Tutti i capolavori del ‘900 alla Milano Drawing Week

Milano non si ferma mai, è come quegli androidi di Alien che fanno tutto il lavoro ininterrottamente, giorno e notte, mentre gli altri, gli esseri umani, riposano. Ma a differenza loro è buona, perchè ci regala un’altra settimana dedicata a cosa? Al disegno. Dal 25 novembre al 3 dicembre, potrete godere dei capolavori di artisti del XX secolo, parte della Collezione Ramo che ne conta ben 700, presso le migliori gallerie di Milano, gratuitamente.

Tra un caffè in centro e una passeggiata per negozi, avrete l’occasione unica di vedere da vicino quello che rimane custodito con cura maniacale e certosina, in caveau dedicati, i disegni di Umberto Chiodi, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni, Alighiero Boetti, etc… selezionati per l’occasione da artisti emergenti, che avranno l’onore di accompagnare la loro opera a quella del loro idolo, mentore, maestro.

Accompagnati dalla curatrice della MDW, Irina Zucca Alessandrelli, abbiamo iniziato il percorso dal Museo di Storia Naturale, dove espone l’artista francese Mad Meg, con opere su carta di due metri e mezzo, una collezione intitolata “Patriarchi”, una denuncia dell’uomo maschilista. Sono giganti insetti travestiti da uomo, e accomunati da comportamenti bizzarramente simili, come l’impollinatore che identifica la figura femminile come mera incubatrice; o il cercatore d’oro con la testa di mosca, che riprende una vecchia fotografia di Bernard Otto Holtermann che nel 1872 trovò nella sua miniera la pepita d’oro più grande del mondo; uno sfottò alla smania ossessiva di ricchezza, che viene paragonata allo sterco cui la mosca si avvicina.

I disegni di Mad Meg sono realizzati a pennino e china, con una esposizione del particolare fatto con incredibile minuzia; le opere sono messe inoltre in relazione alle specie catturate dalla sezione entomologica del Museo di Storia Naturale, in accordo con i protagonisti della serie d’artista; sono insetti stecco giganti della Malesia, bruchi, crisalidi, lepidotteri notturni adulti, impollinatori come il bombo comune, l’ape legnaiola, l’ape domestica o da miele con esemplari di tutte le caste (regina, fuchi e operaie) e alcuni frammenti di favi, mosche della famiglia delle Sirfidi e alcuni tra i coleotteri più ricercati dai collezionisti, i carabi e le cicindele.

Mad Meg sceglie “Studi per archeologi” di Giorgio de Chirico dalla Collezione Ramo, per la terza esposizione della Milano Drawing Week, un’opera che riprende i concetti della grecia classica e dei manichini, esordio dello studio della pittura metafisica, affascinata dal modo che de Chirico ha di rappresentare gli spazi mentali e le allegorie del XX secolo.


Proseguendo il giro, alla Galleria Tiziana Di Caro, sita in Via Gioacchino Rossini 3, l’artista Luca Gioacchino di Bernardo all’interno della sua personale, sceglie dalla Collezione Ramo, l’opera di Gianfranco Baruchello, l’artista che cercò per tutta la vita l’interscambiabilità tra natura e arte. Fondò l’Agricola Cornelia spa, dove svolgeva attività di agricoltore dedicandosi alla terra, all’allevamento di bovini e ovini, dove il silenzio di una stanza d’artista era necessariamente interrotto dall’urgenza di un parto di una vacca. E nel seguito lo si vedeva ritornare con un pennello in mano, a disegnare l’opera che aveva appena vissuto sulla propria pelle.

“Ho scelto “Skizo corpus philosophica” poiché trova riscontro con una mia tutt’ora viva ricerca tra la stretta comunanza archetipica tra l’albero e la figura umana.” racconta Luca Gioacchino di Bernardo, attorniato dalle nodose radici dei suoi disegni che nascondono codici indecifrabili, espressioni, frasi oniriche. Radici portate alla luce e vivisezionate come corpi, una specie di radiografia che sembra più rivolta a se stesso che ad un oggetto preso in prestito.

Nella Galleria Renata Fabbri di Via Antonio Stoppani 15/c, troviamo il colore di Serena Vestrucci che, attraverso l’uso del pennarello e della forza che impiega nel colorare su carta, indaga l’aldilà. Lo fa toccando il fondo, stressando la carta fino al punto di rottura. Cosa troveremo al di là del foglio? Cosa si cela dietro un gesto ripetuto, ordinario, superficialmente banale del colorare? La risposta è incorniciata accanto all’originale, il retro si mostra di fianco al davanti, il mistero vicino al reale, l’ignoto accanto a ciò che ci aspettiamo. Ed è questo ignoto che ha colpito l’artista nella scelta de “I vedenti- Eterno dilemma tra contenuti e contenitori” di Alighiero Boetti, che per tutta la sua vita artistica ha ricercati l’aspetto del vedente e del visibile, anche attraverso quest’opera dedicata ai vedenti colpiti da cecità, per alludere a chi non lo è.

Nello studio di architettura e spazio espositivo indipendente, Spazio Lima, l’installazione unica di Benni Bosetto
che ricopre le pareti come carta da parati. Ripetizioni di immagini, corpi e simboli elusivi, segni grafici come codici e linguaggi nascosti, perfettamente coesi con la ricerca verbo visuale di Tomaso Binga, scelta da Collezione Ramo per questa edizione MDW con “Dattilocodice” tavola n.13 del 1978.

Bianca Pucciarelli Menna, la vera donna che si celava dietro il nome d’artista Tomaso Binga, per facilitarsi un percorso artistico al tempo chiuso al mondo femminile, lavora da sempre con la parola scritta desemantizzata, lettere che mescolate insieme, scritte l’una sull’altra, danno vita ad codice nuovo, lontano dal significato corrente che invece distrae, per riappropriarsi interamente della propria identità.


Chiude il nostro primo viaggio, il dialogo inedito tra i due Boccioni al Castello Sforzesco.

Controluce“, opera della Collezione Ramo che l’artista in vita espose ben due volte, la prima con la famiglia artistica di Milano nel 1910, e la seconda nell’estate dello stesso anno presso Palazzo Pesaro a Venezia, fu dapprima proprietà della nota intellettuale e critica d’arte Margherita Sarfatti.

Sullo sfondo, la periferia cittadina, in primo piano, una giovane donna dall’amabile sorriso, avvolta da uno scialle che le accarezza una guancia, e da una luce che penetra la figura e la inserisce, fondendola, con l’ambiente circostante.
Trattasi della svolta futurista della compenetrazione dei piani, qui ancora con un tratto a grafite divisionista, ma vicinissima al percorso stilistico che toccherà Boccioni, visibile nei capolavori affiancati de “La madre seduta con le mani incrociate“, 1911 e 1912 appartenute a Collezione Ramo e al Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano la seconda.

E’ un’occasione unica di poter vedere per la prima, e forse unica volta (chissà), due capolavori affiancati che hanno
generato la rivoluzione futurista.

Tutte le info della Milano Drawing Week qui.

Controluce“, Boccioni 1910




India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri 

India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri 

a cura di Filippo Maggia

11 novembre 2023 – 18 febbraio 2024
Magazzino delle Idee
Corso Cavour, 2 | Trieste

Dall’11 novembre 2023 al 18 febbraio 2024 il Magazzino delle Idee di Trieste presenta India oggi. 17 fotografi dall’Indipendenza ai giorni nostri, a cura di Filippo Maggia, prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia, prima mostra a raccogliere e a presentare a livello europeo settant’anni di fotografia indiana in un unico grande progetto espositivo composto da oltre 500 opere tra fotografie, video e installazioni.

Attraverso racconti visivi, esperienze, testimonianze e indagini, India oggi traccia un percorso storico-sociale che muove dal Mahatma Gandhi e dal decennio immediatamente successivo all’indipendenza dall’Impero britannico nel 1947 fino ai nostri giorni. Dal passato postcoloniale all’affermazione fra le maggiori economie internazionali, la mostra testimonia la radicale trasformazione di cui è protagonista il subcontinente indiano, forte di uno sviluppo esponenziale che deve fare i conti con profonde contraddizioni e disuguaglianze sociali. A cogliere i molteplici aspetti di questa evoluzione, fra tradizione e cambiamento, è lo sguardo fotografico di diciassette artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.

Autori affermati e nuovi protagonisti della fotografia indiana contemporanea, interprete sempre più attenta e profonda del presente e del prossimo futuro che contraddistinguono il subcontinente indiano.

“Il processo di repentina e inarrestabile evoluzione economica e industriale in atto in India dalla fine dello scorso millennio – scrive Filippo Maggia nel suo testo di introduzione al catalogo – sta provocando gravi conseguenze sia sociali, quali questioni di genere, identità e religione, sia ambientali. L’inevitabile spopolamento delle campagne e delle zone rurali, dalle pendici dell’Himalaya sino all’estremo sud del Kerala, ha portato al sovraffollamento di metropoli quali Mumbai, Nuova Delhi o Calcutta, con un forte impatto sull’ambiente, che alle volte implica addirittura lo spostamento coercitivo di milioni di persone da una regione all’altra. È di questi temi che si occupa oggi principalmente la fotografia indiana, ormai emancipata dall’immagine tradizionale dell’esotica India colorata di salgariana memoria”.

La mostra presenta le opere dei 17 artisti seguendo un ordine cronologico che avanza per decenni, dalla metà del ventesimo secolo fino al nuovo millennio, lasciando poi ampio spazio ai lavori degli autori contemporanei. Un racconto fatto attraverso le immagini che gli artisti hanno scattato vivendo l’esperienza diretta, del momento consapevolmente partecipato e restituito attraverso la fotografia, adottata in questo caso come testimone. Nel percorso espositivo ogni autore viene introdotto da uno statement che descrive la genesi e lo sviluppo della ricerca del lavoro svolto.

Completano la mostra 15 interviste audio video realizzate in India lo scorso marzo con gli artisti. 

Si parte da Kanu Gandhi, nipote del Mahatma, che ha ritratto in pubblico come in privato Mohandas Karamchand Gandhi negli anni in cui professava la disobbedienza civile, viaggiando in treno da una città all’altra e incontrando politici e militanti, raccogliendo emozionanti immagini dell’India impaziente nel volersi affrancare dal dominio britannico, pronta e solerte nel seguire il suo leader e abbracciare l’attivismo nonviolento da lui esercitato.

Con Bhupendra Karia, insegnante, teorico, curatore (partecipa alla fondazione dell’International Center of Photography di New York con Cornell Capa) la fotografia assume nuove valenze: nell’esplorazione dell’India rurale post indipendenza, visitando piccole città e villaggi, Karia associa a un’indagine di carattere antropologico e documentaristico personali riflessioni sulle sfide sociali, politiche e ambientali che il subcontinente dovrà ora affrontare. Gli anni Settanta sono gli anni di formazione di Pablo Bartholomew: Outside In è la sua narrazione in prima persona di dieci anni trascorsi tra Delhi, l’allora Bombay, e Calcutta con l’entusiasmo e l’incoscienza caratteristici di un ventenne affamato di vita, di strada, di esperienze, proiettato verso la scoperta e la sperimentazione, abile nell’inventarsi inchieste in ambiti sociali sovente difficili da fronteggiare.

A cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Ketaki Sheth annota sulla pellicola 35 millimetri la metamorfosi in atto già da qualche anno a Bombay a seguito del boom edilizio e del massiccio arrivo di immigrati da altri stati indiani, attratti dalla forza propulsiva della metropoli del Maharashtra. Le sue immagini fortemente contrastate coniugano tradizione e cambiamento, in un classico esercizio di street photography dove l’uomo è sempre al centro.

Manifesto esplicito di un primo importante cambiamento nel Paese è il lavoro di Sheba Chhachhi, attivista e cronista del movimento femminista indiano. Particolarmente interessante è la serie Seven Lives and Dreams avviata all’inizio degli anni Novanta, in cui la Chhachhi, con la collaborazione di sette donne, abbandona l’approccio reportagistico per riflettere sulla natura del reale comunemente percepito in un esercizio di stage photography. Raghu Rai, considerato oggi unanimemente uno dei maestri della fotografia indiana (dal 1977 è membro dell’agenzia Magnum, ove fu introdotto da Henri Cartier-Bresson), riunisce nelle sue fotografie i quattro decenni che intercorrono tra gli anni Sessanta e il Duemila. La sua narrazione per immagini del subcontinente indiano, pur scorrendo secondo un registro documentaristico che annovera non a caso i celebri reportage su Madre Teresa di Calcutta o il disastroso incidente industriale di Bhopal del 1984, presta molta attenzione alla costruzione formale della scena ripresa.

Nel nuovo millennio la fotografia indiana inizia a circoscrivere il proprio campo d’indagine affrontando temi e questioni urgenti come, ad esempio, i diritti della comunità LGBT. Diari privati, raccolte di immagini e album fotografici pazientemente assemblati negli anni: così si presentano i lavori di Sunil Gupta, Anita Khemka,

Serena Chopra e Dileep Prakash, storie individuali che assumono valore universale. Anita Khemka ci ricorda che gli Hijra (transessuali) esistono da secoli nella sottocultura del subcontinente indiano, tanto da essere sovente citati nei racconti della tradizione popolare e in letteratura. Sono tollerati e vivono di espedienti, in diversi casi riunendosi fra loro in comunità dirette da un guru. Nepal, Pakistan, Bangladesh e India hanno riconosciuto gli Hijra come appartenenti a un terzo sesso transgender. Per oltre due decenni la fotografa ha seguito l’evoluzione di Laxmi che ha fatto carriera in politica, e oggi presenta la sua vita in un’installazione che vuole restituire il personaggio per quello che è, nella sua naturale schiettezza e genuinità, oltre la diversità.

Serena Chopra per otto anni ha frequentato il campo profughi di Majnu ka Tilla, raccogliendo immagini e testimonianze sonore, scritti e disegni realizzati dagli esuli tibetani. Il suo non è solo un diario, ma un contenitore di memorie e un termometro generazionale, utile a misurare quanto la cultura tibetana riesca a sopravvivere e tramandarsi di generazione in generazione pur lontano dal proprio Paese d’origine. 

Dileep Prakash ha speso oltre due anni viaggiando e visitando diverse comunità, con l’obiettivo di capire quanto il legame fra due differenti culture perduri vivo e autentico. In particolare, ha indagato sulle eredità postcoloniali, le comunità anglo-indiane formatesi nel corso di un secolo di commistioni fra inglesi e indiani. I suoi ritratti, più che riprendere uomini, donne, giovani e anziani, coppie e nuclei familiari, sono frutto di attente osservazioni ambientali e valutazioni collettive.

Vicky Roy scappò di casa all’età di undici anni e visse per le strade di New Delhi fino a che venne salvato da un’organizzazione no profit che lo aiutò e lo sostenne negli studi. Il suo lavoro come fotografo affronta un dramma irrisolto e di costante attualità della società indiana: sono oltre dieci milioni i bambini indiani orfani o abbandonati che vivono per strada mendicando, vittime di abusi e sfruttamento. Le sue fotografie restituiscono un’immagine piena di vita e di speranza di questi adolescenti, vogliono essere un appello per riuscire a dare loro un futuro, soddisfare le loro speranze e sogni.

Amit Madheshiya nelle sue fotografie ritrae i volti perduti, stupiti e rapiti di indigeni che assistono alla proiezione di film sotto tendoni improvvisati di cinema itineranti. Sono in gran parte allevatori di bestiame e agricoltori e rappresentano l’altra faccia dell’India contemporanea, quella che vive nei villaggi e assiste, impotente, alla grande trasformazione in atto nel subcontinente. Di loro trattano anche i lavori di Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka e Soumya Sankar Bose

Al centro del lavoro di Senthil Kumaran Rajendran c’è la difficile convivenza fra tigri e umani, un conflitto causato da fattori quali l’aumento demografico e i conseguenti nuovi insediamenti (sono circa 56.000 le famiglie che vivono all’interno delle riserve naturali), la deforestazione, il ricollocamento delle 3.000 tigri selvatiche indiane in spazi sempre più contenuti, in condivisione o ai confini con i campi coltivati, i pascoli del bestiame, fiumi e laghi dove si pratica la pesca.

L’installazione multimediale di Vinit Gupta è un invito per la costituzione di una coscienza ecologica collettiva capace di opporsi ai crescenti interessi industriali che stanno distruggendo l’ambiente, sconvolgendo identità, memorie e tradizioni di intere comunità fino ad allora vissute in perfetta armonia con la natura. Nel suo lavoro, Vinit Gupta testimonia le lotte condotte dalle popolazioni indigene della città mineraria di Singrauli.

Ishan Tanka vuole testimoniare le proteste dei jal satyagrahis e degli adivasi: i primi si oppongono alla costruzione di un imponente progetto di sbarramento per la costruzione di dighe e conseguente allagamento di terre e spostamento di centinaia di migliaia di persone, i secondi lottano contro lo sfruttamento delle loro terre ricche di carbone e ferro.

Per non dimenticare, e per ricordare quanto il passato ciclicamente ritorni con le medesime modalità, ragioni e obiettivi, Soumya Sankar Bose ha ricostruito attraverso testimonianze dirette orali e video, ripercorrendo i luoghi e incontrando i superstiti, il cruento e disumano massacro di Marichjhapi, a Sundarban, nel Bengala occidentale, perpetrato dalle forze di polizia contro i rifugiati bengalesi di casta inferiore nel 1979.

Uzma Mohsin con il suo coraggioso lavoro dall’emblematico titolo Songkeepers analizza i meccanismi che regolano la protesta civile, e soprattutto le conseguenze che questa azione provoca oggi in India. Il fatto che il dissenso sia considerato al pari di “slealtà, antinazionalismo e sedizione” come lei stessa rammenta, è un indice estremamente allarmante per la tenuta democratica di una nazione.

“Per un’India che avanza, dunque, che morde affamata il domani, ce n’è un’altra che soffre, tenuta in disparte a guardare e subire i danni collaterali che il progresso e la necessità di avere largo consenso popolare portano con sé – conclude Filippo Maggia – Come sarà l’India del prossimo decennio, quando siederà al tavolo con le altre potenze economiche mondiali? Hum Dekhenge. Hum Dekhenge, recita in lingua urdu una poesia di Faiz Ahmad Faiz. Vedremo, vedremo…”.

Gli artisti in mostra: Kanu Gandhi, Bhupendra Karia, Pablo Bartholomew, Ketaki Sheth, Sheba Chhachhi, Raghu Rai, Sunil Gupta, Anita Khemka, Serena Chopra, Dileep Prakash, Vicky Roy, Amit Madheshiya, Senthil Kumaran Rajendran, Vinit Gupta, Ishan Tanka, Soumya Sankar Bose, Uzma Mohsin.

Lucia Marcucci, la mostra “Poesie e no”

Lucia Marcucci. Poesie e no

Lucia Marcucci. Poesie e no è un’esposizione dedicata all’artista fiorentina nata nel 1933, che ha compiuto proprio quest’anno 90 anni, è stata concepita in collaborazione con Ar/Ge Kunst ove ha aperto lo stesso 9 giugno la mostra L’offesa che si concentra, tuttavia, sui suoi ultimi lavori fino a toccare la produzione degli anni Novanta.

Tutto nasce dal titolo di una performance, concepita da Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini. Da una versione di lancio del 1963 in un piccolo teatro d’avanguardia, il Grattacielo, dove Lucia Marcucci svolgeva un’assidua attività di aiuto regista, la performance finì per includere Marcucci stessa.

LA MOSTRA AL MUSEION

Si inaugura la mostra al MUSEION di Bolzano nello spazio dei Passage. In contemporanea apre anche Time Frame, ospitata invece nel Padiglione di Dan Graham, in quest’ambito si trova esposto il lavoro artistico-documentativo di Jeff Preiss, regista che filmò gli opening di una selezione di mostre dal 2005 al 2008 dell’ORCHARD Gallery di New York.

L’allestimento di Lucia Marcucci. Poesie e no, a cura dello Studio Bruno di Venezia, rispecchia la sua poetica – dirompente e spinta oltre i limiti – in maniera architettonica: a terra è tracciata una linea che va oltre il confine della parete e alcune opere sono collocate all’ingresso del Passages, come un autoritratto dell’artista datato 1967. In questo contesto viene ricostruita la sua poetica attraverso opere e documenti dal 1963 al 1979.

Si è puntato sull’esposizione di opere inedite come i cartelli stradali che Marcucci ha prelevato e modificato come “lavori forzati”, molte opere sono accumunate dalla tecnica del collage, mentre altre sono frutto di interventi pittorici diretti delle sperimentazioni degli anni Settanta. 

Poesia

È esposto uno dei tre “manifesti tecnologici” che Marcucci strappava davanti agli occhi del pubblico, durante le performance di Poesie No. Il manifesto tecnologico Loffesa dà infatti  il nome all’esposizione parallela, ospitata nella galleria Ar/Ge Kunst. Per “tecnologia” il Gruppo 70 intendeva il prelievo e l’estrazione, dai mezzi di comunicazione di massa, di significati e parole e il loro successivo rimontaggio, in forma di collage, per dare vita a nuovi concetti e allusioni. In alcune opere, ad esempio, l’artista fa uso dei caratteri mobili, li riordina e assembla a piacimento, in modo tale che, decontestualizzando le frasi di giornali e magazine patinati, il significato risulti riconfigurato in maniera corrosiva: Marcucci gioca spesso sugli stereotipi e sui luoghi comuni, cercando di rompere le righe, usa l’ironia per evidenziare come la donna venga confinata socialmente e investita di un ruolo subalterno, in qualità di diletto per gli occhi, madre, angelo del casolare, nuova consumatrice di prodotti per la cura del corpo e dell’ambiente domestico; prende, inoltre, nutrimento espressivo da testi filosofici, come gli scritti di Marcuse, sia attinge dalla cultura popolare, dal mondo del cinema e della pubblicità. Spiccano collage ricavati ritagliando le pagine dei quotidiani con la donna al centro della composizione. 

Presso il Museion, sotto teca, è possibile anche leggere alcune pagine dei copioni, utilizzati per le performance “Poesie e no”, la cui struttura ricorda quella delle pièce teatrali. Queste performance, solitamente, partivano con la sigla dell’Eurovisione, poi ognuno dei 3 componenti leggeva la sua parte, accompagnando le parole con gesti, in apparenza banali, eppure iconici e significativi, come bere una Coca-Cola, o azioni dissacranti, in contrasto con le abitudini comportamentali collettive.

Il display dell’esposizione non è organizzato secondo un ordine cronologico, al contrario, funziona per rimandi: sono presenti manifesti politici che si focalizzano sugli anni della guerra in Vietnam e sugli anni di Guantanamo a Cuba; ritagli di articoli di giornale che raccontano le reazioni sconcertate di pubblico e critica di fronte alle performance e alle operazioni di poesia visiva del Gruppo 70; poesie e scritti dell’artista. Interessanti soprattutto la copia originale del suo romanzo “tecnologico” Io ti ex amo composto con continui collage di testi scritti di suo pugno a macchina e estratti da testi di altri autori; l’originale lungo 6 metri del poema “tecnologico” L’indiscrezione è forte (1963), risultato di un assemblaggio di poesie, saggi, porzioni di poemi e letteratura in prosa che sembra alludere alla condizione femminile; la giuntatrice che utilizzava per creare le sue “cinepoesie”, unendo insieme pezzi di film ricavati da vecchie bobine. Purtroppo, a causa dell’alluvione di Firenze del 1966 che ha distrutto il suo studio, si sono salvate solo due delle sue  “cinepoesie”, in mostra è presentata quella ricavata dal montaggio sequenziale di scene di baci, sparatorie e pugni “rubate” da pellicole western o americane degli anni Cinquanta e Sessanta. È impossibile non pensare al capolavoro di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso (uscito nel 1988): i momenti più passionali in cui i protagonisti si baciavano venivano tagliati per eccessivo pudore, nella “cinepoesia” di Marcucci avviene il processo contrario ma senza intenti romantici, è come se l’artista stesse portando avanti un’indagine antropologica… emerge infatti un’estrema passività da parte dei soggetti femminili, quasi in balia del desiderio erotico dell’uomo, fragili prede e, raramente, femme fatale ma comunque sempre ninfe compiacenti nel mirino paralizzante dello sguardo maschile.

Ti amo, ti odio

Text Maria Vittoria Baravelli

I will always look for you hoping never to find you / you said to me at the last leave
I’ll never look for you always hoping to find you / I answered you (Michele Mari).

Esistono amori travolgenti, teatrali, irragionevoli, irrequieti e nostalgici. Esistono amori che è bene non rivelare a nessuno nemmeno alla persona amata. Esistono amori che sono in realtà sublimazioni e che per questo di fatto non esistono. 
Anche se Jean-Luc Godard ci insegna come l’amore prediliga al linguaggio delle parole quello dei sentimenti, noi non ci accontentiamo mai. Vogliamo parlare, parlare, parlare ed alla fine sale un gran vento che non ci permette di sentire alcunché. È solo il nostro corpo, il nostro involucro, la nostra pelle, lo strumento più sensibile per abitare la complessità del reale che si configura come una interferenza che ci salva e ci sottrae agli automatismi della smaterializzazione in un mondo digitale sempre più  fatto di pixel e codici. 
Del resto la fine del XX secolo resterà nella storia dell’arte, della fotografia anche nel diritto, come l’epoca in cui la riflessione giuridica ha dovuto riscoprire il corpo e considerarlo come uno spazio ed uno strumento per esercitare la propria libertà, la propria auto affermazione in modo assoluto. 

È passato circa un anno da quando il mondo si è spinto oltre al nostro futuro prossimo. Il metatarso ha di fatto aperto la corsa ad una dimensione nuova, a chi l’avrebbe riempita per prima e quindi meglio di tutti gli altri. 
Chat GPT ci ha dimostrato quanto possa auto generare una poesia d’amore in meno di 7 secondi seguendo stili di scrittori che amiamo.

Ma può un algoritmo, un sistema di ricerca emozionarsi per il profumo delle rose?
E in questo scenario il mondo analogico, la nostra esistenza e l’amore che fine hanno fatto? 

Veronica Gaido in questi scatti indaga il corpo che ne è la soglia; sconfina ed unisce istanze che forse non dialogherebbero e racconta della nostra figura attraverso immagini frutto di una elaborazione digitale. 
Corpi reali che diventano virtuali. Entità virtuali che rimandano all’esistenza del qui e ora. Presenze che Veronica sdoppia, modifica, sovrappone, accosta ed intreccia.  A volte le allontana dimostrando che la vita è così. Raccontando tutte le possibilità di una persona di essere “infinita” come amava dire Pasolini. 
Attraverso la lunga esposizione Veronica usa la macchina fotografica alla stregua di un pennello ed esplora il movimento e la luce. Il corpo come strumento attraverso cui conosciamo il mondo e l’altro, quella frontiera che come in una danza, ci porta ad allontanarci o avvicinarci da una persona che quando viene amata smette di somigliare a tutte le altre. 
E se davvero oggi viviamo in un lento diradarsi del confine che separa un dato oggettivo da un vissuto soggettivo, ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo è veramente reale? 
La storia della filosofia ci ricorda le mille domande poste sui fenomeni esistenziali e le poche risposte date di conoscere a noi esseri umani. 

Siamo davvero come diceva Platone nel suo Simposio, alla ricerca di qualcuno che ci completi? Due anime diverse che si abbracciano per ritrovarsi intere? Oppure aveva ragione il maestro americano Philip Roth  nell’affermare che noi esseri umani nasciamo completi  ed “è l’amore che ci spezza”? 

L’amore e la separazione, Ti amo, ti odio.

L’avvicinamento e allontanamento, un lento continuo ed incessante. Corpi che si incontrano e che si separano. Corpi che si abbracciano. Perchè quando abbracciamo qualcuno abbiamo l’opportunità di far ripartire il mondo da capo. 
Un ritmo incessante e indomabile che non riusciamo a controllare, proprio come i battiti cardiaci che ci infondono la vita. 
E allora il corpo è la soglia. Può essere frontiera o barriera. È l’essere e l’avere. È l’essere stato e l’aver avuto. Alla domanda di una giornalista “il corpo è tutto”? La poetessa Patrizia Cavalli rispondeva “Il corpo è tutto è dove sperimentano la conquista e la perdita” 

Ti amo, ti odio. Ti ho avuto e ti ho perso. La lontananza,  lo spazio che mi è dato per poterti avere ancora. 

Photography Veronica Gaido

Smach 2023, prosegue il percorso tra arte e natura della Biennale di Arte Pubblica delle Dolomiti

Prosegue fino al 10 settembre 2023 la sesta edizione di SMACH: il percorso tra arte e natura della Biennale di Arte Pubblica delle Dolomiti che festeggia il suo primo decennale.
Un percorso a tappe – dislocato tra 10 siti paesaggistici delle Dolomiti Patrimonio UNESCO – porta alla scoperta delle dieci opere di arte contemporanea vincitrici della Biennale SMACH 2023.

LIIDRIS, Anelli di crescita, 2023, installazione ambientale, ph. Gustav Willeit

È partita l’8 luglio la VI edizione di SMACH, la Biennale di Arte Pubblica delle Dolomiti, che festeggia il primo decennale della manifestazione avviata nel 2013. Le dieci opere d’arte, in dialogo con altrettanti siti paesaggistici saranno visitabili con accesso gratuito fino al 10 settembre 2023, anche con la possibilità di usufruire del tour di trekking della durata di 4 giorni organizzato da Holimites. Tutto l’anno è poi sempre aperto il parco SMACH Val dl’Ert a San Martino in Badia, anch’esso con ingresso gratuito.

Egeon, Explosion, 2023, installazione ambientale, ph. Gustav Willeit

I 10 progetti vincitori di SMACH 2023

Tra i Parchi Nazionali Puez-Odle e Fanes-Senes-Braies e in vari siti di Natura 2000, sono dislocate le opere dei 10 progetti vincitori di SMACH 2023Stefano Caimi (Italia),Fairy Ring, località Armentara; Egeon (Italia), Explosion, località Pederü; Delilah Friedman (Germania), Nexus, località Pra de Pütia; Kg Augenstern (Germania) – composto da: Christiane Prehn e Wolfgang Meyer – The Flying Herd, località Ju de Sant’Antone; Anthony Ko (Hong Kong), Disintegration, località La Crusc; Collettivo LIDRIIS (Italia) – formato da: Luigina Gressani, Giuseppe Iob, Paolo Muzzi e Carlo Vidoni – Anelli di crescita, località Forcela de Furcia; LOCI (Svizzera) – di: Wolfgang Gruber, Herwig Pichler, Allegra Stucki, Jaco Trebo – Head in the clouds, località Fanes; megx (Italia) – alias Margherita Burcini – Il popolo della corteccia, località Chi Jus; Michela Longone (Italia), I think, Val Valacia; Anuar Portugal (Messico), An Ark, Lago di Rina.


Il visitatore può scegliere autonomamente le opere da visitare o affidarsi al programma suggerito dal trekking organizzato da Holimites e suddiviso in 4 giorni.

Michela Longone, I think, 2023, installazione ambientale, ph. Gustav Willeit

Un percorso tra arte e natura, immerso negli scenari meravigliosi delle Dolomiti
La scoperta di SMACH può iniziare accedendo al percorso ad anello da uno qualunque dei siti che lo compongono, la piantina è scaricabile qui: https://www.smach.it/trekking
Iniziando la visita dal paesino di Rina, la prima opera in cui ci si imbatte è I Think di Michela Longone. L’opera è collocata nella località Runch – Val Valacia e ha tutta l’apparenza di un prato fiorito, in realtà si tratta di un’installazione realizzata con resina naturale. La frase I think è annotata nel diario in cui Darwin disegnò l’albero della vita: tale consapevolezza tolse l’umanità dal centro della natura. Nel corso dei secoli, l’uomo si è però riappropriato di questo primato: costruendo, sfruttando, inquinando. L’opera denuncia il fatto che l’uomo è l’unico animale che inquina e distrugge il proprio habitat.
Procedendo verso il Monte Muro si incontra Il popolo della corteccia di megx. Fino agli anni ’70 del Novecento, i prati di Chi Jus hanno fornito, grazie all’agricoltura e all’allevamento, le principali fonti di sostentamento della popolazione ladina. Le figure antropomorfe del “popolo della corteccia” emergono dagli alberi come altorilievi: ispirandosi alle leggende locali, l’opera immagina un’umanità in simbiosi con la natura.
Raggiungendo i prati di Putia ci si imbatte in Nexus di Delilah Friedman: una ragnatela di fili intrecciati ad uncinetto, pratica tipica della tradizione badiota, che riporta all’ecosistema di piante, funghi, batteri, insetti e animali, intrecciati tra loro in rapporto di co-dipendenza. L’opera allude anche alle sinapsi neuronali e alla “rete” del world wide web, che ormai connette globalmente gli uomini e le società della terra.
Sotto il Monte Putia è installata Anelli di crescita del collettivo LIDRISSdi cui è membro Giuseppe, paraplegico dal 2019 a causa di un incidente in montagna. La serie di anelli che nell’opera si susseguono in ordine crescente rimanda sia agli anelli della colonna vertebrale di Giuseppe – che conserva traccia del trauma subito – sia agli anelli di crescita degli alberientrambi esempio di resilienza e rinascita.
Nelle zone quasi lunari dell’altopiano della Gardenaccia, si scorge sul Lago di Rina An Ark di Anuar Portugal. La barca richiama l’Arca di Noè e contiene le piante della vegetazione circostante: un piccolo habitat, in viaggio verso il futuro, posizionato nel luogo di incontro tra la Valle Isarco, la Val Pusteria e la Val Badia, metaforico confine geografico tra ladino e tedesco, ma anche punto di incontro tra le diversità da cui può germinare positivamente il nuovo ed il futuro.

Anuar Portugal, An Ark, 2023, installazione ambientale, ph. Gustav Willeit

Proseguendo fino ai piedi del Sas dla Crusc, si trova l’opera di Anthony Ko. Per Disintegration l’artista trae ispirazione dai tablà, i capanni dove venivano conservati fieno e attrezzi. Oggi inutilizzati, l’artista restituisce valore a queste strutture della tradizione, che sono state fondamentali per la vita e la sussistenza montana.
Il percorso porta poi ai prati dell’Armentara, dove troviamo un cerchio composto da sfere riflettenti: è Fairy ring di Stefano Caimi. Questa zona è ricca di anemoni alpine chiamate in ladino stria, che vuol dire “strega”. L’opera prende spunto dal fenomeno naturale di fruttificazione di alcuni funghi il cui apparato sotterraneo, progredendo circolarmente, veniva confuso con l’andamento delle danze rituali delle streghe. Il territorio viene raccontato sia attraverso i suoi elementi naturali che tramite le credenze secolari e le leggende in esso diffuse.
Da qui si arriva al Passo di Sant’Antonio, zona in cui si trova The Flying Herd del collettivo KG Augesternil suono delle campanelle dell’opera si confonde con quello in lontananza delle mucche al pascolo. Il Passo è il punto di passaggio della transumanza, tradizione inclusa nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.
Le ultime due opere si trovano all’interno del Parco Naturale Fanes-Sennes-BraiesNell’incantevole località Fanes, si viene attirati da lontano dalla formazione di una nuvola, troppo bassa e piccola per essere “vera”: si tratta infatti di Head in the Clouds, del collettivo LOCI. L’opera nebulizza l’acqua della centrale idroelettrica del Rifugio Lavarella e gioca con il doppio senso di “avere la testa fra le nuvole” sia nel suo significato positivo, di avere la capacità di sognare ad occhi aperti, che in quello negativo riferito alla sbadataggine e all’incapacità di porre la giusta attenzione alla crisi climatica e al corretto utilizzo delle risorse, in questo caso all’uso dell’acqua. Scendendo a valle, infine, l’opera Explosion di Egeon dialoga con la località Pederu facendo riferimento al suo passato bellico: era qui presente, difatti, un villaggio militare. Il cerchio di pietre è ora uno scoppio pacifico che allude anche all’impronta delle spore dell’amanita muscaria.

SMACH. San Martin, art, culture & history in the Dolomites è la Biennale internazionale di arte pubblica ideata nel 2012 da Michael Moling, coadiuvato da Gustav Willeit e, dal 2022, da Stefano RibaPer ogni edizione vengono selezionate, da una giuria di professionisti di settore, 10 opere tramite un concorso internazionale. La mostra open air di arte contemporanea si svolge in Val Badia, nel contesto paesaggistico e culturale delle Dolomiti, patrimonio Unesco dal 2009. L’edizione 2021 ha registrato un passaggio stimato, durante il periodo di apertura, di 2000 visite in media al giorno.
Dal 2018 SMACH è anche un’omonima associazione culturale che, in sinergia con attori locali ed istituzionali, lavora per la promozione dell’arte, del territorio e della cultura, in chiave di turismo culturale, ed attiva un canale di incontro tra amanti dell’arte, appassionati di natura, turisti e professionisti di settore.
Lo scorso 14 marzo 2023 il progetto SMACH è stato insignito con una delle 10 menzioni d’onore del Premio Nazionale del Paesaggio 2022-2023 organizzato dal Ministero della Cultura.
SMACH. Val dl’Ert (www.smach.it/art-park) è la collezione permanente della Biennale SMACH, composta attualmente da 23 opere acquisite dalle passate edizioni che si arricchisce per ogni edizione della biennale di nuove opere provenienti dai progetti vincitori. Il parco, di 25 ettari, è situato in una valle incontaminata nella località di San Martino in Badia, in provincia di Bolzano. Il suo accesso è a 150 m dal Museum Ladin e crea con esso un interessante polo di attrazione turistico-culturale per tutta la Val Badia.
 
Tutti i dettagli della manifestazione, delle opere e dei siti, del tour, del programma dell’inaugurazione e delle passate edizioni sono sul sito SMACH

“Streight”l’omaggio dell’artista Pejac a chi combatte la pandemia

“Streight”l’omaggio dell’artista Pejac a chi combatte la pandemia

Nel particolare momento in cui viviamo, è facile che la paura e l’incertezza prendano il sopravvento, ma non devono mai mancare la gratitudine e la speranza verso chi lotta contro il virus.

Pejac, artista riconosciuto a livello mondiale le cui opere sono state esposte in città come Parigi, Londra o Venezia, dedica questo progetto a Santander sua città natale, come ringraziamento agli operatori sanitari della Cantabria per il loro immenso sforzo nella lotta contro la pandemia.

L’artista ha dichiarato: “From the first moment, the hospital has been receptive and enthusiasticand that has made the project flow in a harmonious and easy way..”. Fin dall’inizio, come spiega l’artista, l’ospedale è stato molto entusiasta e ben predisposto verso la sua proposta, rendendo il tutto più fluido ed armonioso.

L’artista cantabrico ha lasciato la sua impronta su diverse facciate dell’Ospedale Universitario Marqués de Valdecilla, a Santander, per rendere omaggio alle vittime del COVID-19 e per dare loro incoraggiamento e forza. Si tratta di un progetto composto da tre murales, situati su diverse pareti dell’ospedale, che cercano di trasmettere un messaggio di ottimismo davanti l’attuale difficile situazione.

Nella seconda metà di settembre, Pejac ha usato le pareti dell’Ospedale Universitario Marqués come delle tele: ‘Social Distancing’, ‘Overcoming’ e ‘Caress’ sono le tre opere che fanno già parte dell’ospedale cantabrico.

Il murales ‘Social Distancing’ gioca con il concetto di illusione ottica. Vista da lontano si presenta come una crepa nel muro, tuttavia da vicino la percezione cambia. La fessura profonda si scopre essere una moltitudine di persone i cui piccoli gesti di solidarietà ed affetto trasmettono ottimismo, invitandoci a pensare ad un futuro migliore. Proprio tra la folla, si possono notare gesti di empatia, amore che mirano ad un futuro migliore.

‘Overcoming’ è stato realizzato con la collaborazione di diversi pazienti del reparto di oncologia infantile che, con le loro mani, lo hanno aiutato a colorarlo condividendo così quella che l’artista definisce “un’esperienza indimenticabile” a livello artistico, ma soprattutto a livello personale.

In questo lavoro, osserviamo un bambino che riesce a raggiungere un punto molto alto, utilizzando la sua sedia a rotelle come una scala. L’artista riferendosi al bimbo,dice:“This is something that we, as a society could do – take this crisis anduse it to propel us forward”. – è qualcosa che potremmo fare come società: prendere questa crisi e usarla per spingerci avanti”.

‘Caress’ vuole farci riflettere su ciò che viene vissuto ogni giorno in ospedale. Due sagome nere, separate, sono ricreate sul muro. Non si possono toccare, ma le loro ombre proiettate per terra, simboleggiano quella necessità e volontà di avere di nuovo il contatto fisico, pertanto, sono riempite di colore. Con questo murales, l’artista voleva trasformare le ombre del medico e del paziente in uno stagno pieno di vita, rendendo omaggio a uno dei suoi pittori preferiti, Monet, e le sue ninfee.

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Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella: quando i disegni si fondono con la realtà

Pietro Cataudella, classe 1991, è un illustratore e content creator siciliano molto conosciuto sui social network, in particolare Instagram.

CityliveSketch è il suo progetto nato nel 2014, con lo scopo di mostrare la bellezza dei luoghi iconici, le vedute più caratteristiche del mondo, le scene dei film ed i libri più conosciuti. Per condividere tutto questo, Pietro combina in maniera impeccabile le fotografie con i disegni che realizza su un semplice quaderno da viaggio.

Pratica, perseveranza ed entusiasmo, hanno portato Pietro ad arricchire la realtà, trasformandola in un vero racconto grazie ai suoi fantasiosi disegni.

La rivista D-Art ha avuto modo di intervistarlo, ecco a voi le domande:

Parlaci meglio del tuo progetto CityliveSketch: da dove nasce l’idea e quale è stato il primo disegno?

CityLiveSketch nasce dal desiderio di voler condividere immagini che non fossero solamente fotografie, ma dei contenuti più personali e originali.

Ho deciso così di unire le mie passioni per fotografia e disegno per realizzare qualcosa di nuovo. L’idea è nata nell’estate del 2014 a Marzamemi, piccolo borgo marinaro e frazione del mio paese di origine, Pachino, in provincia di Siracusa. Questo il primo CityLiveSketch:

Dove trovi l’ispirazione?

Da tutto ciò che mi circonda, paesaggi, scorci, monumenti o oggetti di uso comune.

Come realizzi i tuoi disegni e le relative fotografie?

Inizialmente i disegni li realizzavo a matita o penna su un taccuino. Da alcuni anni ho aggiunto al mio workflow il disegno digitale. Per quanto riguarda le fotografie, le scatto tutte con smartphone.

A quale disegno sei maggiormente legato e perché?

Ad oggi sono molto legato a questa illustrazione, realizzata durate il periodo di lockdown perché è una sorta di inno al ricongiungimento con i propri cari.

Ti ispiri a qualche artista in particolare?

Non proprio, cerco di avere sempre un mio stile riconoscibile.

Progetti per il futuro?

Spero di poter tornare presto a viaggiare in totale serenità e sicurezza per scoprire nuovi posti ed includerli in maniera creativa ed originale al mio progetto @CityLiveSketch.

Coronavirus, 10 musei dal divano di casa

Coronavirus, 10 musei dal divano di casa 



Se la cultura è un bene di tutti, ora più che mai i paesi si uniscono per dire che è anche accessibile a tutti. 



Causa emergenza COVID-19, anche i Musei e i luoghi di culto hanno chiuso le porte ma non l’accesso virtuale; la cosa bella è che comodamente sdraiati sul divano di casa, possiamo prendere un aereo immaginario e volare fino a New York o a San Pietroburgo per visitare il MOMA e l’Hermitage. Niente code, nessuna folla davanti ai quadri, niente commenti sciocchi alle vostre spalle: “Oh bello, Oh meraviglioso, Oh cos’è sta roba?!”… Potrete goderveli e studiarveli dimenticandovi del tempo, soffermarvi sui dettagli quanto vorrete, esplorare le opere d’arte ad alta definizione, camminare verso le stanze vuote. 

Qui alcuni tra i musei nazionali e internazionali che offrono il servizio online e altri su cui potrete finalmente dedicare il vostro tempo ad imparare l’arte, e a metterla da parte. 

1. MUSEO DEL PRADO 



Una delle opere più significative dell’arte figurativa europea è il “Saturno che divora i figli” di Francisco Goya (1821-23), conservato al Museo del Prado di Madrid
Secondo la mitologia greca Crono, il più giovane dei Titani, il protagonista del dipinto, sapeva che sarebbe stato privato del potere da uno dei suoi figli, cosicche’, preso dalla rabbia, iniziò a divorarli tutti uno ad uno. La foga, la pazzia, il cannibalismo di Crono è in netto contrasto con la debolezza del piccolo corpo deturpato e sanguinolento; il piccolo non può nulla contro l’esplosione cieca della violenza. E’ un’opera cruda di una ferocia che si legge sulle mani dure e nervose di Saturno che non allenta la preda di quel corpicino innocente. Immerso nel buio più nero, la scena potrebbe significare il conflitto tra vecchiaia e gioventù, oppure il ritorno di un assolutismo in Spagna che limitava ogni forma di libertà intellettuale. 

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Francisco Goya – Saturno che divora i figli 

2. PINACOTECA DI BRERA – MILANO 

Mai quadro fu così adatto a dare speranza agli italiani come il famoso Bacio di Francesco Hayez. Un inno alla gioia, un simbolo di speranza e di patriottismo, il quadro icona della Pinacoteca di Brera
Il capolavoro più copiato e ristampato nella storia, è stato realizzato nel 1859 e ripercorre i fatti nel periodo in cui l’Italia venne suddivisa in tanti piccoli stati sotto il dominio degli Asburgo d’Austria. Periodo nel quale gli italiani, uniti nonostante la divisione, crearono dei gruppi, delle piccole società segrete che avevano lo scopo di restituire dignità al paese. Mi sembra ci sia una forte attinenza col periodo che stiamo vivendo. Un popolo che canta l’inno di Mameli in questi giorni di reclusione forzata, un popolo che si abbraccia da lontano, che col canto e con la musica regala speranza e la voglia di farcela, nonostante tutto. 

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Il Bacio – Francesco Hayez

3. BRITISH MUSEUM – LONDRA 
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4. MUSEO ARCHEOLOGICO – ATENE 
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5. MUSEE D’ORSAY – PARIGI 

Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet riprende una serie di ponti che l’artista si accingeva a dipingere in diverse ore del giorno. La luce, questa era la migliore amica di un grande pittore, per conoscerla, per riconoscerla, bisognava studiarla notte e dì, quando era calda di Sole o fredda di Luna. Il ponte da lui stesso costruito nei giardini della sua abitazione, taglia a metà la ricca vegetazione che da un lato si erge verso il cielo e dall’altro si specchia nelle acque. Quei dolci e sussurranti fiorellini che sono ninfee dai toni pastello, ricordano tanto i giardini giapponesi e le sue rappresentazioni. In un morbido letto di verde, spuntano come piccole vite capaci di donare gioia e speranza. 

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Lo stagno delle ninfee” – Claude Monet

6. LOUVRE – PARIGI

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7. LE GALLERIE DEGLI UFFIZI – GIARDINO DEI BOBOLI – FIRENZE 

Chi ha avuto la fortuna di vagare attraverso il Giardino dei Boboli sa che un tour viruale non potrà regalare la stessa sensazione di immersione totale in un mondo astratto e ovattato.

Lo visitai per la prima volta dodici anni fa, di fronte a Palazzo Pitti esisteva ancora un Internet Point, dove mi recai per aggiornare il mio stato Facebook e raccontare del mio viaggio in solitaria a Firenze. Uno dei ragazzi del negozio mi si avvicinò e mi dette un consiglio molto prezioso, e cioè quello di non attraversare il percorso visibile dei Giardini, quello a linea retta tagliato al centro dai gradoni, ma di prendere le vie laterali e immergermi totalmente nel verde. Lo ascoltai e se potessi rintracciarlo lo ringrazierei perchè quella passeggiata nell’arte mi ha regalato non poche emozioni.


Il Viale dei Cipressi è un tunnel di arbusti fitto fitto che parte da terra e si riunisce sopra la tua testa; in piena estate creava un nido buio e silenzioso che mi proteggeva dal brusìo e dal cicaleccio dei turisti; ed erano tanti. D’improvviso, nel fruscìo delicato dalle foglie mosse da qualche animaletto indiscreto, vidi comparire dietro di me un gatto, nero, che mi fissava immobile. Non appena riprendevo a camminare, lui da dietro mi seguiva, in modo felpato, per poi rifermarsi quando dalle spalle gli mostravo il volto. Non ho mai capito cosa significasse quella strana presenza, in certi casi le domande non servono e le risposte non le vogliamo, ma so una cosa: so che quell’esperienza diede vita ad una lunga serie di viaggi in solitudine di cui rimangono un bellissimo diario, e una foto di me in lacrime con quel misterioso gatto dagli occhi gialli e il pelo nero.

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Giardino dei Boboli – Firenze 

8. NATIONAL GALLERY OF ART – WASHINGTON 

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9. NATIONAL GALLERY – LONDRA 

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10. MUSEO REALE DELLE BELLE ARTI DEL BELGIO 



Su Google Arts & Culture esiste uno strambo video che rappresenta il quadro di Pieter Bruegell il Vecchio datato 1562, la “Caduta degli angeli ribelli”, una realtà aumentata che ci porta faccia a faccia con i mostri più mostri della storia della pittura. 
Il quadro racconta un episodio biblico, la caduta degli angeli che si sono ribellati a Dio per sete di potere, uno scivolone lento e indimenticabile in cui dall’alto vediamo gli angeli che suonano il trionfo, biondi come fanciulli, degli uccelli del Paradiso, dei putti vestiti e senza vizio. 
Al centro l’Arcangelo Michele che combatte il drago dell’Apocalisse a sette teste; e verso il basso delle diapositive precise e dettagliate dei mostri di fattura Boschiana. Sono metà pesci e metà volatili; hanno il ventre squarciato a mostrare uova già marce; sono giganteschi e sproporzionati insetti; gli orifizi in mostra e le bocce avide e dai denti appuntiti e radi. E’ una scena spaventosa che rappresenta la fede da una parte e l’avidità dall’altra.

Il quadro è custodito presso il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio 

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Intervista a Coma Empirico: I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti

Gabriele Villani , classe 1990, vive a Taranto, dove è tornato dopo gli studi a Roma dove ha frequentato il D.A.M.S.. Comincia a dipingere durante il liceo artistico, la sua formazione si amplia durante il periodo universitario nel campo della cinematografia e della scrittura.
Illustratore, disegnatore, appassionato di fumetti e da sempre interessato a spaziare nel campo dell’arte, dal 2016 è ideatore di “Coma Empirico”.


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Quando ha iniziato a disegnare?


Ho iniziato a disegnare da bambino, molto piccolo, mio padre mi comprava i fumetti di Batman, Superman e Topolino e io cercavo di ricopiarli.


Ricorda un aneddoto?


Mi piaceva disegnare sui muri, ma ero troppo piccolo e venivano fuori degli scarabocchi. Dicevo di voler diventare da grande un artista “pazzo”.


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Il disegno lo ha portato anche alla pubblicazione di un libro. Come è nata l’idea?


E’ nata prima l’idea di creare un personaggio, da questa poi quella di creare una pagina sui social per assecondare il bisogno di condividere alcuni dei miei pensieri. Non mi aspettavo di poter avere tanto seguito ma la cosa è andata avanti, sono nati altri personaggi e sono arrivate le prime proposte dalle case editrici. Quando mi sono sentito pronto ho raccolto alcuni dei miei lavori, ho aggiunto degli inediti ed è nato il primo libro “Tutta la notte del mondo”, edito da BeccoGiallo.


I suoi disegni sono introspettivi, quasi esistenzialisti. Qual è l’idea che prova a rappresentare meglio?


In realtà non mi prefiggo nulla, ogni vignetta parte da uno stato emotivo, lascio molto spazio all’istinto e poco alla ragione nella scelta del tema, cercando di sentirmi il più libero possibile. Una volta che affiora l’idea, il passo successivo è cercare di trovare la maniera più diretta e semplice per esprimerla.


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Nel disegno si mescola humor (molto sottile) e malinconia. Come si conciliano nel suo mondo?


Si conciliano nella costruzione di uno stile che risponde alle mie esigenze. Cerco di affinare il mio gusto personale e usarlo come metro di giudizio principale. Ciò che mi piace poi finisce con avere una certa coerenza, nonostante i temi che tratto siano spesso molto distanti fra loro.


Qual è l’aspetto che cura maggiormente mentre disegna?


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La chiarezza, la semplicità del tratto. Cerco di esprimermi in maniera diretta anche nel disegno, la parte difficile è comunque riuscire a tenere aperta la porta a varie interpretazioni. Mi piacciono i contrasti e le ombre.


Crede che il cinema abbia influenzato le sue immagini?


Sì, il cinema come la musica e la letteratura, ma non solo, tutto ciò che mi colpisce mi influenza.


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Sente di aver trovato il proprio stile?


Credo di aver trovato un principio di stile, ma forse ho ancora bisogno di affinarlo.


I social la influenzano, in parte, in ciò che intende trasmettere?


I social mi influenzano per quanto riguarda la forma, ma mai nei contenuti. Quello che scrivo e che disegno è sempre una condivisione onesta di quello che penso e sento.


Che musica ascolta mentre disegna?


Ogni periodo ha una sua colonna sonora, poi ovviamente ci sono gli artisti che mi accompagnano sempre, uno su tutti Bob Dylan.


Nuovi progetti in cantiere?


Sì, tanti progetti: uno di questi sicuramente è un secondo libro, non una raccolta ma una storia.


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Le vignette di Coma Empirico esprimono riflessioni e affanni generazionali, propri di chi è alla ricerca di un posto nel mondo. Ricche di spunti esistenzialisti, sono divenute in pochissimo tempo virali nei social, conservando tuttavia quell’onestà intellettuale tipica di chi ha qualcosa di sincero da raccontare.


http://www.comaempirico.it/chi-sono/

La malattia e la fotografia come terapia – Intervista a Claudia Amatruda

Claudia Amatruda è foggiana e ha 23 anni. Quattro anni fa la sua vita è cambiata non poco quando ha ricevuto una diagnosi parziale riguardante il suo stato di salute: neuropatia delle piccole fibre, disautonomia e (forse) connettivopatia ereditaria. Si tratta di una malattia rara, alla quale si è ispirata per l’ultimo suo progetto “Naiade“.


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Qual è il suo rapporto personale con la fotografia?


Fotografare per me è un’esigenza, mi fa star meglio: nel momento in cui avvicino l’occhio al mirino della macchina mi sento finalmente nel posto giusto, entro in un mondo che sento mio, sono a mio agio. Quindi direi che è un rapporto per niente conflittuale, è un semplice bisogno, come mangiare o qualsiasi altra azione quotidiana che ci piace tanto.


Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia?


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E’ successo pian piano, poi profondamente, non è stato un colpo di fulmine, direi che è successo più per caso: i miei genitori dipingono da quando sono nata, e quando ho compiuto 14 anni hanno deciso di portarmi in giro per le loro mostre, con un incarico in particolare, avrei dovuto fotografare le esposizioni per conservarne i ricordi. Così è iniziato tutto, ma non avrei mai immaginato di appassionarmi a tal punto da farla diventare una professione.


C’è qualcosa che preferisce omettere quando cattura un’immagine?


Dipende dalla situazione in cui mi trovo, da cosa progetto o penso di voler trasmettere. Di solito adotto una filosofia in particolare quando scatto, tratta da una poesia di Emily Dickinson: “Dì tutta la verità ma dilla obliqua”.


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Come nasce e si sviluppa l’ultimo progetto?


L’ultimo progetto nasce 3 anni fa, all’inizio come una serie di 10 autoritratti ambientati in piscina, il luogo che mi far star bene per eccellenza. Poi in quest’ultimo anno, durante un Master in progetto fotografico della scuola Meshroom Pescara, grazie all’aiuto del prof Michele Palazzi decido di trasformare quella serie in un progetto vero e proprio, che non raccontasse solo di ciò che mi fa star bene ma proprio di tutto ciò che adesso è la mia vita, la sofferenza di una malattia ancora incerta, degenerativa e senza cura: un bel fardello pesante da portare tra ospedali, medicine, mesi interi in casa, e piscina. Un diario fotografico che con tanto studio, tentativi, continui edit, critiche e consigli, è diventato adesso “Naiade”, il libro fotografico in produzione con un crowdfunding su Ulule.


C’è qualcosa con cui vorrebbe ancora confrontarsi fotograficamente?


Ma certo. Mi considero sempre agli inizi, e il bello della fotografia è che non esiste situazione identica ad un’altra, perciò ogni occasione è buona per confrontarsi con qualcosa che non si conosce, l’ideale per chi è estremamente curioso come me.


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Cos’è per lei un autoritratto?


E’ l’unico modo che ho trovato per riuscire ad amarmi un po’. Lo considero lo strumento meno narcisistico che esista (quando si parla di autoritratto e non di selfie), perché attraverso la macchina fotografica riesco a guardarmi dentro, mentre lo specchio restituisce solo l’aspetto esteriore di me, quello che vedono anche tutti gli altri; chi mi conosce sa quale sia la considerazione che ho del mio corpo, specialmente dopo aver scoperto della malattia, perciò per adesso l’autoritratto è una specie di terapia contro la negazione di sè.


Ci sono dei fotografi che apprezza particolarmente? Quali?


Troppi. Anche se la scelta è difficile, ne nomino alcuni: Todd Hido, Rinko Kawauchi, Ren Hang, Nan Goldin, Sally Man, Robert Mapplethorpe, Vanessa Winship, Letizia Battaglia, Gabriele Basilico e Luigi Ghirri.


Amore e fotografia. Come sono in relazione nella sua vita e nella sua quotidianità?


Questa domanda mi mette in difficoltà, devo ammetterlo. Ho un rapporto troppo conflittuale con l’amore nella mia vita, di conseguenza la sua relazione con la fotografia non è delle migliori, è come una coppia che litiga continuamente. Se invece parliamo di amore per la fotografia, allora non ho dubbi, è amore quotidiano e sincero.


La malattia limita in qualche modo la sua passione per la fotografia?


La malattia limita me molto spesso, ma mai la passione. Cerco di farle viaggiare su binari paralleli, non vorrei mai che si incontrassero. Quando fotografo spingo il mio corpo al limite e anche oltre a volte, sono capace di star male per giorni pur di fotografare ciò che ho in testa o di non rinunciare ad un impegno lavorativo preso, sono testarda; faccio arrabbiare i medici per questo, non sono una paziente facile. Col tempo ho imparato che il segreto è solo uno, la malattia può fermare le mie gambe ma mai la mia testa.


C’è qualche genere o qualcosa che preferirebbe non affrontare fotograficamente?


Ho paura di affrontare fotograficamente la sofferenza degli altri. Finché si tratta della mia è piuttosto “facile”, ma quando si tratta di altri, che siano amici o sconosciuti, ci vuole una dose enorme di tatto, delicatezza e coraggio ma anche sfrontatezza, cosa che a volte mi manca. Conoscendomi però, so che la paura non mi fermerebbe facilmente, affronterei comunque la situazione se dovesse capitarmi. Ragionando per assurdo, preferirei comunque non fotografare in zone di guerra, non mi sento affatto pronta e non so se lo sarò mai.


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L’acqua e la fotografia sono elementi essenziali nella vita di Claudia, che assolutamente non si arrende e lotta giorno dopo giorno con la speranza che la sua quotidianità diventi man mano sempre più leggera. E proprio questa speranza è ben evidente nelle sue immagini dove traspare un senso di assoluta calma e la ricerca di serenità . Lo fa servendosi soprattutto del corpo. D’altronde, come la giovane fotografa ha affermato, la malattia può fermare il suo corpo ma mai la sua mente carica di idee e energia positiva.


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Intervista a Gian Paolo Barbieri: la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana

Gian Paolo Barbieri nasce nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze inerenti la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista; in seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti. Ed è proprio il cinema noir americano ad incuriosirlo sulla gestione della luce e il senso di movimento, che rende gli attori e i personaggi ancora più affascinanti e dotati d’immensa autorità. A Parigi, inoltre, assiste il celebre fotografo di Harper’s Bazaar, Tom Kublin. Le campagne commerciali di Barbieri contribuiscono a definire la moda degli anni ’80 e ’90 dei marchi più famosi: Yves Saint Laurent, Chanel, Givenchy e Vivienne Westwood, Gianni Versace, Valentino, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré.

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I suoi ritratti si differenziano per una naturale e straordinaria eleganza. Cos’è, per lei, l’eleganza?

L’eleganza si può paragonare alla bellezza. L’eleganza è cultura. I greci dicevano: “Dove nasce la bellezza nasce la cultura”. L’iconografia della bellezza si fonde sulla visione radicale della libertà. La libertà come la bellezza, non si concede, si prende. Come diceva A. Camus, “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni”. Noi abbiamo esiliato la bellezza; i greci hanno preso le armi per essa.

Tra le donne che ha ritratto vi è anche la raffinata Audrey Hepburn. Cosa ricorda di lei?

Era il 1969 quando ho fotografato Audrey Hepburn. Eravamo a Roma nello studio di Valentino per Vogue Italia. Lei era molto gioiosa, mi disse che si era appena sposata con il Dott. Andrea Dotti. E’ arrivata con delle pantofole perché così, mi disse, non avrebbe sporcato il fondale bianco. Mi ricorderò sempre della sua estrema eleganza, quell’arte che nasceva dai suoi studi di danza, prima di approdare nel teatro e nel cinema.

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Le sue immagini spiccano per un grande rigore formale. Come si pone rispetto all’errore?

Da ogni errore vedo un’opportunità, infatti, molte delle mie fotografie più belle nascono dai miei stessi errori.

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Come nasce il suo interesse per la fotografia?

Attratto dal cinema e dal teatro sono andato a Roma. Per pagarmi la pensione, facevo i test ai ragazzi di Cinecittà con la mia prima macchinetta fotografica, poi sviluppavo la pellicola. Nella pensione mi davano il permesso di usare il bagno di notte, dove stampavo le mie foto e al mattino seguente le consegnavo dopo averle posizionate sotto il letto per farle asciugare. Poi un conoscente di mio padre, Gustave Zumsteg, nonché proprietario dell’azienda Abraham di tessuti di Zurigo, mi chiese di fargli vedere le mie fotografie, anche se erano totalmente amatoriali, gliele ho fatto vedere e mi disse: “Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la moda”. Io sono rimasto allibito, non sapendo nemmeno cosa fosse la moda. Dal momento che in Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Da lì, andai a Parigi per lavorare con Tom Kublin: un’esperienza che segnò decisamente l’inizio della mia carriera come fotografo.

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Qual è l’aspetto a cui presta più attenzione mentre ritrae in particolare una donna?

Una donna deve essere estremamente femminile, non importa se presenta dei difetti poiché il più delle volte aiutano la fotogenia. Deve attrarre e sedurre chi osserva l’immagine. Lo sguardo è molto importante per me.

Creatività e fotografia di moda. Come si conciliano nei suoi lavori?

Tutte le arti influiscono sulla creatività fotografica. Una buona conoscenza della pittura, scultura ma anche cinema e letteratura, aiutano sicuramente il fotografo a conciliare la moda con la creatività. Per me non esiste la fotografia senza la propria capacità di invenzione. Molti pittori hanno influenzato la mia creatività unendola al mondo della moda come Gauguin, Michelangelo, Hockney, Holbein, Bacon e Rothko.

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L’avvento dei social quanto ha influenzato la fotografia di moda?

Completamente. La fotografia di moda, intesa come lo era qualche anno fa, non esiste più in seguito all’avvento dei social. Con essi, infatti, si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. E’ cambiato anche lo stile, non essendoci più la moda come era concepita una volta, ossia con dei temi ben precisi che la fotografia rispecchiava. Con i social oggi, ognuno fa quello che gli pare; non viene più rappresentato uno stile, un’eleganza o un modo di essere.

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Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe?

Metafore della visione.

Fotograficamente parlando, si reputa soddisfatto di ciò che ha ottenuto finora?

Mi reputo abbastanza fortunato perché la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana. Fotografare è guardare in faccia la vita e fare della propria esistenza un’opera d’arte, come citava D’Annunzio.

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Ci può accennare i suoi prossimi rendez-vous fotografici?

Sto lavorando su un nuovo progetto fotografico ispirato al poeta inglese Shakespeare, proprio in occasione della celebrazione dei 400 anni dalla sua morte. Prendo infatti ispirazione dalle più famose tragedie e dai sonetti del drammaturgo britannico, per poi trascriverle attraverso il mio occhio.
Inoltre, da quest’anno, è stata costituita la Fondazione Gian Paolo Barbieri; si tratta di un’istituzione culturale no-profit che promuove l’arte, la fotografia e ogni forma di espressione culturale nelle sue diverse realizzazioni attraverso workshop, collaborazioni con istituzioni e attività formative. (www.fondazionegianpaolobarbieri.it).

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Gian Paolo Barbieri, tramite la sua sapiente fotografia, la collaborazione a riviste di grande importanza come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania e grazie ai suoi eccellenti contributi a Vogue Italia con le campagne pubblicitarie dei marchi più noti, ha rinnovato profondamente la fotografia di moda italiana. Il senso di equilibrio, proporzione ed estrema armonia di derivazione classicistica sono il punto di forza del suo linguaggio personale e il riflesso di uno spirito di ricerca artistica, dovuto ad un’incessante curiosità. La sua Fondazione, costituita nel 2016 dallo stesso artista, è un’istituzione culturale che opera nel settore delle arti visive e che persegue finalità di promozione della figura artistica del Fondatore, delle sue opere fotografiche, dell’attività artistico-creativa nonché, più in generale, di promozione della fotografia storica e contemporanea.

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