Intervista a Fabrizia Milia: Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia, e d’amore per la fotografia

Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.


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Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?


Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.


Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?


Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.


Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?


Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.


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Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?


La malinconia. La trovo poetica.


Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?


Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.


Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?


In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.


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Quale parola assocerebbe alle sue immagini?


Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.


Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?


Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.


Cosa preferirebbe non fotografare?


Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.


Come affronta i periodi di calo creativo?


Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.


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Intervista a Fabio Vittorelli: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”

Il milanese Fabio Vittorelli si contraddistingue straordinariamente per la capacità di catturare la magia della e nella quotidianità, con grande spontaneità. L’osservatore si stupisce tramite gli occhi del fotografo, non molto differenti da quelli infantili, e viene improvvisamente catapultato in un mondo non estraneo ma filtrato in maniera creativa. Il soggetto, pur appartenendo alla realtà, viene ritratto attraverso un punto di vista poco comune, scaturendo di conseguenza emozioni naturali ed estremamente umane.


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Come nasce la sua passione per la fotografia?


Fin da giovane, ancora adolescente, con una macchina fotografica allora analogica. Da allora la passione è rimasta, raggiungendo poi una diversa intensità nei vari anni.


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Le è capitato di fotografare in più parti del mondo. C’è una zona a cui è più legato?


Direi di no. In ogni luogo, cerco di rappresentare il mondo con cui interagisco. I contesti urbani, comunque, sono quelli che mi attraggono maggiormente.


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Quale crede che sia il filo conduttore di tutte le sue immagini?


Negli anni è progressivamente mutato il mio approccio con la fotografia. Ho iniziato con fotografie prevalentemente di architettura, poi mi sono avvicinato di più alle persone, che hanno iniziato a popolare le mie fotografie. Attualmente, le persone sono al centro di quasi tutti i miei scatti.


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Come si pone verso i soggetti ritratti per strada?


Cerco sempre di raccontare una loro storia, quello che vivono in quel momento, almeno, per come io lo percepisco. E’ un esercizio umano molto interessante: spesso non riesco a scattare nessuna foto, ma ho avuto lo stesso modo di vivere una parte della loro vita, dei loro pensieri. Bisogna imparare prima a stare in mezzo alla gente, nel modo più discreto possibile; la fotografia viene dopo. Credo anche che la fotografia di strada contenga una parte di magia. Il fotografo di strada può solo intuire una certa situazione, ma non può determinarla. Certe volte basta un attimo, altre volte, anche una lunga attesa può non portare a nessun risultato valido.


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Come definirebbe la Fotografia?


Credo che questa definizione di Neil Leifer possa rispondere a questa domanda: “La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.”


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Qual è la sua idea di “buona fotografia”?


Una fotografia che esprima una sua verità, anche se parziale, la verità del fotografo e/o quella del soggetto fotografato: una fotografia che ci lascia dentro qualcosa è una buona fotografia.


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Come riconosce se una sua immagine è valida?


Faccio ancora molta fatica a essere critico con quello che scatto, ho spesso bisogno di qualche parere esterno oppure di far trascorrere del tempo, per avere un coinvolgimento diverso. E poi ci sono delle fotografie che sono valide per me e non lo sono per altri: ma forse questo è un lato positivo.


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Quali sono le differenze che incontra tra il fotografare per strada e ritrarre corpi femminili nudi?


Il passaggio più recente, ai ritratti e al nudo, è stato il passo successivo dello stesso percorso: ho cercato di entrare sempre di più in relazione con il soggetto fotografato, ma non in modo casuale come avviene nella street photography, ma in modo concordato, programmato, studiato. Questa è la mia fase di studio attuale, anche se la mia natura principale è sempre quella della foto di strada. Mi sono già reso conto, però, che questa fase attuale mi sta insegnando molto: mi rendo conto che questo esercizio mi è molto utile, anche nella fotografia di strada, che paradossalmente è molto diversa. Forse sto imparando un nuovo modo di interazione.


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Cosa ne pensa dell’attuale diffusione della fotografia come forma espressiva?


Siamo sottoposti quotidianamente a un grandissimo flusso d immagini, spesso però del tutto omologate fra loro. E’ positivo però che tutti ormai possano fotografare e condividere i loro scatti: la tecnologia ci ha fornito strumenti che anni fa non esistevano.


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Ci sono fotografi o registi che lo hanno ispirato?


Ci sono molti elementi che mi ispirano, è difficile dirlo. Una scena particolare di un film che magari rivedo molte volte, oppure uno spot pubblicitario particolarmente riuscito, un video su youtube, un quadro magari sconosciuto visto per caso in una mostra. Un po’ come nella street photography, ogni tanto il mio occhio cade su un soggetto o su di una situazione che sento in sintonia con qualcosa dentro di me. In ogni caso incidono sicuramente la pittura, fotografia e i film che vedo, ma anche i viaggi sono fonte di ispirazione.


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https://www.fabiovittorelli.com/

Intervista a Manuel Bravi: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione

Manuel Bravi è un artista a tutto tondo: graphic designer, fotografo e fotoritoccatore Finite le scuole superiori, si trasferisce a Venezia dove studia grafica alla Scuola Internazionale di Grafica di Venezia; un incontro con Lorenzo Vitturi stimola l’interesse per il potenziale manipolatorio e surreale della fotografia. Dopo gli studi, inizia a lavorare a Milano per brand come Armani, Versace e Ferretti, aziende come SGP, INRETE e recentemente per il museo Mudec e Regione Lombardia. 

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Manuel Bravi: graphic designer, fotografo, fotoritoccatore. Cosa preferisci fare?

Mi piacciono tutte e tre, devo essere sincero: ognuna mi consente di gestire una parte distinta di creatività e mi dà la possibilità di rendere vario il lavoro. Questo comporta anche differenti approcci coi clienti. Per esempio, il fotoritocco ha uno scambio maggiore con il fotografo che ti ha ingaggiato: devi capire cosa ha in testa, anche se non ricalca il tuo primo approccio all’immagine, così facendo forzi un nuovo punto di vista e una nuova interpretazione.

Sul tuo profilo Facebook scrivi: “dovrei essere io, ma in realtà sono sempre schiavo di qualcuno”. Ce lo puoi spiegare?

Amaramente divertente, vero? Sono un libero professionista e molti mi ripetevano quanto fossi fortunato a non aver capi diretti. In realtà, ogni mio cliente diventa un capo, perché nei mestieri dove il “gusto personale” diventa elemento di richiesta lavorativa devi spesso cedere, e oggettivamente, molte volte sono richieste fuori da ogni regola grafica.

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Nel tuo percorso, credi che abbia avuto più peso la formazione o l’esperienza?

Entrambe sono importanti. La scuola ti fornisce i cardini su cui caratterizzarti e costruire il tuo punto di vista lavorativo. L’esperienza è fondamentale perché, a differenza della teoria, le regole non esistono; devi far fronte ad ogni tipo di problema e questo ti fa crescere e imparare il mestiere.

Ti sei approcciato prima alla fotografia o al ritocco fotografico?

Sono stato folgorato dalla post produzione fotografica durante un workshop alla Scuola Grafica. Mi piaceva giocare con Photoshop anche prima di frequentare la scuola, poi realizzai le reali applicazioni lavorative nelle pubblicità e mi dedicai maggiormente a quel ramo della grafica.

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C’è uno dei progetti che adori maggiormente? Quale e perché?

L’ultimo realizzato sugli attrezzi da lavoro di mio nonno: ho pensato di tributare il suo talento nel creare oggetti con diversi materiali, attraverso gli attrezzi che ha usato per un’intera vita. Lui ha sempre costruito tutto quello che gli serviva: da oggetti decorativi a quelli per la casa, passando per macchine industriali. E’ un artista della materia. Per questo, ho tentato di realizzare dei ritratti ai suoi attrezzi sperando che potessero prender carattere attraverso le fotografie. Devo ammettere, poi, che sono particolarmente affascinato e soddisfatto quando fotografo persone che sanno esprimersi attraverso il proprio corpo, in particolar modo i ballerini classici o contemporanei.

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Quali sono i fotografi che ti hanno ispirato sinora?

Ho una venerazione maniacale verso il mio concittadino Paolo Roversi: è stato scoprendo le sue foto che ho iniziato a studiare il lightpainting e l’equazione “luce nel buio/movimenti del corpo”. Un’altra grande ispirazione per la mente rimane Storm Thorgerson e il suo mondo parallelo visionario.

Se dovessi scegliere tra Realismo o Surrealismo, come definiresti la tua fotografia?

E’ un flusso mutevole: un tempo ero molto affascinato dal mondo surreale, sperimentavo molto di più col computer ed ero più ingenuo e immaturo; oggi mi dedico più alla realtà e alle persone, anche se ho dei cardini ben precisi che tornano spesso nelle foto: un solo soggetto e tanta ombra per lasciare libera l’immaginazione.

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L’ultimo progetto pubblicato s’ispira ad alcuni costumi da coniglio. Da dove ha origine?

E’ una variazione sul tema Kinky. Premetto che sono sempre stato incuriosito da quelle persone che fanno di uno “stile di vita non comune” il loro personale modo di vivere. Mi incuriosiscono e mi interessa capire il loro mondo, sia questo più o meno bizzarro. Difficilmente ho giudizi in merito e mai censuro gli eccessi. Premesse a parte, durante un evento al quale partecipavo per fare un reportage della serata, mi imbattei in questa donna che indossava una maschera da coniglio e non se la tolse per tutta la serata. Era così affascinante, misteriosa e grottesca che non potei non andare a conoscerla e chiederle di posare per me. Mentre parlavamo, lei portava una maschera e io non riuscivo ad interpretare alcuna espressione facciale. Lei per me è Bunny: una creatura dolcissima e gentile, con molte sfaccettature, che ho voluto ritrarre in un modo più fiabesco rispetto al suo solito stile. Ho mixato il caos e la bellezza dei fiori, con la parte di Bunny più gentile e femminile.

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Hai in cantiere dei nuovi progetti da realizzare?

Ho due progetti video che vorrei realizzare, riguardano la danza: le coreografie sono già state affidate, ora bisogna mischiare gli ingredienti.

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Musica e fotografia. Se dovessi scegliere una canzone come colonna sonora per le tue foto?

Sono molto legato alla musica e direi che ogni progetto o serie fotografica porta con sè una canzone o un preciso mood musicale, ma se dovessi traslare le mie fotografie in musica mi piacerebbe che venissero accostate ad Anathema, Katatonia, Porcupine Tree, Devil Doll.

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La fotografia di Manuel Bravi è una mescolanza di fascino ed eleganza. La sua attenzione è sempre delicatamente focalizzata sul soggetto ritratto, indipendentemente che esso sia una persona o un oggetto. La sua è una fotografia che vuole raccontare storie senza forzare il soggetto,  si rivela semplicemente attraverso di esso e servendosi del litghtpainting, tanto caro a Bravi.

“Il lightpainting è affascinante perché la fisica che regola ombre e luci non esiste, la sorgente luminosa cambia continuamente punto di partenza, distorcendo le forme e la percezione di queste. Inoltre, essendo il movimento proprio dei corpi incontrollabile, il risultato è totalmente imprevedibile: le forme nascoste devono essere cercate nelle ombre con attenzione, e ciò permette di entrare in intimità con l’immagine. Il fascio luminoso ha la doppia intenzione di osservare il soggetto e  illuminare il proprio io ed esperienze”.

http://www.manuelbravi.com/

La fotografia di Maria Svarbova: il silenzio degli spazi umani

Maria Svarbova nasce nel 1988 e, attualmente, vive a Bratislava, in Slovacchia. Nonostante i suoi studi in restauro e archeologia, il suo mezzo espressivo artistico preferito è da sempre la fotografia.


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Dall’anno 2010 l’immediatezza dell’istinto fotografico di Maria continua a guadagnarsi una grande acclamazione a livello internazionale e ottenendo una rilevanza non indifferente nell’ambito della fotografia contemporanea. Oltre le innumerevoli pubblicazioni in tutto il mondo, il suo lavoro è largamente diffuso tramite gli attuali social media.


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Le sue immagini più note sono quelle al sapore di cloro, raffiguranti piscine e persone dalle sembianze molto simili a dei manichini. I colori, le pose congelate in un attimo e il sincronismo del movimento dei corpi contribuiscono a generare un’atmosfera atemporale e surreale dove domina il blu degli spazi e dell’acqua.


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Anche quando i corpi si presentano in un contesto di gruppo, i soggetti sembrano subire gli effetti di un’alienazione: indifferenti gli uni agli altri, quasi privi di qualsiasi emozione, compiono dei gesti più per abitudine che per una reale volontà o consapevolezza. Tra i progetti aventi come protagonista l’acqua, si contraddistinguono “SWIMM“, “No Diving“, “SWIMMING trynity“, “Hedda Gabler“, “SNOW POOL“.


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Maria Svarbova prende spesso ispirazione dagli spazi pubblici e da azioni quotidiane per dare sfogo a tutta la sua incredibile creatività dai toni pastello. Il risultato ottenuto converge in una piacevole sensazione di solenne silenzio, in un’era moderna in cui, oramai, siamo tristemente abituati alla frenesia e al rumore.


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L’attesa al dottore, una camminata mano nella mano, le poltrone rosse di un cinema diventano il semplice pretesto per indagare gli spazi umani con cui ogni persona si confronta quasi inconsapevolmente nel corso della propria quotidianità. L’associazione di contesti, personaggi e colori contribuisce a far insorgere nell’osservatore stupore e curiosità , in un’era in cui tutto è dato per scontato e in una società dove i “perché” scarseggiano inesorabilmente.


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http://www.mariasvarbova.com/

Intervista a Marta Bevacqua: dai primi passi ai nuovi progetti

Marta Bevacqua è una fotografa ormai ben affermata nel panorama fotografico e artistico internazionale. Originaria di Roma, attualmente vive a Parigi: una scelta coraggiosa per una fotografa che, dalle sue parole ma anche dalle sue immagini, appare come una donna tenace ed estremamente curiosa.


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Qual è stato il suo primo approccio alla fotografia? Ci racconta un aneddoto?


Cercavo una fotografia o un disegno per il mio personaggio su un gioco di ruolo fantasy online. Avevo 17 anni ed ero patita per questo tipo di giochi e tutto ciò che riguardasse il fantasy. Così passai molto tempo a navigare su siti come DeviantArt, Flickr e altri. Una volta trovata l’immagine che cercavo, ho semplicemente continuato a spulciare altre immagini, ogni giorno, solo per il gusto di osservare belle fotografie. Da lì il passo è stato breve, mi sono detta che avrei potuto provarci anche io. Ho preso una vecchia macchina compatta (e rotta) in casa, ho scattato le prime foto e da lì non ho mai più smesso.


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Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente il suo cammino artistico?


Ci sono senz’altro molti fotografi a cui mi sono ispirata nel tempo (e tuttora), e altri ancora che ho scoperto da poco. Non si smette mai di imparare dagli altri e di ispirarsi ad altri artisti. Posso però dire che c’è stato un fotografo di Roma che mi ha veramente aiutato a muovere i primi passi. A livello fotografico siamo in due mondi opposti, ma mi ha insegnato tanto per tutto ciò che è la fotografia in generale. Si tratta di Daniele Fiore, e potrebbe essere considerato in qualche modo il mio “mentore”. Altrimenti c’è un fotografo che mi ha colpito dal primo momento, e che ha condizionato anche le mie scelte (come quella di spostarmi a Parigi), Paolo Roversi. Non l’ho mai conosciuto (ammetto di aver provato appena arrivata in Francia, ma senza successo), ma, seppur indirettamente, mi ha insegnato comunque molto, semplicemente osservando le sue opere.


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C’è qualche cineasta che adora particolarmente?


Ce ne sono molti e ammetto che non ho mai seguito più di tanto i cineasti, nonostante mi piaccia molto andare al cinema e guardare film (di quasi tutti i tipi). Sicuramente Guillermo del Toro è uno dei miei preferiti.


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Come riesce a conciliare al meglio la libertà creativa con le commissioni commerciali?


Spesso è molto difficile e alcune volte impossibile. Diciamo che ho imparato a separare le due cose, quando sono inconciliabili. Nessuno fa sempre ciò che ama, pur amando il proprio lavoro. Sicuramente è importante riuscire a imporre la propria creatività seguendo però i bisogni del cliente. E’ un processo lungo ed è fondamentale farlo durante la preparazione prima dello shooting fotografico. La riuscita dipende da molte cose, in primis il cliente e il lavoro commissionato. Anche se alcune volte scatto delle fotografie che sento non mi rappresentino al meglio, riesco a sfogare la mie creatività nei molti progetti personali su cui lavoro costantemente. Arrivare a lavorare per grandi clienti mantenendo intatto il proprio stile. Beh, diciamo che è lo scopo della mia carriera e spero di arrivarci un giorno.


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Le è mai successo di non riconoscersi in una delle sue foto o in un progetto?


Purtroppo . E’ capitato per qualche lavoro commissionato ma anche in alcuni progetti personali. Alcune volte ho un bisogno estremo di sperimentare, e mi capita di allontanarmi un po’ troppo da me stessa. Allo stesso tempo, però, mi è molto utile per ritrovarmi e per imparare ed evolvermi.


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Le donne da lei ritratte sono sempre molto giovani. Quale aspetto femminile adora cogliere nelle sue donne?


La particolarità, la gestualità e la possibile stranezza che può esserci nelle espressioni.


Come si pone di fronte l’errore?


Non mi abbatto, cerco di capirlo e farlo mio. Imparo.


C’è qualcosa che preferirebbe non fotografare mai?


Forse automobili.


C’è qualcosa che, invece, adorerebbe fotografare?


Gli animali.


Ha in cantiere qualche progetto in particolare?


Ho appena fatto un viaggio e ho provato a scattare alcune fotografie di paesaggio, in pellicola e digitale. Mi sta venendo voglia di sperimentare in questo senso, cogliere altro oltre le espressioni e le gestualità. O forse, chissà, mettere tutto insieme.


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La fotografia di Marta Bevacqua è un mosaico di gestualità ed espressioni. Le sue donne non risultano mai artefatte o dalle espressioni forzate. La sua creatività e l’incessante voglia di sperimentare l’hanno resa un punto di riferimento per i giovani fotografi italiani e non.


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Intervista a Gian Paolo Barbieri: la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana

Gian Paolo Barbieri nasce nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze inerenti la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista; in seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti. Ed è proprio il cinema noir americano ad incuriosirlo sulla gestione della luce e il senso di movimento, che rende gli attori e i personaggi ancora più affascinanti e dotati d’immensa autorità. A Parigi, inoltre, assiste il celebre fotografo di Harper’s Bazaar, Tom Kublin. Le campagne commerciali di Barbieri contribuiscono a definire la moda degli anni ’80 e ’90 dei marchi più famosi: Yves Saint Laurent, Chanel, Givenchy e Vivienne Westwood, Gianni Versace, Valentino, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré.

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I suoi ritratti si differenziano per una naturale e straordinaria eleganza. Cos’è, per lei, l’eleganza?

L’eleganza si può paragonare alla bellezza. L’eleganza è cultura. I greci dicevano: “Dove nasce la bellezza nasce la cultura”. L’iconografia della bellezza si fonde sulla visione radicale della libertà. La libertà come la bellezza, non si concede, si prende. Come diceva A. Camus, “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni”. Noi abbiamo esiliato la bellezza; i greci hanno preso le armi per essa.

Tra le donne che ha ritratto vi è anche la raffinata Audrey Hepburn. Cosa ricorda di lei?

Era il 1969 quando ho fotografato Audrey Hepburn. Eravamo a Roma nello studio di Valentino per Vogue Italia. Lei era molto gioiosa, mi disse che si era appena sposata con il Dott. Andrea Dotti. E’ arrivata con delle pantofole perché così, mi disse, non avrebbe sporcato il fondale bianco. Mi ricorderò sempre della sua estrema eleganza, quell’arte che nasceva dai suoi studi di danza, prima di approdare nel teatro e nel cinema.

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Le sue immagini spiccano per un grande rigore formale. Come si pone rispetto all’errore?

Da ogni errore vedo un’opportunità, infatti, molte delle mie fotografie più belle nascono dai miei stessi errori.

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Come nasce il suo interesse per la fotografia?

Attratto dal cinema e dal teatro sono andato a Roma. Per pagarmi la pensione, facevo i test ai ragazzi di Cinecittà con la mia prima macchinetta fotografica, poi sviluppavo la pellicola. Nella pensione mi davano il permesso di usare il bagno di notte, dove stampavo le mie foto e al mattino seguente le consegnavo dopo averle posizionate sotto il letto per farle asciugare. Poi un conoscente di mio padre, Gustave Zumsteg, nonché proprietario dell’azienda Abraham di tessuti di Zurigo, mi chiese di fargli vedere le mie fotografie, anche se erano totalmente amatoriali, gliele ho fatto vedere e mi disse: “Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la moda”. Io sono rimasto allibito, non sapendo nemmeno cosa fosse la moda. Dal momento che in Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Da lì, andai a Parigi per lavorare con Tom Kublin: un’esperienza che segnò decisamente l’inizio della mia carriera come fotografo.

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Qual è l’aspetto a cui presta più attenzione mentre ritrae in particolare una donna?

Una donna deve essere estremamente femminile, non importa se presenta dei difetti poiché il più delle volte aiutano la fotogenia. Deve attrarre e sedurre chi osserva l’immagine. Lo sguardo è molto importante per me.

Creatività e fotografia di moda. Come si conciliano nei suoi lavori?

Tutte le arti influiscono sulla creatività fotografica. Una buona conoscenza della pittura, scultura ma anche cinema e letteratura, aiutano sicuramente il fotografo a conciliare la moda con la creatività. Per me non esiste la fotografia senza la propria capacità di invenzione. Molti pittori hanno influenzato la mia creatività unendola al mondo della moda come Gauguin, Michelangelo, Hockney, Holbein, Bacon e Rothko.

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L’avvento dei social quanto ha influenzato la fotografia di moda?

Completamente. La fotografia di moda, intesa come lo era qualche anno fa, non esiste più in seguito all’avvento dei social. Con essi, infatti, si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. E’ cambiato anche lo stile, non essendoci più la moda come era concepita una volta, ossia con dei temi ben precisi che la fotografia rispecchiava. Con i social oggi, ognuno fa quello che gli pare; non viene più rappresentato uno stile, un’eleganza o un modo di essere.

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Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe?

Metafore della visione.

Fotograficamente parlando, si reputa soddisfatto di ciò che ha ottenuto finora?

Mi reputo abbastanza fortunato perché la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana. Fotografare è guardare in faccia la vita e fare della propria esistenza un’opera d’arte, come citava D’Annunzio.

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Ci può accennare i suoi prossimi rendez-vous fotografici?

Sto lavorando su un nuovo progetto fotografico ispirato al poeta inglese Shakespeare, proprio in occasione della celebrazione dei 400 anni dalla sua morte. Prendo infatti ispirazione dalle più famose tragedie e dai sonetti del drammaturgo britannico, per poi trascriverle attraverso il mio occhio.
Inoltre, da quest’anno, è stata costituita la Fondazione Gian Paolo Barbieri; si tratta di un’istituzione culturale no-profit che promuove l’arte, la fotografia e ogni forma di espressione culturale nelle sue diverse realizzazioni attraverso workshop, collaborazioni con istituzioni e attività formative. (www.fondazionegianpaolobarbieri.it).

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Gian Paolo Barbieri, tramite la sua sapiente fotografia, la collaborazione a riviste di grande importanza come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania e grazie ai suoi eccellenti contributi a Vogue Italia con le campagne pubblicitarie dei marchi più noti, ha rinnovato profondamente la fotografia di moda italiana. Il senso di equilibrio, proporzione ed estrema armonia di derivazione classicistica sono il punto di forza del suo linguaggio personale e il riflesso di uno spirito di ricerca artistica, dovuto ad un’incessante curiosità. La sua Fondazione, costituita nel 2016 dallo stesso artista, è un’istituzione culturale che opera nel settore delle arti visive e che persegue finalità di promozione della figura artistica del Fondatore, delle sue opere fotografiche, dell’attività artistico-creativa nonché, più in generale, di promozione della fotografia storica e contemporanea.

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Intervista a Massimiliano Pugliese – fotografia cinematografica

Massimiliano Pugliese è nato a Roma nel 1970. Da anni, accanto al suo lavoro presso un ente pubblico, affianca l’attività fotografica sviluppando e realizzando progetti personali attraverso un linguaggio intimo. Grazie al suo stile fortemente autoriale, si è contraddistinto in occasione di vari concorsi fotografici. Nel 2015, il suo lavoro “Getting Lost Is Wonderful” è divenutoto una magnifica pubblicazione di Fugazine, una piccola etichetta indipendente di produzioni fotografiche.

Come nasce la sua passione per la fotografia? 

20 anni fa seguendo un po’ di amici appassionati. Capii subito, però, che tra noi c’erano alcune differenze sostanziali: loro erano più appassionati al mezzo in quanto conoscevano le macchine e gli obbiettivi migliori, io ero interessato solo al risultato. Di fronte ad una rivista di fotografia, loro leggevano i test di qualità, mentre io tendevo a guardarne le foto. Ancora oggi, quando qualcuno mi chiede un parere su una macchina fotografica, non riesco mai ad essere d’aiuto; la tecnologia mi interessa solo nel momento in cui la mia macchina diventa obsoleta e sono costretto a cambiarla.

Molte delle sue immagini sembrano ispirarsi al cinema. Ci sono dei film, in particolare, che hanno ispirato alcuni dei suoi progetti?

Assolutamente sì, il cinema è una grande fonte di ispirazione. Mi affascina il lavoro di registi quali Lynch e Tarkovskij tra i classici, Refn e Park Chan Wook tra i contemporanei. Se dovessi però scegliere un film direi “Lasciami entrare” del regista svedese Tomas Alfredson. Dopo averlo visto ho capito quanto per me fosse necessario lavorare su quelle che sono le mie “ossessioni”. Mi innamorai di alcune sequenze notturne del film, non riuscivo a togliermele dalla testa; allora cercai di capire dove il regista le avesse girate. Era il quartiere Blackeberg di Stoccolma. Sono stato lì varie volte ed anche a febbraio di quest’anno: è stata la mia decima volta. Da tutti questi viaggi ne è uscito solo un lavoro, ormai abbastanza vecchiotto (2011), che ho chiamato “Let the right one in”, come il titolo in inglese del film. E’ un lavoro in bianco e nero analogico, lontano dal mio stile attuale nella forma ma non nelle atmosfere. Nel mio penultimo lavoro “Getting lost is wonderful”, pubblicato come terzo numero di Fugazine, un’etichetta indipendente di produzioni fotografiche, la serie di foto è intervallata da quattro citazioni prese da film che mi hanno ispirato. Insomma sì, in un modo o nell’altro, il cinema è sempre presente.

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Ci sono dei fotografi che hanno influito particolarmente sulla sua formazione?

Sulla mia formazione non so, ma ce ne sono molti di cui sono stato e sono un grande fan. Ovviamente all’inizio i fotografi più classici e famosi, soprattutto quelli della Magnum, poi nel corso degli anni ho trovato quelli più vicini alle mie corde. Ne elenco qualcuno, ma ce ne sarebbero centinaia: Gregory Crewdson, Todd Hido, Bill Henson. Ho adorato i nudi di Mona Kuhn, i ritratti di Laura Pannack, la follia di Roger Ballen, le atmosfere di Katrin Koenning.

Le sue immagini variano dai toni più scuri a quelli più tenui. In entrambi i casi, i colori
sono funzionali all’atmosfera che desidera catturare. Qual è l’elemento a cui presta
maggiore attenzione mentre fotografa?



E’ una domanda difficile. Direi che le mie foto più che variare sono o molto scure o molto chiare, più spesso scure. Per molti, questo è dovuto al mio carattere un po’ tenebroso e crepuscolare. Io vorrei che nelle mie foto ci fosse sempre qualcosa di indefinito, un qualcosa che costringa le persone a soffermarsi un po’ di più mentre le guardano.

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Quanto conta la tecnica nella sua personale fotografia?

Vorrei contasse di più. Mi spiego meglio: ho studiato fotografia all’Istituto Superiore di fotografia di Roma, ma a quel tempo (ormai quasi 15 anni fa) ero più interessato al reportage ed ho forse trascurato cose che allora mi interessavano meno, come l’utilizzo dei flash e del banco ottico. Ora vorrei avere maggiori capacità nella gestione delle luci, perché sono più consapevole di quanto siano importanti in questo lavoro.


Come si approccia, in genere, per l’elaborazione di un progetto?

Come ho già detto i lavori che realizzo nascono dalle mie ossessioni. Quando penso e ripenso ad una cosa, capisco che è il momento di lavorarci sopra. All’inizio lavoravo sui luoghi, ad esempio le spiagge dello sbarco in Normandia, Stoccolma, una spiaggia di surfisti vicino Roma. Nel corso del tempo, sono diventato meno descrittivo e più astratto. Io mi definivo addirittura anti-narrativo, anche se recentemente, parlando con un curatore, mi è stato detto che le mie foto sono tutto fuorché non narrative. Di questa cosa, comunque, me ne curo poco soprattutto perché non sarei capace di fare una fotografia diversa: non sarei sincero con me stesso e con chi guarda.

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Crede di aver trovato il suo linguaggio personale o di esserne ancora lontano?

Peccherò un po’ di presunzione, ma credo di sì. Anzi, è una delle mie poche sicurezze. Di questo trovo conferma negli altri, spesso mi viene detto che le mie fotografie sono sempre riconoscibili. E’ il più grande complimento che mi si possa fare.

Come si pone verso l’errore?

Spesso il mio problema sta a monte dell’errore: essendo conscio di alcune carenze tecniche, a volte preferisco non scattare. Questo mi succede soprattutto nei ritratti, dove sento di dover comunque dimostrare qualcosa al soggetto fotografato. Quindi, in linea di massima, preferisco fotografare persone che conosco bene, tant’è che i soggetti delle mie foto sono quasi tutti amici che “schiavizzo” regolarmente.

Let the right one in

Dove si dirige attualmente la sua fotografia?

Spero continui nel solco di quello che ho fatto negli ultimi anni. Ogni tanto penso che dovrei cimentarmi in qualcosa di più facile comprensione, una storia più classica e dai contorni più definiti; ma come ho detto, voglio cercare di fare una fotografia più sincera possibile specialmente perché, ultimamente, di fotografia non sincera, nei testi e nelle motivazioni, ne vedo parecchia.

Cosa vorrebbe, invece, non fotografare?

Senza dubbio i matrimoni. Troppo stress!

Getting lost is wonderful 2

Le immagini di Massimiliano Pugliese, sfruttando la gamma dei toni più scuri fino a quelli più tenui, catturano delicatamente l’atmosfera dei soggetti ritratti. Il silenzio è assordante e gli osservatori lo possono ben percepire a partire da pochi elementi: le onde increspate del mare, i tronchi quasi allineati di un bosco, la vegetazione folta e solitaria in assenza di fauna. I soggetti umani sono spesso e volentieri assenti, e quando compaiono, sono ritratti di sfuggita, vaghi, e avvolti dalla bellezza della natura circostante. Lo sguardo del fotografo non è mai invadente, ma quasi impercettibile, nel pieno rispetto dei pensieri e delle loro storie personali.

http://www.massimilianopugliese.com/

Intervista a Luca Bortolato: tra dialoghi silenziosi e liberi pensieri

L’incontro tra Luca Bortolato e la fotografia avviene in maniera del tutto spontanea. La fotografia è, per lui, il mezzo più adeguato per esprimere ciò che egli stesso è. E’ una fotografia intima, molto simile ad un diario personale. Le sue immagini sono la sintesi elegante di sensazioni e profonde riflessioni.


Come nasce la sua passione per la fotografia?


La fotografia è capitata per caso. Cercavo un modo per parlare, una lingua per dialogare con me stesso e per me stesso. È arrivata nel 2007 grazie una concomitanza di incontri fortuiti che segnarono i miei inizi. Le Immagini c’erano già da molto prima.


Ha più volte affermato che in fotografia, ogni immagine è un autoritratto. Come vive il rapporto con la sua identità?


Di amore e odio, di demoni e meraviglie. Un percorso tortuoso, dolce e amaro. Noi siamo esattamente le nostre foto: un concetto semplice, ma difficile da accogliere.
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Come si è evoluta la sua fotografia negli anni? Cosa desidererebbe, invece, fotografare?


Non si è evoluta, è soltanto variata perché ha fin da subito cambiato i miei pensieri. Tutto ciò che vorrei fotografare è, invece, semplicemente me stesso.


Molte sue immagini trattano il tema della solitudine in chiave ironica. Com’è il suo rapporto personale con essa?


L’ironia è solo nel mio modo d’essere. È sempre una sorta di malinconia, invece, quella che ritrovo nei miei percorsi e nei miei ascolti. La solitudine, se accolta, è una coperta che coccola, costruita su dialoghi silenziosi e liberi pensieri.


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Ci può parlare del progetto Mericans? Come nasce e quanto si reputa soddisfatto?


Questo lavoro si differenzia molto da tutta la mia produzione precedente: io, per primo, ne sono rimasto sorpreso. Viaggio e mi sposto molto, ma la macchina fotografica non è mai con me, semplicemente perché ho bisogno di vivere appieno quello che mi sta attorno. Il viaggio a New York è cominciato come un diario di ricordi, in un luogo in cui difficilmente sarei tornato, almeno non subito. Ho cominciato da qualcosa che già conoscevo bene: l’identità. I volti delle persone non mi hanno mai interessato, esse sono sempre state come uno specchio in cui affogare. New York è diventata, in quei giorni, un riflesso in cui guardarmi. Fin da subito mi è stato familiare ritrovare la solitudine e la malinconia, sensazioni tangibili e immediatamente riconoscibili in una città che in realtà vuole mostrare l’estremo opposto di sé. Sembra che in ogni istante essa possa offrire mille opportunità diverse per chi ci vive, per chi ci prova e per chi, come me, arriva da lontano sapendo di non fermarsi. Le persone erano lì, come a ripetere a se stesse che, alla fine, andrà tutto bene.


Il corpo femminile è spesso ritratto senza che si veda il volto. E’ un modo affinché chiunque si possa riflettere nelle sue immagini?


È un modo perché io possa riflettere con le mie immagini: tutto il mio percorso parla di me. Una costante ed estenuante ricerca delle mie molte sfaccettature, una sorta di esorcizzazione dei lati che amo e che allo stesso tempo non capisco.
È diventata così una “fotografia di accettazione”, un percorso del sé, un’auto-analisi attraverso gli altri. Le persone hanno sempre fatto da filtro, fra me e la realtà.


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Quali sono i fotografi che ammira particolarmente?


Quelli che ancora non conosco.


Se dovesse associare la sua fotografia a un libro che lo ha colpito, quale nominerebbe? Perché?


“Corpi e Anime” di Maxence Van der Meersch, letto molti anni fa e ripreso di recente. Racconta di realtà sospese e di solitudini strazianti: un non tempo di personaggi accomunati dal dolore.


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C’è un progetto a cui si sente più affezionato?


Ci sono stati dei giri di boa durante il mio percorso che hanno modificato il mio approccio e il mio pensiero. C’è stato l’arrivo del colore iniziale, la consapevolezza identitaria della fotografia poi. Infine, nell’ultimo anno, si è aggiunta la consapevolezza di poter dialogare e mostrare ad altri i miei pensieri, costruendo nuove interazioni attraverso la didattica.


Quali sono i prossimi progetti o eventi fotografici in cantiere?


Ho messo nero su bianco tutto il mio percorso, l’ho sintetizzato in un laboratorio che mi sta regalando moltissime soddisfazioni. Accompagno chi vuole ascoltarmi, in una profonda riflessione su se stessi attraverso le immagini che producono. Un ottimo riscontro è stato l’essere accolto con molto entusiasmo in importanti musei e associazioni con cui continuerò a collaborare nel corso di tutto il prossimo anno, costruendo assieme percorsi didattici nei quali la fotografia consentirà di smascherarci attraverso le immagini. Un nuovo, ulteriore, giro di boa.


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Lo sguardo di Luca Bortolato sul mondo non è mai intrusivo, anche quando i soggetti ritratti sono donne. La sua fotografia si serve spesso del corpo per “documentare” l’esistenza in tutta la sua immensa complessità. Quello che più colpisce delle sue immagini è senza ombra di dubbio l’atmosfera che avvolge in maniera quasi naturale le sue donne, fragili e forti al tempo stesso; ne deriva, pertanto, una fotografia intimista, delicata, suggestiva ed intellettualmente onesta.


http://www.lucabortolato.com/

Benedetta Falugi: una fotografia di “raccoglimento”

Benedetta Falugi è una fotografa toscana che ha fatto della fotografia il suo mestiere ormai da alcuni anni. La sua formazione avviene attraverso alcuni workshop e come autodidatta.


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Tra i suoi clienti spiccano nomi ben noti come: Visa (New York), Nokia (United Kingdom), i marchi di moda Mal Familie e Noodle Park (Italia). Da tre anni, inoltre, è entrata a far parte del collettivo di street photography “Inquadra”.


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La fotografia è, per lei, innanzitutto un’esigenza, un momento di “raccoglimento” e solitudine per indagare se stessa e la realtà circostante.


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Una passeggiata diviene, così, il pretesto per scrutare luoghi, persone e oggetti su cui la fotografa fantastica e nei quali prova ad immedesimarsi, imprimendone brillantemente la storia su pellicola.


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La sua fotografia è essenzialmente dettata dall’istinto, dove le emozioni scaturite dalle immagini s’incontrano con la voglia di esercitare incessantemente la capacità di osservazione. Lo sguardo di Benedetta sul mondo è quasi infantile, alla ricerca di colori e dettagli, in cui perdersi e ritrovarsi contemporaneamente.


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L’elemento ricorrente nelle sue foto è senza ombra di dubbio il mare, che le fa da compagna nei suoi momenti di solitudine e ricerca. La solitudine che traspare dal suo punto di vista non è mai sofferta, ma è anzi l’occasione di un momento creativo con il quale cullarsi serenamente.


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https://www.benedettafalugi.com

Intervista a Michele Palazzo: dove comincia il suo mondo

Michele Palazzo è il fotografo originario di Ravenna che sarà protagonista a Milano, presso la galleria Still, a partire dal 29 novembre per la sua prima mostra personale. La mostra, intitolata “Dove comincia il mondo“, è curata da Denis Curti e Maria Vittoria Baravelli.

“Dove comincia il mondo” è il titolo della sua mostra personale. Dove comincia, invece, la sua passione per la fotografia?

Comincia molto presto, negli anni della mia adolescenza alle scuole medie. Ho frequentato una scuola media sperimentale annessa all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna, ed a differenza delle altre scuole medie tradizionali, avevamo molte più ore di materie artistiche tra le quali fotografia. Erano ovviamente gli anni della fotografia analogica e la magia di sviluppare le foto autonomamente in camera oscura mi ha completamente rapito. Da quel momento in poi, con periodi più o meno intensi, la fotografia non mi ha più abbandonato.

Come approccia con i passanti mentre fotografa? Chiede se può fotografare o, semplicemente, cattura l’immagine?

Mai. Se chiedo il permesso, interrompo la magia del momento. I miei sono tutti ritratti fatti candidamente.

Emerging from the dark - Cover Fanzine

Dalle sue immagini vien fuori un mosaico di etnie e culture differenti, che si riflette anche nei colori. Qual è l’aspetto a cui presta maggior attenzione mentre fotografa?

Ci sono molte cose che catturano la mia attenzione: i volti, i vestiti, il background o la luce. E’ una cosa che faccio quotidianamente, è un esercizio di osservazione e di curiosità continua che non mi abbandona mai, nemmeno quando non ho una macchina fotografica con me.

Che posizione occupa la tecnica nella sua fotografia?

Credo che sia una cosa acquisita per il tipo di fotografia che faccio, anche se ovviamente ci sono sempre cose da apprendere. Non sono un fotografo da studio e, quindi, quella tecnica la conosco poco e posso essere sicuramente considerato un principiante; tuttavia, se mi dovesse servire o ancora meglio incuriosire, allora mi ci dedicherei in maniera ossessiva come faccio con tutte le cose che mi intrigano.

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Ci sono dei fotografi che hanno segnato particolarmente la sua visione della fotografia?

Probabilmente moltissimi, ma anche pittori, designers e architetti. Ho sempre avuto una grande curiosità visiva e una pessima memoria per i nomi, per cui le mie influenze sono le più svariate. Ho un background in architettura, un lavoro da designer nel mondo digitale, questa passione sfrenata per la fotografia e amo viaggiare: sarebbe riduttivo citare solo qualche fotografo. Poi ne scopro nuovi e vecchi ogni giorno, preferisco mantenere vivo questo senso di continua sorpresa e scoperta.

La sua visione del mondo si riflette nella sua fotografia, o la sua fotografia ha inciso nella sua visione del mondo?

Sicuramente la prima, anche se a volte riguardando le mie fotografie e a mente fresca, scopro un punto di vista inaspettato anche a me stesso. La mia macchina fotografica è un passe-partout per nuovi mondi e avventure: probabilmente senza questa mia passione quotidiana non avrei mai avuto accesso o scoperto metà delle cose che ora fanno parte di me.

Emerging from the Dark #8 2017
C’è una parte del mondo che desidera fotografare attualmente?

In senso geografico, l’Asia che non ho mai visitato e che conosco solo attraverso l’occhio di altri fotografi. Sono curioso di vedere cosa, invece, il mio occhio sia capace di catturare. Se invece non parliamo di luoghi geografici, allora vorrei fotografare i momenti persi e le persone mai viste.

C’è qualcosa, invece, che preferirebbe non fotografare?

Ci sono probabilmente dei generi a cui non mi avvicinerò mai per mia indole, ma non mi precludo nulla.

Emerging from the Dark #11 2016

Le capita spesso di emozionarsi rivedendo una sua fotografia?

Poche volte, credo di essere molto esigente con me stesso. Mi innamoro di alcune idee di fotografia che provo ad esplorare e molte volte, deluso dai risultati, preferisco continuare a inseguire quelle idee e ogni tanto raccogliere i frutti di quell’esplorazione.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perché?

Forse direi Pancia, perché la mia fotografia è un po’ viscerale, di pancia appunto.

La mostra di Michele Palazzo presenta New York in 20 scatti, città in cui il fotografo vive per esigenze lavorative a partire dal 2010. La New York ritratta da Palazzo è spesso evanescente: il fotografo imprime nelle sue immagini l’unicità e la magia di momenti irripetibili; ne deriva, pertanto, una visione del tutto personale della Grande Mela, dove culture ed esperienze di vita differenti si mescolano tra di loro e con l’esperienza del fotografo, sino a realizzare un mosaico piacevole da osservare ed estremamente affascinante.

www.streetfauna.com

Vivian Maier: l’incanto di una scoperta

Vivian Maier è nota soltanto da una decina di anni ed è attualmente una delle figure più affascinanti nell’ambito della fotografia, tanto da ispirare libri e documentari sulla sua vita. Oggigiorno, il fascino di quest’artista risiede sicuramente non soltanto nella sua opera, ma soprattutto nella sua vita non priva di difficoltà e nel ritrovamento quasi casuale della sua fotografia. Per tutto il corso della sua vita, accompagnò la passione per la fotografia derivata da un’amica della madre, all’attività da bambinaia per pagarsi da vivere.


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Ciò che affascina maggiormente della sua storia è la decisione di non rendere pubbliche le sue fotografie: molti dei suoi negativi restavano non sviluppati in vita. Sembra quasi che a lei bastasse il semplice atto del fotografare, senza la necessità di condividere il risultato dei suoi scatti. Allo stesso tempo, è evidente che non fosse interessata alle finalità commerciali dell’epoca.


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La scoperta della sua opera ha dell’assurdo: i suoi negativi sono stati scoperti nel 2007 dall’americano John Maloof. In occasione di una ricerca sulla città di Chicago, il ragazzo acquistò uno scatolone contenente gli oggetti più disparati, messo all’asta per 380 dollari e sottratto alla proprietaria in seguito alle sue gravi problematiche finanziarie. Tra i vari oggetti, ritrovò anche una cassa contenente dei negativi e dei rullini ancora non sviluppati.


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Le immagini di Vivian Maier sono il dipinto dell’America dei primi decenni del ‘900, il racconto di un popolo tramite sguardi, espressioni, luoghi e gestualità. Ciò che maggiormente colpisce osservando le sue fotografie è la spontaneità con cui cattura un’immagine o il suo ritratto allo specchio. E’ una fotografia non troppo ricercata, quasi casuale: è proprio questa spontaneità dell’atto fotografico ad impreziosire di fascino e mistero i soggetti ritratti. Negli occhi dei suoi autoritratti, è possibile scorgere una personalità ricca di luci ed ombre proprio come la sua fotografia.


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Nel 2009, Vivian Maier morì in seguito ad una caduta sul ghiaccio e al suo ricovero in ospedale. John Maloof, che pur voleva incontrare la donna del box che aveva acquistato per valorizzarne l’opera, non ebbe mai modo di conoscerla. Senza le sue ricerche, Vivian sarebbe rimasta impressa soltanto nella memoria dei bambini americani degli anni ’50 e ’60 che la conobbero nelle vesti da bambinaia.


1954, New York, NY
1954, New York, NY