ripristinando ciò che già abbiamo visto, ciò che già è successo, e riportando in auge anche il vero simbolo della saga, Arnold Schwarzenegger, attore che incarna alla perfezione la simbiosi tra uomo e macchina, capace di segnare, con il suo physique du rôle, tutti gli action movie che cercavano di imitare la spettacolarità dei suoi film. Il futuro è appena iniziato.

Star Wars: Anakin Skywalker, il Prescelto del Lato Oscuro

«Io vedo oltre le bugie dei Jedi. Non temo il Lato Oscuro come voi. Ho portato pace, libertà, giustizia e sicurezza nel mio nuovo impero.» Sono queste le parole che Darth Fener rivolge a Obi-Wan Kenobi, il suo ex maestro, nell’epico scontro finale di Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith, il sublime capitolo che chiude la Trilogia dei Prequel, completata da Episodio I – La minaccia fantasma e da Episodio II – L’attacco dei cloni. Un tempo Darth Fener si chiamava Anakin Skywalker ed era un cavaliere Jedi ma ora Skywalker è morto, sopraffatto dal Lato Oscuro e nutrito dall’odio, dalle menzogne e dalle false speranze di Darth Sidious, Signore dei Sith.


Il viaggio di degenerazione verso il Male di Anakin Skywalker ha origine nell’infanzia a Tatooine. È qui che il piccolo Anakin vive con sua madre, ma a soli nove anni è già vittima di due grandi ingiustizie: essere schiavo e non avere un padre. L’arrivo di Padme Amidala, senatrice del pianeta Naboo, è un segno, qualcosa che può cambiare la sua vita in meglio. Non a caso Anakin, al loro primo incontro, le rivolge queste parole: «Tu sei un angelo?» Amore a prima vista, amore cortese. Il paragone con l’essere etereo è il più bel complimento che una fanciulla possa sentirsi fare. Una domanda tanto innocente quanto romantica, che proviene da un bambino biondo. Questa battuta dona a Padme estrema umanità ma soprattutto le restituisce quella femminilità che aveva perso a causa del ruolo di senatrice. Il secondo elemento da considerare è la nascita misteriosa di Anakin. Dopo aver osservato il bambino, il Maestro Jedi Qui-Gon chiede alla madre di Anakin chi sia il padre e lei risponde così: «Non c’è stato un padre. Io l’ho portato in grembo, l’ho fatto nascere, l’ho cresciuto. Non posso spiegare cos’è successo.»


Una gravidanza misteriosa che ricorda quella della Vergine Maria e la conseguente nascita di Gesù. Non a caso Anakin sarà individuato proprio dal Maestro Jedi come il Prescelto. I Jedi sanno di una Profezia – anche se non si chiarisce in nessun modo da chi provenga né come ne siano giunti a conoscenza – secondo cui il Prescelto riporterà equilibrio nella Forza. È così che Qui-Gon parla per la prima volta di Anakin al Consiglio dei Jedi: «Ho incontrato una vergenza nella Forza, localizzata in un bambino. Ha le cellule con la più alta concentrazione di midi-chlorian che abbia mai visto in una forma di vita. È possibile che sia concepito dai midi-chlorian.» Anakin deve essere quindi esaminato dal Consiglio dei Jedi. E non nasconde di sentire la mancanza di sua madre. «Paura di perderla tu hai» gli dice Yoda. «La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza. Io sento in te molta paura.» Il Consiglio rifiuta la richiesta di Qui-Gon: Anakin non potrà essere addestrato perché è troppo grande e il suo futuro è «nebuloso», secondo le parole di Yoda. In seguito alla morte di Qui-Gon, però, ucciso da Darth Maul, Obi-Wan propone a Yoda di occuparsi dell’addestramento di Anakin. Lo aveva promesso a Qui-Gon prima che morisse. Ma Yoda è ancora più contrariato: «Il Prescelto il ragazzo è. Ciò nonostante, un pericolo nel suo addestramento io sento.»


Ma non è il solo Yoda a saper vedere nel futuro. Il «pericolo» avvertito dal Maestro Jedi è solo uno dei tanti elementi che fanno presagire qualcosa di terribile che avrà a che fare con il piccolo Anakin. E tutto ruota attorno al rapporto con sua madre e alla loro separazione prematura. Il bambino, che non ha mai avuto un padre e che ne ha intravisto una parvenza in Qui-Gon, ora non può contare più nemmeno su sua madre; e inevitabilmente proietta la figura materna in Padme – non a caso più grande di lui – e più tardi in Obi-Wan. Ma lo stesso Obi-Wan non sarà un padre abbastanza maturo da saper gestire un adolescente così irruento e incapace di non lasciarsi sopraffare dalle proprie emozioni. Il primo (La minaccia fantasma) e il secondo (L’attacco dei cloni) episodio sono collegati da una promessa, collegata a sua volta con il tragico epilogo del terzo episodio (La vendetta dei Sith). «Io tornerò qui a liberarti, mamma, te lo prometto.» È questo che dice il piccolo Anakin prima di lasciare Tatooine. Una promessa è una promessa. E una volta divenuto un allievo Jedi, Anakin si ricorda di quella promessa e capisce che è arrivato il momento di tornare da sua madre e liberare anche lei. Padme, che gli è stata affidata, con l’obbligo di proteggerla, lo segue. Ma arrivato a Tatooine, Anakin scopre che sua madre è stata catturata dai predoni tusken. Ritrovatala e vistasela morire tra le braccia, scatena una furia omicida generata dal dolore, dall’odio e dalla brama di vendetta, e uccide tutti i predoni, anche le donne e i bambini. Uno sterminio crudele che si ripeterà nel terzo episodio, ai danni dei giovani Jedi. Poi, tornato da Padme, confessa ciò che sta maturando dentro sé: «La vita è sempre più facile quando riesci ad aggiustare una cosa. Io sono bravo ad aggiustare le cose, lo sono sempre stato, ma non sono riuscito…» E con la voce rotta dal pianto aggiunge: «Perché è dovuta morire? Perché non ho potuto salvarla? So che ne avrei avuto il potere.» «Ci sono certe cose che nessuno può aggiustare. Non sei onnipotente» gli fa notare Padme. «Beh, devo diventarlo. E un giorno lo diventerò. Diventerò il Jedi più potente di tutti i tempi, te lo garantisco. Imparerò anche a impedire che la gente muoia.»


Un desiderio faustiano, quello del giovane apprendista Jedi. Un desiderio che non potrà mai realizzarsi se non con l’intervento della magia nera, in questo caso della conoscenza del Lato Oscuro. Prima di concretizzarsi, però, il desiderio di Anakin si materializza sotto forma di un incubo: la sua amata Padme, che ha sposato segretamente, violando le regole dell’Ordine dei Jedi, è incinta, ma lui ha sognato che moriva durante il parto e ora teme per la sua vita. Questa volta manterrà la promessa, ricordandosi che già con sua madre non era stato in grado di farlo: «Io non ti perderò, Padme.» «Non morirò durante il parto, Ani, te lo prometto.» «No, io te lo prometto!» Quell’io è già il sintomo dell’affermazione di Darth Fener. Anakin Skywalker sta per annegare nella paura, come aveva predetto a suo tempo Yoda. La paura di perdere la seconda figura femminile di riferimento, la proiezione della madre perduta: questo è ciò che spinge Anakin ad abbracciare il Lato Oscuro e ad allearsi con Darth Sidious – che gli dice di poter salvare Padme –, l’incarnazione stessa del Male, non molto diverso da quel Mefistofele che prometteva a Faust la Conoscenza, oltre che il possesso della donna amata. Ma tutto è ormai deciso. Anakin, colpevole di aver fatto prevalere le emozioni sulla ragione, scende sempre più verso il degrado morale, prima tradendo e uccidendo il Maestro Windu, dopo averlo informato che il Cancelliere Palpatine altri non è che il Signore dei Sith; e successivamente, su ordine dello stesso Darth Sidious, sterminando gli allievi Jedi nel tempio.


Infine, lo scontro con le persone che più gli stanno a cuore: Padme e Obi-Wan Kenobi. L’incontro con Padme, che ha saputo da Obi-Wan quello che è successo al tempio dei Jedi, è un preludio alla Trilogia Originale. Le parole di Anakin aprono a scenari che già conosciamo e che lasciano intravvedere nel nuovo allievo Sith un istinto ribelle innato, sia nei confronti dei Jedi sia nei confronti di colui che diventerà l’Imperatore. Una mania di grandezza che non accennerà mai a placarsi. «Anakin, quello che io voglio è il tuo amore.» «L’amore non ti salverà, Padme: solo i miei nuovi poteri possono farlo.» «A che prezzo? Tu sei buono, non puoi fare questo.» Parole simili a quelle di Luke a Leila, riferendosi sempre ad Anakin/Darth Fener: «C’è del buono in lui.» «Non ti perderò come ho perso mia madre.» Richiamo alla precedente promessa a Padme: «Io te lo prometto!» Poi Anakin aggiunge: «Sto diventando più potente di qualsiasi altro Jedi abbia mai sognato. E lo faccio per te, per proteggerti.» E dopo che Padme lo supplica di andare via: «Sono più potente del Cancelliere» dice lui. E balbettando: «Lo… lo posso togliere di mezzo. E insieme io e te governeremo la galassia.» Preludio al tirannicidio nel Ritorno dello Jedi: «Luke, tu puoi distruggere l’Imperatore, lui lo ha previsto. Questo è il tuo destino. Unisciti a me e insieme potremo governare la galassia come padre e figlio.»


Un dialogo costruito alla perfezione per riagganciarsi a quanto già si è detto e a quanto si dirà. Ma l’apoteosi è l’incontro-scontro fratricida con Obi-Wan Kenobi, che non ha mai negato il sentimento fraterno per Anakin, che a sua volta lo considera un padre. Questa epica battaglia tra i due simboli del Bene e del Male (anche in virtù del colore delle loro divise, bianca quella di Obi-Wan e nera quella di Anakin, passato attraverso il bianco del primo episodio e il marrone del secondo) avviene in uno scenario infernale, Mustafar, un ambiente vulcanico che rappresenta la discesa di Anakin verso l’abisso. Anche le inquadrature hanno il loro significato: un’eclisse lunare alle spalle di Obi-Wan a simboleggiare la fine di Anakin Skywalker e la nascita definitiva di Darth Fener. La luna che oscura il sole: il Male che sovrasta il Bene. E quando Obi-Wan tenta inutilmente di far ragionare il suo ormai ex allievo, il quale gli risponde che dal suo punto di vista i Jedi sono il Male, il Maestro Jedi lo condanna così: «E allora sei dannato!» Questo viaggio infernale è molto diverso da quello di Dante e Virgilio o da quello di Odisseo/Ulisse e di Enea: è un viaggio verso l’abisso della moralità, un viaggio senza possibilità – per ora – di ritorno. Perfino quando i giochi sembrano finiti e Obi-Wan gli dà l’ultimo ammonimento («Sto più in alto di te!»), Anakin pecca di arroganza: «Tu sottovaluti i miei poteri!»


Ed è così che si dà il colpo di grazia. Obi-Wan lo sconfigge definitivamente e la parte umana di Anakin brucia e in quel momento Skywalker è morto, per lasciare spazio a Darth Fener. L’epilogo è un gioco a incastri potente ed evocativo. La nascita di Darth Fener e dei due gemellini, Luke e Leila, corrispondono alle morti di Anakin e di Padme, che «ha perso la voglia di vivere» perché l’uomo che amava è impazzito. Artefice e approfittatore di tutto ciò è il Signore Oscuro, Darth Sidious, quel «padre oscuro» (Darth Vader/Dark Father) che Anakin non ha mai avuto e che lui stesso diventerà e che Luke, di fronte all’agnizione («Io sono tuo padre») tenterà disperatamente di rinnegare. Quel padre oscuro è stato l’unico a dare fiducia ad Anakin, che si è sentito umiliato e sottovalutato dal Consiglio dei Jedi. Tuttavia, la brama di potere, come si è visto, è talmente forte in Anakin/Darth Fener che nemmeno il Signore dei Sith potrà dormire sonni tranquilli. Dopo la nascita dei gemellini, che cresceranno separati, Yoda confessa a Obi-Wan che vuole farlo addestrare: «Un vecchio amico conosce la via per l’immortalità. Un amico tornato dal mondo di là dalla Forza, il tuo antico maestro.» Obi-Wan si sacrificherà per permettere a Luke e Leila di fuggire ma proprio grazie agli insegnamenti di Qui-Gon lo ritroveremo nel lieto epilogo, quando l’equilibrio nella Forza sarà ristabilito. Dall’altro lato, è la dimostrazione che non soltanto attraverso le arti oscure si può accedere all’immortalità, il grande sogno dell’uomo – e nella fattispecie di Anakin – ma anche attraverso altre vie della Forza. Per chiudere la Trilogia dei Prequel e aprire l’altra, a unire le due fasi di questo epico racconto, il doppio tramonto di Tatooine, citazione del quarto episodio, mentre il cerchio si chiude e il sogno premonitore di Anakin si è avverato: proprio per fuggire da un destino inevitabile, compimento di un disegno divino (in questo caso della Forza), ha fatto in modo che il sogno si verificasse. Le due trilogie di Star Wars rappresentano le due facce della stessa medaglia, o meglio due percorsi opposti, l’una verso il Lato Oscuro, che rappresenta la morte, e l’altra verso il Lato Chiaro, la rinascita, esemplata nella redenzione di Luke.


Non è pura fantascienza e non è puro intrattenimento. Star Wars è molto di più: è la legge della vita (l’infanzia, la crescita, l’amore materno e quello coniugale, il dolore, la morte, la condanna, la redenzione, la rinascita morale). Un grande canto epico e universale che, avvalendosi della straordinaria estetica di George Lucas e della sua sfrenata fantasia, rende eterni gli insegnamenti dei Jedi, ben al di là di un contesto fantascientifico. Anakin Skywalker non è un buono e non è nemmeno cattivo tanto quanto non lo è Darth Fener. Sono entrambi personaggi forti, dotati di una vitalità che poco si addice ai Jedi e ai Sith. La vitalità di Anakin Skywalker è quella dell’eroe tragico, destinato a perdersi e a ritrovarsi negli occhi innocenti del figlio. Rispetto a tutti gli altri personaggi di Star Wars, Anakin è quello che soffre di più perché è quello meno fantascientifico in assoluto, ovvero, di tutti gli eroi, è quello più umano.


FONTE: http://www.guerrestellari.net/athenaeum/