THE HATEFUL EIGHT: LO SPAGHETTI WESTERN FIRMATO TARANTINO

Il Maestro è tornato, con il suo ottavo capolavoro, celebrazione assoluta dello stile tarantiniano in versione western. Ed è già cult.

Attesa finita: il Maestro del cinema pulp è tornato e, come ormai di consueto, ha fatto centro. Questa volta più che mai. Torna Quentin Tarantino e lo schermo si ritinge di quel rosso puro che non solo è l’emblema del suo “fare cinema” riempiendo la pellicola di scene crude e ricche di quel sangue rosso vivo, ma bensì anche di quel rosso associato alla passione, la stessa che il regista riesce con ogni suo lavoro ad infiammare in un pubblico che ormai lo ha consacrato a mito, un regista ribelle capace di trasformare lunghe scene di violenza in veri e propri cult.

 

Lo aveva fatto agli esordi con il mitico Pulp Fiction, con Le Iene, con Kill Bill e via dicendo e quest’anno lo ha riconfermato portando sul grande schermo il suo ultimo grande lavoro: The Hateful Eight. L’ottavo film di Tarantino, proiettato in anteprima solo in tre sale in tutta Italia (il Teatro 5 di Cinecittà, il Cinema Arcadia di Melzo (Mi) con super tecnologia audio firmata Doldy e realizzata da Sangalli Tecnologie di Bergamo e il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna) è già stato definito dalla critica come la consacrazione del genere “spaghetti western” alla Tarantino. Se già con Jango Tarantino si era addentrato in questo “terreno” da lui tanto amato, con The Hateful Eight è riuscito a riproporre in tutto e per tutto un film che non solo ha tutto il sapore di quei film wester tanto amati dal cinema americano, ma in più ha inserito tra i mm di questa pellicola tutto il suo stile inconfondibile.

 

E parlando di mm non si può non porre l’attenzione sulla scelta del Maestro di portare sul grande schermo un film in 70 mm, formato di pellicola deluxe quasi in disuso, costoso ma dalla resa extra luminosa e dalla dinamica del colore imbattibile. Una scelta che porta lo spettatore quasi ad entrare direttamente nel film, proiettandosi in ogni singola scena. Il risultato è a dir poco stupefacente, amplificato da un’altra chiave di volta alla Tarantino, le musiche, sempre intense, profonde, incisive e ovviamente in antitesi con la scena proiettata.

 

hatefuleight1512a

 

 

E se poi si conclude dicendo che ogni singolo pezzo è siglato dal grande Ennio Morricone… non serve andare avanti. Ogni nota buca lo schermo e si fonde con esso per rendere vivida e profonda ogni sequenza. E così dallo scenario innevato delle montagne del Nord America si apre The Hateful Eigth, il cui svolgimento, in contrasto con molti altri miti di Tarantino girati in ambienti che cambiano in un batter d’occhio, avrà come sfondo solo queste montagne e l’ Emporio di Mannie, che servirà ai protagonisti per ripararsi da una bufera di neve.

 

hateful_eight_twc_2.0

 

 

Proprio in questo piccolo spazio il film troverà il suo compimento, in una sequenza di scene che, a differenza delle altre sette bobine del Maestro, non troveranno la velocità dell’azione ma bensì il lento scorrimento della trama. Effetto voluto ovviamente perché quello che Tarantino ha creato è un film da gustare con calma, scena dopo scena, in una prima parte quasi troppo lenta e senza sangue per essere un suo film. Ma nessun problema: il secondo tempo sarà una discesa senza freni verso il macabro, crudo e sanguinolendo stile tarantiniano. Con una nota in più: gli amanti del genere non potranno assolutamente mancare di notare come la stesura perfetta di questo copione richiami inesorabilmente gli enigmi di una delle più amate gialliste della storia, Agatha Christie (non a caso uno dei cow boy protagonisti si spaccerà per inglese e porterà un cappello che quanti hanno amato il celebre detective Hercule Poirot non potranno non avere notato?!).

Tim-Roth-Kurt-Russel-og-Jennifer-Jason-Leigh-i-The-Hateful-Eight

Sta di fatto che il richiamo a quei “10 piccoli indiani” che uno a uno moriranno in un gioco misterioso dove non sarà chiaro nè  l’assassino nè l’innocente vi è tutto. Cambia lo scenario, ovviamente, ma la logica che spingerà gli otto cacciatori di taglie protagonisti ad una eliminazione reciproca vi è tutta. Con un “… e alla fine ne resterà solo uno” che non poteva però essere applicato da Tarantino. E qui, solo qui, piano piano, scena dopo scena, con salti temporali propri dello stile pulp, mixati a quel “mexicans standoff” (ovvero il “triello” nel quale tre personaggi armati di pistola si tengono sotto tiro l’un l’altro-tanto amato da Sergio Leone), il film ci svela tutti i suoi perché e la storia fitta di dialogi ben creati e sangue a più non posso consacra ancora una volta il mito di Tatantino. Un grande applauso al grande Maestro pulp quindi, che non ha deluso, anzi, ha riconfermato il suo genio e la sua maestria nel trasformare anche la scena più macabra in una sequenza cult. E se la grande Agatha fosse stata con noi in platea ieri sera, beh, siamo sicuri avrebbe abbozzato un sorriso. O così la vogliamo pensare.

 

 

the-hateful-eight-ecco-tutti-i-nuovi-poster-v2-235378

Sergio Leone e la Trilogia del Dollaro

Un cavaliere solitario arriva a San Miguel, un paesino del confine tra Messico e Stati Uniti. Non ha un dollaro in tasca, ma ha l’aria sorniona di chi è svelto a sparare, e nel vecchio West questo basta e avanza. Dopo aver assistito al sopruso ai danni di un bambino, lo straniero arriva dal proprietario del saloon del paese, Silvanito, che gli spiega la situazione: è in atto una guerra tra le due famiglie più potenti, i Baxter, che vendono armi, e i fratelli Rojo (Don Benito, Esteban e Ramon), che vendono alcol. «I Baxter da un lato, i Rojo dall’altro. E io nel mezzo. Aveva ragione il campanaro: c’è da arricchirsi in questo paese». È questo l’inizio di Per un pugno di dollari (1964) – remake de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa – primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro, completata da Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), tutti e tre diretti da Sergio Leone, che oltre a lanciare Clint Eastwood (all’epoca un giovane attore con qualche parte minore all’attivo) definirà un genere, i cosiddetti “spaghetti western” (produzioni di film western italiani con budget ridotto), diventandone uno dei registi più importanti.


La Trilogia del Dollaro si discosta notevolmente dai classici western americani, per esempio i film di John Ford. Nell’epopea di Leone non ci sono buoni e cattivi (nonostante il titolo del terzo film faccia pensare il contrario). Ci sono piuttosto uomini che agiscono soltanto per se stessi, per arricchirsi. Lo straniero senza nome, che qui sarà chiamato Joe, mentre nei due film successivi sarà rispettivamente il Monco e il Biondo, è il massimo esempio dell’opportunismo: è uno che fa di tutto per raggiungere i propri obiettivi. È disposto a bluffare, a uccidere e anche a rischiare la vita. Lo fa in Per un pugno di dollari, quando si trova tra i due fuochi, i Baxter e i Rojo, riuscendo ad attuare un doppiogioco piuttosto rischioso per un uomo qualunque, ma non per uno così furbo. Quando però Ramon Rojo (un mefistofelico Gian Maria Volonté) scopre di essere stato ingannato, lo cattura e lo fa torturare dai suoi uomini, riducendolo in fin di vita. In seguito alla fuga di Joe, Ramon scarica tutta la propria rabbia sui Baxter, incendiando la loro casa e uccidendoli a sangue freddo. Aiutato dal becchino, intanto, Joe riesce a fuggire e a preparare, poco alla volta, la sua implacabile vendetta.


Lo scontro finale – supportato dalle epiche musiche di Ennio Morricone, fondamentali per connotare i film di Leone e per diversificarli dagli ordinari film western americani – è diventato ormai leggendario. Mentre Ramon e i suoi uomini torturano Silvanito per sapere dove si è nascosto lo straniero, si sente un’esplosione: dinamite. Il fumo avanza davanti ad alcune case ormai disabitate. E poi, poco alla volta, compare un uomo. Appare come un fantasma ma è piuttosto un abile illusionista. E con l’illusione affronta Ramon, che gli scarica tutti i proiettili dritto al cuore. L’uomo intanto grida: «Al cuore, Ramon! Per uccidere un uomo lo devi colpire al cuore! Sono parole tue, no?». Non solo. Ramon aveva anche detto: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.»


Per-un-Pugno-di-Dollari


Non si tratta soltanto di un duello in cui si decide chi vive e chi muore ma anche chi ha ragione. Joe sfida Ramon in tal senso, smentendo le sue forti convinzioni, sparare al cuore ed essere più forte solo perché usa un fucile al posto di una pistola. Di fronte all’invulnerabilità di Joe, Ramon, resosi conto di aver finito i proiettili, prova un attimo di panico. Intanto Joe gli mostra il suo segreto: una lastra d’acciaio a fungere da giubbotto antiproiettile. Una scena enfatizzata dai lunghi momenti di silenzio, dai primi piani sugli sguardi e da altre, interminabili, pause. Dopo aver sparato agli uomini di Ramon, la sfida diventa un faccia a faccia: un uomo con la pistola e un uomo col fucile. Joe spara prima alla corda che lega il povero Silvanito. Poi getta per terra la pistola e invita Ramon a raccogliere il fucile, a caricare e a sparare. Sarà una sfida soprattutto di velocità. Il finale è scontato, con la vittoria di Joe, che riporta la pace a San Miguel ma che fugge poco prima che arrivino le forze governative. Al galoppo verso nuove avventure. Verso un altro mucchio di dollari.


Nel film successivo, Per qualche dollaro in più, Joe è conosciuto come il Monco. La mano fuori uso è quella martoriata dalle torture di Ramon. Ma ora non è più un cavaliere solitario doppiogiochista: ora è diventato un cacciatore di taglie a tutto tondo e il suo obiettivo è catturare lo spietato Indio (ancora Gian Maria Volonté, sempre più mefistofelico), un bandito messicano senza scrupoli che vuole rapinare la banca di El Paso. Stavolta, però, ci sarà qualcuno a contendersi il bottino con lui: si tratta del Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), che con Indio ha un conto in sospeso, poiché il bandito, in passato, aveva ucciso la sorella e il cognato del colonnello. La donna, dopo essere stata violentata dall’Indio, si era sparata un colpo proprio con la sua pistola. Quindi è la vendetta, oltre che i soldi, a muovere il colonnello.


Unitosi al Monco – mosso invece soltanto dai soldi – il colonnello lo convince a far evadere da una prigione un ex scagnozzo dell’Indio, per poi introdursi nella sua banda e spiare dall’interno le sue mosse. Obiettivo del colonnello è lo scontro frontale con l’Indio, ossessionato dalla musica di un carillon, al termine della quale è solito sparare. Questo secondo film riprende alcuni elementi del primo: c’è un cavaliere solitario (Joe in Per un pugno di dollari, qui il Monco, ma il personaggio è lo stesso) che vuole arricchirsi; c’è una sconfitta (l’Indio che scopre il Monco e il Colonnello e li fa pestare dai suoi uomini) e c’è, infine, un duello letale, anche questa volta mosso dalla vendetta, ma per un’azione narrata soltanto in un flashback anziché nella linea temporale del film. L’elemento aggiuntivo è il Colonnello, spalla ideale del Monco, rispetto al quale si dimostra molto più saggio e metodico. Discorso simile vale per il terzo e ultimo film della trilogia, Il buono, il brutto e il cattivo, in cui l’azione però non è mossa dalla vendetta ma soltanto dai soldi, ancora una volta. L’intreccio, però, è più complesso; e se Per un pugno di dollari rispettava le unità aristoteliche di luogo (tutto il film è ambientato a San Miguel), in questo caso lo scenario cambia spesso e porta le strade dei tre protagonisti a intersecarsi in maniera del tutto casuale.


PerQualcheDollaroInPiu


Il Biondo (Clint Eastwood) e Tuco (Eli Wallach) si arricchiscono grazie alla taglia sulla testa di Tuco, truffatore, ladro, omicida e rapinatore: il Biondo prima lo consegna e poi lo libera, facendo aumentare ogni volta il bottino. I due si imbattono in una carovana, in cui un moribondo, un certo Bill Carson, rivela a Tuco l’esistenza di un bottino di duecentomila dollari sotterrati in una tomba. Prima di morire, Carson fa in tempo a dire a Tuco soltanto il nome del cimitero, mentre al Biondo, in fin di vita proprio per colpa di Tuco – che si era vendicato perché il Biondo, a sua volta, lo aveva abbandonato nel deserto dopo aver intascato la taglia –, rivela il nome della tomba in cui cercare il tesoro. Sulle tracce di Carson c’è anche uno spietato killer che si fa chiamare Sentenza (Lee Van Cleef). Tutto ciò sullo sfondo di una guerra civile che non conosce pietà per nessuno. I tre film sono legati dal motivo comune che scatena il plot narrativo (i soldi) e dallo stesso protagonista (il cavaliere senza nome) nonché da una struttura narrativa con qualche variante e con l’aggiunta di attori importanti al fianco della star Clint Eastwood, che per la Trilogia del Dollaro riuscì, tra un film e l’altro, sull’onda del successo, a far aumentare progressivamente il proprio ingaggio.


Tre film entrati nell’immaginario collettivo e diventati fonte di ispirazione per registi come Quentin Tarantino (che dedica Kill Bill proprio a Sergio Leone), Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Stanley Kubrick, John Woo, Brian De Palma, Robert Zemeckis (che lo cita nel secondo e nel terzo film di Ritorno al futuro) e Robert Rodriguez (C’era una volta in Messico, ultimo film della cosiddetta trilogia Mariachi, richiama C’era una volta il West o C’era una volta in America, altri due film di Leone). Stephen King, per il personaggio di Roland Deschain della Torre Nera, si è rifatto al cavaliere senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro.Quanto allo stesso Clint Eastwood, l’esperienza con Leone lo ha fatto crescere molto come attore ma lo ha fatto diventare anche e soprattutto un regista di primissimo livello, portandolo a vincere l’Oscar con Gli spietati e con Million Dollar Baby. A questi si sono aggiunte altre perle immortali come Gran Torino, Un mondo perfetto, Mystic River e l’ultimo, American Sniper, capace di incassare circa 547 milioni di dollari totali partendo da un budget di 60.


Al di là del contributo circa la carriera di Clint Eastwood, Leone ha profondamente rinnovato il linguaggio del cinema; e lo ha fatto, in particolare, con quello che è considerato il suo capolavoro, C’era una volta in America (1984), un disincantato racconto sui ricordi, la vita, l’amicizia, l’amore, l’infanzia, il sogno, l’illusione. Una vastità di temi enorme, unita a un cast eccezionale (Robert De Niro, James Woods, Joe Pesci). Dotato di un’incredibile sensibilità per la caratterizzazione dei suoi personaggi e per la capacità di farne emergere la profonda umanità, Sergio Leone, con la Trilogia del Dollaro, ha rivoluzionato tecniche, linguaggi e generi, introducendo nel cinema personaggi, situazioni e stereotipi in netta contrapposizione con i classici western. Su tutti, spicca la figura dell’uomo senza nome, un cavaliere solitario che non può legarsi a nessuno, in cerca soltanto di soldi.


buono-brutto-cattivo


Eppure anche la sua ricerca infinita potrebbe essere stata generata da qualcosa di grave che gli è accaduto in passato (di cui non si dice mai nulla). Lo si lascia intendere in Per un pugno di dollari, quando libera Marisol e la sua famiglia dalla prepotenza di Ramon, innamorato della donna. «Perché fate tutto questo per noi» gli chiede il marito di Marisol; «È una storia troppo lunga da raccontare ora», risponde lui. Un motivo molto forte. Qualcosa che tormenta Joe/il Monco/il Biondo ma che mai sarà svelato. Sempre ammesso che qualcuno non decida di farlo rivivere, rimettendogli il poncho, il sigaro e quello sguardo profondo che sono il marchio di fabbrica del più affascinante personaggio tra gli affascinanti film di Sergio Leone.