Cronache Vintage – Riflessioni semiserie su un matrimonio immaginario

Ho detto a mia nonna che io non mi sposo con l’abito bianco:

– “E come ti sposi allora?”.

– “Non mi sposo “.

– “Ma che schifo di mondo è mai questooo? E dove andremo a finireee? E il corredo che cosa l’ho comprato a fareee?”.


Ebbene, questa è stata la conversazione avuta con “grandmother” qualche tempo fa. Effettivamente, io non penso al matrimonio nella maniera tradizionalmente concepita, non aspiro a percorrere la navata abbigliata da meringa, non riesco neppure ad immaginare il giorno in cui qualcuno mi chiederà, inginocchiandosi con BRILLANTE alla mano, di sposarlo, per trascorrere insieme il resto dei nostri giorni. Insomma, non so nemmeno se riuscirò a portare avanti fino alla settimana prossima la dieta appena cominciata! Sono sicura che fuggirei come Maggie aka Julia Roberts in RUNAWAY BRIDE, per lasciare il malcapitato all’altare. Dai, non è bello.


Ad ogni modo, nonna era seriamente turbata, la sua drammaticità mi ha fatto buttare giù il telefono che avevo ormai le palpitazioni. E allora ho respirato a pieni polmoni, mi sono tuffata sul letto fissando il soffitto e ho cominciato a fantasticare: “Chiara, sforzati di pensarti IN BIANCO!”.


Lady Diana buonanima indossò un abito in taffettà di seta color avorio e pizzi antichi, con uno strascico di 7,62 metri (dettaglio da non ignorare), valutato all’epoca per circa 9 mila euro. Presentava decorazioni con ricami fatti a mano, paillettes e nientepopodimeno che diecimila perle. Semplice, insomma. E siccome la coppia regale si presentò dinanzi al prete nel 1981, i designer, David ed Elizabeth Emanuel non poterono esimersi dall’aggiungere maniche a sbuffo e gonna balloon. L’abito passò alla storia, Diana era bellissima, ma quello scemo di Carlo si era già infiammato per Camilla e tutti quei metri non trattennero la principessa triste a corte…Il resto lo conosciamo e l’abito lo scartiamo.


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Quindi mi è venuto in mente un altro sposalizio celebre, quello di Jacqueline Lee Bouvier con il futuro Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Correva l’anno ’53, i due erano giovani, belli e aristocratici, tutti ne parlavano, tutti ne avrebbero straparlato! Jacqueline doveva essere stratosferica, confermando la sua eleganza:  Ann Lowe, stilista afro-americana, già in voga ai tempi nell’aristocrazia di New York, realizzò per lei un vestito in taffetà di seta color avorio, con un’ampia gonna e il corpetto drappeggiato con scollo a cuore. Particolarità della gonna furono le applicazioni di stoffa a formare ampi fiori concentrici e piccoli petali in cera nella parte inferiore. A completare il vestito, il velo in tulle fissato ai capelli con boccioli d’arancio. Sublime. Poi Marilyn Monroe si mise a cantare Happy Birthday Mr. President e le fuitine non si contarono più su una mano sola. E Jacqueline comprese che la classe non  trattiene un fedifrago!


 

Non mi rimane che ispirarmi a quella donna anticonformista che fu Wallis Simpson. Nel 1934 era l’amante di Edoardo di Windsor, principe di Galles ed erede al trono britannico. Aveva un divorzio alle spalle e uno in corso. E non le scorreva sangue blu. Edoardo divenne re e poi abdicò per sposarla. Che moderno! Il giorno delle loro nozze Wallis si mise sù un abito pensato per lei da Mainbocher, in un color carta da zucchero inventato appositamente dallo stilista come omaggio ai suoi occhi (e infatti fu rinominato Wallis Blue). Le arrivava fino ai piedi, con maniche lunghe, un drappeggio davanti e una fila di bottoni sul il busto. Contemporaneo, raffinato, perfetto. Duca e Duchessa, so glamourous, condussero una vita mondana, furono immortalati sui giornali, non badarono a spese per godersela molto.


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Voglio quel vestito e quel marito. E corro a dirlo a mia nonna!

Mi chiamo Vivian Maier e questa è la mia storia

Mi chiamo Vivian Maier, sono nata a New York il 1º febbraio 1926. Mio padre Charles Maier aveva origini austriache, mia madre, Maria Jaussaud, francesi. I miei genitori si conobbero proprio a New York, papà lavorava in una drogheria, mamma era da poco giunta in America, avendo lasciato Saint-Julien-en-Champsaur. Si sposarono nel 1919, un giorno di un piacevole maggio e nel 1920 nacque mio fratello William Charles, a cui diedero, sei anni dopo, una sorella, Vivian. Io. 


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Poi i miei decisero di lasciarsi e non ne ho mai compreso il motivo, il senso di una famiglia è stare insieme. Unita. Per sempre. Invece William andò dai nonni, io rimasi con mamma e insieme trovammo ospitalità nel Bronx, da una sua amica, Jeanne Bertrand, francese anche lei. Jeanne era fotografa per professione e quell’incontro fu per me determinante: mi trasmise la sua passione, che finì per divenire anche la mia. Noi tre, insieme, andammo in Francia, tornammo dove mamma era nata. Lì trascorsi un bel pezzo di vita, la mia infanzia “consapevole”, lì giocavo con le altre bambine, lì parlavo la loro lingua. Ma poi mamma decise di tornare a New York, prendemmo una nave enorme e per giorni le onde ci cullarono, alleviando la tristezza. Ancora una volta radici che venivano sradicate. Io poi ci andai ancora in Francia, una volta a 24 anni, forse 25. Mi era stata lasciata in eredità qualcosa di cui non ricordo, ma era molto importante che la vendessi. Quei giorni mi servirono per “amare” ancora quella terra e un pezzo di famiglia che abitava sempre lì.



Ebbene, raggiunsi New York nel 1951, e con il mio gruzzolo acquistai una Rolleiflex, una macchina fotografica eccezionale. Avevo urgenza di immortalare cose, persone, luoghi. Quindi mi spostai nel Nordamerica. Dovevo viaggiare,  dovevo conoscere. Lo feci, nulla mi rendeva più viva. Ma avevo bisogno di soldi, la fotografia era la mia fiamma, ma non il mio cibo. Allora raggiunsi Chicago e qui fui assunta dai coniugi Gensburg come bambinaia, dovevo badare ai loro tre ragazzi, John, Lane e Matthew. Lane mi adorava, le sembravo una tata magica. E in effetti, io compivo qualcosa di magico, in un piccolo bagno della loro casa, che era divenuto per me un luogo prezioso: sviluppavo le mie foto. Quegli anni furono prolifici; andavo nei parchi coi “miei” bambini e scattavo, passeggiavo per le strade e scattavo, andavo a fare la spesa, a svolgere delle commissioni, andavo a pensare, andavo a leggere e scattavo. Una volta, ero sull’autobus, guardavo fuori dal finestrino e d’un tratto vidi una donna di una bellezza sofisticata, portava una collana di perle, aveva delle sopracciglia perfette per un volto perfetto, indossava un soprabito elegante, guardava in un punto, ma sembrava fosse persa. Rubai quello sguardo.


Port Street


Un altro giorno, invece, ero diretta al mercato della frutta, avevo davvero voglia di frutta… ma mentre camminavo mi superò una coppia, lui portava una cintura in pelle intrecciata, lei era vestita all’ultima moda… un abito a righe, la vita segnata, un bracciale. Ad un tratto lui le prese la mano. Quel gesto mi toccò, mi rapì, lo desideravo. Forse per me. Allora lo volli, me lo portai a casa. E mi dimenticai della frutta.


New York, 1954


Ma riecco la brama di luoghi sconosciuti… L’avevo messa a tacere nel frattempo, ora chiedeva di essere soddisfatta. Di nuovo. Era il 1959. Dissi ai Gensburg che avrei dovuto lasciare Chicago per qualche mese, forse accennai loro di una parente ammalata, in Francia… non so. Di certo non avrebbero potuto capire… Comunque ci sarei andata in Francia, certo, ma prima visitai le Filippine, la Thailandia, lo Yemen, l’India, l’Egitto. Fu meraviglioso. Culture a me ignote, popoli lontani, mari e foreste e templi e storie. Dio mio, quanta bellezza. Quando tornai a Chicago, lavorai ancora per i Gensburg, ma presto i miei bambini furono adulti e non ebbero più bisogno di me. Separazione. Mia mamma morì nel ’75. Separazione. Ero sola. Perché i legami importanti finiscono. Sempre. Sopraggiunge la crescita. O la morte. O la fine di un amore, come fu per mamma e papà. Continuai a fare la governante anche in seguito. E continuavo a fotografare. Fu la volta della bambina bionda, con la testa piena di riccioli e un sacco di lacrime a rigarle il volto. Volevo raccontare la sua innocenza e la libertà che solo i piccoli posseggono (per esempio di piangere disperatamente, per strada, non curandosi dello sbalordimento degli altri).



Ma sapete, i bimbi possono essere anche consapevoli. E seducenti. Lo vedete questo ragazzino qui sotto? Quando si accorse che volevo ritrarlo, beh, si mise in posa. Capelli impomatati, maniche risvoltate, atteggiamento da duro. E sguardo ammiccante. Sembrava che volesse dire: “Ehi, signora, ce l’ha con me?”.Un ragazzino che giocava a fare il grande. Lo adorai. E subito perpetuai un pezzo della sua infanzia.



Ovunque lavorassi, portavo con me il mio materiale, le mie foto, i mie negativi. Era tutto quello che possedevo. Lo feci anche quando mi presi cura di Chiara (Bayleander), un’adolescente con handicap mentale. Volli molto bene a Chiara, provai un grande dolore per la sua malattia, lei non sapeva in che mondo straordinario vivesse. Io sì. Per questo usai la fotografia, per immortalare l’incanto di tutto quanto mi circondava. Non m’interessavano le grandi imprese o i grandi uomini, io volevo ricordare per sempre la normalità, la quotidianità degli sconosciuti. La mia era così semplice. E solitaria. Scattai delle foto anche a me stessa. Chissà come mai. Forse che presagivo che avreste voluto conoscermi un giorno? Ad ogni modo sono felice che il signor John Maloof abbia ritrovato il mio materiale e che organizzi mostre che ripercorrano la mia attività. Io non avrei saputo farlo. E la fama non m’interessava poi molto. E sono grata a voi, che apprezzate. Ma sappiate che facevo esattamente quello che fate voi oggi. Andavo per strada e puntavo il mio obbiettivo alla vita.


Chicago, 16 Giugno 1956



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Viviana Maier si spense il 21 aprile del 2009, in una casa di cura a Highland Park. Qui la sistemarono i Gensburg, i quali ignoravano che nel frattempo tutto il suo materiale fotografico, conservato in un box, era stato messo all’asta, a causa di alcuni affitti non pagati. Fu John Maloof, figlio di un rigattiere, ad acquistare tutto, nel 2007, e capì di avere fra le mani un tesoro. Che decise di condividere con tutti noi.


La mostra “Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è in corso allo spazio Forma e ci rimarrà fino al 31 gennaio.


Sul sito tutte le info.

Cronache vintage – Viaggio fra le acconciature e i belletti del ventesimo secolo

E siamo giunti alla seconda parte del mio racconto sulle acconciature, il make-up e i look dello scorso ventesimo secolo. Vi avevo lasciati promettendovi di informarvi sui miei boccoli… ebbene, i riccioli saranno durati al massimo mezz’ora, poi si sono ammosciati, come il mio entusiasmo!


Ma bando alle ciance! Volete sapere com’erano le donne negli anni ’50? Finte, naturalmente! Ombretto verde ghiaccio, matita per occhi verde muschio e rimmel color rame era un esempio di trucco prediletto; e ancora, ombretti azzurri, argentati, matite blu o viola, labbra arancioni. Pareva che le signore si fossero lanciate a tutta birra nella valigetta dei cosmetici. Peraltro, questi ultimi non garantivano ancora un risultato “naturale”, con la conseguenza che i loro visi più che acconciati sembravano mascherati. Ma all’epoca tutto questo era percepito come il massimo della meraviglia, il loro aspetto era artificiale e le donne comunicavano un solo messaggio certo non detto, ma chiarissimo: “non mi toccare”. I mariti ignoravano come fossero le loro donne realmente e andava bene così. E se il trucco cambiava a ogni occasione, stessa cosa accadeva per i capelli, i parrucchieri divennero i migliori amici delle donne, e questi cotonavano le chiome delle clienti con così tanta lacca che sul finire degli anni ’50 queste ultime avevano in testa dei nidi di rondine modello Zia Ietta. Completavano il tutto collane di perle, gioielli vistosi, cappellini-decoro ad ornare i corpi generosi delle borghesi del tempo, perché tutto in quegli anni doveva essere prospero.


Gina Lollobrigida
Gina Lollobrigida


Negli anni Sessanta le cose si evolsero incredibilmente, e menomale (si sarà capito che non amo particolarmente i ’50). Intanto, il modello imperante non fu più quello della donna  formosa, che anzi lasciò il posto ad una fanciulla dal corpo gracile e infantile, come quello della giovanissima Twiggy, la “dolly bird” inglese che tra braccia, fondoschiena e gambe sarà pesata al massimo 45 chili (tipo mia madre a 20 anni, le odio!). Il make-up osservava come punto focale lo sguardo, per cui gli occhi venivano truccati con tanta matita e il mascara passato un numero di volte tale da ottenere l’effetto “cerbiatta”. I capelli, alla “paggio”, ricordavano le pettinature dei Beatles (non a caso, a Londra, Mary Quant, l’inventrice della minigonna, si fece tagliare i capelli da Vidal Sassoon, il quale ideò per lei il bob a cinque punte, da quel momento in poi i-m-i-t-a-t-i-s-s-i-m-o).


Twiggy
Twiggy


Ma sul finire degli anni ’60 si impose via via il movimento hippy e con esso uno stile di vita votato alla natura. Uomini e donne cominciarono a vestirsi in maniera semplice, riciclando abiti dismessi e usando stoffe naturali e trucco e capelli si semplificarono molto: chiome lunghe e sciolte per uomini e donne. Insomma, se durante i primi ’60 ragazzi e ragazze portavano capelli corti, tagliati e pettinati allo stesso modo, ora accadeva lo stesso, ma nella direzione del look selvaggio e UNISEX.


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Françoise Hardy


Giungiamo agli anni ’70 e posso finalmente affermare che con loro moda ed estetica si complicarono al punto che il bello non fu più univoco, e non fu più condiviso unanimemente dalla società. La prima metà del decennio fu dominata da quella voglia di naturalezza con cui si era chiuso il precedente; tuttavia la semplicità non avrebbe comportato una mancanza di cura, al contrario, tutto sarebbe stato perfetto. I capelli sempre puliti e lucenti, con eleganti scalature e mèches (tecnica creata con lo scopo di dare l’effetto “corro sul bagnasciuga e il sole mi schiarisce i capelli”); la pelle A-A-BBRONZATISSIMA, (grazie alle vacanze al mare o ad un ottimo autoabbronzante); il corpo tonico, snello, sano (grazie al jogging, all’aerobica e ad una alimentazione rigorosa).


Jane Birkin
Jane Birkin


Ma la sera, oh, la sera dimenticate pure tutta questa essenzialità, e immaginate lustrini, paillettes, trucchi pazzi, boa e abitini in lycra e lattex: questa era la mise tipo da STUDIO 54!


Lauren Hutton
Lauren Hutton


E naturalmente non tardò neppure a sopraggiungere qualcuno che dissacrasse tutto questo: benvenuti miei cari PUNK! Donne e uomini con molto lattice addosso e t-shirt strappate, ma anche tanto nudi e con innumerevoli anelli e spille alle orecchie e al naso e creste fluo e poi borchie e scritte pornografiche e infine trucchi nerissimi, si aggiravano per le città con lo scopo di SCANDALIZZARE (la mia adorata Vivienne Westwood, dalla sua boutique Sex a Londra, dettava legge).


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Donne che imposero la loro presenza nella società, che lavoravano e ottenevano successi professionali, che fecerosentire la loro voce spodestando gradualmente gli uomini di potere, come avrebbero mai potuto farlo senza delle belle spalle imbottite e dei tailleur-powerbusiness che sembrava volessero esclamare: “levati di mezzo, bello, o ti do un colpo di spallina!”. Negli ani ’80, il culto per il corpo non tramontò, anzi, si evolse in una vera e propria febbre del fitness, ma le donne tornarono ad essere prosperose e non rachitiche come in passato. Chi non godeva di un seno naturalmente florido, ricorreva alla chirurgia, strumento che non venne disdegnato neppure per i ritocchini al viso (che proprio in questo periodo cominciarono a divenire di uso comune). Insomma, fra chirurgia estetica e prodotti anti-aging, il trucco non servì più a correggere ma a esaltare: cosmetici naturali, make-up trasparente e/o, quando le tasche lo consentivano, permanente.


Antonia Dell'Atte, Giorgio Armani, A/I 1984-85 , foto di Aldo Fallai
Antonia Dell’Atte, Giorgio Armani, A/I 1984-85 , foto di Aldo Fallai


I capelli o venivano asciugati naturalmente o, al contrario, finivano sotto i caschi dei parrucchieri per uscirne cotonati che manco Ivana Trump e, cosa terribile, con frange molto gonfie (la chioma con l’effetto frisé e la frangia liscia era un altro must e questo vi sconsiglierei di riproporlo, ecco!)


Cindy Crawford
Cindy Crawford


Bene, amichette, siamo giunte alla conclusione di questo percorso a spasso fra bigodini, creme “forever-young” e boccoli fluenti. Avete deciso cosa sarete a Capodanno? Io ho optato per un abito rosso fuoco, dalle spalline larghe come gli anni’80 esigevano, mi farò fare delle onde che esalteranno le punte più chiare come gli anni’70 imponevano e stenderò un sacco di rimmel come gli anni ’60 ordinavano. Il risultato sarà o una contaminazione pazzesca o un esilarante delirio! Staremo a vedere!

Cronache vintage – Viaggio fra le acconciature e i belletti del ventesimo secolo

Sono sicurissima che molte di voi saranno andate dal parrucchiere ieri, o dall’estetista, o da Sephora, per ravvivare il colore ai capelli o per darci un taglio netto (non solo alla chioma, ma pure all’anno che sta per terminare), per sistemare le sopracciglia incolte, per acquistare un rossetto rosso da baci appassionati. Non lo avete ancora fatto? Brave! Approfitterete della mia cronistoria a spasso fra le acconciature e i look dell’ultimo secolo e deciderete così se essere, per il prossimo party di Capodanno, una vaporosa e truccatissima donna eighties style o una moderna Jean Harlow platinata! Questa prima parte è dedicata al periodo che va dal 1900 agli anni ’40 (la prossima settimana saprete il resto, quindi leggete attentamente e attendete ansiosamente!).


Dunque, tanto per cominciare, apprendo che durante il primo decennio del 1900 le donne della buona borghesia portavano anelli ai capezzoli (per procurarsi un effetto eccitante da sfregamento, che distraeva il corpo soffocato nel busto da tutte le sue pene). Mi direte che non c’entra nulla con i trucchi e belletti… esatto, è una curiosità che vi ho fornito e che molto stride con l’aspetto di quel decennio: le fanciulle da marito insieme alla pelle diafana, con annesse venuzze violacee accentuate dal trucco, il vitino, e il profumo alla lavanda, portavano capelli ondulati, morbidamente raccolti, con aggiunta di toupet, se necessario: la parola d’ordine era INNOCENZA!


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Isadora Duncan


Poi venne la guerra e i mariti al fronte dovevano essere assolutamente certi che le loro donne avessero un comportamento retto e ineccepibile, che non si curassero delle inutili civetterie, che apparissero pulite e compite. Fortunatamente la guerra volse al termine e sul finire del 1920 la donna da virtuosa divenne pericolosa e ambigua. Accorciò i capelli, per portarli alla maschietta, mise del kajal  intorno agli occhi, truccò di rosso intenso la bocca, “esotizzò” il suo aspetto, per divenire una femme fatale dal gusto orientale.


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Gloria Swanson


E giungiamo ai gloriosi anni ’20, siore e siori, e questo periodo è tra i miei più amati! Ormai i capelli alla maschietta erano un must, e nonostante gli uomini non condividessero, le signore imponevano il nuovo taglio burlandosi di loro con candide bugie (“caro, ho bruciato i capelli con la lampada a olio!”). E poi occhi bistrati, viso molto truccato, cipria in gran quantità, fard tamponato anche in pubblico: atteggiamento sconveniente, ma irresistibilmente chic! E poi lui, il rimmel (resistente all’acqua, peraltro). Fu creato nel 1921 da Elizabeth Arden, la professionista della bellezza (nonostante Helena Rubinstein ne rivendicasse l’invenzione), che volle tutte con ciglia lunghissime per sguardi ammaliatori. E infine, Coco Chanel, colei che inventò il tubino nero, introdusse l’uso del jersey e dei pantaloni, amava i gioielli purché fossero tassativamente finti, ebbene ruppe con il passato ancora una volta, quando dimostrò che “abbronzata è bello”! Se ne andava al mare a Biarritz e si faceva baciare dal sole: solo i poveri non potevano permetterselo, per cui avere la pelle colorata divenne cool nonché UPPER CLASS!


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Louise Brooks


Gli anni ’30 si potrebbe sintetizzare con questa frase: “La bellezza non è un dono, è abitudine”. Ad affermarla fu Germane Monteil, che nel 1935 fondò la sua casa cosmetica e convertì le sue clienti alla filosofia del “benessere”: il trucco non era sufficiente, da solo, a fornire un bell’aspetto, bisognava applicare sul viso creme da giorno e da notte, seguire un’alimentazione sana, praticare sport. Più in generale, in questo periodo, la donna doveva essere magra ma non efebica, femminile pur non impiegando strati di trucco (come si era usato precedentemente), abbronzata, naturale, curata. I capelli si allungarono almeno fino al mento, morbide onde incorniciano il viso. Le donne comuni guardavano alle dive del cinema, al loro incarnato perfetto, alle loro sopracciglia dall’arcata minuziosamente disegnata, ai loro soffici capelli biondissimi.


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Jean Jarlow


Bene, siamo arrivati ai ’40 e io sono felice di annunciarvi che ormai il trucco è per le donne come il tabacco per gli uomini: INDISPENSABILE. C’è una guerra in corso? E allora, che le fanciulle tutte siano piacevoli, curate, dall’aspetto accogliente e femminile. E attenzione, non è più il caso di apparire provocanti e frivole, gli uomini esigono per le loro fidanzate e mogli un’immagine matura e sensuale, in altre parole rassicurante.


Naturalmente non era facile reperire cosmetici in Europa, a differenza che in America, dove Elizabeth Arden ideò per le donne lavoratrici la BUSY WOMAN’S BEAUTY BOX, dove ci trovavi la cipria, il rossetto, lo specchietto, la crema detergente, insomma tutti quei prodotti con cui potevi “restaurarti” in ogni situazione. Le europee dovettero accontentarsi del lucido per stivali che usarono come rimmel o della crema da scarpe per colorare le sopracciglia. Scaltre queste ragazze!


E le chiome, in mancanza di un parrucchiere che non sempre ci si poteva permettere, venivano raccolte in quello che fu battezzato come “elmo”: i capelli erano portati tutti sù ed elegantemente fasciati attorno al capo. Una sorta di moderno grande “cocco”. In alternativa, si ricorreva allo chignon, nodo attorcigliato sulla nuca inventato dal parrucchiere Guillaume nel 1944 per Balenciaga (lo li porto spesso così, mi fanno sentire una ballerina metropolitana!). Altrimenti si ricorreva al turbante, per nascondere sotto a stoffe fantasiose i capelli non sempre curati.


Tutto questo non interessava ovviamente le stelle del cinema, che esibivano capelli lunghi, sciolti e ondulati. Queste venivano spesso imitate dalle donne “comuni”, con la conseguenza che in qualche fabbrica bellica non di rado i capelli di alcune si impigliassero nei macchinari. Chi bella voleva apparire, i capelli nelle macchine doveva infilare!


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Veronica Lake


Bene, mie care bambole, siamo giunte al termine di questa prima parte dedicata alla bellezza e all’immagine del nostro ultimo glorioso secolo. Io ora prendo il phon e la mia spazzola per le onde e m’ingegno per assomigliare a una star del cinema hollywoodiano (e naturalmente vi aggiornerò sui risultati!).

Cronache Vintage – Quella incontenibile voglia di JEANS!

Ho acquistato il mio ventitreesimo paio di jeans. Non potevo non prenderlo. Direttamente dagli anni ’80, a vita alta, gamba a prosciutto, strettini sulla caviglia. E blu. Di un blu non troppo chiaro. Nemmeno tanto scuro. Sono completamente diversi dai penultimi jeans, quelli che ho comprato un mese fa, decade ’80, blu, di un blu non troppo chiaro ma nemmeno troppo scuro.


E va bene, d’accordo, lo ammetto: sono Chiara, ho 33 anni e ho una dipendenza da DENIM!


Ora, signori miei, è doveroso che io faccia una precisazione: con il termine “denim” si indica il tessuto (che non è necessariamente di colore blu); con la parola “jeans”, invece, si definisce il taglio (il cinque tasche, per intenderci), impiegato per il confezionamento di pantaloni dai tessuti più svariati e non necessariamente in tela. Il nostro amato denim non è altro che cotone, la cui trama è bianca o écru, tinta poi chimicamente (in passato veniva colorato con estratti di piante).


Per quanto concerne la sua origine, c’è ovviamente lo zampino di LEVI STRAUSS (americanizzazione del tedesco Löb Strauß), un giovanotto di belle speranze che nel 1853 decise di raggiungere la California per vendere i capi di abbigliamento dell’azienda di famiglia. Levi aveva con sé anche dei tendoni da carro, con cui pensò bene di realizzare un paio di pantaloni. Un gran colpo di genio|! Un minatore li indossò, li usò e si entusiasmò: il tessuto in questione era resistente e non esisteva miniera che lo avrebbe distrutto. Quel giorno nacquero i pantaloni Levi’s e in seguito, a San Francisco, venne da lui fondata la sede americana dell’azienda di famiglia, la Levi Strauss&Co. I pantaloni naturalmente vennero perfezionati, fu scelto un tessuto più confortevole, direttamente dalla città di Nimes, in Francia (da cui l’abbreviazione americana denim), dal caratteristico aspetto blu della tinta usata per la colorazione. Nel 1873, vennero aggiunti dei rivetti di rame per rinforzate le tasche (in modo che non cedessero con il peso degli attrezzi dei lavoratori) grazie ad un’idea di Jacob Davis, cliente di Strauss e proprietario di una sartoria a Reno, nel Nevada. E infine, nel 1886, arrivò il marchio di fabbrica, l’etichetta in pelle con i due cavalli che tirano un paio di pantaloni senza che riescano a romperli.


Levi's Vintage Clothing


Dunque, se oggi indossiamo giacche, pantaloni, camicie, scarpe in denim lo dobbiamo al signore crucco di cui vi ho parlato qui sopra. Ma concedetemi un momento di sano patriottismo: a Genova, qualche decennio prima che Strauss realizzasse i jeans, dei marinai crearono qualcosa di molto simile con un telo (in denim o forse di fustagno) usato per le vele delle navi. Da qui l’espressione “blues Jeans”, per il colore blu e per la derivazione genovese (jeans sta per Genes, ossia genovesi).


A questo punto, vi pongo una domanda: quanti jeans possedete voi? E in quale modello? Io non li porto sicuramente in stile fifties, con i grossi risvolti, come la giovane Liz qui sotto, dal momento che sembrerei con ogni probabilità una rosetta farcita!


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Elizabeth Taylor, anni ’50


Preferisco un modello dalla vita alta, dalla gamba regolare, magari indossato con una camicia bianca annodata in vita, come quella bellezza rara di Marilyn Monroe insegna.


Marilyn Monroe, anni ’60


Ma non disdegno neppure i 5 tasche anni ’70 (periodo molto gettonato per le sfilate di questa stagione), vita altissima, zampa, che nel mio caso associo a tacchi vertiginosi e non a gym-shoes, che invece Fara Fawcett prediligeva per ovvie ragioni di altezza e magrezza.


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Farra Fawcett


E li posseggo naturalmente anche in versione ’80, con due grossi buchi sulle ginocchia, chiarissimi, cattivissimi, che miss Ciccone avrebbe di certo apprezzato.


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Madonna, 1980


Momento iconico: Kate Moss nella campagna di Calvin Klein del 1990. Adoro quel decennio, le camicie erano larghe, i jeans stretti il giusto, la vita comoda. Il modello in questione è stato bistrattato per tanto tempo, prediligendo vite bassissime che non lasciavano nulla all’immaginazione (che volgarità!). Poi sono tornati, insieme al buongusto. Era ora.


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E degli stessi anni è anche il film Thelma&Louise, in cui le coraggiose Susan Sarandon e Geena Davis fuggono dalla routine familiare e da mariti non proprio esemplari con addosso canottiere gagliarde, sexy jeans e stivali da cowgirl (potete ammirarle in copertina).


Concludo dicendo che io li ho tutti, ma questa non è una ragione sufficiente per frenare la mia voglia di averne sempre di più. O no?

CRONACHE VINTAGE – IL TURBANTE: L’ORIGINE, GLI USI, LE DIVE

È giunto il momento per me di dedicare un po’ di questo spazio a un accessorio che definirlo vintage è quanto mai riduttivo: sto parlando del turbante. Da patita di storia del costume, ho sempre sfogliato le pagine di libri che mi raccontavano della vita di donne carismatiche, originali, eccentriche, le quali indossavano questi copricapi con una disinvoltura che invidiavo. Il suddetto oggetto misterioso accresceva il loro fascino, le rendeva “diverse”… dovevo averlo!


Il turbante è stato avvolto tante e tante volte, ha ricoperto tanti e tanti uomini e donne, che la sua storia sembra quasi infinita, tanto quanto tutta quella stoffa che lo ha reso popolare.

Giunse in Europa, tra il XV° e il XVI° secolo, per mezzo dei Turchi che lo chiamavano tulbent (termine che a sua volta deriva dal persiano dulband). Ma in oriente solo gli uomini lo indossavano (peraltro, io ho il feticcio degli uomini col turbante!). Una volta approdato nel nostro continente, le donne lo hanno voluto e se lo sono preso (e il vizio di rubare dal guardaroba di lui divenne una consuetudine!).


All’inizio del Novecento, quel gran genio di Paul Poiret non solo liberò le donne dal busto per restituirle ad un abbigliamento più comodo (grazie a dio!), ma riformò la moda investendola di quel gusto esotico che lo rese celebre: kaffettani e kimono, tuniche e calzoni alla turca e turbanti. Poiret ne adornò il capo delle sue modelle e delle sue fedelissime clienti, impreziosendolo con piume, perle e pizzi. D’altro canto, le influenze estetiche dei paesi lontani non erano casuali, dal momento che nel 1909 si esibirono per la prima volta a Parigi i Balletts Russes: gli allestimenti e i costumi di Sherazade o di Le Dieu Blue ispirarono non solo Poiret, ma l’arte, la moda, la vita dei parigini e degli europei. E io vorrei tanto una magica macchina del tempo per farmi catapultare direttamente a casa dell’artista parigina di cabaret Gaby Deslys, per prendere un te con lei mezze ignude e con in testa un bel turbantone!


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Peggy Guggenheim in Paul Poiret, Man Ray


Gaby Deslys


 Il turbante divenne poi parte del look dei gloriosi anni ’20, insieme ai capelli alla maschietta, al trucco vivace e agli abitini charleston: ecco a voi la flapper-girl, la cui silhouette slanciata doveva essere giustamente proporzionata da copricapi non voluminosi.


Kiki de Montparnasse in “Violon d’ Ingres”, Man Ray, 1924


Fu poi la volta degli anni ’40, e di una su tutte: Elsa Schiaparelli. La stilista che stravolse nei termini dell’irriverenza la moda internazionale, non poteva non indossare o fare indossare i turbanti in abbinamento alle sue note mise stravaganti.


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Elsa Schiaparelli


Più in generale, durante questo periodo l’austerità della guerra invogliò le donne a coprirsi la testa con cappelli e turbanti eleganti ed estrosi: un modo con cui ovviare alla semplicità delle vesti o al fatto di non avere i mezzi economici per curare i capelli, che così venivano sapientemente nascosti (lo faccio anche io, quando ho un tornado per la testa). La scrittrice femminista Simone de Beauvoir ne fu una fervida indossatrice e finì con l’esserne fedele fino alla fine dei suoi giorni.


Simone de Beauvoir


E ancora, i turbanti delle eleganti donne della buona borghesia degli anni ’50, copricapi che arricchivano ulteriormente mise estremamente femminili, dalle gonne a ruota ai vitini da vespa ai guanti, al trucco evidente e il turbante non faceva altro che esaltare i visi decoratissimi delle LADYLIKE di quegli anni.


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Turbanti, 1959


Siamo giunti, a questo punto, ad una fase storica per questo oggetto che un’immagine su tutte può sintetizzare al meglio:


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Nel ritratto qui in alto, la modella, Marina Schiano, indossa un abito della collezione “anni ’40” di Yves Saint Laurent. La schiena si intravede grazie ad una profondissima scollatura coperta da pizzo nero. Sul capo, un turbante di velluto molto voluminoso nel quale sono raccolti i capelli. Il collo è nudo. Il risultato è sofisticato e sensualissimo. Impariamo, ragazze, impariamo!


La donna, fra i ’60 e i ’70 fu colei che nutrì un gran desiderio di ribellarsi alle autorità, della famiglia, della chiesa, dello stato, battendosi per un mondo migliore, aderendo così ai vari movimenti di contestazione indossando un abbigliamento “trasandato”, ma fu anche colei che che apprezzò l’avvento del prêt-àporter, di quei meravigliosi vestiti del supremo Yves, che proprio nel 1976/77 propose la celebre collezione russa: “voluttuosi vestiti ricamati, galloni dorati, passamanerie, boleri decorati…” e turbanti (“La moda, Il secolo degli stilisti, di Charlotte Seeling per Konemann). Le influenze esotiche, i rimandi a Paul Poiret sono evidenti, la sua grandezza risiedeva nel contagiare le donne al punto da renderle delle eclettiche  hippy di lusso. YSL sempre sia lodato!


Collezione russa, Yves Saint Laurent
Collezione russa, Yves Saint Laurent


Infine, negli anni ’80, la donna indossò il fascinoso copricapo accostandolo al noto power dress dell’epoca. “Dressed for success”, sembravano esclamassero queste nuove abitanti della giungla urbana, agguerritissime nel tentativo di imporsi in un mondo, quello professionale, fatto di uomini, indossando giacche dalle spalle importanti e pantaloni, ingraziandoli con accessori femminei.


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In conclusione, il turbante risulta un accessorio da sempre utilizzato e mi piace credere che un po’ sia per un desiderio comune alle donne di evadere, di immaginarsi in posti lontani, dalla Russia all’India all’Africa: la mia testa viaggia e con un turbante in testa lo fa molto di più!

Cronache Vintage

CRONACHE VINTAGE


L’appuntamento con lo straniero –  E sotto il vestito lingerie d’antan

 

Quando ami l’abbigliamento vintage, il design vintage, la musica vintage, insomma quando ami il vintage, questo invade la tua vita completamente. Entra nel tuo armadio, arreda i tuoi mobili, suona nelle tue orecchie: per dire, indosso il mio cappotto multicolor alla Twiggy, ascolto Aretha Franklin ed esco di casa trotterellando.

Finisce per scandire qualsiasi momento della tua vita. Gioioso, sciagurato o malinconico. Fu così anche la volta in cui incontrai quello che venne da me e che ribattezzai come straniero. Eravamo a un concerto, non ci conoscevamo, ma quando i nostri occhi s’incrociarono, lui decise che avrebbe dato le spalle al palco per guardare solo me. Ho pensato che avesse seri problemi, perché lo scetticismo è il sale della mia esistenza. Poi però il suo numero finì nella mia rubrica, e lo scetticismo lasciò il posto alla curiosità.
Ci sono stati pochi incontri, tante sparizioni e ritorni improvvisi. E sempre un sacco di battiti di cuore all’impazzata. Lo rividi ancora una volta, lo decisi io, per concedermi un vero primo e ultimo appuntamento. L’appuntamento col mio STRANIERO.

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Desideravo che fosse tutto perfetto, così avrebbe fatto più male. Sotto i miei storici jeans a vita altissima, dalla tela assai consunta, e il maglione anni ’80 talmente largo da ridurre al minimo l’immaginazione di lui, indossai della lingerie anni ’70 regalatami da quella gran stipatrice di mia madre.

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Avete presente il reggiseno a punta e le mutande a vita alta? Aggiungete del pizzo bianco, dei bottoncini in madreperla, delle spalline in raso di seta. Eh sì, perché mia mamma, nonostante quella rivoluzione femminile che voleva perfino l’intimo comodo e per nulla seducente, aveva deciso che non sarebbe uscita per strada a bruciare reggiseni. Lei se li sarebbe messi i reggiseni sexy ed eleganti, e con quelli addosso avrebbe portato avanti la sua personale battaglia femminile. E io oggi scelgo di ereditarli, evitando così i completini striminziti da centro commerciale Maculaty&Orrendy. Inutile dire che lo straniero apprezzò, ne godette e ripartì.

Non volli vederlo mai più. Perché gli uomini, a volte, è meglio perderli. Il completino intimo, invece, rimane. Fedele. Per sempre.