L’importanza dell’avere un personal brand se vuoi lanciarti nel mondo dei social

Ancora oggi molti professionisti sono spaventati dall’idea di creare il proprio personal brand e di proporlo sui social, magari perché hanno paura di non essere apprezzati, spesso frenati dalle ipotetiche critiche che potrebbero ricevere o semplicemente perché non sanno da dove iniziare.

Oggi vedremo insieme perché è importante costruire il proprio personal brand e da dove poter cominciare.

Che cosa è il personal brand?

E’ la chiave del tuo successo, l’unico strumento che hai in mano per poter rendere il tuo brand unico e inimitabile. E’ ciò che ti consente di differenziarti dalla concorrenza e di rendere i tuoi servizi/prodotti talmente unici da non avere rivali. E’ come ti percepiscono le persone, quello che rimane di te oltre i servizi che offri.

Costruire un personal brand non è facile, per questo ho preparato per te una guida in 6 step, per affiancarti passo passo in quelli che sono i punti chiave per la realizzazione della tua identità digitale.

Il primo step della fase di ricerca e individuazione del proprio personal brand è quello dello “ΓΝΩ͂ΘΙ ΣΕΑΥΤΌΝ” (conosci te stesso).

L’avere un’identità chiara e definita è tutto ciò che hai attualmente per poterti distinguere tra la massa di informazioni, contenuti, servizi che ad oggi sono presenti sul mercato.

Se vuoi avere successo online devi partire dal porti alcuni quesiti e, una volta che avrai trovato le risposte, sarai pronto per comunicare al mondo che esisti anche tu.

I tuoi prodotti non si venderanno mai da soli, anche i brand più forti sul mercato continuano ad accompagnare al lancio di nuove idee/servizi una storia, un qualcosa da raccontare, le persone si legano ad un’identità e solo quando avrai costruito la tua, i tuoi prodotti inizieranno a trovare la loro dimensione di vendita.

Che cosa devi chiederti in questa fase:

– Che persona sei? Quali sono i tuoi valori? Che cosa ti distingue dagli altri?

– Quali sono le tue passioni? In che cosa sei esperto? Su che cosa vuoi fare il tuo focus?

– Che cosa dovrebbe spingere il tuo pubblico ideale ad acquistare da te? Come puoi creare il tuo trust score?

Se hai già le risposte alle domande precedenti passiamo al secondo step “DEFINISCI IL TUO RING.

Individuare la propria nicchia di riferimento è fondamentale perché ti permette di delineare il tuo pubblico ideale e di conseguenza di studiare e applicare fin da subito una strategia mirata.

Definire il proprio ring consente di rispondere in modo specifico ai bisogni dei propri potenziali clienti e facilitare la vendita dei prodotti o servizi offerti.

– Che tipo di vantaggi potrebbe trarre un utente x dall’acquistare i tuoi prodotti/servizi?

– Qual’è il valore aggiunto che trova un utente x nel fidarsi di te?

– A chi potresti essere veramente utile nel quotidiano?

Il terzo step mi piace chiamarlo “LA TUA SCALA REALE”.

Se sei arrivato fino a qui vuol dire che sei pronto a definire i dettagli di quello che è il tuo obiettivo finale.

La tua scala reale non deve essere composta dai tuoi prodotti ma da come i tuoi prodotti/servizi possono migliorare la vita ai tuoi clienti.

Ciò che conta è la trasformazione che TU e solo TU puoi generare sugli utenti, è quella a fare la differenza nella tua strategia di comunicazione.

Regala tutto ciò che puoi offrire, lascia che il tuo pubblico ideale divori tutto ciò che puoi dare gratuitamente e ricorda che sarà in quel preciso istante che darai inizio alla conversione.

Bene, siamo giunti al quarto step che potrebbe essere ricollegato alla famosa canzone di Tiziano Ferro “LA DIFFERENZA TRAME E TE”.

Perchè le persone dovrebbero scegliere te e reputare i tuoi servizi migliori rispetto a quelli già presenti sul mercato?

Che cosa hai da dare in più?
Per capire questo il primo passo che devi fare è l’analisi dei tuoi competitors, individuane da 5 a 7 e analizzali in ogni minimo dettaglio.
Cerca di capire che cosa funziona e in che cosa sono carenti e parti da qui per sviluppare la tua strategia di marketing e il tuo branding.

Il quinto step verso il completamento del tuo personal brand è uno dei più emozionanti e potrebbe essere racchiuso nella frase “SHARE THE NEWS.

Ora che hai definito il tuo posizionamento è giunto il momento di urlare al mondo che esiti anche tu.

Come si fa? Identificando il tuo cliente tipo e conquistandone la fiducia attraverso un percorso a step che prevede anche il coinvolgiomento delle persone di cui il tuo cliente tipo si fida di già.

Dovrai individuare due tipi di strategia comunicativa: una online e una offline e per ognuna di essa decidere quanto investire. La domanda base che devi porti per creare le tue strategie è: “Come posso portare le persone a conoscermi e a fidarsi dei miei servizi?”

Sei pronto, finalmente hai raggiunto il traguardo, devi solo andare “ON AIR”:

sei pronto ad andare in onda! Resta solo da definire la timeline dei tuoi obiettivi.
Ricordati che calendarizzare il tempo che dedicherai alla promozione del tuo personal brand e identificare le risorse di cui avrai bisogno per farlo crescere nel tempo è fondamentale per trasformare la tua idea in un qualcosa di concreto.

Il lavoro che fai sul tuo Personal Brand è marketing a tutti gli effetti e come tale prevede un investimento in termini di tempo e denaro.

L’ultima parola chiave che voglio ricordarti oggi è CONTROLLARE: il tuo progetto avrà bisogno di check continui, dovrai ricordarti di tenere sempre sotto controllo alcuni parametri fondamentali tra cui DIREZIONE, TARGET e SUCCESSO.

Come difendersi dalle fake news

Se riteniamo sino a ieri ritenevamo la questione fake-news come un tema di cittadinanza, di informazione, di democrazia, talvolta di comunicazione politica, o che potesse essere argomento di interesse di smanettoni del web e addetti ai lavori, arriva dalla borsa una forte smentita.
E per comprendere la rilevanza – e le implicazioni di bilancio – di questo tema, ci aiuta una “notizina al margine” dell’assemblea soci di una delle più “grosse” aziende quotate a Wall Street.


Gli azionisti hanno proposto che Facebook predisponga una relazione sulla minaccia per la democrazia e la libertà di parola dalla cosiddetta diffusione di fake-news attraverso il social network e sui pericoli che possono rappresentare per l’azienda stessa.
La proposta, partita dalla considerazione secondo cui di fatto Facebook aveva fornito “un meccanismo finanziario di sostegno ai contenuti fabbricati” su internet, suggerisce all’azienda rivedere la questione in generale, compresa la misura con cui si bloccano i messaggi falsi, così come le sue strategie che impattano sulla libertà di parola e su come vengono valutate e validate le informazioni pubblicate nei post.


Come difendersi dalle fake news


Si legge testualmente nel paper “Facebook è molto vulnerabile agli attacchi di coloro che promuovono anche attraverso lo spam notizie palesemente false giocando con gli algoritmi del social network usandolo per la diffusione dei propri contenuti” e aggiungono gli azionisti “Alla luce della crisi sociale generata dalla esplosione di notizie false e le relative espressioni di odio, l’incapacità di gestire in modo efficace questo problema crea rischi di ordine pubblico”.


La questione delle fake-news è venuta alla ribalta durante le elezioni presidenziali degli Stati Uniti lo scorso anno, quando molti messaggi imprecisi sono stati ampiamente condivisi su Facebook e altri servizi di social media. 
Facebook ha genericamente affermato che sta affrontando il problema.
Ha già un programma in Francia di usare dei fact-checker esterni per combattere le notizie false ed ha sospeso 30.000 account in Francia in vista delle elezioni presidenziali del Paese.


Come difendersi dalle fake news


La notizia di questa iniziativa degli azionisti è rilevante, se consideriamo che nello stesso paper si affronta il tema della revisione della parità di genere nei contratti di lavoro e nella distribuzione degli incarichi dirigenziali.
Questo fa comprendere come la preoccupazione degli azionisti sia di più ampia portata e tende a prevenire che l’azienda possa essere danneggiata finanziariamente dall’essere ritenuta responsabile – e quindi ciamata in giudizio e debba risponderne con condanne pecuniarie – per condotte se non attive quantomeno passive, nel non aver fatto tutto quanto possibile (umanamente e tecnologicamente) per non ostacolare (se non addirittura facilitare) la diffusione di fake news.


In attesa di sviluppi concreti in questo che resta un tema caldo, ma che è solo all’inizio della ricerca delle possibili soluzioni concrete (sempre in equilibrio tra la non arbritarietà del giudizio, libertà di espressione e diritto all’informazione) Facebook e varie organizzazioni stanno pubblicando alcuni “vademecum” per aiutare gli utenti a districarsi nell’arcipelago di link quotidiani.

Facebook Stories: storie fantastiche e come disattivarle

Così anche Facebook ha preso il volo, è la brutta fotocopia di Instagram?
App che crushano, fotocopie di stesse funzioni, continui aggiornamenti.
Sembra non ci siano novità in fatto di social, bensì continui giochi di copia-incolla, spesso troppo ripetitivi.
Impossibile dimenticare il traumatico passaggio da Snapchat a Instagram, da un giorno all’altro sembravano essere la stessa cosa.
Nella stessa maniera, a intraprendere la stessa strada è Facebook.
Dopo un simbolico riavvio, ha inglobato il sistema delle Storie.
Ma, in fin dei conti, cos’è una Storia?
Una Storia è un’espressione visuale di pezzi di vita, momenti, sensazioni, umori, video-racconti di una giornata tipo, di un tale viaggio, di un semplice esame da preparare, di canzoni stonate, gaffe, pause caffè.
Niente è soggetto a controllo prima d’essere postato perché, altrimenti, perderebbe di senso e di valore.
Si tratterebbe di libere associazioni, risvegli traumatici, foto compromettenti che non vedrebbero luce se non su una Storia della durata di 24 ore.
Infatti, trascorso il tempo di un giorno, queste si autodistruggono automaticamente.

In media, ogni giorno, ogni utente di Instagram posta 5-6 Storie tra immagini e video.
Differentemente, sul profilo vengono postate 2-3 immagini al giorno.
Il profilo diviene così la vetrina espositrice della propria identità, come vorremmo ci vedessero, come dovremmo apparire, come dovrebbero identificarci.
Ogni post, prima d’essere condiviso, prevede un lavoro di labor limae, di ritocco, affinché le nostre vite appaiano perfette, uniche, sensazionali, alternative, e quindi affinché l’io stesso sia il post.
In altre parole: se ti mostro una vita splendente, attiva, partecipante, sempre al passo coi tempi, penserai che io sia la mia vita, che mi appartenga, e quindi che io sia splendente, attivo, partecipante e sempre al passo coi tempi.
Nonostante, appunto, non siano le Storie ad identificarci ma a fare da cornice alla vita che si decide di mostrare, anche queste posseggono un minimo di capacità di ripresa.
Ovvero, non è importante che siano bellissime ma che ritraggano momenti bellissimi.

Perché, quindi, duplicare un prodotto, un sistema già esistente?
Forse perché vincente?
Quali tipi di Storie, allora, sono da pubblicare un un social e quali sull’altro?
Il quesito rimane irrisolto, almeno fino al prossimo aggiornamento.

Come, invece, disattivarle?
Per chi non ne potesse più di continui riavvii, di insolenti notifiche o di adattarsi a nuove grafiche, esistono soluzioni non del tutto efficienti ma possibili.
Ecco tre opzioni per non aver a che fare con Facebook Stories:

1. tornare a una vecchia versione di Facebook
2. installare Facebook Lite
3. utilizzare un’applicazione alternativa non autorizzata

Stay connected!

fonte foto: MobileWorld
fonte foto: MobileWorld

Enrico Mentana risponde su Facebook e ammutolisce tutti: sapreste far di meglio?

Buon compleanno, Enrico Mentana.

I suoi 62 anni seguono i 25 dalla nascita del tg5 fondato dal giovane giornalista alle prese con servizi scadenti, tecnici mancanti e cassette che non partivano.
Così il 13 gennaio del 1992 nasceva il tg5 senza troppe pretese.
Sabato sera 14 gennaio, dopo C’è posta per te, il giornalista è tornato negli studi televisivi di Palatino per uno speciale condotto da Paolo Bonolis. Negli studi anche Clemente J. Mimun e Carlo Rossella.

Ma il ricordo della fondazione non poteva passare inosservato, Mentana gli ha infatti dedicato un lungo post su Facebook.
Il ricordo della prima puntata, la spinta rivoluzionaria che giocava sul differenziarsi dal tg1, la riduzione dei servizi sulla politica, la decisione di incrementare la cronoca, il timore della concorrenza, il rifiuto alla specializzazione, Bruno Vespa e l’aperto dissenso: parla a cuore aperto su Facebook Enrico Mentana.
Ecco il post che narra l’inizio di una gloriosa, anche se difficile, carriera:

Venticinque anni fa cominciai a dirigere e condurre un tg. Bene o male è quello che faccio tuttora. Adesso mi sembra tutto più facile, ma allora era tutto da inventare. Un ricordo.
Avevo il compito di creare dal nulla un nuovo tg, il sogno di qualsiasi giornalista. Avevo il compito di idearlo, di trovargli il nome, di scegliere il logo, la grafica, la sigla. Ma anche di cercare le persone adatte a farlo con me, senza vincoli, senza imposizioni.
Si sarebbe chiamato semplicemente tg5, in sfida diretta con i concorrenti della Rai, e avrebbe mirato proprio ai difetti dei telegiornali che fino a quel momento monopolizzavano il mercato dell’informazione tv. A cominciare dalla politica. L’arroccamento dei partiti s’era fatto ancora più evidente. Meno riuscivano a perforare l’aperto disincanto dell’opinione pubblica e più intasavano i notiziari della Rai con i loro leader, le loro riunioni, i loro slogan.
Bene, il tg5 avrebbe ridotto la pagina politica al minimo, in modo da mostrare nei fatti e da subito l’assenza di sudditanze e di faziosità, e liberare intanto spazio e tempo per il resto dell’attualità. La prova finestra tra noi e gli altri, tutti ingolfati di politica, avrebbe mostrato la differenza. Ma era una piccola rivoluzione, per cui serviva identificare chiaramente le scelte da fare.
Quali erano le notizie da privilegiare? E in quale forma bisognava darle? Questioni di sintassi televisiva. Parolona che vuole dire qualcosa di molto semplice: se c’è un fatto importantissimo ci si collega con il luogo in cui è avvenuto. Se è importante gli si dedicano una serie di servizi o un servizio e un commento. Se è di media importanza merita un solo servizio, se lo è un po’ meno una notizia dal vivo, letta dal conduttore. Se non è importante per niente, allora non se ne parla e basta.
Ovvio, vero? Mica tanto, perché in Rai spesso era il contrario. Mi ricordo di un giorno in cui non era successo niente di importante. Riunione al tg1 per decidere la scaletta. Non si sapeva come aprire, e consideriamo che l’apertura di uno dei principali telegiornali condizionava spesso anche le scelte dei quotidiani della mattina dopo. Ma facendo il giro dei capiredattori non si trovava una valida notizia d’apertura. E allora – con mio sbalordimento – si decise per un bel collegamento con Montecitorio con il classico pastone politico. Un intreccio di dichiarazioni, e così si dava il “la” a tutte le altre notizie. Una sorta di chiodo a cui appendere il notiziario. L’arma totale del collegamento, la risorsa delle grandi occasioni, usata per raccontare il nulla di una bolla politica.
Ebbene, il nuovo tg sarebbe stato diverso, avrebbe recuperato una gerarchia espressiva. Il fatto più importante, l’apertura doveva poter provenire da qualsiasi versante dell’attualità. E la politica? Meritava un servizio, e non più di uno, a parte naturalmente le occasioni eccezionali. Ci sarebbero stati giorni senza nemmeno un servizio di politica, e magari al momento il pubblico non se ne sarebbe neppure accorto, ma alla lunga si sarebbe affezionato a noi, gli unici a non somministrargli la politica come una medicina serale. Gli unici a trattarla come un settore tra i tanti. Anche per dar spazio alla grande assente, o quasi: la cronaca.
I fatti di cronaca erano ampiamente snobbati nei telegiornali e anche sui giornali. Non interessavano perché non riguardavano i poteri: erano storie accadute a persone senza nome, che nessuno conosceva, e quindi i giornalisti non se ne occupavano. Ebbene il Tg5 avrebbe fatto di questa Cenerentola dell’informazione il settore più importante di tutti. Quello grazie a cui avremmo portato alla ribalta i fatti insoliti, straordinari o gravi che riguardano la gente normale, con cui il telespettatore si identifica molto più che con le vicende delle élite, dei personaggi.
Stavamo del resto solo recuperando la grande tradizione della cronaca italiana, nata soprattutto sui giornali di provincia. Allora cercavo di spiegarne il senso ai miei primi collaboratori raccontando loro una storia vera. La notte dopo la morte di un Papa, il direttore di un giornale era rimasto fino alle ore piccole in redazione, a rifare la prima pagina. Prima di rincasare, ormai al mattino, passò dal bar vicino alla redazione, dove c’era già una copia fresca di stampa, in bella mostra sopra il frigo dei gelati, con il titolone a tutta pagina «È morto il papa».
Il direttore notò che una signora era attirata dal quotidiano appena sfornato e si mise a osservarla, per vedere se avrebbe apprezzato il suo sforzo. Ma lei, preso in mano il giornale, cominciò a sfogliarlo, rivolgendo pochissimo interesse alla prima pagina. Il giornalista allora le chiese quale notizia stesse mai cercando e la risposta fu: «I necrologi». Quello che le interessava erano i morti della sua zona. I “suoi” morti. Ecco, la cronaca è questo: sono le storie con cui la gente si identifica direttamente, senza schermi. Allo stesso modo volevo che nel nuovo tg ognuno potesse trovare le “sue” notizie. Non quelle del potente di turno.
Ebbi anche la possibilità di scegliere dove sarebbe sorta la redazione centrale, e scelsi Roma. Sono milanese, ma sapevo bene due cose: che a Roma c’era molta più possibilità di intercettare notizie e ospiti; e soprattutto che potendo scegliere era sempre meglio stare lontano dal quartier generale dell’editore. Ma in questo caso l’editore non era solo una presenza ingombrante. Voleva essere informato dei lavori in corso, e dare qualche consiglio. Molti sballati, uno almeno vincente.
Discutemmo a lungo dell’orario in cui sarebbe andato in onda in nuovo tg. La proposta di Berlusconi era audace: le 20. Io non volevo: perché dovevo farmi del male partendo lancia in resta contro il Tg1, che era forte di un avviamento di trent’anni? Ma Berlusconi non si fece convincere: «Guardi, se voi vi scontrate direttamente con il tg più forte in ciascuna fascia, quindi il tg2 alle 13 e il tg1 alle 20, ve la giocate bene. Perché comunque l’alternativa è forte, così come l’attesa. Secondo me questo è un telegiornale che può raggiungere il 25%». Per me era una follia, ma alla fine cedetti. E aveva ragione lui.
Scegliere i giornalisti, mettere insieme la squadra, fu la cosa più difficile e importante. Un embrione di redazione esisteva già: c’era Emilio Carelli, che avrebbe fatto da vice direttore, c’erano Cesara Buonamici e Cristina Parodi, c’erano alcuni altri validi giornalisti che erano lì fin dai tempi di Arrigo Levi e Paolo Garimberti, pionieri dei programmi informativi del Biscione. Ma ci voleva molto altro. Portai con me colui che sarebbe stato l’altro vice, Clemente Mimun, e quello che invece sarebbe stato insieme a me il conduttore dell’edizione principale, Lamberto Sposini. Poco più tardi ci avrebbe raggiunto un formidabile uomo di macchina, Massimo Corcione. Tutti loro, e molti altri, destinati a una bella carriera.
A trentasei anni, sarei stato davvero un direttore molto giovane. Scelsi quindi parecchi giovanissimi, i più curiosi e preparati che trovai. Dovevano avere la spinta dell’entusiasmo e la capacità di adattamento che esigeva la fase di lancio del giornale. Dovevano essere disponibili a imparare ruoli e mansioni diverse, a fare collegamenti e lavoro di cucina redazionale, a stare in studio e in regia. Volevo creare professionalità eclettiche, perché saremmo stati in pochi e avremmo dovuto tutti recitare più parti. Cominciavamo la nostra avventura in cinquanta giornalisti appena, tra Roma, Milano e il resto d’Italia. Eravamo Davide contro Golia.
E dovevamo dare ai telespettatori un servizio continuo e aggiornato. Feci partire per primo il rullo di Prima Pagina, pensato per dare l’informazione fondamentale, i titoli di giornale e il meteo ogni quarto d’ora nella finestra di tempo in cui l’Italia attiva si alzava. E poi le tre edizioni essenziali, quelle dell’ora di pranzo, dell’ora di cena e della notte (più tardi sarebbe arrivata anche l’edizione del mattino). Sette giorni alla settimana, per stringere il patto tacito con il telespettatore che stava alla base del nostro lavoro: mentre lui viveva la sua vita, avrebbe potuto sempre contare sull’appuntamento fisso con la nostra informazione, nei momenti chiave della sua giornata.
E poi, tanto per cambiare, bisognava metterci la faccia, e la voce. Chi studia le materie scientifiche lo sa: i conduttori sono quei materiali in grado di trasportare una quantità di energia da un punto A a un punto B senza provocare dispersione. Il conduttore televisivo per me aveva lo stesso compito: non far disperdere l’energia della notizia nel passaggio diretto tra la sua fonte e il telespettatore. Tanto per cominciare significava rinunciare al gobbo elettronico, quell’aggeggio che uno legge facendo finta di improvvisare, con il grave difetto di parlare sempre con lo stesso tono e la stessa velocità, spesso non avendo nessuna idea di cosa sta dicendo. Proibito anche leggere, nei limiti del possibile, per non dare mai l’idea del telegiornale preconfezionato. Il conduttore doveva raccontare le notizie come le aveva in mente, senza burocratizzarle, senza renderle più involute con il gergo giornalistico. Meglio impappinarsi, conoscere qualche momento di incertezza, che raggelare notizie e pubblico con una freddezza da speaker.
Impostai il lavoro di preparazione dei redattori secondo precise linee guida. Sapete già della mia mania per il “parla come mangi”. Volevo un’esposizione più chiara possibile, periodi secchi, servizi e argomenti alla portata di ogni tipo di telespettatore. La Rai si era fatta una brutta nomea al riguardo, soprattutto al nord, dove un boato di disapprovazione accompagnava ogni occasione in cui – quotidianamente – si parlava di “borza” per il mercato azionario. In ogni apertura di anno scolastico si vedeva un istituto di Roma, a ogni elezione compariva in video un seggio della Capitale, gli esperti interpellati erano al novanta per cento di un ateneo romano. Inerzie, il maggior simbolo del distacco dal pubblico vero, tutto il Paese. Noi dovevamo essere esplicitamente alternativi.
E c’era soprattutto da dare un segno chiaro di libertà. Nessun argomento da evitare, nessun tema o personaggio capace di metterci in imbarazzo. Il tg5 poteva parlare di tutto. Non esistevano verità ufficiali e indiscutibili. Una posizione che avremmo poi sempre conservato, lungo tutti gli anni di quel lavoro comune, esercitando la nostra autonomia in mille occasioni. E che avrà poi il suo esempio più forte nove anni dopo, il 20 luglio del 2001, quando sarà il nostro telegiornale a squarciare il velo sui fatti di Genova, smentendo la versione delle autorità sulla morte del dimostrante Carlo Giuliani.
Un tg rispettoso dei suoi telespettatori doveva essere inattaccabile, al di sopra per esempio di ogni sospetto di “marchette”, insomma quei servizi o interviste che servono a lanciare un prodotto, particolarmente nei settori dell’auto e della moda, o le presentazioni di impianti o manifestazioni di aziende. Niente di niente, soprattutto per i marchi vicini alla nostra proprietà. E i nostri giornalisti non utilizzavano per i viaggi di servizio nessun passaggio aereo, nessun viaggio gratis in occasioni di grandi avvenimenti, nessuna facilitazione dagli sponsor. Un codice etico non scritto ma rigidissimo, che funzionò per tutti i tredici anni della mia direzione.
I giornalisti del neonato Tg5 avrebbero trovato altre gratificazioni: dato che erano davvero pochi: ci sarebbe stata – nelle intenzioni – gloria per tutti. Non c’erano inviati di ruolo, perchè ognuno poteva essere mandato a coprire un avvenimento. E poi consideravo le specializzazioni un male da evitare a tutti i costi. Uno spreco delle professionalità e un lusso che non potevamo permetterci, oltre che un cattivo esempio.
Avete presente? Giornalisti di cinema, che parlano solo di film, e vivono nel triangolo Oscar-Cannes-Venezia, ossessionati dal rischio di saltare una prima. Redattori di calcio, che per tutta la settimana discutono solo di partite e allenatori. Cronisti politici, che piombano nel lutto se non hanno l’accredito a Montecitorio. Giornaliste di moda, coccolate di regali, viaggi premio, cene e feste. Tutti questi, e altri come loro, vivono perennemente impaniati in una rete di addetti stampa. Ne dovevamo e ne potevamo fare a meno.
Queste e altre decisioni, la preparazione della nostra avventura, costellò quattro mesi intensissimi. A settembre avevo preso servizio, con l’anno nuovo partì il Tg5. Era il 13 gennaio 1992: avevamo studiato ogni cosa meticolosamente, gli spot promozionali pensati dal direttore di Canale 5 Giorgio Gori, che oggi fa il sindaco a Bergamo, avevano creato una forte attesa tra il pubblico della rete, i giornali avevano ampiamente trattato la nuova sfida giornalistica attirandoci ulteriori attenzioni, noi eravamo caricati a mille… E come da tradizione andò tutto storto.
Un minuto prima delle otto di sera i titoli. Poi la sigla. Iniziai sciolto e tranquillo, lanciando il primo servizio da Genova, che non partì, poi il secondo da Firenze, che non partì. Non era pronto niente. Mi scusai, alzai la fatidica cornetta, e dissi “Davvero una simpatica situazione”. Si erano emozionati in regia, dove non riuscivano a mettere in onda nessuna registrazione, e si era emozionato anche Sposini, che stava accanto a loro e non mi aveva avvertito di nulla.
Mentre i disguidi si scioglievano, e il giornale cominciava a ingranare, mi immaginai le risate del direttore del Tg1, che sicuramente stava sbirciando i nuovi concorrenti. Rise di certo molto meno la mattina dopo, quando scoprì che per la prima volta nella piccola storia della tv italiana un altro tg aveva avuto più spettatori del suo. A proposito, quel direttore era Bruno Vespa
“.

Ancor più note sono le sue risposte pungenti ed esilaranti agli utenti di Facebook, il giornalista non fa sconti se si tratta delle sue opinioni contraddette.
Ecco una serie di risposte virali – secondo l’huffingtonpost – ai suoi follower.

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La falsa percezione e i falsi numeri del web

La visione di un web onnipotente è certamente uno strumento di pressione forte nei confronti del mondo dell’informazione, in special modo di quella politica: se non mi dai spazio io ho un canale di comunicazione tutto mio. 
Il che in sé sarebbe uno strumento presentabile come “liberatorio” per la politica rispetto a eventuali censure o tagli o limitazioni della partecipazione al dibattito pubblico. 
Questo sino a quando si presenta lo strumento per quello che è, e non si comincia a barare o anche a credere alle proprie finzioni, qualitative e quantitative.


Considerare ad esempio il numero dei follower come “voti” o seguito effettivo. Manipolare questo numero con fake e botnet finendo col credere a questa realtà numericamente artefatta.
Considerare come un seguito sociale e politico i like su Facebook o il numero di retweet, anche in presenza di software e tools che amplificano questi dati, o attraverso l’uso di botnet e spider per aumentare il numero di visite e i pagine viste al proprio sito o blog.
Sotto tutti questi punti di vista il web è uno strumento straordinario di finzione non solo di trasparenza ma anche di effettivo peso politico, e cedere ad una visione cyber-utopistica impedisce di vedere e deforma la percezione della realtà, anche politica.

Diventa quindi centrale, soprattutto nell’era digitale e del web 2.0, tornare a parlare di trasparenza nell’informazione politica, di valori come obiettività, imparzialità, neutralità, verità e di declinarne un significato ancora più preciso e necessario rispetto al passato, per cercare di arginare la parte più pericolosa e fuorviante di un’informazione in rete che, apparentemente libera e indipendente, e predicata come luogo in cui ciascuno vale uno ed è sullo stesso piano e paritario rispetto agli altri, rischia di diventare la parte meno trasparente e più manipolata e manipolabile dell’informazione e della comunicazione politica.



Robert Waller è un esperto di comunicazione, direttore di Simplification Centre (società no profit statunitense di consulenze per migliorare la comunicazione). È stato tra i primi a sviluppare sistemi di controllo e monitoraggio degli account su twitter ed è stato lui a sviluppare parte del sistema StatusPeople, l’applicazione più diffusa per il controllo della qualità dei follower. Inoltre fa parte del un gruppo che ha in qualche modo definito i criteri per la definizione di un follower come fake (fasullo) o inattivo. 
Secondo Waller «è importante sapere che quando si comunica lo si fa con persone reali, perché più reale e attivo è un profilo, maggior seguito e condivisione avrà. Il secondo motivo è che c’è un numero crescente di fakers in rete. Le persone acquistano seguaci tentando di costruire in questo modo la propria reputazione e legittimità. “Guardami ho 20.000 seguaci, devo sapere la mia…” stanno essenzialmente cercando di ingannare il sistema ed è importante essere in grado di individuare ed evitarli. Perché in ultima analisi, se sei disposto a mentire su quanti amici hai, non sei una persona molto affidabile».



In genere le reazioni più comuni, quando si «smascherano» i profili con iniezioni massicce di fake, vanno dalla negazione alla denuncia della macchina del fango, alla propaganda di qualche competitor al «me li hanno acquistati a mia insaputa» alla negazione e messa in discussione del criterio di ricerca. 
Vale la pena ricordare una sana eccezione, anche questa figlia di come in alcuni Paesi viene percepito e vissuto il concetto di trasparenza e democrazia. È il caso di Louise Mensch, uno dei punti di riferimento dei conservatori inglesi, che nel luglio 2012 il Telegraph ha pubblicamente accusato di aver acquistato 40mila fake usando proprio le applicazioni di Waller. 
La Mensch ha ammesso la questione scrivendo un semplice tweet dicendo «ho chiesto a TwitterUk di rimuovere questi spambot» e resettare il profilo ai valori precedenti. Sarebbe un bel gesto di civiltà, e prima ancora di rispetto verso gli utenti reali, se importassimo anche noi questo tipo di risposte e soprattutto di comportamenti. Perché parafrasando Waller «in ultima analisi, se sei disposto a mentire su quanti amici hai, su cosa non sei disposto a mentire? E se sei disposto ad acquistare follower per aumentare la tua popolarità, cosa non sarai disposto ad acquistare?».


Forse anche più patologico il fenomeno se consideriamo la sua estensione al mondo del giornalismo e dell’informazione. 
Ma in fin dei conti questa estensione è fisiologica visto che l’informazione – e in modo specifico quella politica – è parte dello stesso sistema e tende ad accreditarsi allo stesso modo, verso lo stesso publico che ha la stessa sensibilità ai numeri ed alle apparenze.
E del resto – anche se noto come fenomeno – riguardando il tema dei fake e dei numeri gonfiati tanto il mondo dell’informazione quanto quello della politica, entrambi questi mondi hanno un interesse diretto e “personale” oltre che “di categoria” alla sua negazione, relegandolo a questione o tecnica o marginale o “non quantificabile con certezza”.


Oggi il tema riguarda il web, ieri riguardava qualsiasi inchiesta o indagine sui dati Auditel (famoso fu il caso di un giorno in cui il segnale di RaiUno era interrotto per due ore in tutta Italia, mentre secondo i dati sostanzialmente il 22% della popolazione televisiva avrebbe comunque guardato uno schermo vuoto!).

Online Civil Courage Initiative: Facebook contro il cyberbullismo

Per combattere il cyberbullismo, Facebook lancia la campagna “Online Civil Courage Initiative” con l’obiettivo di finanziare con  almeno un milione di euro, le casse delle Ong (organizzazioni non governative) n.d.r.) che si battono ogni giorno per arginare i danni creati dai post sempre più offensivi che circolano in rete e che spesso rimangono impuniti.

Se è vero che oggi il razzismo e le offese vagano via etere e che tutti ci sentiamo in diritto di umiliare,  manovrare le menti più deboli, di giudicare in modo inappropriato ledendo la sensibilità altrui, è ancor più reale che tutto questo ci è concesso.

 

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La decisione è stata maturata dopo le diverse accuse mosse nei confronti del social media, reo di non vigilare accuratamente e contrastare adeguatamente il fenomeno del bullismo dilagante su profili e pagine online.

Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook, racconta così la decisione di tutelare gli utenti: “Facebook non è fatto per diffondere messaggi di incitamento all’odio e alla violenza [..]Parole e discorsi simili non devono trovare posto nella nostra società, così come su internet. Con il nostro progetto, possiamo riuscire a capire meglio e a rispondere in maniera adeguata alle sfide che gli estremismi online ci pongono davanti.”

Il progetto che ha base a Berlino, è supportato dal ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas. In concreto, “Online Civil Courage Initiative” prevede un lavoro certosino d’indagine sulla piattaforma, monitorando ed eliminando eventuali immagini e commenti lesivi.

Non rimane che appellarci al buon senso degli utenti e soprattutto alla loro civiltà. Facebook è una piazza pubblica con più di 1.59 milioni utenti attivi: un po’ di buon senso aiuterebbe a diminuire il numero sempre più crescente di giovani vittime che scelgono la strada più dolorosa per porre fine alla loro fragile vita.

 

Roma. Ristoratore vieta l’ingresso ai bambini e scoppia polemica

«Vietato l’ingresso ai bambini di meno di 5 anni.» No, non è uno scherzo, avete letto bene. Marco, proprietario di “Fraschetta del pesce” (un ristorante della Capitale), ha infatti interdetto l’ingresso ai bambini al di sotto di un lustro di vita perché disturberebbero la quiete del locale e intralcerebbero il lavoro dei suoi dipendenti.

Un polverone sollevato solo in questi giorni ma pare che nessuno se ne fosse accorto prima, visto che il veto è stato imposto almeno due anni addietro. Resta il fatto, comunque, che sia lecito infastidirsi  per una simile decisione. Perché limitare l’ingresso ai solo adulti o, ad ogni modo, ad individui con una formazione sociale quantomeno consolidata?

In realtà, lo stesso proprietario lancia un monito importante: «Come fai a capire se un genitore è educato o meno? Perché è su questo che insisto: sulla maleducazione. Io non ce l’ho con i bambini, io devo lavorare».

 

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Riflettori puntati dunque sull’educazioni impartita ai figli dai genitori. Secondo Marco, infatti, sarebbe la maleducazione a seccare il resto dei clienti con una considerevole perdita di denaro.

Questa decisione ha comunque diviso l’opinione pubblica. Se da un lato in molti hanno aderito alla pagina Facebook “Far chiudere la Fraschetta del Pesce di Casal Bertone” dall’altro, pare che il locale non abbia perso credibilità, ma al contrario, abbia attirato a sé una sempre più crescente clientela.

Peccato che un ristoratore non possa selezionare i propri clienti. Una legge italiana obbliga il proprietario di un esercizio pubblico ad accogliere qualsiasi individuo senza tener conto della sua estrazione sociale, razza o pregiudizio.

Le polemiche degli ultimi giorni vanno ad inasprirsi ma Marco ha le idee chiare giurando che non si fermerà di fronte ad alcun tipo di richiesta o peggio ancora, insulto: “…venendo incontro a tanti clienti che mostrano di apprezzare, dopo aver fatto la guerra alla maleducazione per due anni, perché dovrei smettere ora?» ha dichiarato senza remore.

Facebook e la libertà

Non mi paghi le fatture? Lo scrivo su Facebook, il Tribunale mi dà ragione e ti condanna a pagare le spese. 
Questa in sintesi l’ordinanza che certamente fa discutere del Tribunale di Roma anche per l’applicazione dell’art. 21 della Costituzione alle manifestazioni di pensiero in rete. 
A fronte della richiesta presentata da un imprenditore ”inadempiente” di rimozione dei contenuti pubblicati in vari Social network e Blog, perché ritenuti diffamatori ed offensivi della propria reputazione commerciale, il Tribunale ha respinto la domanda di rimozione e condannato il richiedente (cioè il debitore) al pagamento delle spese legali.



Secondo il Tribunale, infatti, le dichiarazioni postate “costituiscono espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, rappresentando – la divulgazione di uno scritto via internet – estrinsecazione del legittimo diritto di cronaca e critica”.
 Secondo il Tribunale affinché la divulgazione di notizie o commenti si possano considerare lesivi dell’onore e della riputazione devono ricorrere le seguenti tre condizioni (tutte ritenute sussistenti nel caso specifico): verità dei fatti esposti; interesse pubblico alla conoscenza del fatto; correttezza formale dell’esposizione. 




Un po come dire che da oggi chiunque ha -nella propria più o meno grande cerchia di amici – un modo per “denunciare” i torti subiti, quasi come se ciascuno di noi avesse un proprio “organo di informazione personale”.


Social e diffamazione

Postare commenti dal contenuto diffamatorio sulla bacheca di un social network come Facebook configura la fattispecie (aggravata) prevista dall’art. 595 c.3 c.p.?


La Corte di Cassazione si è pronunciata in questa direzione sulla questione già nel gennaio 2014 e anche recentemente nell’aprile 2015: nello specifico la Suprema Corte con sentenza n. 16712 del 22/01/2014 sancisce che sussiste l’aggravante del mezzo di pubblicità qualora il fatto sia commesso sfruttando la pubblicizzazione su un profilo di Facebook, in quanto l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti, che può essere più o meno ampia a seconda che il contenuto sia pubblico o riservato ad una determinata cerchia di soggetti.

 Lo stesso orientamento è stato ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 24431 del 28/04/2015 dove si evidenzia nuovamente come la funzione principale di un social network sia proprio quella di permettere a gruppi di soggetti di socializzare condividendo le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale che, per le caratteristiche del mezzo, è allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti.


Per questi motivi la condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, e se offensivo configura la fattispecie aggravata del delitto di diffamazione ex art. 595 c.3 c.p.


Il punto è chiaro, ed anche la ratio della sentenza.
E tuttavia vi sono alcune questioni che sarebbe – almeno per buon senso – chiarire. 
Abbiamo scoperto i social network circa dieci anni fa. Nessuno sapeva cosa fossero, come funzionassero, ma molti ne hanno intuito essenzialmente l’aspetto ludico e quello legato alle potenzialità di marketing. Pochi lo hanno usato in maniera consapevole. 
Anche peggio se consideriamo che si può aprire un profilo Facebook a quattordici anni – età in sé in cui si è difficilmente perseguibili per moltissimi reati – e tuttavia i social network sono un luogo privilegiatissimo per compierli e subirli (dalla violazione della privacy, allo stalking, all’adescamento, alle vendite illegali, e così via). 



Se certamente il principio de “l’inserimento di una certa frase diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti” equipara Facebook a livello di pubblico ad un giornale, possiamo considerare lo stesso reato se compiuto da un giornalista professionista adulto – e quindi sciente e cosciente e consapevole sino in fondo – rispetto ad un ragazzino che scrive su un social (anche se lo leggono forse più lettori di un quotidiano)? 
E basta affidarsi nella comminazione di pena e sentenza al “buon senso” del magistrato giudicante finale che dovrebbe poi tracciare questa differenza?


Sono quesiti aperti ma su cui – credo – sarebbe corretto e saggio riflettere a che la giurisprudenza non debba prevenire il legislatore. E una sana educazione digitale prima di tutto a casa e a scuola.