Biancaneve e i sette nani, la follia di Walt Disney

Il 21 dicembre 1937 presso il Carthay Circle Theatre di Los Angeles, al termine della proiezione in anteprima di quella che era stata definita una follia, il pubblico, composto tra gli altri da star del calibro di Charlie Chaplin, Shirley Temple, Clark Gable, Judy Garland e Marlene Dietrich, concesse una standing ovation al primo lungometraggio animato della storia. L’artefice di quella follia era Walt Disney e quel film era Biancaneve e i sette nani. All’epoca Walt Disney era un cineasta talentuoso che si era fatto conoscere prima per le Alice Comedies, nei primi anni ’20, e poi, soprattutto, per la serie di Mickey Mouse (dopo aver perso i diritti per Oswald the Lucky Rabbit) e delle Silly Symphonies, cortometraggi animati molto distanti dalle produzioni seriali di Tex Avery o dei fratelli Fleischer (creatori di Betty Boop e Braccio di Ferro).


Mickey Mouse era il simbolo del New Deal, il coraggioso americano che combatteva la paura della Grande Depressione con la positività che era tipica anche del suo creatore, Walt Disney (anche se, secondo alcuni, a disegnarlo sarebbe stato Ub Iwerks). Dall’altro lato c’erano le Silly Symphonies, anch’esse portatrici dei valori del New Deal e già capaci di per sé di rivoluzionare, dal punto di vista tecnico, il cinema d’animazione, ad esempio per l’introduzione della multiplane camera, capace di dare profondità all’immagine (in The Old Mill, 1937) o per aver regalato per la prima volta il colore (in Flowers and Threes, 1932) a delle produzioni fino a quel momento piuttosto spartane e dipendenti dai più importanti lungometraggi live action.


In realtà già qualcuno aveva provato a nobilitare un tipo di cinema che sembrava soltanto il surrogato di quello con attori in carne e ossa. Un primo tentativo l’aveva fatto l’argentino Quirino Cristiani, i cui film furono però distrutti in un incendio; in seguito c’era stata anche Lotte Reiniger con Le avventure del Principe Achmed (1923), realizzato con la tecnica delle silhouette. Ma nessuno di loro era stato in grado di dare ai cartoni animati un’impronta hollywoodiana, così come accadde per Biancaneve e i sette nani. D’altronde anche Max Fleischer – forte concorrente di Disney – avrebbe tentato la stessa operazione due anni dopo, con I viaggi di Gulliver (1939), ottenendo risultati tutt’altro che gratificanti. Gli ingredienti del successo di Disney erano piuttosto semplici, prelevati da una nota fiaba dei fratelli Grimm e riadattati secondo la visione del mondo di Walt Disney: da un lato una fanciulla dal volto e dal cuore candido, orfana prima della madre e poi del padre; dall’altro una matrigna – una regina – gelosa della crescente bellezza della sua figliastra nonché della sua giovinezza e della sua squisita bontà.


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Un primo tentativo di affronto: l’ordine a un cacciatore, uccidere la fanciulla e portare il suo cuore in uno scrigno. Ma il cacciatore, impietosito da Biancaneve, la lascia andare e così la fanciulla trova rifugio presso una casetta, al di là del bosco. Qui vivono i sette nani, che all’inizio lei scambia per dei bambini. I nani, i cui nomi rispecchiano le peculiarità caratteriali (Dotto, Gongolo, Eolo, Mammolo, Cucciolo, Brontolo e Pisolo), tornano a lavorare nelle miniere, mentre Biancaneve, calatasi più nel ruolo di ragazza-madre che di principessa, si occupa delle faccende domestiche, con l’aiuto degli animali della foresta, lavando e cucinando. Intanto la regina scopre che il cacciatore non le ha portato il cuore di Biancaneve ma quello di un cinghiale, così decide di muoversi in prima persona per annientare una volta per tutte la sua nemica e per essere lei «la più bella del reame». Ora rivela la sua vera natura: è una strega, una profonda conoscitrice di formule alchemiche mostruose, capaci di tramutarla in una vecchia megera; e capaci anche di trasformare il frutto del peccato originale, la mela – una bellissima mela rossa – in un’arma letale. L’ingenuità di Biancaneve non può nulla contro la furbizia della strega. Giunta alla casetta dei nani, è sufficiente offrirle la mela per assicurarsi che Biancaneve non si tirerà indietro: basta un solo morso per ucciderla.


Nel frattempo, gli animali della foresta corrono alla miniera per richiamare i nani e per avvertirli che Biancaneve è in pericolo. A sconfiggere la strega sarà il Fato, che la farà precipitare sghignazzando da un burrone, mentre tenterà di schiacciare i nani «come formiche». Quanto a Biancaneve, c’è un solo modo per risvegliarla da un sonno tutt’altro che mortuario: il bacio del vero amore, che potrà esserle dato da un giovane, un principe che già aveva dimostrato di amarla, quando aveva ascoltato la sua candida voce mentre raccoglieva l’acqua dal pozzo. Una fiaba con una trama semplice, lineare, con pochi ma essenziali personaggi, ognuno dei quali con una funzione ben precisa: la strega come antagonista, i nani come aiutanti, il principe come risolutore/salvatore; e Biancaneve che, passiva, attende il compiersi della propria sorte. Essere odiata perché lo Specchio Magico rivela alla regina che non è lei «la più bella del reame». C’è invidia, c’è odio, c’è soprattutto la profonda consapevolezza che la fanciulla potrebbe oscurarla. Questo è il moto dell’azione, che si sviluppa attraverso le celeberrime canzoni della Disney, che fanno diventare il film una vera e propria operetta.


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Una follia, già. Una follia che nel 1937 trasformò Disney e la sua azienda in colossi cinematografici, con incassi da capogiro, considerata l’epoca. Soltanto Via col Vento, due anni dopo, sarebbe riuscito a fare meglio. Ma Walt Disney non era uno capace di accontentarsi; e così, da vero self-made man, desiderò moltiplicare il proprio successo con qualcosa di ancora più ambizioso. I profitti di Biancaneve lo portarono a realizzare un nuovo studio, a Burbank, dove ora risiedono i Walt Disney Studios. Ma l’inizio della guerra e lo sciopero del ’41, a causa dei numerosi licenziamenti, non gli facilitarono le cose, per cui il film successivo, Fantasia (1940), troppo all’avanguardia per quei tempi, non fu abbastanza apprezzato, pur essendo la geniale unione tra cultura alta e cultura popolare: la musica e il cartoon, o meglio la musica classica e Topolino, simbolo aziendale decaduto, rilanciato nell’episodio L’apprendista stregone dopo che, nei cortometraggi tra la fine degli anni ‘30 e i primi anni ‘40, il successo di Paperino lo aveva quasi oscurato. Paperino era infatti diventato lo strumento di propaganda anti-nazista di Walt Disney, incarnando lo spirito dell’americano per eccellenza, esemplato in un cortometraggio – talvolta male interpretato – come Der Fuherer’s Face, laddove sognava di essere un nazista, per poi risvegliarsi da quel tremendo incubo e baciare la Statua della Libertà.


Film di propaganda, dunque. L’impegno politico di Walt Disney, che sarebbe diventato collaboratore di J. Edgar Hoover nella caccia ai comunisti, è indiscutibile sin dai primi cortometraggi di Topolino, ma anche in Biancaneve non mancano messaggi coraggiosi: l’iperattivismo dei nani è un inno al lavoro. Sono americani che non si perdono d’animo, che anche nei momenti più difficili continuano a lavorare con positività, instancabili. La stessa cosa la fa Topolino, che anzi, come già detto, incarnava l’essenza stessa del New Deal di Roosevelt. Dall’altro lato, come elemento negativo, troviamo il Lupo Ezechiele, che nei Tre porcellini (1933), secondo Ejzenštein, rappresentava la disoccupazione. E non a caso la canzone canticchiata da due dei tre porcellini (quelli più scansafatiche) era “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”, un testo scritto da Frank Churchill e inno del New Deal durante la Grande Depressione, citato anche da Frank Capra in Accadde una notte (1934). Capra, non a caso, era amico di Walt Disney.


Oltre a un forte richiamo alla realtà politica dell’epoca, però, Biancaneve è anche ricco di simboli. Per esempio Biancaneve che invoca l’amore quando raccoglie l’acqua del pozzo, ovvero le emozioni raccolte dal subconscio. E anche le personalità dei nani non sono casuali: si va dall’ingenuità infantile di Cucciolo alla saggezza di Dotto, con Brontolo a simboleggiare l’intolleranza e la vecchiaia e Gongolo e Mammolo negli stadi intermedi dell’innamoramento. Tutte le fasi della vita, scandite in sette personalità diverse. Ma i film di Walt Disney, non soltanto Biancaneve e i sette nani, sono stati interpretati anche in maniera tutt’altro che positiva. La metamorfosi della regina in vecchia, ad esempio, secondo un utente spagnolo di YouTube, alluderebbe a un’invocazione a Satana: «Polvere di mummia, per invecchiare; per tingere le vesti, il nero della notte; per arrochire la voce, risata di strega; per imbiancare i capelli, un urlo di terrore; turbine di vento, per agitare il mio odio». Sono ingredienti che hanno l’obiettivo di terrorizzare lo spettatore e di inquietarlo per il potere oscuro della regina e per le sorti di Biancaneve. Ma se così non fosse stato, se la regina non avesse avuto questi poteri oscuri, il film avrebbe perso interesse e non avrebbe avuto successo.


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Pur essendo tratto da una fiaba dei Grimm, il film ha alcune fondamentali differenze che addolciscono il contenuto e che riadattano la storia per il pubblico a cui Disney voleva rivolgersi: le famiglie americane che amano l’entertainment e il dolce sapore del lieto fine. Perché nel mondo di Walt Disney tutto deve finire bene e anche storie profondamente drammatiche come potevano essere il Peter Pan di Barrie (il triste isolamento del bambino in un mondo che gli impedisce di crescere e che lo porterà ad allontanarsi dalla famiglia), o simboliche come il Pinocchio di Collodi – devono avere i tratti tipici della “disneynità”. Per cui, se nella fiaba dei Grimm la strega tenta più volte di uccidere Biancaneve, prima soffocandola con una cintura e poi con un pettine avvelenato, nella Biancaneve di Walt Disney è sufficiente la mela avvelenata; in secondo luogo, il bacio del principe non esiste per i Grimm: Biancaneve si risveglia in maniera del tutto casuale, quando un principe (che non l’ha mai vista se non dopo essere stata avvelenata con la mela) la conduce nel suo castello e nel corso di una caduta Biancaneve riesce a espellere il boccone avvelenato. Niente di romantico, quindi. E anche la punizione del Fato è un’invenzione di Walt Disney: la matrigna, invitata alle nozze di Biancaneve con il principe, è costretta a indossare delle calzature incandescenti e a ballare, finché non muore. Varianti essenziali, come si è già detto, per identificare alcuni elementi con la Biancaneve di Disney, non con quella dei Grimm.


Le trasposizioni più recenti della celeberrima fiaba non fanno altro che restituire alla storia di Biancaneve il tema essenziale che Disney aveva cercato di celare: la sessualità. Perché in fondo la regina vuole uccidere Biancaneve perché è gelosa di lei, della sua bellezza, ma soprattutto della sua femminilità; una femminilità pericolosa perché le può sottrarre il suo sposo. Un elemento che nel film della Disney non è per niente accentuato, cosa che accade invece in Biancaneve (2012) con Lily Collins e Julia Roberts, laddove le due donne arrivano addirittura a contendersi il principe. È chiaro che, anche per il pubblico a cui è destinato Biancaneve e i sette nani (le famiglie, ma soprattutto i bambini, la cui sessualità è ancora latente), due donne che, per conquistare un uomo, esprimono al massimo la propria femminilità non sono affatto concepibili, anche se, nella Sirenetta (1989), questo elemento verrà fuori. Ma si tratta di un periodo differente, e soprattutto con un’azienda del tutto rinnovata e orfana di Walt Disney. Purtroppo le esigenze di marketing portano però anche a una rilettura di fiabe classiche secondo una visione moderna e di genere totalmente diverso che va a snaturare la morale stessa della storia, trasformandola in un futile intrattenimento fine a se stesso. È ciò che accade in Biancaneve e il cacciatore, sempre del 2012, che segue il filone di altre fiabe ritornate al cinema in live action come il deludente Alice in Wonderland (2010) di Tim Burton o come lo pseudo-horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011); oppure, infine, l’altrettanto deludente e inutile remake La Bella e la Bestia (2014).


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Tornando a quella notte del 21 dicembre 1937, la follia di Disney si era rivelata una scommessa più che vincente: il successo al botteghino per il primo lungometraggio animato della storia, escludendo i tentativi – di cui si è già accennato – di Quirino Cristiani e di Lotte Reiniger, fu straordinario. Walt Disney, due anni dopo, si aggiudicò l’Oscar alla carriera e fu lodato da Chaplin e da Ejzenštein, che definì Biancaneve il più grande film mai realizzato. Tramandato per intere generazioni, amato da ogni famiglia, senza distinzione di sesso o di età, Biancaneve e i sette nani è il più grande classico fra tutti i classici Disney, una pietra miliare della settima arte, innovativo tanto quanto lo sarebbe stato Quarto Potere soltanto tre anni dopo ma molto più popolare. Un’esplosione incontenibile di emozioni, dettate da situazioni anche piuttosto naïf, ma assolutamente originale, se si considera l’epoca in cui è nato. Un film di quasi ottant’anni fa – settantotto, per essere precisi – ma immortale tanto quanto il suo creatore, un uomo che voleva farsi ibernare per ottenere l’immortalità e che è riuscito a salvaguardare il proprio nome, la propria fama, attraverso personaggi innocenti e genuini come dei bambini, divenuti tra i maggiori simboli della cultura popolare, non soltanto di quella occidentale.


Sergio Leone e la Trilogia del Dollaro

Un cavaliere solitario arriva a San Miguel, un paesino del confine tra Messico e Stati Uniti. Non ha un dollaro in tasca, ma ha l’aria sorniona di chi è svelto a sparare, e nel vecchio West questo basta e avanza. Dopo aver assistito al sopruso ai danni di un bambino, lo straniero arriva dal proprietario del saloon del paese, Silvanito, che gli spiega la situazione: è in atto una guerra tra le due famiglie più potenti, i Baxter, che vendono armi, e i fratelli Rojo (Don Benito, Esteban e Ramon), che vendono alcol. «I Baxter da un lato, i Rojo dall’altro. E io nel mezzo. Aveva ragione il campanaro: c’è da arricchirsi in questo paese». È questo l’inizio di Per un pugno di dollari (1964) – remake de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa – primo film della cosiddetta Trilogia del Dollaro, completata da Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966), tutti e tre diretti da Sergio Leone, che oltre a lanciare Clint Eastwood (all’epoca un giovane attore con qualche parte minore all’attivo) definirà un genere, i cosiddetti “spaghetti western” (produzioni di film western italiani con budget ridotto), diventandone uno dei registi più importanti.


La Trilogia del Dollaro si discosta notevolmente dai classici western americani, per esempio i film di John Ford. Nell’epopea di Leone non ci sono buoni e cattivi (nonostante il titolo del terzo film faccia pensare il contrario). Ci sono piuttosto uomini che agiscono soltanto per se stessi, per arricchirsi. Lo straniero senza nome, che qui sarà chiamato Joe, mentre nei due film successivi sarà rispettivamente il Monco e il Biondo, è il massimo esempio dell’opportunismo: è uno che fa di tutto per raggiungere i propri obiettivi. È disposto a bluffare, a uccidere e anche a rischiare la vita. Lo fa in Per un pugno di dollari, quando si trova tra i due fuochi, i Baxter e i Rojo, riuscendo ad attuare un doppiogioco piuttosto rischioso per un uomo qualunque, ma non per uno così furbo. Quando però Ramon Rojo (un mefistofelico Gian Maria Volonté) scopre di essere stato ingannato, lo cattura e lo fa torturare dai suoi uomini, riducendolo in fin di vita. In seguito alla fuga di Joe, Ramon scarica tutta la propria rabbia sui Baxter, incendiando la loro casa e uccidendoli a sangue freddo. Aiutato dal becchino, intanto, Joe riesce a fuggire e a preparare, poco alla volta, la sua implacabile vendetta.


Lo scontro finale – supportato dalle epiche musiche di Ennio Morricone, fondamentali per connotare i film di Leone e per diversificarli dagli ordinari film western americani – è diventato ormai leggendario. Mentre Ramon e i suoi uomini torturano Silvanito per sapere dove si è nascosto lo straniero, si sente un’esplosione: dinamite. Il fumo avanza davanti ad alcune case ormai disabitate. E poi, poco alla volta, compare un uomo. Appare come un fantasma ma è piuttosto un abile illusionista. E con l’illusione affronta Ramon, che gli scarica tutti i proiettili dritto al cuore. L’uomo intanto grida: «Al cuore, Ramon! Per uccidere un uomo lo devi colpire al cuore! Sono parole tue, no?». Non solo. Ramon aveva anche detto: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto.»


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Non si tratta soltanto di un duello in cui si decide chi vive e chi muore ma anche chi ha ragione. Joe sfida Ramon in tal senso, smentendo le sue forti convinzioni, sparare al cuore ed essere più forte solo perché usa un fucile al posto di una pistola. Di fronte all’invulnerabilità di Joe, Ramon, resosi conto di aver finito i proiettili, prova un attimo di panico. Intanto Joe gli mostra il suo segreto: una lastra d’acciaio a fungere da giubbotto antiproiettile. Una scena enfatizzata dai lunghi momenti di silenzio, dai primi piani sugli sguardi e da altre, interminabili, pause. Dopo aver sparato agli uomini di Ramon, la sfida diventa un faccia a faccia: un uomo con la pistola e un uomo col fucile. Joe spara prima alla corda che lega il povero Silvanito. Poi getta per terra la pistola e invita Ramon a raccogliere il fucile, a caricare e a sparare. Sarà una sfida soprattutto di velocità. Il finale è scontato, con la vittoria di Joe, che riporta la pace a San Miguel ma che fugge poco prima che arrivino le forze governative. Al galoppo verso nuove avventure. Verso un altro mucchio di dollari.


Nel film successivo, Per qualche dollaro in più, Joe è conosciuto come il Monco. La mano fuori uso è quella martoriata dalle torture di Ramon. Ma ora non è più un cavaliere solitario doppiogiochista: ora è diventato un cacciatore di taglie a tutto tondo e il suo obiettivo è catturare lo spietato Indio (ancora Gian Maria Volonté, sempre più mefistofelico), un bandito messicano senza scrupoli che vuole rapinare la banca di El Paso. Stavolta, però, ci sarà qualcuno a contendersi il bottino con lui: si tratta del Colonnello Douglas Mortimer (Lee Van Cleef), che con Indio ha un conto in sospeso, poiché il bandito, in passato, aveva ucciso la sorella e il cognato del colonnello. La donna, dopo essere stata violentata dall’Indio, si era sparata un colpo proprio con la sua pistola. Quindi è la vendetta, oltre che i soldi, a muovere il colonnello.


Unitosi al Monco – mosso invece soltanto dai soldi – il colonnello lo convince a far evadere da una prigione un ex scagnozzo dell’Indio, per poi introdursi nella sua banda e spiare dall’interno le sue mosse. Obiettivo del colonnello è lo scontro frontale con l’Indio, ossessionato dalla musica di un carillon, al termine della quale è solito sparare. Questo secondo film riprende alcuni elementi del primo: c’è un cavaliere solitario (Joe in Per un pugno di dollari, qui il Monco, ma il personaggio è lo stesso) che vuole arricchirsi; c’è una sconfitta (l’Indio che scopre il Monco e il Colonnello e li fa pestare dai suoi uomini) e c’è, infine, un duello letale, anche questa volta mosso dalla vendetta, ma per un’azione narrata soltanto in un flashback anziché nella linea temporale del film. L’elemento aggiuntivo è il Colonnello, spalla ideale del Monco, rispetto al quale si dimostra molto più saggio e metodico. Discorso simile vale per il terzo e ultimo film della trilogia, Il buono, il brutto e il cattivo, in cui l’azione però non è mossa dalla vendetta ma soltanto dai soldi, ancora una volta. L’intreccio, però, è più complesso; e se Per un pugno di dollari rispettava le unità aristoteliche di luogo (tutto il film è ambientato a San Miguel), in questo caso lo scenario cambia spesso e porta le strade dei tre protagonisti a intersecarsi in maniera del tutto casuale.


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Il Biondo (Clint Eastwood) e Tuco (Eli Wallach) si arricchiscono grazie alla taglia sulla testa di Tuco, truffatore, ladro, omicida e rapinatore: il Biondo prima lo consegna e poi lo libera, facendo aumentare ogni volta il bottino. I due si imbattono in una carovana, in cui un moribondo, un certo Bill Carson, rivela a Tuco l’esistenza di un bottino di duecentomila dollari sotterrati in una tomba. Prima di morire, Carson fa in tempo a dire a Tuco soltanto il nome del cimitero, mentre al Biondo, in fin di vita proprio per colpa di Tuco – che si era vendicato perché il Biondo, a sua volta, lo aveva abbandonato nel deserto dopo aver intascato la taglia –, rivela il nome della tomba in cui cercare il tesoro. Sulle tracce di Carson c’è anche uno spietato killer che si fa chiamare Sentenza (Lee Van Cleef). Tutto ciò sullo sfondo di una guerra civile che non conosce pietà per nessuno. I tre film sono legati dal motivo comune che scatena il plot narrativo (i soldi) e dallo stesso protagonista (il cavaliere senza nome) nonché da una struttura narrativa con qualche variante e con l’aggiunta di attori importanti al fianco della star Clint Eastwood, che per la Trilogia del Dollaro riuscì, tra un film e l’altro, sull’onda del successo, a far aumentare progressivamente il proprio ingaggio.


Tre film entrati nell’immaginario collettivo e diventati fonte di ispirazione per registi come Quentin Tarantino (che dedica Kill Bill proprio a Sergio Leone), Martin Scorsese, Sam Peckinpah, Stanley Kubrick, John Woo, Brian De Palma, Robert Zemeckis (che lo cita nel secondo e nel terzo film di Ritorno al futuro) e Robert Rodriguez (C’era una volta in Messico, ultimo film della cosiddetta trilogia Mariachi, richiama C’era una volta il West o C’era una volta in America, altri due film di Leone). Stephen King, per il personaggio di Roland Deschain della Torre Nera, si è rifatto al cavaliere senza nome di Clint Eastwood nella Trilogia del Dollaro.Quanto allo stesso Clint Eastwood, l’esperienza con Leone lo ha fatto crescere molto come attore ma lo ha fatto diventare anche e soprattutto un regista di primissimo livello, portandolo a vincere l’Oscar con Gli spietati e con Million Dollar Baby. A questi si sono aggiunte altre perle immortali come Gran Torino, Un mondo perfetto, Mystic River e l’ultimo, American Sniper, capace di incassare circa 547 milioni di dollari totali partendo da un budget di 60.


Al di là del contributo circa la carriera di Clint Eastwood, Leone ha profondamente rinnovato il linguaggio del cinema; e lo ha fatto, in particolare, con quello che è considerato il suo capolavoro, C’era una volta in America (1984), un disincantato racconto sui ricordi, la vita, l’amicizia, l’amore, l’infanzia, il sogno, l’illusione. Una vastità di temi enorme, unita a un cast eccezionale (Robert De Niro, James Woods, Joe Pesci). Dotato di un’incredibile sensibilità per la caratterizzazione dei suoi personaggi e per la capacità di farne emergere la profonda umanità, Sergio Leone, con la Trilogia del Dollaro, ha rivoluzionato tecniche, linguaggi e generi, introducendo nel cinema personaggi, situazioni e stereotipi in netta contrapposizione con i classici western. Su tutti, spicca la figura dell’uomo senza nome, un cavaliere solitario che non può legarsi a nessuno, in cerca soltanto di soldi.


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Eppure anche la sua ricerca infinita potrebbe essere stata generata da qualcosa di grave che gli è accaduto in passato (di cui non si dice mai nulla). Lo si lascia intendere in Per un pugno di dollari, quando libera Marisol e la sua famiglia dalla prepotenza di Ramon, innamorato della donna. «Perché fate tutto questo per noi» gli chiede il marito di Marisol; «È una storia troppo lunga da raccontare ora», risponde lui. Un motivo molto forte. Qualcosa che tormenta Joe/il Monco/il Biondo ma che mai sarà svelato. Sempre ammesso che qualcuno non decida di farlo rivivere, rimettendogli il poncho, il sigaro e quello sguardo profondo che sono il marchio di fabbrica del più affascinante personaggio tra gli affascinanti film di Sergio Leone.

Otto città per otto generi letterari: in tv arrivano i “BookLovers”

Da martedì 10 novembre arriva su Sky Arte HD BookLovers, un nuovo format dedicato ai libri e agli amanti della letteratura. Il giornalista Giorgio Porrà accompagnerà i telespettatori attraverso i generi letterari in un viaggio di otto puntate in altrettante città italiane. In ogni appuntamento vengono letti brani scelti tra i romanzi più rappresentativi, mentre Porrà intervista uno scrittore capofila del genere e un personaggio trasversale alla letteratura.

 

Giorgio Porrà
Giorgio Porrà

 

La prima puntata sarà a tinte noir, sullo sfondo di una Milano che ha ispirato Giorgio Scerbanenco e di cui ci parleranno Carlo Lucarelli e il critico cinematografico Gianni Canova. La seconda tappa sarà a Torino (17 novembre), dove si affrontano le sfaccettature del romanzo psicologico con Paolo Giordano e i gemelli De Serio. Il 24 novembre la serata è dedicata a Roma e alla fantascienza con la partecipazione di Valerio Evangelisti e Gipi. Si passa a Mantova (1° dicembre), dove si parla di grapich novel con Roberto Recchioni e Lorenzo Mattotti e alla commedia che ha animato Luino (8 dicembre): qui Stefano Benni tratteggia un ritratto esclusivo di sé e Claudio Bisio racconta l’amicizia nata con Daniel Pennac.

 

Raul Montanari sarà tra gli ospiti del programma.
Raul Montanari sarà tra gli ospiti del programma.

 

La sesta puntata (15 dicembre) vede protagonista Bologna e i romanzi di formazione con il premio Strega 2015 Nicola Lagioia e Raul Montanari. Si chiude il 22 dicembre con un doppio appuntamento: prima a Parma (ore 21.10), si parla di satira con Francesco Bonami e Carla Signoris; poi, sul romanzo biografico, si passeggia con il regista Pupi Avati per la città di Genova (ore 21.45).

Fantozzi, ritorno al cinema in versione restaurata

Un personaggio creato per placare il senso di inferiorità degli italiani. È così che potremmo definire il ragionier Ugo Fantozzi. Perlomeno così ne ha parlato Paolo Villaggio, suo creatore e interprete: «Prototipo del tapino, quintessenza della nullità.» Una nullità che, dopo una decina di film, capaci di registrare i mutamenti sociali della società italiana dagli anni ’70 all’alba del Duemila, ritornerà al cinema con le sue prime due disavventure: Fantozzi (dal 26 al 28 ottobre) e Il secondo tragico Fantozzi (dal 2 al 4 novembre), film diretti da Luciano Salce e usciti rispettivamente nel 1975 e nel 1976, restaurati per l’occasione in 2K. Così, tutti coloro i quali vorranno dimenticare le proprie disgrazie, potranno farlo ridendo per l’ennesima volta di quelle del popolare ragioniere dell’Ufficio Sinistri, famoso per la celeberrima nuvola fantozziana e per le sue espressioni tipiche («Com’è umano, lei!») ma anche per il servilismo verso i superiori dai nomi lunghissimi (come la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare o il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam).


Oltre alla frequente sottomissione, non soltanto di Fantozzi ma di tutti i suoi colleghi, una peculiarità della serie è però l’errato uso del congiuntivo, come si evince da questo dialogo:


Filini: «Allora ragioniere, che fa, batti?»

Fantozzi: «Ma come, ragioniere, mi dà del tu?»

Filini: «No, intendevo batti lei».

Fantozzi: «Ah… congiuntivo…»


Sfortunato, vigliacco, disastroso in qualunque iniziativa prenda (anche se il più delle volte le iniziative le prende il ragionier Filini, e si tratterà di disastri quasi sicuramente), Fantozzi nasce grazie a due libri di Paolo Villaggio, ispirato da un collega dell’attore genovese all’Italsider. Villaggio pubblicava le sue storie sull’Europeo, per poi raccoglierle nel libro edito da Rusconi nel 1971. Qualche anno dopo il successo del libro, si iniziò a progettare un film. Tra i candidati a vestire i panni di Fantozzi c’erano Ugo Tognazzi e Renato Pozzetto. La scelta di affidare il personaggio al suo stesso creatore (che immancabilmente ne ha assunto la maschera, tanto da portare al cinema anche i suoi cloni, per esempio Fracchia) si è rivelata azzeccatissima soprattutto nei primi due film, diretti da Luciano Salce, i migliori di una saga che, con il passare degli anni e l’invecchiamento degli attori, non ha fatto altro che svuotarsi di quella verve comica che la caratterizzava, per diventare soltanto la ripetizione ormai fiacca e noiosa delle stesse gag.


C’è però un altro aspetto che non va trascurato, ovvero l’aspetto tragicomico: perché Fantozzi non riesce in nessuna impresa e tutto quello che cercherà di fare, per un motivo spiegato nella sua stessa natura (essere una «nullità», o come lo chiamerebbero i suoi superiori, una «merdaccia»), non andrà mai a buon fine. Fantozzi è un mediocre, uno che abbassa la testa e che accetta di non avere amici al di fuori dell’azienda, di avere una moglie bruttina ma devota, che lo stima ma non lo ama; di avere una figlia ancora più brutta (non a caso interpretata da un uomo) e di essersi – inspiegabilmente – innamorato di una collega tutt’altro che bella. Dunque tutto ciò che fa è negativo e tutte le sue scelte sono terrificanti e catastrofiche.


Ma c’è un altro Fantozzi, nascosto dietro al ragioniere perennemente sottomesso e capace di farsi “crocifiggere in sala mensa”. L’altro Fantozzi è quello che si ribella contro lo snobismo intellettuale dei potenti, per esempio il professor Guidobaldo Maria Riccardelli, che l’aveva assunto soltanto perché Fantozzi si era dichiarato un grande amante del cinema tedesco delle origini, e che propone ai dipendenti, nel cineforum aziendale, La corazzata Potëmkin (trasformata in Corazzata Kotemkin) solo per ostentare un gusto cinematografico superiore (in realtà, però, il film di Sergej M. Ėjzenštejn, trasformato in Serghei M. Einstein, durava circa 75 minuti, non tre ore come si dice nel Secondo tragico Fantozzi). Senza trascurare che quegli stessi dipendenti preferiranno, subito dopo la ribellione di Fantozzi, vedere in successione Giovannona Coscialunga, L’Esorciccio e La polizia s’incazza.


Il grido di protesta di Fantozzi («Per me La Corazzata Kotemkin è una cagata pazzesca!») è quindi l’urlo disperato di chi è costretto a tacere per non essere troppo anticonformista e non sentirsi una voce fuori dal coro. È una ribellione che esprime una frustrazione collettiva dettata dalla paura e dal servilismo, poiché tutti gli impiegati detestano quel film ma nessuno ha il coraggio di parlare per non pagarne le conseguenze; e così si preferiscono i falsi elogi, quando il professor Riccardelli apre il dibattito, dopo aver fatto inginocchiare Fantozzi sui ceci perché l’ha scoperto mentre si era addormentato durante la proiezione. E allora: «Quando vedo quei dettagli degli stivali, io vado in estasi» dice Filini, per poi esagerare, chiedendo addirittura di vederlo daccapo. «Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto» aggiunge il Geometra Calboni. La verità è l’esatto opposto. Perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirlo; nessuno avrebbe contraddetto il professor Riccardelli. Ma per Fantozzi la delusione per non essersi goduto in pace la partita Italia-Inghilterra era stata troppa. Perfino il cronista lo aveva sbeffeggiato quando, dopo la chiamata di Filini, era stato costretto ad abbandonare la poltrona: «Scusate l’emozione, amici che state comodamente seduti davanti ai teleschermi, nessuno escluso, ma sono centosettant’anni che non vedevo una partenza così folgorante degli Azzurri!» Tutto era perfetto, perfino il «programma formidabile» di Fantozzi: «Calze, mutande, vestaglione in flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero.»


«Lui è ossessionato dal potere», ha detto Villaggio. «Ha paura. È un uomo che sa di essere inutile. Se lui muore un giorno o si ammala in ufficio, nella Megaditta non se ne accorge nessuno. Essendo ossessionato dall’idea di essere del tutto inutile, cerca disperatamente il servilismo, e allora c’è la stagione di Natale, dove quasi due mesi prima ci si comincia a piazzare nei punti strategici quando passano i potentissimi, a cui dicevano: “A lei e alla sua famiglia i più servili auguri di buon Natale”. Quel “servili” era la chiave per capire com’erano disperatamente sudditi. Mai Fantozzi si permette di contraddire un potente. Anche adesso, detto francamente: c’è la tendenza alla gerarchia.» La crescita gerarchica è direttamente proporzionale alle umiliazioni subite. Lo fa capire Filini a pranzo, in mensa, riferendosi alle partite di biliardo del Feroce Cavalier Catellani, eletto «Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni»: «Il ragionier Vitti: sette partite perdute: due scatti.»


Quando Fantozzi ne parla con Pina, è lei stessa a chiedergli di perdere qualche partita. «Mai», risponde Fantozzi, «piuttosto preferisco fare la fame, mangiare cipolla… a parte che non ho mai toccato una stecca di biliardo in vita mia. Ho la mia dignità, io…» Coraggioso. Ma torna se stesso poco dopo, quando aggiunge: «E poi, non oserei più guardarti in facc…», e vedendo Pina, nel letto, si rende conto di quanto sia brutta. Di conseguenza, che è costretto a perdere per poter crescere di livello nella Megaditta. La scena successiva smentisce l’effimera ostentazione della propria dignità da parte di Fantozzi, alle prese con un maestro di biliardo, proiezione della severità scolastica nella prima metà del Novecento, con punizioni esemplari come la stecca sui dorsi delle mani. Per non «confessare alla moglie la vergognosa verità», Fantozzi le fa credere di avere una relazione extraconiugale. Ma la sua inettitudine gli impedisce di fare anche questo: così una notte Pina lo aspetta sveglia a casa, e lui, togliendosi la giacca, rivela il corpetto da biliardo. Scoperto in pieno. Disperato, si butta sul letto, ma non può sfogare la propria disperazione neanche così, perché Pina ha già «separato i letti».


Arriva la sera della partita con il Cavalier Catellani. Fantozzi, come al solito, subisce, ma «al trentottesimo “coglionazzo” e a 49-2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie» e così, spinto da un moto di orgoglio inedito, osa dire: «Mi perdoni un attimo… vorrei fare un tiro io adesso…» È lo stesso Fantozzi che grida che La corazzata Kotemkin è «una cagata pazzesca». È il Fantozzi che si prende un briciolo di rivincita in una vita perennemente mediocre. E se lì erano seguiti ben 92 minuti di applausi, qui segue non un trionfo, ma una fuga con rapimento della madre del Cavalier Catellani, alla cui statua tutti gli impiegati dovevano inchinarsi e su cui puntualmente Fantozzi urtava. «Fondamentalmente», dice Villaggio, «lui è un brav’uomo. In casa è un tirannosauro.»
È un «tirannosauro» perché dominare la famiglia è la sola rivalsa che gli è concessa, non essendo in grado di dominare la società ed essendo destinato all’infelicità. È per questo che è un personaggio tragico.


«Lui ha liberato gli italiani dal timore di essere isolati in un certo tipo di incapacità a vivere, a essere felici» continua Villaggio. «Nella cultura consumistica la settimana bianca, le coppe, le spiagge infernali, i prezzi osceni, la moglie terribile: in quel tipo di sfortuna e di incapacità di essere felici, secondo i dettami della cultura consumistica – che diceva: “Consuma e sei felice. Fai delle vacanze e sarai felice” – lui faceva le vacanze, andava alla settimana bianca, andava al mare e tornava massacrato, ma massacrato assolutamente infelice. Gli italiani vivevano la stessa tragedia e avevano paura di essere anomali, poi lentamente un terapeuta gli ha detto: “No, guarda, non sei un fenomeno isolato: tutti quelli che subiscono quel tipo di cultura sono destinati a essere infelici”.» Bisogna quindi leggere tra le righe un messaggio di netta opposizione alla cultura consumistica, a cui Fantozzi si adegua, senza però trovare la felicità che disperatamente ricerca.


In tutta la saga, presentata come serie di film comici ma in realtà piena di pessimismo, non c’è un solo personaggio in grado di cambiare le cose, capace di dare una svolta e di interrompere i soprusi del potere e l’avversità del destino. È incapace di farlo Pina, servile quanto Fantozzi, tanto da rispondere «Obbediamo» alla chiamata improvvisa di Filini proprio quando sta per incominciare Italia-Inghilterra. È devota e affezionata a Ugo ma non lo sprona mai a reagire per i torti subiti. Tuttavia, Pina è l’unica che tenterà di ribellarsi alla piatta vita da casalinga a cui il matrimonio con Fantozzi l’ha destinata, e soprattutto quando sarà interpretata da Milena Vukotic (nei film di Salce, Pina era Liù Bosisio), la sua personalità cercherà di emergere, anche se l’affetto coniugale si trasforma in pena, intesa più come vergogna che compassione.


Il ragionier Filini si annovera tra i dipendenti inferiori, proprio come Fantozzi, per cui, a parte organizzare gite, partite di calcetto tra scapoli e ammogliati (in cui però lui farà l’arbitro), non ha nessuna possibilità di emergere, condannato, insomma, a non scalare la gerarchia aziendale. Questo lo fa invece Calboni, che si sposerà con la perenne fiamma di Fantozzi, la signorina Silvani. Calboni è opportunista e arrogante, uno che può schiacciare Fantozzi in qualunque momento. Dall’altro lato, la signorina Silvani sfrutta l’infatuazione di Fantozzi per chiedergli favori o per scaricare su di lui il proprio lavoro. Considerati questi personaggi e la loro natura, nel momento in cui Fantozzi cerca di risollevare le proprie sorti, qualcosa puntualmente tende ad andare male. I suoi momenti di gloria sono pochi e la ribellione al potere lo fa apparire più sicuro di sé (perfino la signorina Silvani, dopo la celebre frase sulla Corazzata Kotemkin, gli dice: «Che bravo, Fantozzi!»). Saltuari momenti di gioia in una vita del tutto infelice: in una vita condannata alla sofferenza da quella malattia incurabile che si chiama mediocrità (o inettitudine) e che è il male tipico dell’italiano-medio, timoroso di uscire da una condizione che non lo soddisferà mai ma che lo farà sentire sicuro di essere ancora se stesso.