Intervista a Fabio Vittorelli: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”

Il milanese Fabio Vittorelli si contraddistingue straordinariamente per la capacità di catturare la magia della e nella quotidianità, con grande spontaneità. L’osservatore si stupisce tramite gli occhi del fotografo, non molto differenti da quelli infantili, e viene improvvisamente catapultato in un mondo non estraneo ma filtrato in maniera creativa. Il soggetto, pur appartenendo alla realtà, viene ritratto attraverso un punto di vista poco comune, scaturendo di conseguenza emozioni naturali ed estremamente umane.


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Come nasce la sua passione per la fotografia?


Fin da giovane, ancora adolescente, con una macchina fotografica allora analogica. Da allora la passione è rimasta, raggiungendo poi una diversa intensità nei vari anni.


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Le è capitato di fotografare in più parti del mondo. C’è una zona a cui è più legato?


Direi di no. In ogni luogo, cerco di rappresentare il mondo con cui interagisco. I contesti urbani, comunque, sono quelli che mi attraggono maggiormente.


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Quale crede che sia il filo conduttore di tutte le sue immagini?


Negli anni è progressivamente mutato il mio approccio con la fotografia. Ho iniziato con fotografie prevalentemente di architettura, poi mi sono avvicinato di più alle persone, che hanno iniziato a popolare le mie fotografie. Attualmente, le persone sono al centro di quasi tutti i miei scatti.


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Come si pone verso i soggetti ritratti per strada?


Cerco sempre di raccontare una loro storia, quello che vivono in quel momento, almeno, per come io lo percepisco. E’ un esercizio umano molto interessante: spesso non riesco a scattare nessuna foto, ma ho avuto lo stesso modo di vivere una parte della loro vita, dei loro pensieri. Bisogna imparare prima a stare in mezzo alla gente, nel modo più discreto possibile; la fotografia viene dopo. Credo anche che la fotografia di strada contenga una parte di magia. Il fotografo di strada può solo intuire una certa situazione, ma non può determinarla. Certe volte basta un attimo, altre volte, anche una lunga attesa può non portare a nessun risultato valido.


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Come definirebbe la Fotografia?


Credo che questa definizione di Neil Leifer possa rispondere a questa domanda: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”


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Qual è la sua idea di “buona fotografia”?


Una fotografia che esprima una sua verità, anche se parziale, la verità del fotografo e/o quella del soggetto fotografato: una fotografia che ci lascia dentro qualcosa è una buona fotografia.


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Come riconosce se una sua immagine è valida?


Faccio ancora molta fatica a essere critico con quello che scatto, ho spesso bisogno di qualche parere esterno oppure di far trascorrere del tempo, per avere un coinvolgimento diverso. E poi ci sono delle fotografie che sono valide per me e non lo sono per altri: ma forse questo è un lato positivo.


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Quali sono le differenze che incontra tra il fotografare per strada e ritrarre corpi femminili nudi?


Il passaggio più recente, ai ritratti e al nudo, è stato il passo successivo dello stesso percorso: ho cercato di entrare sempre di più in relazione con il soggetto fotografato, ma non in modo casuale come avviene nella street photography, ma in modo concordato, programmato, studiato. Questa è la mia fase di studio attuale, anche se la mia natura principale è sempre quella della foto di strada. Mi sono già reso conto, però, che questa fase attuale mi sta insegnando molto: mi rendo conto che questo esercizio mi è molto utile, anche nella fotografia di strada, che paradossalmente è molto diversa. Forse sto imparando un nuovo modo di interazione.


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Cosa ne pensa dell’attuale diffusione della fotografia come forma espressiva?


Siamo sottoposti quotidianamente a un grandissimo flusso d immagini, spesso però del tutto omologate fra loro. E’ positivo però che tutti ormai possano fotografare e condividere i loro scatti: la tecnologia ci ha fornito strumenti che anni fa non esistevano.


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Ci sono fotografi o registi che lo hanno ispirato?


Ci sono molti elementi che mi ispirano, è difficile dirlo. Una scena particolare di un film che magari rivedo molte volte, oppure uno spot pubblicitario particolarmente riuscito, un video su youtube, un quadro magari sconosciuto visto per caso in una mostra. Un po’ come nella street photography, ogni tanto il mio occhio cade su un soggetto o su di una situazione che sento in sintonia con qualcosa dentro di me. In ogni caso incidono sicuramente la pittura, fotografia e i film che vedo, ma anche i viaggi sono fonte di ispirazione.


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https://www.fabiovittorelli.com/

L’Adorazione dei Magi di Perugino a Milano

Come ogni anno, il Comune di Milano regala ai propri cittadini e ai turisti che riempiono la città durante le Feste natalizie una straordinaria possibilità di vedere da vicino un capolavoro proveniente da un Museo italiano o straniero.

Lo scenario è sempre la sala Alessi di Palazzo Marino, il Municipio di Milano, dove, dal 1 dicembre 2018 al 13 gennaio 2019, è possibile osservare da vicino, con una validissima spiegazione, l’Adorazione dei Magi di Pietro Vannucci, detto il Perugino, proveniente dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia.

Curata dal direttore della Galleria, Marco Pierini, la mostra è promossa da Comune di Milano e Intesa San Paolo, patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e organizzata con la collaborazione della Galleria Nazionale dell’Umbria, della Regione Umbria e del Comune di Perugia.

La pala è un’opera giovanile di Perugino (Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523). Pietro fu uno dei maestri del Rinascimento italiano, che si formò a Firenze con Andrea del Verrocchio e dove divenne pittore affermato, tanto da aprire due botteghe parallele, una nel capoluogo toscano e un’altra a Perugia. Dopo un decennio di attività soprattutto in Umbria, venne chiamato a Roma nel 1479 per la decorazione della Cappella Sistina, in collaborazione con pittori fiorentini come Botticelli e con un giovane artista umbro destinato a grande fama, Pinturicchio. Qui, con la Consegna delle Chiavi, Perugino lasciò un autentico capolavoro, che raccoglie l’essenza della sua opera: la prospettiva derivata da Piero della Francesca e dagli studi di Leon Battista Alberti e Luca Pacioli, insieme al colore erede della tradizione di Beato Angelico e Benozzo Gozzoli e ai paesaggi, frutto della lezione di Verrocchio. Subentratogli Luca Signorelli, Perugino lasciò Roma per tornare a lavorare tra Firenze e Perugia. Fu in questo periodo che, raggiunta una fama notevole, Pietro iniziò un’attività sempre più frenetica, che lo portò, spesso, a riprodurre gli stessi schemi pittorici per realizzare più pale d’altare nel minor tempo possibile: fu per questo che Vasari, nelle Vite, ebbe modo di criticare la sua opera. A Firenze si sposò  nel 1493 e, qui, iniziò a frequentare i circoli di Lorenzo il Magnifico e l’Accademia Neoplatonica, approfondendo la prospettiva nei suoi dipinti, che divenne aerea e scenografica, con grandiosi portici sotto cui Perugino tendeva a rappresentare le figure. Fu in questo periodo che, nella sua bottega fiorentina, arrivò, da Urbino, un giovane destinato a grande fama, tale Raffaello Sanzio, che, sempre, fece riferimento agli schemi compositivi e prospettici del maestro. La pittura di Perugino, specie quella religiosa, divenne, poi, amata da Savonarola e dai suoi seguaci per la semplicità compositiva e la purezza stilistica. Anche dalla bottega umbra uscirono numerose opere, ma quella più significativa fu la decorazione del Collegio del Cambio di Perugia, realizzata a cavallo tra gli ultimi anni del ‘400 e i primi del ‘500, nelle cui scene allegoriche Perugino raggiunse il punto più alto della sua creazione e in cui fuse le lezioni fiorentine e romane con la tradizione della pittura umbra. Dopo una commessa mantovana non andata a buon fine e a una feroce critica da parte del Papa per la decorazione di una delle stanze vaticane, la pittura di Perugino, con i primi anni del ‘500, iniziò ad andare in crisi e a essere criticata, anche in seguito alla crescente fama dell’allievo Raffaello, ma specie per la ripetitività del suo stile, ancora legato al ’400 e non certo pronto al turbine di novità artistiche che stavano sconvolgendo Roma e Firenze e che i committenti iniziavano ad apprezzare maggiormente. I suoi ultimi anni Perugino li passò a dipingere per le chiese della provincia umbra, dove la sua pittura, ormai tradizione, veniva ancora apprezzata.

Pietro Perugino, L'Adorazione dei Magi, 1475-80, Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria
Pietro Perugino, L’Adorazione dei Magi, 1475-80, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria


L’Adorazione dei Magi è una grande pala d’altare (242 x 180 cm) e venne dipinta per la chiesa di Santa Maria dei Servi a Perugia, oggi non più esistente in quanto l’edificio venne abbattuto per fare posto alla Rocca Paolina. Nel 1543 venne trasferita in Santa Maria Nuova e, poi, nell’Ottocento, entrò a far parte del corpus di opere della Galleria Nazionale dell’Umbria. La datazione è stata un problema annoso e la critica si è dibattuta su di essa. L’ipotesi più plausibile la formulò, circa un secolo fa, Adolfo Venturi, assegnando la pala a un Pietro Perugino venticinquenne o poco più, quindi, tra il 1475 e il 1480 e collocando, quindi, la pala, nel novero della produzione giovanile umbra dell’artista. Ci sono alcuni elementi che farebbero propendere per tale ipotesi, e il più importante è quella figura che ci guarda dall’estrema sinistra del quadro: si tratterebbe dell’autoritratto dell’artista che, confrontato con altri omologhi posteriori, tra cui quello al Collegio del Cambio, porterebbe a propendere per tale datazione. Altri elementi sono i panneggi ricchi e mossi, frutto della lezione di Verrocchio ancora fresca di bottega, così come gli ornamenti delle vesti, che rimandano ai fiorentini Pollaiolo, conosciuti da Perugino durante il suo apprendistato toscano. Non manca nemmeno il rimando a Piero della Francesca, con l’albero al centro della composizione, in sezione aurea, esattamente come nel Battesimo di Cristo dell’artista biturigense. Il primo piano della scena è ancora tardogotico, frutto del modello di Beato Angelico e del Gozzoli, con figure ammassate in primo piano davanti alla capanna, posta a destra, che contrasta, nella sua semplicità, con la ricchezza delle vesti dei Magi, già tipicamente rinascimentali nella resa accurata. Alcuni critici, come Teza, hanno valutato di riconoscere, nei Magi, le fattezze dei committenti, la celebre famiglia perugina Baglioni: a Gaspare corrisponderebbe un ritratto di Malatesta, capostipite della famiglia, a Baldassarre quello di Braccio, guida della casata all’epoca del dipinto, mentre a Melchiorre quello di suo figlio Grifone, destinato a succedergli. Ciò spiegherebbe anche la collocazione dell’opera, visto che la chiesa dei Serviti era il tempio prediletto dei Baglioni.
Lo sfondo è debitore della lezione fiorentina di Andrea del Verrocchio, viste le somiglianze con quelli del giovane Leonardo da Vinci, suo compagno di bottega, ma anche, nella sua nitidezza paesaggistica, della pittura fiamminga e di Piero della Francesca, vista la conoscenza della sezione aurea e della prospettiva aerea.

L’Adorazione dei Magi
Palazzo Marino, Piazza della Scala 2, Milano
Orari: tutti i giorni, 9.30-20.00, giovedì 9.30-22.30
Ingresso gratuito
Info: Tel. 800.167.619; www.comune.milano.it; mostre@civita.it

 

 

Doria1905 al Pitti Immagine Uomo 95

PULL THE HAT OUT OF THE BAG! FALL WINTER 19

L’iconico cappello genderless si arricchisce di concept tecnici e diventa sempre più trip-addict. La nuova avventura di Doria1905 è nel movimento. Lo arrotoli, lo srotoli, lo metti in tasca e poi: Tira fuori il cappello dalla borsa!

L’idea di viaggio continua ed evolve esplorando nuove dimensioni e nuovi ambienti. Calzato da esploratori e globetrotter, il cappello Doria è l’inseparabile compagno di viaggio, pratico, ingualcibile, arrotolabile e immancabile.
Doria 1905 rende contemporaneo il concetto del viaggiare “a cappello”, tenendo a mente l’immagine visionaria di Lewis Carrol, e disegna, completando la collezione unisex, una micro-linea di bags mirate a trasportare il fedele compagno, comodamente e con un mood assolutamente stiloso. I cappelli della collezione sono stato concepiti e realizzati per assecondare con un perfect fit le loro speciali bags.


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Doria 1905 espande il suo percorso creativo nel mondo degli accessori, partendo dalla praticità per approdare a un risultato in perfetta armonia con la cifra stilistica del brand. Nel DNA della borsa lo spirito unisex e timeless del marchio, di cui lo studio tecnico e la realizzazione delle scocche protettive sono stati affidati a un giovane designer di pelletteria: Alberto Olivero.


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Lo Zaino SKUBA, la Sacca OCEAN, la Shopper HEVA e la ROLL BAG hanno un comune denominatore: trasportare e preservare la forma del cappello con soluzioni di protezione che siano esteticamente gradevoli e possano, perché no, diventare veri e propri accessori con una vita propria. Realizzati in mix di materiale spalmato e vellutato al tatto, pelle nappata impermeabile, camoscio e dettagli di sofisticate zip multi-tono, si aprono svelando inaspettati e protetti “nascondigli” per viaggiare con il proprio cappello.

I cappelli si piegano, non si sgualciscono, si bagnano ma senza lasciar passare l’acqua, si vestono di accorgimenti tecnici che li rendono più calzanti, come le reti soft e i sottogola che assicurano tenuta e quel tocco uptodate classy-sport pur non modificando il concept del brand.

Colorati, luminosi, giocosi ma anche sofisticati, i cappelli di questa collezione sono estremamente unisex e giocano con materiali lussuosi come i velour pettinati, i feltri in cashmere e lapin, paillettes, eco-cavallino, naplack e morbidissime eco-furs ma, anche tessuti tecnici come resinati, reti soft, feltri impermeabili e l’immancabile “capsule” doppiata in leggera piuma d’oca “Thindown” che apre a nuovi colori.

Piombo, Fumo, Caramel, Mou, nero Saraceno, Negramaro, Inchiostro, Lacca, Melograno, Zucca, Petrolio, blu Notte, Mattone, Glicine, Ostrica, Roccia, si fondono in una palette profonda che disegna una collezione ricca di colori.
Forme sensuali, eleganti, pulite tornano alla ribalta accanto ai capi più sfrontati e young.

L’ispirazione “Futurista” di questa collezione è tangibile in ogni aspetto, nelle innovazioni azzardate, nei colori decisi, nella ricerca, da sempre alla base del brand, di materiali inusuali, forme semplici ma dinamiche e nella costante analisi della praticità, in particolare è forte il richiamo al genio di Ernesto Michahelles, conosciuto con il suo pseudonimo palindromo Thayaht, che creò quell’indumento unico e versatile che è la tuta e che ben si sposa con la praticità tanto cara a Doria 1905, ed è in occasione del centenario di questa fortunata invenzione, che le immagini del catalogo della stagione FW 19/20, rendono omaggio al primissimo esempio nella storia del Made in Italy (la cui denominazione risale proprio al 1920) di workwear, di un abito creato per assecondare il movimento, l’emancipazione, le conquiste, il lavoro verso la costruzione di un futuro migliore. In sintonia con il puro Made in Italy del marchio i capi scelti per accompagnare i cappelli nelle immagini, autentiche tute da lavoro della storica Casa della Tuta di Torino e scarpe “antinfortunistica” di grande impatto estetico del brand padovano Dike, pensate per vestire con stile l’ambiente di lavoro.


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“Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta”. Filippo Tommaso Marinetti


TOODORIA è la capsule Doria 1905 che si propone di esaltare ed accentuare alcuni caratteri distintivi del brand tramite pezzi “outsider” ed innovativi. L’approccio “Toodoria” all’innovazione di prodotto si fonda su una continua sperimentazione e una contaminazione trasversale innovativa. Dopo la sperimentazione di prodotto avvenuta con l’applicazione di piercing, catene e zip nelle passate collezioni, questa volta Toodoria si concentra sul co-branding e, in una stagione dove la borsa diventa il naturale contenitore dei cappelli Doria, si lascia contaminare dall’interpretazione del cappello da parte del designer di pelletteria Alberto Olivero. Il risultato è una proiezione dei tratti caratterizzanti delle borse Alberto Olivero sul cappello, trasformando quest’ultimo in un container con pocket e finiture rubate al mondo delle bags.
Innovazione di prodotto, sperimentazione e cross-contamination rigorosamente Made in Italy costituiscono i capisaldi su sui si fonda Toodoria.

La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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