“Bellezza e tristezza”, le malie della donna. Il romanzo di Yasunari Kawabata

“Bellezza e tristezza”, il romanzo di Yasunari Kawabata

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Toshio Oki è un cinquantacinquenne sposato, ha due figli e un passato fedifrago con una donna che ancora non riesce a dimenticare. Lei, l’amante, si chiama Otoko Ueno e all’epoca dei fatti aveva sedici anni. Hanno vissuto una storia clandestina che ha il timbro di quelle che durano una vita ma che capitano una volta soltanto. Tendenzialmente a senso unico, come in questo caso, la relazione è quella di un uomo che scappa dalla quotidianità, dalle abitudini, che si aggrappa alla bellezza acerba, fresca e ingenua di un’adolescente; e di una ragazza piena di sogni e di speranze romanzesche, di dedizione tutta femminile, di idealizzazioni dettate dalla poca esperienza; una relazione che mette a rischio qualcuno, e nella maggioranza dei casi la controparte femminile. Otoko infatti rimane incinta ma perde il figlio appena nato; la sua sofferenza di giovane madre e di donna che avrebbe teso un laccio all’uomo che ama, nonostante egli sia sposato e abbia già prole, si contrappone al sollievo di Oki, codardo ed egoista.

Il percorso di Otoko sarà violento e tormentato, la ragazza attraverserà le sbarre di un ospedale psichiatrico, per poi uscirne in completa solitudine, ancora bruciata da quell’amore immaturo ma eterno. L’unica sua compagnia, a parte l’arte che l’ha resa una pittrice di fama, sarà Keiko, una splendida ancella docile e obbidiente, schiava d’amore e di letto; un temperamento che molto spesso nasconde malie penetranti e quasi mai delle buone e sane intenzioni. 


Trascorsi molti anni dalla loro separazione, i due amanti hanno perso le tracce l’un dell’altra, quando per la notte di capodanno, Oki ha il desiderio di sentire le campane che segnano la fine dell’anno a Kyoto, città dove ora vive la sua ex amata. I due si incontreranno ad una cena formale in presenza di due geishe e dell’ambigua e gelosa Keiko. Sarà lei a gestire il destino dei personaggi fino alla fine del romanzo. 


Premio Nobel per la Letteratura nel 1968, Yasunari Kawabata riesce a raccontare con una straordinaria perspicacia la follia amorosa, la gelosia cieca di una donna, come se a raccontarla fosse la donna stessa. Come un Truffaut della letteratura, ha la capacità di sfogliare una ad una tutte le personalità dell’essere femmineo, ogni strato e substrato, ogni cosa detta e ogni intenzione non detta. Dalla fedele dolcezza di Otoko alla perfidia sofferente di Keiko, Kawabata disegna un quadro che ha tutti i sapori dell’Oriente. Compresi tanti cliche’ decisamente nipponici, dai morsi fanciulleschi da cui stillano goccioline di sangue alla negazione immobile del corpo femminile, Kawabata ci spruzza dentro tutto il rosso del Giappone, i corpi bianchi e lucenti ed i capelli nero corvino, l’abbandono muliebre forzato e la foia incontrollabile virile.


Keiko sarà la grande protagonista alla fine, sarà lei a cambiare le sorti, sarà lei a vendicare le ingiustizie della donna che ama con incoscienza e con la morbosità di un’orfana, sarà lei a dare lo stesso peso alla vita e alla morte, in una cornice meravigliosamente descritta, dove i pensieri fluiscono tra i giardini di muschio di Saihoji e le rocce astratte, tra i ritratti di Tsune Nakamura e le opere lievi e delicate di Odilon Redon

Nasce Narratè, la letteratura da gustare con il tè

Il rito del tè, da sempre sinonimo di relax e cura del corpo, specie nelle fredde giornate invernali, si arricchisce di spunti inediti grazie a Narratè: un progetto inedito creato da Narrafood slr, startup made in Italy che ha sdoganato la lettura in formato infusione.

Da oggi i cinque minuti in cui sorseggiamo il nostro tè possono essere spesi leggendo un piccolo libro. Ogni bustina dotata di filtro vede infatti un piccolo libro stampato su carta riciclata al 100%, assemblato manualmente grazie ad una Coop sociale di Lissone (MI) e disponibile in due lingue: la lettura è pensata appositamente per durare il tempo di infusione, circa 5 minuti. “Una pausa a cui abbiamo dato valore con una coccola alta per lo spirito ed il palato. Il tempo è diventato un lusso, meglio spenderlo bene”, così si legge sul sito.

L’ideatore dell’iniziativa è Adriano Giannini: il nuovo prodotto di food design si caratterizza per una teabag iconica allegata ad un libretto. La miscela stessa del tè viene studiata a seconda di ogni città narrata, in una personalizzazione ricca di suggestioni. Roma, ad esempio, prevede un sapore sofisticato e arcaico, che profuma di storia, magia e mistero. Su Milano domina invece una miscela energica e sensuale, grazie a cannella e zafferano. Tra i racconti brevi anche Venezia e Firenze.

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Lovecraft, il Maestro dell’orrore cosmico

Se c’era una cosa che Howard Phillips Lovecraft aveva compreso della narrativa, non soltanto di quella fantastica, di sicuro riguardava il suo più antico potere: esplorare infiniti mondi, possibili e impossibili. Lovecraft, poeta del sogno, dell’incubo e dell’orrore cosmico, è riuscito a narrare di luoghi molto lontani e molto diversi dalla sua Providence, la soffocante città di provincia in cui era costretto a vivere. Oppresso dalla madre e dalle zie, Lovecraft lasciò Providence nel 1924 dopo il matrimonio con Sonia Greene, per trasferirsi a New York. Un soggiorno che durò pochissimo e che lo avrebbe costretto a tornare a Providence due anni dopo: e sarebbe stato proprio nella cupa città del Rhode Island che avrebbe dato vita ad alcuni tra i suoi racconti più celebri, il primo tra i quali fu Il richiamo di Cthulhu, proemio di quel grande, immenso poema che comprenderà altre storie da incubo come La città senza nome, L’orrore di Dunwich, Colui che sussurrava nelle tenebre e Il Colore venuto dallo spazio, e che avrebbe dato origine ai cosiddetti miti di Cthulhu.


Il solitario di Providence sapeva benissimo che soltanto grazie al sogno e alla sua straordinaria inventiva avrebbe attraversato quei luoghi lontani che lo affascinavano fin da bambino: e così ha visto i deserti remoti dell’Arabia nella Città senza nome, ispiratigli dalle letture appassionanti delle Mille e una notte; ha visto città maledette come Dunwich e Innsmouth, capaci di celare orrori cosmici, esseri di altri mondi che dominano l’uomo nell’oscurità; ha visitato anche i remoti ghiacciai nell’Antartide in Alle montagne della follia, omaggio a Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe.Non è però soltanto pura fantasia. Nei suoi racconti, Lovecraft ha anticipato anche le teorie sull’origine aliena dell’uomo, secondo cui alcune costruzioni megalitiche, come la piramide di Giza o Stonehenge, sarebbero state opera non soltanto delle civiltà antiche ma anche di una razza aliena antichissima, che il solitario di Providence chiama Grandi Antichi e che proviene dal pianeta Yuggoth (vale a dire Plutone). È probabile che quello che Lovecraft identificava come Yuggoth fosse Nibiru, a cui si attribuiva la responsabilità della fine del mondo nel 2012.


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Tutte queste fantasie, solo in apparenza legate ai turbamenti di un uomo che si svegliava con frequenti emicranie e che era scosso da terrificanti incubi, confluiscono nel maledetto e innominabile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred. Questo libro – omaggiato da Sam Raimi ne La Casa, in cui è chiamato Necronomicon Ex Mortis – è una costante della narrativa matura di Lovecraft, in cui una delle entità ricorrenti è Cthulhu: «Signore degli Abitatori del Profondo, Iniziatore dei Sogni. Cthulhu è rappresentato tra gli Elementi dell’Acqua e in astrologia dalla forma dello Scorpione, noto agli Akkadi come Girtab, Colui che Afferra o Colui che Trafigge, cui ci si deve inchinare. Geograficamente Cthulhu è collegato all’Ovest… il regno dei morti nell’antica religione egizia.» (Necronomicon – Il libro segreto di H.P. Lovecraft, Fanucci, 1979, p. 88).


Il Necronomicon sarebbe stato scritto, quindi, dal folle arabo Abdul Alhazred. Una follia dovuta a dieci anni di solitudine, «nel grande deserto dell’Arabia meridionale […], e Dahna, o “Deserto Cremisi” dei moderni, ritenuto dimora di spiriti maligni e mostri mortiferi. Di questo deserto coloro che pretendono di averlo attraversato, narrano molte strane e incredibili meraviglie.» Lovecraft riuscì a far credere che davvero esistesse un libro dei morti in grado di risvegliare i Grandi Antichi: in Storia del Necronomicon, il solitario di Providence ne raccontava le vicissitudini editoriali (la traduzione in latino di Olaus Wormius, quella in inglese di John Dee; il ritrovamento, nel 1968, da parte di Sprague de Camp, biografo di Lovecraft, di un manoscritto in un oscuro dialetto curdo intitolato “Al Azif”) ma soprattutto raccontava la vita del suo autore maledetto: Abdul Alhazred lo scrisse a Damasco, dove trovò la morte, «afferrato da un mostro invisibile nella piena luce del giorno e divorato davanti a un gran numero di testimoni agghiacciati.» Nei racconti, però, Lovecraft non concede molte informazioni sulla vita di Abdul Alhazred nonché sulle circostanze che lo portarono a scrivere il Necronomicon.


necronomicon


“Avevo un amico che aveva approfondito lo studio dell’occulto. […] Nella sua biblioteca vidi il Necronomicon (nell’edizione rarissima, in lettere gotiche, stampata in Germania nel 1653). Egli non mi permise né di leggerlo né di sfogliarlo perché, come disse, era dubbio che lo stesso arabo pazzo Alhazred sapesse quanto fosse pericoloso per chi non era in grado di prendere le giuste precauzioni. Inoltre, dubitava che io avessi la pazienza o la capacità di premunirmi.” (da Il lupo mannaro di Ponkert)


A cercare il libro maledetto sono personaggi grotteschi che vogliono risvegliare il grande Cthulhu, in attesa da «strani eoni» nella città sotterranea di R’lyeh. Uno di questi è Wilbur Whateley, un individuo che potrebbe essere nato dall’abominevole unione tra una donna e un’entità aliena: “Alto quasi due metri e quaranta, portando una valigia nuova comprata a poco prezzo allo spaccio di Osborn, questo scuro gigante dall’aspetto caprino comparve un bel giorno ad Arkham, alla ricerca del tremendo volume tenuto sotto chiave nella biblioteca dell’Università: l’orribile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, nella versione latina di Olaus Wormius, stampato in Spagna nel diciassettesimo secolo.” (da L’orrore di Dunwich)


Il Necronomicon ha la fama di essere un libro proibito, a cui nessuno dovrebbe osare avvicinarsi. Le poche copie esistenti sono sorvegliatissime. Le cose proseguirono sul metro ora descritto, sino alla notte in cui Williams acquistò il Necronomicon, opera infame di Abdul Alhazred, l’arabo folle. Sapeva dell’esistenza del volume sin da quando aveva solo sedici anni, ed era spinto dal suo incipiente amore per il bizzarro a perseguitare con strane domande un vecchietto ricurvo che vendeva libri usati a Chandos Street. In seguito, chiese anche ad altri: “e sempre si meravigliava nel vedere come tutti impallidissero parlando del volume. Il vecchio libraio gli aveva detto che ne esistevano soltanto cinque copie, uniche sopravvissute agli scandalizzati editti con i quali uomini di religione e di legge avevano perseguitato il libro. Tutte queste copie erano sotto chiave, vigilate con cura accresciuta dallo spavento da custodi che avevano osato iniziare la lettura dell’odioso testo in caratteri gotici.” (da Il successore)


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Un libro talmente pericoloso che alcune delle sue pagine sarebbero state perfino strappate, dice Lovecraft in una lettera a Clark Ashton Smith del 18 novembre 1930: “Quanto all’araba Città delle Colonne, sì, ho sentito parlare delle rapide visioni concesse di tanto in tanto ai viaggiatori fanatici. Si dice che l’arabo pazzo Abdul Alhazred vi abbia dimorato per qualche tempo nell’VIII secolo d.C., prima della stesura dell’abominevole e innominabile Necronomicon. Oh, sì, Abdul citò l’incontro con il ghoul, e parlò di altre sue avventure. Ma qualche lettore timoroso ha strappato le pagine in cui l’episodio del sotterraneo sotto la moschea arriva al culmine. Stranamente, le stesse pagine mancano anche nelle copie della Harvard e della Miskatonic University. Quando ho scritto all’università di Parigi per avere delle informazioni sul testo scomparso, un gentile aiuto-bibliotecario, M. Leon de Verchères, mi ha scritto che mi avrebbe fatto avere una copia fotostatica delle pagine mancanti non appena avesse compiuto le formalità necessarie per accedere al temibile volume. Sfortunatamente, non molto tempo dopo, sono venuto a sapere dell’improvvisa follia di M. de Verchères e della sua reclusione, dopo il suo tentativo di bruciare lo spaventoso libro che aveva appena preso in consultazione. In seguito, le mie richieste hanno ottenuto scarsi risultati, e non ho ancora trovato nessuna delle poche copie rimaste del Necronomicon.”


Il libro dell’arabo pazzo può anche comparire accanto ad altri libri innominabili e maledetti, anche se quello di Alhazred è «il peggiore di tutti»: “Indicatami una sedia, un tavolo e una pila di libri, il vecchio lasciò la stanza; quando mi sedetti a leggere, mi accorsi che i libri erano venerabili e ammuffiti, e che comprendevano il bizzarro Marvels of Science del vecchio Morryster, il terribile Saducismus Triumphatus di Joseph Glanvil, pubblicato nel 1681, lo sconvolgente Daemonolatreia di Remigius, stampato nel 1595 a Lione, e il peggiore di tutti, l’innominabile Necronomicon dell’arabo pazzo Abdul Alhazred, nella proibita traduzione in latino di Olaus Wormius; un libro che non avevo mai visto, ma di cui avevo udito sussurrare cose mostruose” (da La cerimonia).


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Poco dopo, sempre nel racconto La cerimonia, Lovecraft lo chiamerà «detestabile». «Odioso testo» ne Il successore, uno «spaventoso libro» nella lettera a C.A. Smith, mentre ne L’orrore di Dunwich arriverà a definirlo «mostruosa bestemmia»: “La presenza dei tre uomini sembrò destare la cosa morente, e questa cominciò a mormorare, senza voltare né sollevare la testa. Il Dottor Armitage non ha registrato per iscritto i suoni da essa pronunciati, ma afferma con una certa sicurezza che non disse nulla in inglese. All’inizio, le sillabe sfuggivano a ogni associazione con qualsiasi idioma terrestre ma, verso la fine, si udirono dei frammenti sconnessi evidentemente ricavati dal Necronomicon, quella mostruosa bestemmia per la cui ricerca quella cosa era morta. Questi frammenti, come se li ricorda Armitage, suonavano all’incirca così: «N’gai, n’gha’ghaa, bugg-shoggog, y’hah: Yog-Sothoth, Yog-Sothoth…». E andavano spegnendosi nel nulla, mentre i succiacapre strillavano in un crescendo ritmico, nella loro attesa scellerata.”


Per quanto la maggior parte di questi racconti siano narrati in prima persona, con questi appellativi Lovecraft non fa altro che prendere posizione ed esprimere il proprio giudizio sul Necronomicon: si tratta di un vero e proprio vaso di Pandora, la porta che consente l’ingresso sulla Terra a incubi inimmaginabili, dai nomi impronunciabili e bestiali. La visione del mondo di Lovecraft non è antropocentrica ma cosmocentrica: l’uomo è solo una marionetta impotente guidata da entità supreme, che non sono gli extraterrestri di cui hanno raccontato innumerevoli romanzi e film di fantascienza, ma qualcosa di più. Sono le paure più angoscianti dell’uomo stesso, quelle paure che i personaggi di Lovecraft cercano di nascondere, impedendo la lettura del Necronomicon, o che accettano deliberatamente, rinunciando ad affrontarle – per poterle quindi esorcizzare – e preferendo la sottomissione. Se, infine, riescono a vedere qualcosa, a sfiorare soltanto la verità di ciò che si nasconde negli abissi terrestri, diventano folli proprio come Abdul Alhazred.


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È quello che accade al protagonista di Dagon, uno dei racconti giovanili di Lovecraft, risalente al 1917: “Sbigottito, e tuttavia pervaso da quel brivido di piacere che ben conoscono gli scienziati e gli archeologi di fronte all’imponderabile, scrutai con maggiore attenzione ciò che mi stava attorno. […] Sulla superficie dell’immensa pietra potevo ora distinguere alcune iscrizioni e delle rozze figure scolpite. Le scritte erano in geroglifici che mi risultavano ignoti, ma che in un certo senso erano riconoscibili, perché si rifacevano a simbolismi figurativi dal valore universale. Tra forme confuse, scorgevo le immagini di pesci, anguille, polipi, crostacei, molluschi, balene ed esseri simili. Altre incisioni, però, delineavano creature marine ignote al nostro mondo. Creature le cui forme in decomposizione – mi resi conto – io avevo osservato nella palude di melma nera sorta dal fondo dell’oceano. […] Ero perso in fantasticherie su quel passato così remoto da superare tutte le più ardite teorie antropologiche, immerso nella luce lunare che creava bizzarri riflessi sull’acqua silente, quando, d’improvviso, la vidi. Con un solo lieve risucchio a testimonianza della sua emersione, la cosa incredibile scivolò fuori dall’acqua tenebrosa davanti ai miei occhi. Titanica e repellente, la mostruosa creatura si lanciò verso il monolito, poi lo cinse con le sue gigantesche braccia coperte di squame, curvando la testa orribile ed emettendo urla ritmate. Fu in quel momento, credo, che caddi in preda alla follia.”


Il mostruoso pantheon lovecraftiano, oltre a Dagon, il dio-pesce, comprende anche Azathoth, «il dio cieco e idiota che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo»; Nyarlathotep, il «caos strisciante»; e Cthulhu, che giace semi-morto a R’lyeh, una «città-cadavere costruita incalcolabili eoni prima della storia conosciuta, da enormi, ripugnanti forme che gocciolarono dalle stelle oscure».


La genesi di tutta questa cosmogonia va ricercata nella passione del solitario di Providence per Lord Dunsany, a cui Lovecraft si era ispirato per i suoi primi racconti. Alla lettura di Lord Dunsany, però, come si è già detto, Lovecraft affiancava quelle di racconti ambientati nelle terre esotiche d’Oriente. Queste, coniugate con i suoi incubi quotidiani, diedero vita a una struttura narrativa articolata, caratterizzata da un linguaggio particolarmente evocativo, che tuttavia non gli avrebbe dato alcuna gratificazione: il solitario di Providence visse in ristrettezze economiche fino alla morte, costretto a lavorare a revisioni di altri autori. Qualcuno lo pubblicò su Weird Tales, ma subì anche pesanti stroncature dalla critica, tanto da convincerlo, in alcuni momenti, ad abbandonare la propria carriera letteraria, se non quando fosse stato sicuro che ciò che avrebbe scritto fosse stato accettabile. Purtroppo non ebbe tempo nemmeno per pensarci, a un’ipotesi del genere, poiché un cancro lo stroncò nel 1937, a soli 47 anni. Morto l’uomo, nasceva il mito.


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Un mito la cui operazione letteraria non fu molto diversa da quella di J.R.R. Tolkien, che nel 1917 – quando Lovecraft scriveva Dagon e il ciclo di Cthulhu era forse soltanto in fase embrionale – concepiva Il Silmarillion, la Bibbia della sua Terra di Mezzo. La differenza fondamentale è però l’esito e la visione del mondo: per Tolkien lo scontro manicheo tra il Bene e il Male porta alla vittoria del primo, mentre per Lovecraft l’uomo non ha alcuna speranza di salvezza. Non c’è spazio per gli eroi di Tolkien né per Hobbit coraggiosi: l’uomo è una vittima del cosmo, un impotente strumento nelle mani di esseri maligni, del tutto incapace di essere padrone del proprio destino poiché troppo pauroso per affrontare le sue stesse paure. Questo si ricollega a una celebre frase pronunciata da Franklin Delano Roosevelt, di cui H.P. Lovecraft era un sostenitore, il 4 marzo 1933, riferendosi alla Grande Depressione: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa».


La paura a cui si riferiva Roosevelt è distruttiva, ma lo è anche quella di Lovecraft: è una paura che conduce l’uomo nei luoghi più reconditi dell’abisso, in quell’abisso folle da cui nessuno può fuggire. In tal senso, Abdul Alhazred è colui il quale vede la paura da vicino; e il risultato è l’inspiegabile distico che apre il Necronomicon:


Non è morto ciò che può vivere in eterno,
E in strani eoni anche la morte può morire.

Più libri più liberi, la fiera nazionale della piccola e media editoria

Giunta ormai alla sua quattordicesima edizione e promossa dall’AIE – Associazione italiana editori, la Fiera nazionale della piccola e media editoria “Più libri,più liberi” è diventata ormai un appuntamento imperdibile dell’inverno romano per parlare dello stato di salute e delle cifre dell’editoria italiana, delle recenti pubblicazioni, di nuovi progetti editoriali, e di come avvicinare sempre di più i libri alle persone. La fiera, in scena dal 4 all’8 dicembre presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma, sarà ancora una volta un spazio privilegiato, un osservatorio sulla varietà della produzione editoriale italiana. Quest’anno il foltissimo programma della cinque giorni che, avrà più di 300 eventi nelle 8 sale adibite, si snoda ogni giorno su una parola-chiave diversa che trainerà il pubblico e gli addetti ai lavori verso la situazione libraria nostrana.

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I temi che fanno da “copertine” alle varie giornate saranno Concentrazioni, Valore, Innovazione, Autore e Collaborazioni, per ricordare che i cambiamenti e le trasformazioni del panorama editoriale italiano non sono eventi singoli e scollegati, ma una serie di trasformazioni concatenate che influenzano tutti gli ambiti della catena editoriale.



I dibattiti saranno di fatto grandi occasioni per discutere sulla ricerca di nuovi autori, anche in contesti internazionali, sulla necessità da parte delle piccole realtà di emergere anche attraverso un uso sapiente dell’innovazione sia per quanto riguarda i processi produttivi che i modelli di business. La fiera inoltre offrirà ai visitatori la possibilità di incontrare gli autori italiani e stranieri più amati dal pubblico, nuove promesse letterari internazionali, intellettuali, saggisti, fumettisti, youtubers, e non solo, tutti presenti per interagire con il pubblico attraverso tavole rotonde, presentazioni editoriali, laboratori per ragazzi, conferenze, reading, e spettacoli.

Una manifestazione basata su un approccio trasversale che riunisce mondi che sembrano lontani ma tutti accomunati da un filo comune: l’amore per i libri. Tra i protagonisti italiani troveremo Erri De Luca, che proporrà un discorso sulla libertà di parola, l’amatissimo autore delle avventure del Commissario Montalbano, Andrea Camilleri, e ancora Niccolò Ammaniti, Dacia Maraini, Marco Balzano (Premio Campiello 2015), Ascanio Celestini, e moltissimi altri. 


L’evento al suo interno tra le numerose iniziative, celebrerà attraverso una serie di omaggi e approfondimenti i quarant’ anni dalla scomparsa di Pierpaolo Pasolini, scrittore e regista visionario ed eclettico, una delle figure più influenti e indimenticabili della scena culturale italiana.Un evento che come ogni anno si offre come ponte e luogo di incontro tra le imprese editoriali e il pubblico, come momento di riflessione per gli studiosi su un medium, il libro, che ogni volta sembra sul punto di svanire a favore di supporti digitali, ma che alla fine continua ad attrarre e a sostenere come un amico fidato le persone nella loro piccola quotidianità.

Otto città per otto generi letterari: in tv arrivano i “BookLovers”

Da martedì 10 novembre arriva su Sky Arte HD BookLovers, un nuovo format dedicato ai libri e agli amanti della letteratura. Il giornalista Giorgio Porrà accompagnerà i telespettatori attraverso i generi letterari in un viaggio di otto puntate in altrettante città italiane. In ogni appuntamento vengono letti brani scelti tra i romanzi più rappresentativi, mentre Porrà intervista uno scrittore capofila del genere e un personaggio trasversale alla letteratura.

 

Giorgio Porrà
Giorgio Porrà

 

La prima puntata sarà a tinte noir, sullo sfondo di una Milano che ha ispirato Giorgio Scerbanenco e di cui ci parleranno Carlo Lucarelli e il critico cinematografico Gianni Canova. La seconda tappa sarà a Torino (17 novembre), dove si affrontano le sfaccettature del romanzo psicologico con Paolo Giordano e i gemelli De Serio. Il 24 novembre la serata è dedicata a Roma e alla fantascienza con la partecipazione di Valerio Evangelisti e Gipi. Si passa a Mantova (1° dicembre), dove si parla di grapich novel con Roberto Recchioni e Lorenzo Mattotti e alla commedia che ha animato Luino (8 dicembre): qui Stefano Benni tratteggia un ritratto esclusivo di sé e Claudio Bisio racconta l’amicizia nata con Daniel Pennac.

 

Raul Montanari sarà tra gli ospiti del programma.
Raul Montanari sarà tra gli ospiti del programma.

 

La sesta puntata (15 dicembre) vede protagonista Bologna e i romanzi di formazione con il premio Strega 2015 Nicola Lagioia e Raul Montanari. Si chiude il 22 dicembre con un doppio appuntamento: prima a Parma (ore 21.10), si parla di satira con Francesco Bonami e Carla Signoris; poi, sul romanzo biografico, si passeggia con il regista Pupi Avati per la città di Genova (ore 21.45).