Cinema, politica, nazione, ma che grande confusione!

Dopo la sbornia degli infausti pronostici adesso, senza nessuno dei tre tenori premiato a Cannes, giornali e tv recriminano scioccamente sullo chauvinismo francese e sulla nostra debolezza politica a Cannes. Ma il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.




Nei giorni che hanno preceduto e accompagnato il Festival del cinema di Cannes, quando su troppi giornali e in troppi programmi televisivi italiani è partita la grancassa a sostegno dei nostri tre registi in gara – tre come i celeberrimi e un po’ sfatti (musicalmente) tenori di qualche anno fa, tre come gli iterati annunci delle locandine d’avanspettacolo – e la grancassa pubblicitaria ha dato vita a conferenze stampa congiunte dei tre candidati tra di loro abbracciati per il piacere dei fotografi e delle corti giornalistiche acclamanti, osannanti i loro prodotti e loro medesimi come li meglio fichi del nostro cinematografico bigoncio, ed era tutta una corsa a sprecare panegirici conditi con le più rosee, incoscienti e roboanti previsioni circa l’imminente trionfo della nostra nazionale registica – “Sono ben tre, almeno uno vincerà” -, ho avvertito prima un prurito fastidioso poi un’incontrollabile allergia e un riflesso refrattario all’unisono richiamo della patria infine un sincero disgusto di questa riciclata mescolanza tra arte e nazione. Così, presagendo il peggio – che tra l’altro, onestamente, non è detto che il peggio sia quel che è poi capitato – mi sono pudicamente e scaramanticamente toccato ripensando alla vigilia dell’ultimo mondiale di calcio e alle sesquipedali scemenze sulla presunta eccellenza e la superiorità tattica della squadretta di Cesare Prandelli. A chiacchiere vinciamo sempre.

Quando il cinema italiano è stato grande – e lo è stato davvero per almeno tre decenni – non ha mai confuso l’arte dei suoi autori con il prestigio della nazione e le manovre politiche. Semmai la politica nostrana la metteva alla berlina non la invocava per vincere un premio come – spero abusivamente – oggi il Corriere della sera fa dire a Paolo Sorrentino, il quale, peraltro, rivendica di aver di premi fatto indigestione, Oscar compreso e della patria assente si consola con il mercato, anzi, il botteghino. E quando Moretti ha vinto a Cannes, e ha vinto spesso, non credo proprio sia stato grazie a Silvio Berlusconi allora all’apogeo del suo potere e perciò schifato come Il caimano.


Semmai il punto è un altro: se fai un film che poteva esser fatto uguale dieci anni fa (così commenta il film di Moretti Rossy De Palma, l’unica italianofila tra i giurati), o vuoi far l’americano con gli effetti speciali, i grandi attori affermati e la sontuosa fotografia come Sorrentino e Garrone, a Cannes dove si premiano linguaggi e messe in scena che sappiano di novità e storie ispirate alla giustizia e all’umana dignità, i tuoi film non entrano nemmeno in discussione.


Il nostro grande cinema, si faceva scrupolo e vanto di rappresentare anche la nostra mediocrità, i nostri buffi o tragici vizi e difetti e la pochezza autentica più della bellezza evasiva e posticcia, il sobrio eroismo dei poveri con i propri poveri mezzi, non la magniloquenza al servizio di un pallido intimismo o della fuga in bizzarre fantasmagorie.


Perciò, dopo tanto fracasso, non mi hanno sorpreso né il risultato né i commenti amari dei giornali che, in coerenza con gli infausti pronostici di vittoria, hanno poi straparlato, nientemeno!, di “disfatta italiana” e di iniquo tributo di premi elargiti da giurati di molte nazionalità – “ma non c’era tra loro neanche un italiano !” – alla ospitante nazione francese e alla sua mai sazia brama di grandeur.


I più facinorosi tra i gazzettieri e gli improvvisati conduttori di “speciali” servizi tv accreditati a Cannes hanno pure insinuato il sospetto che responsabile della nuova Caporetto italiana sia stata l’insipienza delle nostre case di produzione inette a imbastire, pro patria italica, una sana azione di lobbying – e perché non anche di “mobbing” già che c’erano? – evidentemente ignari che almeno alcune delle fabbriche cinematografare dei nostri film erano straniere, stranierissime, o persuasi che una statuetta a Cannes si estorca come il pizzo a Palermo.


Non paghi di aver frainteso un festival del cinema trattandolo come un torneo tra nazioni e i suoi artisti protagonisti come atleti di un qualche sport agonistico, giornali e televisioni nostrani, al brusco risveglio del giorno dopo, non sapendo come uscire dal pasticcio in cui si erano cacciati da se soli, come prima già brindavano alla vittoria agognata così poi hanno recriminato sulla sconfitta impartita. E per coerenza han dato la colpa all’arroganza degli odiati cugini francesi, quelli stessi che alla vigilia blandivano, memori dei premi tante volte assegnati aux italiens – “l’avete già fatto dunque lo potete rifare” – e immemori che a presiedere la giuria, questa volta, sedessero due illustri fratelli – i Cohen – maestri del cinema americano e non oltranzisti cinefili di qualche école d’oltralpe.


Dio che pena, che confusione, che provinciale ostinazione nell’equivocare la propria personale stupidità con la malvagia cospirazione straniera. Sembra di sentirle le nostre comari: “Ma come, tre italiani in lizza e nessuno premiato e invece ‘sti francesi a chi l’hanno dati i premi? A uno di loro e poi a un ungherese e persino a un, come si dice ? a un taiwanita, roba da non crederci …”

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DI MATTEO E IL FATTORE “C”

“…quindici mesi al governo… Renzi dopo una lunga e fortunata luna di miele che molti hanno attribuito al fattore “C”, conosce le prime vere difficoltà a causa d’insegnanti, pensionati, immigrati… l’insostenibile leggerezza del nostro per l’assenza di credibili alternative rischia di gonfiare la protesta di Grillo e Salvini e, soprattutto, il partito di chi non vota”

Si racconta che Napoleone – uno che di uomini e battaglie se ne intendeva – a chi gli caldeggiava promozioni e incarichi per questo o quell’ufficiale meritevole solesse chiedere, “Ma è fortunato o no?” In effetti, quanto contino la fortuna, il fato, il caso è, da sempre, argomento tanto dibattuto e controverso e così impalpabili le opposte ragioni e le ataviche superstizioni, che la gente, il popolo, l’opinione pubblica, a differenza degli storici e degli spiriti forti che tutte le ignorano, non cessano di interrogarsi sulla reale influenza del fattore “C”. Renzi non sfugge alla regola e se ieri, vuoi per sminuire i suoi meriti vuoi per esaltarli, critici e supporter hanno chiamato in causa la fortuna, oggi che la sua luna di miele con il paese sembra offuscata dall’addensarsi di nuvole minacciose, ritorcono nel contrario i fausti presagi.

Ma, in concreto, che cosa ha cambiato la percezione comune circa la fortuna di Renzi? Nei tre ultimi casi l’influenza dei media a caccia di audience si è espressa carezzando il pelo ai demagoghi per poi censurarli in un contesto che, privo di alternative di governo credibili, può gonfiare la protesta di Grillo e Salvini e, soprattutto, il partito di chi non vota.


La riforma che da cattiva qual è dovrebbe far diventare la scuola “buona” , non viene giudicata dai media nel merito, ma in base all’avversione che suscita tra i destinatari – soprattutto insegnanti e studenti. Uno sciopero partecipato conta più dell’acceso conservatorismo della sua piattaforma definita dallo slogan polemicamente anti renziano, “la buona scuola è quella che c’è”. La pretesa dei sindacati che in ruolo siano immessi tutti i precari finisce col mascherare l’approccio assistenzialistico di Renzi che vuole assumerne “solo” 100.000. Nessuno, viceversa, contesta a Renzi che la sua riforma ripete, ancora una volta, l’errore che è all’origine della crisi storica della scuola italiana e che consiste nell’usarla non come strumento dell’elevazione generale della società e nella formazione di professionalità e classi dirigenti, ma come una branca del welfare destinata a risolvere un problema occupazionale. A sua volta il comportamento dei giovani luddisti che stracciano i test INVALSI ottiene l’effetto paradossale di far sembrare moderna l’idea renziana che un dirigente/burocrate/preside giudichi della qualità degli insegnanti magari senza aver mai insegnato.


Analogamente, su un altro fronte, l’imprevista, inopinata, sentenza della Corte Costituzionale che sostituendosi al Parlamento e dissestando il bilancio pubblico, esigeva la restituzione del “maltolto” (costo 18 miliardi di euro !) a tutti i pensionati che dal 2011 – governo Monti/Fornero – si sono visti congelati gli aumenti, fa apparire come un onesto compromesso la rinuncia del Governo ad ogni ambizione di riforma della previdenza e come un motto di spirito battezzare “Bonus Poletti” i 500 euro che verranno restituiti ad agosto.


Infine, il brusco voltafaccia con cui Francia e Germania hanno ritrattato e respinto l’accordo appena raggiunto dalla Commissione Europea per distribuire i richiedenti asilo tra tutti i paesi della Comunità, non solo rinfocola le correnti populiste anti europee, ma ci fa dimenticare alcune essenziali questioni. Primo, il contrasto all’immigrazione clandestina è scritto nelle nostre leggi come nelle direttive comunitarie, mentre la confusione tra clandestini, richiedenti asilo e profughi sotto la generica denominazione di “migranti” proclamata dalla Mogherini con irresponsabile leggerezza (“l’accordo prevede che neanche un migrante sarà respinto in mare”) sembra fatta apposta per spingere gli altri paesi a replicarci seccamente “allora arrangiatevi”. Secondo, nonostante gli appelli, l’Italia con gli altri partner comunitari si guardò bene dal condividere i profughi slavi e curdi che in numero di 400.000 si affollarono in Germania appena qualche anno fa. Terzo, da tempo Francia, Austria e Germania hanno capito che l’altra faccia del buonismo italiano è il lassismo dei nostri controlli , un lassismo funzionale a spingere verso nord le masse di clandestini che non sappiamo né vogliamo arginare.


In apparenza la sentenza della Corte e il voltafaccia di Francia e Spagna in materia d’immigrazione appartengono a quel genere di eventi che sovrastano la nostra volontà e che, al di là di ogni nostra responsabilità, un qualche adirato Giove pluvio, tonitruante e saettante fulmini e conseguenti disgrazie, ci scaglia addosso. Maledetta sfortuna! Che colpa ha il povero Renzi?


A ben guardare, invece, la sfortuna non c’entra proprio niente, c’entra, invece, ancora una volta, la spensierata, insostenibile leggerezza del nostro premier determinato, determinatissimo a non affrontare l’impopolarità connessa a una seria revisione della spesa pubblica – quella previdenziale come quella sanitaria – tanto annunciata quanto negletta dal suo come da tutti i governi precedenti. Così, non solo la spesa pubblica ha continuato a crescere senza controllo, ma con Renzi si è giunti a licenziare i controllori. Esattamente come chi volendo curare la febbre spezzasse il termometro e cacciasse il medico che gli prescrive antibiotici e anti infiammatori.


Dunque il calo del fattore “C” non c’entra, non c’entrano la buona o la cattiva sorte, c’entra che se non approfitti delle condizioni propizie per adottare le riforme necessarie sarai costretto ad adottarle quando le difficoltà si saranno aggravate.

POLITICI E TALK SHOW IL RUMORE DEL NULLA

“Stessi personaggi, stessa trama, stessa osteria, stessa minestra riscaldata, stessi filmati della stessa “ggente” incazzata stessa malizia stantia nell’aizzare gli ospiti per imbonire lo stesso pubblico, falsa rappresentazione di quel pubblico, reale e non da reality, che da tempo ha smesso di guardarli perché si è rotto del rumore insignificante dei loro riti.”


E’ vero i politici di oggi sono quello che sono, addestrati a sbraitare dando fiato a polemiche sempre uguali, a stupide ripicche, a sparate demagogiche, ripetendo senza fine gli stessi slogan, gli stessi pseudo concetti. Rarissimi quelli che approfondiscono un problema, che cercano e sanno indicare soluzioni ragionevoli, praticabili. Vere mosche bianche poi quelli che non carezzano il pelo all’uditorio e alla claque che li accompagna, che hanno l’onestà e il coraggio di dire anche le verità scomode, impopolari. Se sono renziani esaltano il fare e la concretezza del leader anche quando consiste solo di annunci.

Yuppies in ritardo e ragazze sfrontate celebrano traguardi non raggiunti e risultati controversi, negando l’evidenza di una crisi economica e sociale che non ci lascia più attribuendo ai predecessori anche i propri fiaschi. Se appartengono alle opposizioni e seguono Salvini promettono di usare le ruspe contro i campi nomadi, urlano contro l’euro e l’Europa colpevoli di tutti i nostri guai comprese le migrazioni bibliche dall’Africa. Se hanno Grillo e Casaleggio per maestri si accaniscono sui vitalizi di una decina di politici in pensione come se fosse l’ultima spiaggia della moralità pubblica, ma disertano o snobbano discussione e voto sulle riforme elettorali e costituzionali come su quelle del lavoro. “Non gliene frega niente a nessuno!” pontificano però se la Corte Costituzionale boccia il taglio delle pensioni più alte e riapre una voragine nei conti dello stato gli stessi deputati che anni fa l’hanno votata brindano e si danno alla pazza gioia perché Renzi è nei guai e intimano al governo di rimborsare tutti e subito.


Se questi – ne ho contati un centinaio, sempre gli stessi – formano la compagnia di giro di politici senz’arte né parte affamati di mezz’ora di visibilità, che dire dei conduttori di talk show? Che dire degli ultimi replicanti di quelli che una volta erano anchor men, grandi giornalisti che ci tenevano incatenati al piccolo schermo? Di questi nuovi conduttori e conduttrici seriali ne ho contati più di venti solo nelle principali reti televisive – e tutti ripetono instancabili lo stesso copione. Stessi personaggi, stessa trama, stessa osteria, stessa minestra riscaldata, stessi filmati della stessa “ggente” incazzata che “non arriva a fine mese”, stessa malizia stantia nell’aizzare gli ospiti perché imboniscano nello studio tv lo stesso pubblico, illusorio campione di altra, diversa, vera e varia gente, di quel pubblico reale e non da reality che da tempo ha smesso di guardarli perché si è rotto del rumore insignificante dei loro riti. Ma i conduttori non mollano, più fomentano gli ospiti a urlare più pensano di incrementare di un decimale uno share infinitesimale. Pochi, pochissimi tra quelli della vecchia scuola si sforzano ancora di dire la loro, di frenare gli esagitati, gli sgrammaticati e sgangherati cleptomani della banalità. E la chiamano televisione, la chiamano informazione, lo chiamano giornalismo! A me fa venire in mente Mambo la bellissima scanzonata canzone di Lucio Dalla e i suoi versi disperati, “Ahh che pena, che nostalgia”.

L’ imbroglio dell’Italicum

Che mago questo Renzi! Non solo ci saranno voti che valgono più di uno e voti che varranno meno di uno ma ci saranno anche tanti casi in cui tu voterai un candidato e ne eleggerai un altro! L’imbroglio dell’Italicum deriva dal mescolare due criteri che fanno a pugni: il voto di preferenza nelle mani degli elettori e la scelta di capilista pluricandidati nelle mani dei vertici di partito.



Proviamo a immaginare cosa succederà con l’Italicum. Il candidato Rossi, numero 5 nella lista, risulta il più votato per numero di preferenze, ma non viene eletto perché in quel collegio i voti raccolti bastano per eleggere un solo candidato e quell’uno sarà il capolista Bianchi. Bianchi è capolista anche in altri nove collegi, ma optando per il collegio di Rossi, Bianchi lo esclude perché Rossi gli sta meno simpatico degli altri candidati che gli subentreranno negli altri nove collegi.

In tal modo l’esclusione di Rossi dal nuovo Parlamento non deriverà dalla scelta degli elettori, ma dall’arbitrio del capolista (arbitrio personale o ispirato dal segretario nazionale), il quale opterà di diventare rappresentante di quel collegio elettorale, cioè di quel territorio e di quei cittadini, con cui, magari, ha meno rapporti o, addirittura, rapporti conflittuali. Determinato a sfruttare questo meccanismo perverso il segretario nazionale moltiplicherà il numero dei candidati ubiqui – quelli che possono guidare dieci liste in dieci diversi collegi – così assicurandosi non solo l’elezione dei capilista ma anche il potere di favorire i secondi in lista se gli sono fedeli (anche quando abbiano raccolto poche preferenze) o di escluderli se non graditi (anche quando abbiano ottenuto dagli elettori un grande messe di voti). Che mago questo Renzi! Non solo ci saranno voti che valgono più di uno e voti che varranno meno di uno ma ci saranno anche tanti casi in cui tu voterai un candidato e ne eleggerai un altro! L’imbroglio dell’Italicum deriva dal mescolare due criteri che fanno a pugni: il voto di preferenza nelle mani degli elettori e la scelta dei capilista candidabili in dieci collegi nelle mani dei vertici di partito.


Non è finita. Supponiamo che un partito ottenga il 40% dei voti e un altro il 39%. Il primo, con il premio elettorale, otterrà 340 seggi, il secondo, pur avendo quasi lo stesso numero di voti, otterrà solo 214 seggi. Ma questo in teoria, cioè nel caso, ormai improbabile, che sopravviva il bipolarismo. Nella realtà, essendosi ormai radicato un sistema tripolare, e avendo stabilito una soglia di sbarramento bassissima – il 3% -, avremo un primo partito geneticamente modificato e artificialmente gonfiato fino a 340 seggi, due o tre partiti sotto i 100 seggi e qualche cespuglio del 3% con 7 o 8 deputati nominati dal loro capetto.

Eppure, secondo Matteo Renzi, questo sistema elettorale è così democratico e attraente che gli altri paesi non vedono l’ora di imitarlo abbandonando le loro tradizioni secolari (il Regno Unito) o semi secolari (Germania, Francia e Spagna). Tradizioni che insieme con la governabilità hanno sin qui assicurato in quelle nazioni un’equa rappresentanza della volontà degli elettori.


Non contento di averla sparata grossa il nostro premier giustifica la sua protervia giurando che finalmente l’Italicum garantirà la stabilità dei governi.


Il dubbio che questa promessa possa trasformarsi in una minaccia nemmeno lo sfiora. Innanzitutto, la stabilità non è un bene a prescindere e, poi, come in passato si sono frantumate coalizioni dotate di ampie maggioranze così, anche con l’Italicum, nulla può escludere che un domani, per esempio nel PD, si formi una opposizione (bastano trenta deputati) in grado di mandare a casa il governo. Esattamente come faceva la DC e come ha fatto anche Renzi con il governo Letta, con buona pace della stabilità.


In conclusione, se, nel merito, non mancano sull’Italicum seri dubbi di costituzionalità, certamente incostituzionale è stata la procedura con cui si è giunti alla sua approvazione. In particolare nel momento in cui, ricorrendo a un emendamento del governo, si è calpestato il diritto/dovere dell’assemblea di esaminare, articolo per articolo, una legge approvata ma non in vigore, perché appesa a una revisione costituzionale di là da venire.


Eppure tutti scommettono che il presidente Mattarella, autore della buona legge elettorale che porta il suo nome e giudice che bocciò il porcellum trangugerà l’imbroglio dell’Italicum senza batter ciglio. Perché? Perché questo impegno preso con Renzi sarebbe all’origine della sua ascesa al Quirinale.

Immigrazione: né isteria né buonismo

“Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di doverci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di cercare e praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Nel nostro interesse e in quello di un’umanità diseredata.”




Una settimana fa, di fronte all’ultima e più spaventosa tragedia del Mediterraneo costata la vita a più di settecento profughi, il Governo italiano ha ottenuto una riunione straordinaria del Consiglio europeo. Ebbene, erano giuste e che esito hanno avuto le richieste avanzate da Matteo Renzi di assumere un’iniziativa comune per fermare gli scafisti, per soccorrere in mare i boat people e per organizzare la distribuzione dei profughi in tutta l’Unione Europea?





Tutti i leaders convenuti, cogliendo il sentimento umanitario dell’opinione pubblica di fronte al disastro, hanno condiviso la necessità di triplicare i finanziamenti comunitari all’operazione Triton portandoli dagli attuali tre a nove milioni di euro. Bene, ma così siamo semplicemente tornati al punto di partenza, cioè al costo che in precedenza l’Italia, da sola, aveva sostenuto con l’operazione Mare Nostrum. Operazione che aveva consentito, nel solo 2014, il salvataggio di 170.000 esseri umani tra richiedenti asilo, profughi e clandestini, ma che non aveva mutato di una virgola gli elementi fondamentali del problema.


Viceversa, con toni e argomenti diversi, il primo ministro inglese David Cameron, e, subito dopo, la cancelliera Angela Merkel hanno respinto o accantonato sia la richiesta di distribuire i boat people su tutto il territorio europeo, sia le suggestioni, peraltro molto improvvisate e confuse, di fermare gli scafisti o con operazioni militari (sequestro o distruzione dei barconi degli scafisti affidati a raid aerei di droni), o con spedizioni di polizia internazionale nei porti e nelle spiagge.


In sostanza l’aiuto umanitario è stato incrementato (ma anche arretrato a sole trenta miglia dalle coste italiane con conseguenti maggiori rischi per i boat people), mentre, per ora, gli attori criminali restano liberi di agire e le conseguenze pratiche, cioè l’accoglienza dei salvati in mare, resta affidata a Italia e Malta, cioè ai paesi di primo transito dei migranti, esattamente come prevedono gli accordi di Dublino, (sottoscritti anche dall’Italia), tuttora in vigore.


Per quel che riguarda la richiesta italiana che il Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizzi interventi militari o di polizia contro scafisti e scafi circolano versioni molto diverse su come l’abbia accolta il segretario generale Ban Ki-moon.


Intanto, ancora una volta, politici, giornali e televisioni italiane hanno sollevato a gran voce proteste e accuse contro l’egoismo, l’indifferenza, il cinismo dell’Europa che lascia l’Italia sola a sbrigarsela con le ondate migratorie, anzi, con “le invasioni” come a molti piace chiamarle. Ma le cose stanno davvero così? No, non stanno così. E’ vero che il numero dei richiedenti asilo in Italia è molto aumentato negli ultimi anni, tuttavia, in rapporto alla popolazione, il nostro resta uno dei paesi europei con la minor presenza di rifugiati, mentre, in cima alle classifiche che misurano l’accoglienza svettano Svezia e Germania. D’altra parte, se è vero che Germania e Regno Unito non vogliono partecipare all’accoglienza dei rifugiati che sbarcano sulle nostre coste, è altrettanto vero che noi ci siamo ben guardati dal condividere l’accoglienza dei 400.000 slavi che negli anni ’90 si sono riversati al di là delle frontiere tedesche. Per non dire che, ancora nel 2013 e nel 2014, ci siamo esposti alle contestazioni, alle accuse, alle denunce delle autorità francesi, austriache e, soprattutto, tedesche per aver lasciato transitare decine di migliaia di clandestini e di profughi al di là delle nostre frontiere senza registrarne i documenti di identità e senza prenderne le impronte digitali. E’ questo un modo scorretto di aggirare l’obbligo di accoglienza che grava sul primo paese in cui transitano i richiedenti asilo, un modo di fare i furbi che ha reso i nostri partner europei poco propensi a condividere il peso delle nostre attuali difficoltà. Hanno già le loro e le affrontano organizzando tendopoli, requisendo e riadattando caserme e stabili dismessi. Di fronte alle nostre emergenze a noi tocca fare la nostra parte senza abbandonarci a quel misto d’isteria e di inconcludente buonismo che appartiene al peggio tanto delle nostre tradizioni politiche quanto del costume nazionale.




Soltanto nell’anno appena passato, il 2014, cinquanta milioni di esseri umani hanno lasciato i paesi di origine per trasferirsi, là dove speravano di poter vivere meglio o, almeno, di poter sopravvivere. Si tratta di un diritto umano inalienabile che tuttavia, non di rado, entra in conflitto con il diritto degli stati e dei loro cittadini di difendere le proprie frontiere anche respingendo ospiti indesiderati. Questo conflitto tra due diritti è ciò che rende l’immigrazione una materia calda, caldissima, in tutta Europa – e non solo in Europa. Nel Mediterraneo poi, ad aggravare tensioni, paure, minacce, si teme la combinazione potenziale tra la bomba demografica innescata nel continente africano e la disseminazione del terrorismo islamico che usa anche le ondate migratorie come veicolo della sua proliferazione omicida. L’intreccio di queste diverse circostanze può raggiungere un’imprevedibile, micidiale incandescenza.




L’annunciato incombere di un milione di fuggiaschi dall’ Africa subsahariana – già oggi il 50% di profughi e di clandestini salvati nel Mediterraneo proviene dal Mali, dal Niger, dal Ciad e dalla Nigeria – impongono una strategia lungimirante e globale di cooperazione allo sviluppo e di sostegno al controllo demografico in paesi che versano in condizioni disumane; consigliano un impegno e un sostegno coerenti per contenere le ondate migratorie attraverso la stabilizzazione dei paesi arabi nord africani che sono i nostri e i loro vicini, i nostri e i loro interlocutori; esigono una diversa politica di sicurezza delle frontiere che sono certo frontiere dell’Unione Europea, ma anche, e innanzitutto frontiere italiane; una nuova politica sulle migrazioni legali per attirare i giusti talenti e per giustificare meglio il respingimento di quelle illegali. Reclamare l’aiuto europeo e la “copertura” giuridica delle Nazioni Unite è giusto e corretto, ma non ci esime dal dovere di fare, noi per primi, tutto ciò che è necessario e che finora non abbiamo fatto per difendere noi stessi mentre affrontiamo le emergenze umanitarie.


Quando un problema, per le sue stesse dimensioni, appare insolubile è buona regola cercare di scomporlo nei suoi fattori e di diluirlo, guadagnando tempo, per allontanare il rischio che deflagri.


Anche ripassare le lezioni della storia può rivelarsi utile.


Gli Stati Uniti, nazione di emigranti, che gli emigranti li volevano per popolare un paese immenso, quando le ondate migratorie dagli stati europei più poveri, come l’Italia e l’Irlanda, raggiunsero dimensioni massicce decisero di adibire Ellis Island, un isolotto nella baia di New York, a luogo di temporaneo internamento. I nuovi arrivati venivano sottoposti ad esami sanitari, giudiziari, professionali per accertarne l’idoneità a risiedere negli USA. Si calcola che da Ellis Island siano transitati, in mezzo secolo, quasi trenta milioni d’immigrati toccando il picco di un milione nel solo anno 1907. La stragrande maggioranza dei richiedenti vennero accolti e furono liberi di scegliere dove risiedere in base alle opportunità del mercato del lavoro. Solo una piccola percentuale – tra il 2 e il 3% – vennero rimpatriati. Possibile che un secolo dopo l’Italia non sia in grado di governare il suo problema con l’immigrazione?


Certo le differenze sono grandi e numerose, ma non così tanto da inibire ogni approccio razionale e da oscurare gli insegnamenti che sprigionano dalle esperienze del passato. Le principali differenze rispetto a quel precedente di Ellis Island sono che l’Italia è piccola e densamente abitata, che quella verso gli States era un’immigrazione legale e non illegale, che di mezzo c’erano 5.000 miglia di Oceano Atlantico e non le poche centinaia di miglia che separano le due sponde del Mediterraneo.


Mentre spingiamo i negoziati per pacificare la Libia in fiamme e nell’attesa di poter ottenere là la collaborazione necessaria, è mai possibile che l’Italia, sesta o settima potenza mondiale, non sia in grado di organizzare due, tre o quante Ellis Island occorrono pretendendo senza titubanze e senza sconti il concorso economico, professionale e culturale dell’Unione Europea e dell’ONU?


Anziché sbandare tra il vittimismo isterico e aggressivo e l’illusione compassionevole di poterci caricare sulle spalle tutto il dolore del mondo abbiamo il dovere, qui e subito, di provarci, di cercare e di praticare le soluzioni possibili, concrete, graduali e puntuali. Sì, possiamo e dobbiamo farlo nel nostro interesse e per quello di un’umanità diseredata.

Falcone, un patriota siciliano

Un libro prezioso quello di Giannicola Sinisi che ricostruisce i rapporti tra Falcone e i suoi colleghi americani, giudici e agenti del FBI, attraverso lo studio dei documenti finora secretati inviati a Washington dall’Ambasciata di Roma … gli americani avevano una stima sconfinata di Falcone non solo per quel che faceva a Palermo ma per il contributo decisivo che dava anche alla loro lotta contro Cosa Nostra … ed erano molto preoccupati che i magistrati italiani passassero più tempo a combattere Falcone che a combattere la mafia.


Le relazioni tra Italia e Stati Uniti, soprattutto nel periodo della guerra fredda e, dunque, fino alla caduta dei muri nel 1989, sono spesso circondate da un alone di mistero, da un’aura di sospetti e da una nebbia di pregiudizi che si ispessiscono e si oscurano o si schiariscono a seconda delle prospettive e delle interpretazioni. A questa regola non sfuggono neppure i rapporti tra Giovanni Falcone e le autorità americane impegnate sullo stesso fronte del contrasto alla criminalità organizzata che chiamano causa il FBI, il Dipartimento di giustizia e quello di Stato (equivalente del nostro Ministero degli Esteri) sul versante americano, Falcone, i suoi collaboratori e i suoi amici e nemici, che si tratti di politici, di magistrati e di giornalisti su quello italiano. Così, non sono mancati coloro che, da parte italiana, videro in questi rapporti di Falcone con le autorità americane uno dei tanti esempi di soggezione – se non di servilismo – nei confronti del principale e più forte alleato e coloro che, al contrario, vi scorsero motivi per una celebrazione della collaborazione giudiziaria e politica tra Italia e Stati Uniti.

Quantomai opportuna giunge perciò la pubblicazione del libro Un patriota siciliano di Giannicola Sinisi che di Falcone fu stretto collaboratore nel periodo in cui questi lavorò come direttore degli
affari penali al ministero della giustizia. L’autore, a suo tempo, potè giovarsi della fiducia e della familiarità professionale di Giovanni Falcone, mentre, di recente, ha potuto finalmente accedere a documenti a lungo secretati in quanto “classificati” nel lessico dei servizi di intelligence e del Dipartimento di Stato americano. Si tratta di cablogrammi e scambi epistolari che registrano le comunicazioni degli ambasciatori e dell’Ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato nel periodo in cui si succedettero gli ambasciatori Maxwell Raab e Peter Secchia, fino a lambire l’arrivo e l’avvicendamento con Donald Bartholemew.


Che Falcone godesse della stima di ambienti americani – funzionari del FBI e dirigenti del Dipartimento di Giustizia – come di singoli giudici e procuratori, era cosa abbastanza nota. Molto meno noto il fatto che gli americani considerassero Falcone non soltanto come il leader del Pool antimafia, dunque come il vero protagonista, motore e ispiratore della strategia antimafiosa impostata a Palermo, ma anche come un collaboratore fondamentale per la loro lotta alla Cosa Nostra americana, a partire dalla celebrata operazione detta “Pizza connection” all’altra, non meno importante ma meno celebre, detta “Iron Tower”. Sulla base di queste esperienze si sviluppò un rapporto di collaborazione e di fiducia concretatosi nello scambio continuo di informazioni e di aggiornamenti non solo su singole inchieste e su singoli personaggi, ma una vera e propria rete di conoscenze e di relazioni comuni, a diversi livelli. Rete fecondissima nel produrre azioni e risultati di contrasto alla Cosa Nostra che, purtroppo, per prima e da tempo agiva sulle due sponde dell’Atlantico, ricavando dalla sua internazionalità enormi possibilità criminali, vantaggi e profitti legati soprattutto al narco traffico. Ciò spiega non soltanto l’interesse, ma la vera e propria partecipazione con la quale gli americani seguivano i progressi delle indagini di Giovanni Falcone sulla Cosa Nostra siciliana. Non si trattava soltanto di adesione e di simpatia per un collega e per un amico. Il punto è che gli americani sapevano di poter ricavare dal lavoro di Falcone informazioni, notizie, stimoli utili anche alle loro indagini.
Agli esempi più noti di collaborazione “atlantica” narrati nel libro aggiungo i tratti essenziali di una vicenda che mi colpì molto e che mi fu raccontata dallo stesso Giovanni.


Intercettando conversazioni telefoniche tra boss palermitani e boss americani di New York e del New Jersey, Falcone apprese dalla loro viva voce che questi ultimi chiedevano agli amici, ai parenti, ai compari palermitani di inviare nuove reclute, “soldati di sangue nostro, sangue siciliano” per reagire all’inquinamento creato tra le fila della Cosa nostra americana dal reclutamento di criminali di scarso spessore e di scarso affidamento provenienti da etnie diverse con costumi e regole meno rigide di quelle proprie e comuni alla Cosa nostra americana e a quella siciliana. Ristabilire con il primato siculo americano le regole omertose e l’affidamento professionale alterati da troppe reclute di etnie diverse era l’intento dei boss americani e a loro i fratelli siciliani prontamente prestarono soccorso. Falcone informò i colleghi americani sicché le giovani reclute e i nuovi soldati che dovevano rinsanguare la Cosa Nostra americana, imbarcati a Palermo, appena sbarcati negli aeroporti americani trovarono ad attenderli i confratelli mafiosi, e gli uni e gli altri vennero immediatamente presi in cura dal FBI.
La fiducia che si instaurò, fortificata da tante prove affrontate insieme sui campi di battaglia, spiega come mai gli americani seguissero con tanto interesse non solo i progressi di Falcone nelle sue indagini a Palermo e in Sicilia, ma – e si tratta di uno dei contributi più originali del libro di Sinisi – la partecipazione con cui analizzarono e commentarono anche le vicende interne alla magistratura palermitana e i conflitti che insorsero tra Falcone e quelli tra i suoi colleghi che lo contrastavano o perché vittime di approcci giuridici obsoleti o perché animati da gelosie, da rivalità e da risentimenti spesso legati a questioni di carriera. E si comprende altresì – osserva Giannicola Sinisi – che in America l’assassinio di Giovanni Falcone venne avvertito “come un attacco interno, una lesione e una minaccia agli sforzi che in quegli anni gli Stati Uniti stavano compiendo con notevoli risultati sul fronte del contrasto al crimine organizzato”.


La preziosa ricostruzione di Un patriota siciliano, pur scontando l’indisponibilità di una parte dei materiali ancora “classificati” cioè coperti da segreto, ci aiuta non solo a comprendere il punto di vista americano, ma a gettare nuova luce su ciò che effettivamente pensava Falcone circa alcune tra le più controverse e delicate vicende di casa nostra, e sul ruolo di diversi protagonisti.
Per esempio, gli avversari di Falcone, ma non solo loro, non gli perdonavano di aver accettato di lavorare al mio fianco al Ministero di Grazia e Giustizia nel governo Andreotti il più coriaceo e il più chiacchierato dei politici democristiani. Ebbene, ai suoi amici
americani Falcone dichiara la sua certezza circa “il sostegno senza riserve” di Martelli e quanto ai sospetti legami di Andreotti con la mafia replica: “ Andreotti può aver peccato per omissione non per commissione”.


Come è noto la guerra sul fronte dell’antimafia giudiziaria deflagra quando il Consiglio Superiore della Magistratura sceglie, come successore di Caponetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, anziché il candidato naturale, cioè Giovanni Falcone, il più anziano Antonino Meli. In questo modo – osservò Paolo Borsellino – diventava titolare della pubblica accusa nel maxi processo ormai alla prova di appello “ .. uno che al maxi-processo a Cosa Nostra non ci credeva”. Le conseguenze furono devastanti. E’ sempre Borsellino a commentare amaramente: “Cosa nostra si è riorganizzata come prima più di prima. La polizia non fa indagini, le iniziative sono frantumate in mille rivoli, il pool smantellato, non c’è più alcun coordinamento …”


In effetti, può sembrare incredibile ma la verità è che l’anno dopo la celebrazione del maxi processo – la prima grande sconfitta di Cosa nostra in un’aula di giustizia – il principale protagonista, Falcone appunto, anziché essere premiato veniva accantonato ed emarginato anche a seguito di “infami calunnie e di una campagna denigratoria di infinita bassezza” – si pensi in particolare alle lettere del cosiddetto “Corvo”. Falcone denuncia questo clima mefitico con una lettera al CSM e si dimette dall’Ufficio Istruzione.


Il 3 agosto di quello stesso 1988 l’ambasciatore americano a Roma,Maxwell Raab, in un cablogramma al Dipartimento di Stato americano lancia l’allarme: ”Se il comitato dell’antimafia del CSM ha sostenuto Meli nell’intento di abbandonare il metodo del pool per combattere la mafia, lo sforzo antimafia italiano potrebbe essere seriamente danneggiato e gli interessi degli Stati Uniti seriamente messi in pericolo”. Le stesse fonti diplomatiche riferiscono che nell’Ufficio palermitano pendevano numerose rogatorie per l’acquisizione di prove determinanti in processi importantissimi in corso di celebrazione a New York e a Washington. In particolare, “ .. nella più importante inchiesta avviata dai nostri due paesi l’allontanamento di Falcone potrebbe comportare la fine dell’inchiesta stessa .. Falcone è il giudice più esperto e più informato .. Falcone è il pool e il pool lo segue (is beyond him)”.


Viceversa “il piano Meli” veniva giudicato come un modo di smantellare il pool e di neutralizzare Falcone. Non dimentichiamoci che l’anno precedente, all’indomani del clamoroso successo dell’inchiesta congiunta sul narco traffico – la Pizza Connection -, Falcone era stato invitato a parlare al Congresso degli Stati Uniti. Onore senza precedenti mai riconosciutogli in Italia. Ma l’ambasciatore americano non si limita a informare i suoi superiori a Washington. Maxwell Raab, determinato a reagire, chiede udienza al Presidente della Repubblica italiano e gli manifesta la sua angoscia. Francesco Cossiga prende la questione a cuore, affronta il CSM di cui è presidente e ne contesta le scelte con tanta energia da costringerlo a una mezza retromarcia. Le dimissioni di Falcone vengono respinte e il presunto Corvo, cioè il magistrato Di Pisa, ma anche, con salomonica ipocrisia, Giuseppe Ayala stretto collaboratore di Falcone, vengono trasferiti da Palermo. In Italia la retromarcia del CSM dai più viene interpretata come una vittoria di Falcone. Molto più cauta e caustica l’interpretazione americana: “ .. i giudici antimafia italiani spendono più tempo a combattersi tra di loro che a combattere la mafia”. Del resto, ancor più severo fu il giudizio di Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia che, più unico che raro tra i comunisti ( ma i democristiani non erano da meno), non fece mai mancare il suo sostegno prima a Falcone e, poi, anche a me e al ministro degli interni Scotti. “Il CSM – scrive Chiaromonte – che ha pesanti responsabilità per la situazione del Palazzo di Giustizia di Palermo, assume una decisione che non esito a definire vergognosa. Un colpo al cerchio e uno alla botte .. A Palermo ho sentito dirigenti democristiani e comunisti dire su Falcone cose infami.”


In quello stesso periodo entrava in vigore il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli, che nelle intenzioni, superando il processo di tipo inquisitorio, intendeva introdurre in Italia il processo di tipo accusatorio, cioè il processo “all’americana, nello stile Perry Mason” come allora si diceva. A parte il divertito commento sulla circostanza che un serial televisivo diventava in Italia modello di una riforma della giustizia, l’ambasciata americana, evidentemente informata dell’impreparazione complessiva della nostra organizzazione legale e giudiziaria nell’imminenza di una riforma di tale portata, senza giri di parole, previde acutamente che “ne deriverà il caos”. Analogamente si era espresso Falcone preoccupato per i processi di mafia impostati col vecchio rito processuale che ora dovevano transitare al nuovo.


Anche la fase terminale dell’esperienza umana e professionale di Falcone, quella che lo impegnò come direttore degli affari penali al ministero della giustizia, trova precisi riscontri
nelle comunicazioni dell’ambasciata retta dal nuovo ambasciatore Peter Secchia. L’autore ha qui potuto giovarsi non solo delle carte de- secretate, ma della sua diretta esperienza al fianco di Falcone che l’aveva voluto con se.


Ma veniamo a un altro punto. A differenza di quel che molti – compreso l’autore di questo prezioso libro – dissero e continuano a dire, Falcone non “inventò e ispirò il modello della super procura antimafia”. Né la inventammo io o Vincenzo Scotti al tempo, rispettivamente, Ministro della Giustizia e Ministro degli Interni. La verità, come ho sempre detto, è che ne trassi ispirazione da una vecchia proposta del senatore Leo Valiani trovata tra le carte della Commissione Parlamentare Antimafia e rimasta per anni nei cassetti di quella commissione. Leo Valiani si era ispirato al modello del FBI americano e, forse anche per questo, la sua idea rimase lettera morta. Naturalmente il lavoro di trasposizione da un ordinamento, come quello americano, in cui il Ministro della Giustizia è contemporaneamente Attorney General (Procuratore Generale) che dispone del Federal Bureau of Investigation con i suoi agenti e i suoi procuratori, a quello italiano fondato sulla più rigida separazione tra esecutivo e giudiziario fu tutt’altro che semplice. L’unica soluzione possibile, alla quale collaborò con la sua cultura giuridica un grande magistrato come Loris D’Ambrosio in servizio al ministero, fu quella di istituire due strutture parallele e cooperanti. Una struttura di coordinamento dell’intelligence delle tre diverse polizie italiane (Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza) che chiamammo Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e una struttura nazionale di coordinamento dei pool distrettuali antimafia denominata Direzione Nazionale Antimafia (DNA), la cosiddetta Super Procura.
Dopo l’agitazione dell’Associazione Nazionale Magistrati che pochi mesi prima aveva indetto uno sciopero nazionale contro l’istituzione della Superprocura anche il CSM, ancora una volta, si mise di traverso e, anziché Falcone che io avevo candidato al ruolo di Procuratore Nazionale, scelse Agostino Cordova, procuratore a Palmi. Con il potere di dare o negare il concerto del Ministro alle nomine del CSM – potere che mi derivava dalla Costituzione e dalle leggi – bloccai la procedura, convinto che alla fine l’avrei spuntata e Falcone sarebbe diventato Procuratore Nazionale Antimafia.


Invece ci fu la strage di Capaci.


Il massacro di Falcone e della sua scorta ebbe un’eco immensa e in tutto il mondo fu vissuto come la più spaventosa delle tragedie dell’ingiustizia. L’Italia era squarciata, squarciata come quell’autostrada. Mi strinsi accanto i magistrati che più direttamente lavoravano con me al ministero, quelli che avevamo scelto io e Falcone e quelli, da Ilda Boccassini a Sergio Turone, che si offrirono di impegnarsi concorrendo con la loro professionalità e la loro passione civile a dare sostanza investigativa alla reazione dello Stato. Dovevamo reagire e sapemmo reagire, guidando e organizzando la risposta dello Stato, decretando con urgenza misure straordinarie. Ai provvedimenti e alle iniziative che avevamo impostato con Falcone ne aggiungemmo di nuove a cominciare dal 41bis nelle carceri e dall’invio dell’esercito a presidiare gli obiettivi sensibili anche per liberare le forze di polizia da questi compiti di modo che si potessero dedicare totalmente alle indagini.


Già all’indomani della strage ci era stata offerta totale collaborazione dal FBI e dal suo direttore, William Sessions. Lui e i suoi uomini vennero a Palermo offrendo collaborazione totale alle indagini sull’assassinio di un giudice che in America era stimato senza riserve, dunque assai più che da molti suoi colleghi magistrati italiani come da tanti politici e giornalisti. Gli uomini del FBI furono prodighi di assistenza tecnica e di consigli, sia in merito alle indagini, sia in in ordine ai provvedimenti da adottare in analogia con il RICO, la legislazione antimafia USA che come quella italiana prevede l’isolamento in carcere dei detenuti mafiosi che costituiscano un pericolo.
Grazie a un’intuizione di Sergio Restelli, mio amico e mio collaboratore al Ministero della Giustizia, affidai al FBI il compito di ricostruire il DNA dei killer, analizzando le tracce organiche rinvenute sui mozziconi di sigarette abbandonati là dove si era appostato il commando dei mafiosi terroristi che azionò timer della deflagrazione. Al tempo gli uffici giudiziari italiani non erano attrezzati per questo genere di indagine scientifica. Gli americani intercettarono anche brandelli delle conversazioni tra uomini della Cosa Nostra americana e di quella siciliana che commentavano con lugubre euforia “l’attentatuni” di Capaci.


I siciliani e tutti gli italiani non devono dimenticare chi è stato Giovanni Falcone e cosa ha fatto per loro e per tutti, e non devono dimenticare chi, uccidendolo, ha rinnegato ogni umanità. Uomini e donne comuni, magistrati e poliziotti, politici e giornalisti in America e in Giappone, in Francia e in Germania come in Oceania lo ricordano per le prove del suo genio e del suo coraggio. Grazie a lui tanti si sono sentiti orgogliosi di essere italiani e tanti siciliani hanno riscattato, con l’amor proprio, l’orgoglio della propria identità.


Non è difficile capire perché: Giovanni Falcone ha reso la lotta alla mafia più popolare della mafia. Giovanni è l’anti-padrino, l’eroe vero, un patriota siciliano.
Il libro di Giannicola Sinisi, un magistrato che molto ha imparato dal suo maestro Falcone, contribuirà, ne sono certo, a ristabilire molte verità dimenticate perché scomode e a fondare una conoscenze più ampia e meglio documentata della sua opera e della sua figura.

SARÀ HILLARY L’AMERICA DOPO OBAMA?

Nel lungo – per molti critici troppo lungo – passato politico di Hillary Rodham Clinton ci sono stati molti momenti difficili. A cominciare dall’essere transitata in gioventù nelle fila repubblicane addirittura come una fan e un’attivista di Barry Goldwater, probabilmente il più reazionario di tutti i candidati repubblicani sulla scena politica americana. Crescendo é diventata un brillante avvocato, si è sposata con Bill governatore dell’Arkansas e ha dovuto affrontare scandali devastanti. Donna di grande intelligenza e carattere, dotata di eccezionali capacità professionali e un’ambizione smisurata si è trovata al centro prima di un intrigo d’affari, di potere e di morte (il suicidio di un suo socio e collaboratore), poi dello scandalo provocato dall’avventura del marito presidente con una stagista della Casa Bianca. In entrambi i casi seppe reggere e governare la furia degli eventi esuperare l’umiliazione pubblica ricominciando da capo e risorgendo al successo. Senatrice di New York e poi segretario di Stato negli ultimi anni si accinge ora a competere per la Presidenza. Ha alle spalle vent’anni di scena pubblica e politica e appare come il personaggio politico più esperto e più accreditato, una democratica sostanzialmente non molto diversa da un repubblicano moderato, una donna determinata come un uomo molto determinato.

Tuttavia non credo che la sua campagna sarà una passeggiata e non solo per la presenza in queste elezioni della più estremista delle correnti conservatrici, quei tea-party della destra americana che non le daranno tregua sfruttando ogni ombra del passato e ogni umana debolezza passata, presente o proiettabile nel futuro di un presidente.

Per la sinistra del suo partito Hillary è troppo legata all’establishment economico, mediatico, di potere; per i repubblicani non solo è l’ex first Lady del fortunato e scandaloso Bill, ma soprattutto la prima autrice della odiata riforma sanitariapubblica che solo Obama riuscirà a portare a un controverso risultato.

Già, quell’Obama che la sconfisse e che per riunire il partito le offrì – volente o nolente – la Segretaria di Stato, l’equivalente americano del nostro Ministero degli Esteri. Come atteggiarsi con l’eredità di Obama? Se Hillary prende troppo le distanze da un presidente amato e respinto rischia di allontanare i suoi seguaci e i suoi ammiratori che hanno vinto nel 2008 e nel 2012 rinnovando la costituency democratica, la sua base elettorale con una coalizione fatta di neri, ispanici, donne, poveri, gay mobilitata a un sostegno elettorale attivo e a una impressionante raccolta fondi via Internet che sbaragliò le ricche donazioni dei milionari repubblicani. Se, viceversa, Hillary sarà troppo coerente e in continuità con Obama ne erediterà anche l’immagine d’incertezza e, a detta dei suoi nemici, di ritirata dai fronti caldi e di rassegnato pacifismo in politica estera. Sul piano economico viceversa i successi di Obama segnano una strada utile e percorribile anche per Hillary se Hillary vorrà mantenerla.

Tradizionalmente, negli USA, nessun partito ha mai conquistato un terzo mandato presidenziale consecutivo, ma c’è sempre una prima volta e, sempre, a fare la differenza in uno scontro diretto è la personalità dei candidati.

Hillary e il suo staff sono certamente consapevoli di tutti questi fattori e condizionamenti e opportunità divergenti. Aver deciso di annunciare la candidatura non con un big event politico e spettacolare con le grandi personalità democratiche e un corteo di stars holliwoodiane, ma con un umile annuncio su YouTube è già una scelta caratterizzante: il mezzo è il messaggio e usare YouTube significa scegliere al posto delle grandi catene televisive la forma di contatto e di comunicazione più umile, più semplice e più diretta, più individuale e più di massa. Mi sembra un buon inizio proprio perché contro corrente rispetto allo stile dei Clinton un po’ troppo provinciali, un po’ troppo benestanti, un po’ troppo piacioni. Allora chi o cosa, al netto di candidati competitivi che ancora non ci sono, potrà insidiarla davvero?

“Guardatela, è brutta e vecchia, mica possiamo passare i prossimi quattro anni a guardare le sue rughe che si infittiscono e scavano solchi sempre più profondi sul suo viso”.

Fu l’ultimo argomento, nel 2007, della propaganda repubblicana contro Hillary Clinton, prima donna candidata alle primarie democratiche per conquistare la presidenza degli Stati Uniti d’America. L’argomento della giovinezza e dell’avvenenza che se ne vanno fu usato da un giornalista mediocre e fazioso commentando una foto impietosa della ex first Lady colta al termine di una massacrante giornata di campagna elettorale, quando lo sfinimento ti rifà i connotati. Oltretutto un argomento così subdolo può essere efficace solo se rimane non detto, subliminale. Diversamente, se lo si urla, se si infierisce, se si strumentalizza un attimo di défaillance fisica ed estetica si ottiene l’effetto contrario. Come chi si accanisse su un portatore di handicap finirebbe col suscitare una reazione indignata contro se stesso e un sentimento di compassione e di solidarietà verso la vittima. Insomma, attaccarsi all’età e all’aspetto dell’avversario può risultare impopolare e controproducente. Sembra chiaro, quasi ovvio, almeno finchè restiamo sul piano razionale. Tuttavia, sull’inconscio di massa, bombardato dalla pubblicità di corpi scultorei e di volti radiosi come dall’assordante, insignificante chiacchiericcio in cui siamo immersi quell’argomento cosi politicamente scorretto e così umanamente sgradevole qualche effetto lo può avere ancora come l’ebbe nell’ormai lontana competizione del 2007. Hillary aveva sessant’anni e il suo volto per un momento trasmise tutta la fatica e quasi l’intollerabilità fisica ed estetica di uno stress prolungato.

Da allora, da quell’episodio, sono passati otte anni, gli anni di Obama che nelle primarie del 2008 sconfisse Hillary e la macchina elettorale dei Clinton. Da oggi, giorno dell’annuncio della sua nuova candidatura, passerà un altro anno e mezzo tra primarie democratiche ed elezioni presidenziali.

Al momento sembra non avere nel suo partito rivali in grado di impensierirla. Ma anche nel 2008 partì favorita rispetto ad Obama che molti consideravano un candidato impossibile. E, comunque, anche se Hillary vincesse le primarie del suo partito e diventasse la candidata presidente inevitabilmente, inconsciamente, non pochi elettori si chiederanno con quale volto, con quale energia, con quale resistenza alla fatica e allo stress nervoso una donna non più giovane guiderà la nazione più potente del mondo.

Negli ultimi ventiquattro anni tre presidenti – Clinton, Bush, Obama – hanno trasmesso un’immagine di giovinezza, di energia, di disinvolta supremazia sulla fatica mentre quella foto ha inciso un’immagine di fragilità e scoperto un punto debole della determinatissima Hillary.

Un punto debole che gli otto anni in più renderanno più evidente.

Un messaggio insidioso che non va sottovalutato né frainteso.

Non è più tanto una questione di estetica, né di età, né di genere. In Germania, in Brasile, in Argentina hanno vinto, hanno governato e governano con piglio robusto donne meno avvenenti della Clinton. Quel che l’istantanea invecchiata di otto anni ha fissato ed esasperato, quel che resta impresso nella memoria non è un inestetismo: è qualcosa di molto più insidioso é l’immagine di un cedimento.

La civiltà dell’immagine esige che tu sia sempre sorridente e, soprattutto, sempre in forma: il prezzo del successo non fa sconti. Se fossi nel team elettorale della Clinton mi preoccuperei di prevenire ed allontanare un rischio simile, il rischio di un nuovo cedimento, prima che un sondaggio onesto o disonesto la diano per perdente. Ormai lo sappiamo: i sondaggi possono aggravare lo stress, lo stress può peggiorare i sondaggi.

IL MALE OSCURO DI ANDREAS LUBITZ

Quando la dimensione interiore di un uomo è talmente devastata da diventare nei suoi atti e nelle sue conseguenze tragicamente, fragorosamente, collettiva perfino la tendenza ormai istintiva a giudicare cercando colpevoli e responsabili sembra fermarsi, esitare, quasi paga di spiegare il disastro come “il gesto di un folle”. Secondo tutti i commentatori, un atto deliberato come quello di Andreas Lubitz – distruggere l’aereo con 149 passeggeri che stava pilotando – presuppone una piena consapevolezza e capacità di controllo. Tuttavia, in assenza di moventi terroristici, le prime indagini chiamano in causa un episodio passato di depressione generata da stress o da pene d’amore. Senonchè una depressione causata da stress lavorativo o da una pena d’amore può condurre a un delitto passionale, persino al suicidio, ma non obnubila il sensorio, non maschera la percezione della realtà, non motiva la lucida e tranquilla esecuzione di una strage.


Allora, proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se Andreas Lubitz fosse sopravvissuto alla strage che ha provocato. L’avrebbero dichiarato colpevole o non colpevole in quanto incapace di intendere e di volere? Chiariamo questi due concetti: la capacità di intendere è l’attitudine dell’individuo a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce. La capacità di volere,consiste nel potere di controllo dei proprio stimoli e impulsi ad agire. Viceversa, come abbiamo detto, secondo la legge, il soggetto incapace di intendere e di volere non è imputabile. In apparenza Andreas sapeva perfettamente ciò che stava compiendo e ha realizzato il suo piano utilizzando i mezzi idonei al fine, dunque si direbbe perfettamente in grado di intendere e di volere. Se fosse vivo non potrebbe perciò contare sull’argomento principe cui talvolta ricorrono gli avvocati difensori per giustificare azioni efferate e malsane,appellandosi a quello che – nel gergo dei medici legali – si chiama vizio, parziale o totale, della mente. Viceversa, io penso che, mai come in questo caso, il caso dell’Airbus della Germanwings, si dia giustificazione più veritiera proprio dell’incapacità di intendere e di volere. Naturalmente, purché non si chiami in causa un remoto episodio di depressione, ma qualcosa di molto, molto più distruttivo. Solo la disintegrazione completa della vita mentale, la scissione totale dei processi psichici e l’asservimento a quella voce “dentro”, a quella persona, entità o immagine che vive all’interno di noi stessi e condiziona i nostri pensieri e le nostre azioni può aver spinto Andreas a concepire e attuare il progetto di quell’Io maggiore e, per così dire, “malefico”.


Ebbene, questo tipo d’insanità si chiama schizofrenia e non ha niente a che vedere con la depressione o l’esaurimento, il burn-out. La schizofrenia, da quando è stata scoperta e studiata a partire dall’800 è considerata il cancro della psichiatria. Una patologia micidiale che comprende un gruppo di disturbi mentali, di natura psicotica, clinicamente eterogenei, ma che hanno in comune un nucleo patologico primario: la scissione dei processi associativi e, quindi, della personalità, per cui le funzioni psichiche operano indipendentemente dalla realtà in un crescendo di deliri e di allucinazioni – soprattutto uditive, ma anche visive e tattili – fino a disintegrare completamente la vita mentale. Se questa ipotesi corrisponde al vero, Andreas, chiusosi nel cockpit, potrebbe aver avuto un “altro” compagno di viaggio, nella sua mente ben più reale del comandante ormai escluso e del tutto impotente. Questo compagno, incarnato da un’allucinazione – una voce o un’immagine – che l’accompagnava continuamente, potrebbe avere preordinato di attuare l’insano gesto. Solo uno stadio avanzato di schizofrenia può spiegare l’apparente contraddizione tra la follia del progetto dell’Iomaggiore e la lucidità delle azioni di Andreas.


Ora possiamo tornare alla domanda iniziale: chi è responsabile? E’ accettabile che nessuno abbia indagato a fondo sull’integrità psichica di Andreas? E’ possibile che nonostante i moniti dell’autorità aereoportuale che esigevano il suo costante monitoraggio Andreas abbia continuato a pilotare come se niente fosse? Come e chi ha sottovalutato il rischio? Pilotare un jet è come essere in possesso di un’arma di distruzione di massa che con un sol colpo può sterminare, anzi polverizzare 150 esseri umani. Chi ha lasciato quest’arma nelle mani di un folle? Difficile sfuggire all’impressione che siano coinvolte responsabilità molteplici, dall’imperizia dei medici alla negligenza della Lufthansa, a tutti coloro che hanno autorizzato a volare un pilota che aveva bisogno di stare con i piedi ben piantati in terra, di essere tenuto per mano, di essere rassicurato e, soprattutto, curato.

LE MOLTE VITE DI MASSIMO FINI

Entrò in classe, la Terza C, una mattina di novembre ad anno scolastico già iniziato, ragazzino spettinato, disordinato, ma quasi austero, come i liceali di quel tempo, ribelli in giacca e cravatta. Lo riconobbi subito mentre ancora esitava, in piedi, intimidito, cercando con lo sguardo dove andare a sedersi. Non so se l’avete mai provato, ma poche esperienze come quella di essere aggregato, tu solo e in ritardo, a una comunità o classe di tuoi coetanei già affiatati, trasmettono, con l’imbarazzo di sentirsi diversi ed esaminati, un senso di indifesa estraneità. “Trovati un posto, sbrigati – intimò il prof d’italiano al nuovo alunno – stiamo facendo lezione!”. Poiché lo conoscevo e lì ero un principino, mi alzai, spinsi i libri e le mie cose sul banco verso la parete e gli indicai la sedia a fianco accanto all’altro banco. Mi raggiunse e mi diede la mano sospirando, ”Almeno uno lo conosco”.

A dodici, tredici anni, avevamo giocato insieme a calcio, all’oratorio dei padri salesiani, quelle partite che cominciavano in trenta e più giocatori divisi in due squadre che via via si assottigliavano fino a che i superstiti non venivano reclamati dal prete o da genitori spazientiti. Invece i resistenti a oltranza ricominciavano coi palleggi e, quando non li interrompeva il pallone sgonfiato o il sacrestano, continuavano oltre il tramonto, veri stakanovisti, a fare tiri in porta anche senza portiere.

Lui abitava lì vicino – la “casa dei giornalisti”- come gli altri ragazzini con cui arrivava e se ne andava. Facevano gruppo scambiandosi e commentando la Gazzetta dello sport, e giornali con le firme o le vignette dei loro padri e, con i ragazzi di altre classi sociali, ostentavano un’insopportabile arietta di superiorità. Poi scoprii che anche tra di loro le promesse di amicizia sacra e indissolubile si alternavano a scatti di rivalità, liti infantili, gelosie adolescenziali. Non ho mai avuto voglia di frequentarli, nessuno, salvo Massimo, a partire dal giorno in cui lo vidi prendere le difese di un piccoletto pestato da uno del suo gruppo, il più grosso.

Andammo a casa sua e la cosa che più mi colpì e gli invidiai fu che, figlio unico e orfano di padre, quando la mamma era assente aveva tutta la casa a disposizione. Su un tavolo teneva fissata una tela o tovaglia e, sopra, sparsi o impilati, era pieno di “tollini” (tappi di bottiglia) sul cui fondo incerato aveva incollato etichette di giocatori di tutte le squadre. Una play station fatta a mano, preistorica, artigianale anticipazione delle play station digitali e virtuali, su cui giocano oggi con i loro amici i nostri figli e nipoti. Era mezzo secolo fa, a Milano, oratorio dei Salesiani, Liceo Classico Carducci, casa dei giornalisti.


LE MOLTE VITE DI MASSIMO FINI     di Claudio Martelli


Mezzo secolo dopo Massimo Fini ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo più semplice immaginabile, “Una vita” (Marsilio, 2015). Leggendola mi sono accorto che del mio compagno di banco, dell’amico con cui ho fraternizzato e duellato per tanti anni, correndo ciascuno la sua gara, ciclicamente incrociando – destino o carattere che sia – l’uno la strada dell’altro, insomma, della sua vita, io, in realtà, ho sempre saputo troppo poco.

Bisogna dire subito che l’autore mantiene la promessa: dentro il suo libro c’è vita, molta vita, anzi, più vite. Più vite perché più esperienze intense e incisive l’hanno ingaggiato e assorbito su più fronti per poi essere riaperte e sezionate, come su un tavolo anatomico ed esibite sul banco, umana troppo umana mercanzia. Più vite scandite così dalle proprie personali date fatali come dalle epoche che abbiamo attraversato, quelle indispensabili a occupare mezzo secolo. Ma più vite anche in un altro senso.

Più vite da vivere contemporaneamente è molto più complicato che più vite vissute successivamente.

Quando parla di sé e di chi o di cosa nel mondo gli è stato famigliare, quando racconta di suo figlio e di sua madre, di altre donne e uomini, di quale umanità l’abbia fatto amare e odiare e da cui si sia sentito amato, trascurato, abbandonato, è allora che Fini ci coinvolge e ci tocca dentro come una spina, come una canzone. Come quando parla della nostra Milano degli anni sessanta – i primi (non gli ultimi, i cosiddetti “formidabili” di Mario Capanna), anni aperti e luminosi, costruttivi e contrastati in una Milano tutta da camminare, da esplorare, da toccare con mano, da cantare. Come quando parla della casa di famiglia, del babbo importante e della madre severa, di molti insegnamenti e di poca affettività. Della casa in cui ha sempre abitato e continua ad abitare, Massimo fa brillare un divano rosso, che, per molti, intervistati o semplicemente incontrati, si fece lettino di psicanalista, confessionale senza liturgia di uno che ti fa parlare rivelandosi, lui, più dell’ospite di turno, debole e colpevole di delitti del cuore, dei sensi, dell’indole. Colpe e debolezze oneste, le sue, perché irresistibili, ancestrali, ataviche. Dunque perdonate in partenza, Le sue, ripeto, non certo le colpe degli altri. Che, dopo un po’ di tempo, su un giornale, magari le trovavi spiattellate senza tanti riguardi. Decisamente Massimo è meno complice di come sembra.

Tecnica proibita, e si capisce perché, agli addetti associati alle varie confessioni cristiane e alle varie scuole freudiane, junghiane, kleiniane e chi più ne ha più ne metta. Ma, infine, un terapeuta più afflitto del paziente e però capace di consolarlo non è cosa da poco, soprattutto non è cosa da scuole o accademie di dottori affiliati e disciplinati da norme, codici e statuti.

Questo si capisce leggendo questo libro, ma questo dice poco della cosa più importante di “Una vita”: la scrittura. La sua scrittura, restando incollata alla realtà, si fa qui disinibita, vorticosa, aggressiva e, come aderendo alla sua condotta, alla sua caccia grossa di sensazioni, di barriere da scavalcare e di ebbrezze autodistruttive, ti contagia di temerarietà, per farti salire sulla sua giostra.

La differenza tra Fini scrittore e Fini giornalista è che, mentre negli articoli di giornale il bersaglio è sempre qualcun altro, nel suo ultimo libro il bersaglio su cui si accanisce è se stesso. Per quanto sia bravo come giornalista, saggista, polemista e ritrattista solo qui, diventato scrittore, tocca corde che vibrando fanno male, male vero, solo ad ascoltarle. Come assistere a un harakiri senza poter far nulla.

Se nel giornalismo Massimo si è occupato di personaggi e storie varie in modo quasi sempre polemico, come saggista ha spostato la polemica sull’attualità stessa, sempre più spesso facendo ricorso al pozzo del passato e alle sue risorse contro i moderni, i loro pregiudizi e le loro contraddizioni tanto arroganti quanto inspiegate. Così è diventato uno scrittore reazionario, oscurantista, retrò pur sempre coerente con il giornalista assediato dal fastidio, dal fardello, dalla miserabile ipocrisia dei contemporanei.

Rassicuro: Massimo sa indirizzare benissimo la sua penna dove vuole e come infierisce su di se, così sa anche gratificarsi e complimentarsi per una vita condotta all’insegna dell’onestà, del disinteresse, dell’indipendenza dal potere e dai suoi uomini. Rivendicazione più che legittima da parte di chi è stato censurato, denunciato, licenziato pagando non so quante volte il prezzo della coerenza. La coerenza, ahinoi, è una virtù a se, una virtù che parla di noi stessi, ma non dice nulla della realtà. Infatti, si può essere coerenti anche nel vizio, nella colpa, nella pigrizia e nei delitti: solo per questo saremmo anche virtuosi?

Impudico, Massimo racconta di se e dei suoi sensi di maschio etero e omo, seduttore sedotto e, infine, deluso dalle sue conquiste femminili. Come intreccia prosa on the road e prosa colta, all’ombra di Rimbaud e di Celine, così, mentre aspira alle virtù borghesi dei benpensanti non rinnega il vizio di esistere, di voler esistere senza limiti, senza cedere mai né alla fede né alla dea ragione. Tantomeno alla politica per lui sinonimo di potere, anzi, degli uomini di potere dell’odiato occidente – quasi un equivalente dell”odiata nazione” del Jules Verne di “Ventimila leghe sotto i mari”. Contro di loro – i potenti, i contemporanei, i conformisti – è persino ovvio, Fini dà sempre ragione agli altri, a tutti gli altri, da Catilina a Nietzsche, dal Mullah Omar a Beppe Grillo.

Dopo la discesa agli inferi delle notti insonni e degli incontri burrascosi viene anche per lui l’ora di lusingarsi, collezionando interviste e ritratti a gente famosa, a very important people. Qui il libro si fa più glamour, più studiato e quindi freddo. Da non pochi di questi incontri professionali lo scrittore riemerge giornalista un po’ troppo soddisfatto di essere così coraggioso e ribelle, implacabile o magnanimo a suo gusto, registrando compiaciuto anche le adulazioni e tenendo stretta, per sé, l’ultima parola, il commento definitivo. Sono registri di giornalisti avvezzi a fare ‘carrellate’ di personaggi di cui dispensare bozzetti fatti in giornata, per l’obbligo di consegnare il pezzo, come disegnatori di piazza. Ma era cosa giusta e onesta che in “Una vita” non mancasse il Fini giornalista che immagino sia per alcuni anche il più conosciuto e che, certo, aiuterà il successo del libro di uno scrittore vero.

Massimo sta diventando del tutto cieco. Ha scritto desolato che non potrà più scrivere. Non è vero, si sbaglia: può imparare il linguaggio dei ciechi, può usare le tecnologie che trasformano la voce in scrittura e le applicazioni che consentono ai ciechi di correggere i propri testi. Non si deve avvilire perché non vede, tantomeno annullare. So che a nessuno basta mai, ma lui ha visto tantissimo, quasi tutto quel che un uomo ha da vedere. Ha bisogno di un po’ di tempo per ritrovarsi nello spaesamento, per sopportare la mancanza del senso perduto e per potenziare e affinare l’udito, il gusto, l’olfatto e il tatto. Ha certo bisogno di compagnia, di molte voci, magari di radio a cui parlare oltre che da ascoltare, insomma, ha bisogno del suo lavoro, dei suoi famigliari e dei suoi amici e anche dei suoi nemici, oggi molto più di prima. Questa può diventare una cosa bellissima: è possibile, dipende, se … “solitaire et solidaire”, come diceva di sé Albert Camus, ed io ho detto di Massimo – dipende se, solitari e solidali saremo anche noi, gli altri, gli amici e i suoi lettori.

BERLINGUER

Se come diceva Benedetto Croce “La storia è sempre storia presente”, il dovere della ricostruzione resta fondamentale soprattutto da parte di coloro che di questa storia hanno fatto parte.

In questa intervista esclusiva per Daringtodo Claudio Martelli, che fu a lungo avversario politico di Enrico Berlinguer, ripercorre con equilibrio e con misura critici la parabola del più amato tra i segretari comunisti.

Dal compromesso storico alla questione morale all’eurocomunismo, Martelli mostra meriti e limiti, aperture e contraddizioni del pensiero e dell’azione di Berlinguer nel contesto italiano a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, fino al momento tragico della sua morte in pubblico nel corso di un acceso comizio elettorale.

Una morte che sembra fondere insieme, indelebilmente, gli elementi opposti, per così dire religiosi, della lotta politica dal sacrificio di sé spinto sino al martirio alla ubris della violenza polemica spinta sino dell’empietà.