Alice Carli, il cambiamento che porta al progresso

EIC/ Interview Miriam De Nicolò
Photography Marco Onofri
Art Director Roberto Da Pozzo

Vintage Necklace Coppola e Toppo



Tulipani bianchi, mandarini, post-it a forma di cuore, come il piccolo portagioie rosso, una brocca di cristallo per l’acqua, una fila di evidenziatori perfettamente distanziati tra loro, un piccolo mazzetto di biglietti da visita con degli appunti lasciati a penna, un cahier in velluto fucsia con la scritta “obsession”, dei bellissimi posaceneri in argento dove stanno delle sigarette sfuse, questi gli oggetti parlanti che ricordo dal tavolo di Alice Carli. 

CEO e general manager di fashion, lifestyle e luxury goods, Alice Carli è una globetrotter e sceglie la sua dimora nel centro di Milano, in un elegante appartamento che parla molto di sé e delle sue radici; i lampadari hanno la “r” moscia, heritage parigino della nonna paterna, stessi rimandi per i soffitti a cassettoni e il parquet a quadri; nel grande salone in cui la luce è protagonista, la libreria Libelle Baxter in montanti laccato nero e rafia, separa la zona living dal lungo tavolo studio in marmo. Sul tavolo in vetro Gae Aulenti per Fontana Arte, il libro “Sirene” di Marco Glaviano, un Ginori con ortensia verde-lilla, un piatto in porcellana firmato Fornasetti e delle piccole scatole patisserie di Marchesi, azzurro Tiepolo. 

Il colore pare essere il comune denominatore delle stanze in casa Carli, che mentre posa per il nostro servizio fotografico indossa una imponente collana Dior Vintage e mi racconta della nonna centoduenne che chiede di fare la manicure, il giorno prima di andarsene. Disciplina e rispetto, più che semplice vanità, sono quindi nel dna di questa donna che, nella sua manìa del controllo (rimette al loro posto gli oggetti che il fotografo muove per scattare le immagini) ci lascia scoprire le sue passioni. E il suo brillante sorriso, come nell’immagine in bianco e nero che la ritrae nella foto di Nikola Borisov, o la sottoveste in raso nero di Rossella Jardini che ci accoglie all’entrata, lasciata cadere da un faretto dello stesso colore. 

Ma è nella dedica che le scrivono dietro ad una sua foto, che comprendiamo quel lato di Alice che invano e purtroppo nasconde: 

T’insegneranno a non splendere. E tu splendi invece“.

Quali sono i fondamenti di un manager d’azienda?  

Sono un direttore d’azienda da ormai 25 anni, i fondamentali sono la parte più strategica e dalla mia, un driver enorme sull’innovazione e sulla progettualità. 

Il tema dell’ innovazione che mi segue con la curiosita da quando ero bambina, è quello che nell’arco degli anni mi ha permesso di rimettermi in gioco, ho ripreso a studiare a 39 anni ad Harvard specializzandomi nel settore della strategia e dei trend post Pandemia, sono tematiche importanti oggi, che necessitano di approfondimenti e ricerche. E’ avvenuto durante il lockdown, un momento di grande chiusura di mercati e non avevo la minima intenzione di stare ferma a guardare, avevo l’esigenza di studiare e capire dove stava dirigendosi il mercato.

E sostenibilità è oggi un’altra key-word importante, perché se il digitale aveva soverchiato i canoni geografico/commerciali, la pandemia ha soverchiato i canoni di qualunque dimensione, l’etica per esempio, che è diventata importante per fortuna, superando la sola estetica. 

Un esempio di azienda che risponde a questi canoni? 

Diverse. Certamente quelle con cui collaboro, perchè guidate da grandi leader visionari da cui ho modo di imparare ogni giorno. Sono Advisor per la Sostenibilità per il SCR500 da Kaufmann & Partners di Francesco De Leo Faufmann; Direttore Generale di  GAIT-TECH Srl, la neonata ma già premiatissima a livello internazionale start up in cui la biomeccanica è al servizio della salute delle donne che stanno sui tacchi;  Advisory Board Member per la digitalizzazione d’azienda e lo shift verso un posizionamento Rigenerativo per Image Regenerative Clinic, dove il Professor Carlo Tremolada, PhD, ha brevettato Lipogems, un lavoro sulle cellule staminali, una bellezza che accompagna e non distrugge.

Quante ore ha un giorno? 
Dipende. 24, ma se mi alleno la mattina anche di più.

Come approcci per la prima volta all’interno di un brand già avviato per lanciare nuove strategie di marketing?
Ascoltando tantissimo, intervistando tutta la prima linea, leggendo i numeri e se esiste una proprietà, sicuramente ascoltando loro in primis, se esiste un management, ascoltando loro e se esiste un archivio o una storia, studiandola approfonditamente. Una visione nasce dagli studi di tendenze e dal matrimonio con l’heritage del marchio. 

Era il tuo sogno sin da bambina o avresti scelto anche un altro mestiere? 
Forse avrei scelto la ricerca scientifica in ambito medico. Me ne sono resa conto durante l’intervento molto serio che ha subìto mio padre, ho pensato che l’innovazione in ambito medico non è un plus ma una conditio sine qua non. 

L’innovazione è sempre progresso? 
 Spesso, non sempre. La verità sta nel mezzo, come spesso accade. E peraltro il progresso fa spesso paura, è un elemento dirompente, non ben accetto. Quanto meno da tutti.

Dall’analisi di numeri e statistiche, che cosa vuole il mercato?
Verità e trasparenza. Davvero la pandemia ha cambiato il modo di comunicare delle aziende. Se oggi una società dichiara di essere sostenibile, deve dimostrarlo anche attraverso lo stile di vita dei propri dipendenti. Il consumatore è sempre più pretenzioso e sempre più curioso, se un tempo esisteva il customer service, ora il servizio clienti sono i social media, sono la linea WhatsApp, avere una persona dietro quel numero di telefono e non più un robot, è un servizio più inclusivo finalmente. 

Hai dichiarato diverse volte di aver accantonato la tua vita privata per dedicarti totalmente al tuo lavoro .
Dopo i 30 anni è evidente che il mio lavoro sia anche parte di me. Quando si lavora con amore e passione, le rinunce si alleggeriscono. Oggi ciò che è cambiato è il mio privato, che rimane per l’appunto una questione intima, non alla luce del sole. 

Amore e Odio 
Amo mia madre, mia nonna, i miei amici, il mio lavoro, la mia coach, anzi le mie coach e me stessa. 
L’odio è una perdita di tempo, l’ho sentito su di me molte volte, ma dobbiamo già lottare contro le malattie, le violenze, le ingiustizie… io non ce l’ho mica la voglia di odiare. 

Quando hai sentito d’esser stata “odiata”? 
Quando sei una persona con dualismi molto forti, seppur rimanendo coerente, ce lo si aspetta. 
Sono molto forte ma nell’intimo fragile, molto dolce, ma anche molto decisa, tenera ma tenace, una resiliente. Come la disciplina del Garuda infatti.

La tua coach Sorbellini ti ha descritto come una donna testarda.
Direi disciplinata. Però lei di me può dire quel che vuole, è da anni la mia guida.

E tu come ti descriveresti?  
Determinata, dolcissima e protettiva. 

Domanda di rito, quanto sei Snob? 
Sembro molto snob e non ho ancora capito perché. Eppure mi dicono tutti di essere empatica. Probabilmente la mia immagine trasmette un distacco totale, ma in realtà sono una persona estremamente aperta. Anzi, non potrei essere così change maker, così proiettata. E la parola snob oggi dovrebbe essere antesignana, non una colpa. 
Non a caso voi lo fate in modo ironico, provocatorio. 

Per noi infatti ha un’accezione molto positiva rispetto a quella popolare. Per noi snob è colui che sceglie l’eccellenza. 
Se per Snob si intende la capacità di discernere qualità ed eccellenza, allora io vivo di quello, sempre nella speranza di poter vivere un mondo diverso, dove ci sia una capacità e una possibilità di espressione totale. 

La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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Gli angeli orfani di Elio Fiorucci

Si è spento nella giornata di lunedì 20 luglio il visionario imprenditore che, nel pieno dei moti rivoluzionari di fine anni ’60, ha cambiato il modo di percepire la moda in Italia e nel mondo.

Milano. Possiamo definirci una generazione di angeli orfani della nuvola di divertimento e provocazione, creativa e visiva, che accompagnava l’universo di Elio Fiorucci, spentosi all’età di 80 anni.

Sui social network rimbalzano post, tweet e articoli intenti a ricordare il folle meneghino che importò in Italia la rivoluzione del costume proveniente dalla Swinging London. Colui che aprì le porte verso una via di fuga dall’ancora ingessata e borghese Italia.

Il primo al mondo a ideare, nel 1974, un concept store multisensoriale, dove si potevano non solo acquistare articoli di vario genere, ma assistere a performance, degustare il “tè delle 5” e mangiare deliziosi hamburger su piatti di Richard Ginori.

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La Milano libera e cosmopolita di Fiorucci venne catapultata, grazie al suo estro e alle advertising dallo spirito ribelle, firmate da Oliviero Toscani, ad onor di cronaca.
Seguirono i monomarca in giro per il mondo, alcuni dei quali firmati in collaborazione con Ettore Sottsass, Andrea Branzi e Franco Marabelli, per poi finire nelle grazie del re della Pop Art, Andy Wahrol, che scelse di presentare il suo magazine “Interview” proprio presso una boutique Fiorucci; senza dimenticare la consolidata amicizia con Keith Haring, che dipinse le vetrine in San Babila.

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Antesignano è dir poco quando, con Lycra, diventò fautore del primo jeans stretch. Quello nato a inizio secolo come indumento da lavoro, grazie a Fiorucci viene proclamato elemento chiave del guardaroba di tutte le donne che vogliono sentirsi sexy e desiderate.

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Un marchio come espressione di uno stile di vita, senza regole e costrizioni, emblema della felicità e dell’anticonformismo di una società libera di indossare, a qualsiasi età, t- shirt con i personaggi Disney e scaldamuscoli in pieno “stile Flashdance”.

Con l’inizio degli anni ’90 il brand viene acquistato dai giapponesi per affdare a Fiorucci solo la direzione creativa.
La “sua terapia dell’amore” continua negli anni a seguire con iniziative e progetti benefci fno a pochi giorni fa quando ancora dispensava sorrisi e consigli ai vicini di quartiere in Porta Venezia.
Lui che con quegli angeli vittoriani, logo del brand progettato insieme all’architetto Italo Lupi, ha finito per giocarci davvero.

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