L’hotel più lussuoso dei laghi, Villa e Palazzo Aminta – un angolo di Paradiso

Quanti artisti sono alla ricerca di un posto che li ispiri? Pensiamo ai giardini di Giverny di Claude Monet, ai campi di grano di Van Gogh o  alle case di piacere di Henri de Toulouse Lautrec; ciascuno di loro ha scelto un luogo che li rappresentasse o che potesse rappresentare al meglio la loro arte.

Tra i luoghi meta di viaggio, punto di creatività e alcova per i più passionali, spicca Villa e Palazzo Aminta, gioiello che si affaccia sul Lago Maggiore.

Si dice che Hemingway scegliesse la suite dell’ultimo piano di Villa e Palazzo Aminta, in cerca di silenzio e per godere della vista delle calme acque del lago.

Liz Taylor e Richard Burton, la coppia più chiacchierata dei ’60, scelsero Villa e Palazzo Aminta per la loro fuga d’amore, tra le tante, tra litigi e rappacificazioni, tra scenate e costosissimi gioielli.

Una dimora storica che domina il Golfo Borromeo, situato nel borgo millenario di Stresa, che l’ammiraglio della regia Marina Militare Italiana Francesco Capece, fece chiamare come la sua amata moglie: Aminta.

La struttura è un hotel a 5 stelle lusso, curato in ogni minimo dettaglio, impreziosito da arabeschi e volute in stile orientale, mobili antichi, lampadari in murano, porcellane, tappezzerie di pregio. L’atmosfera che si respira è raffinata, elegante, di grande gusto e sensibilità per l’arte; tutta la villa è circondata da un grande giardino fiorito e dispone di un parco privato che si affaccia sul Lago Maggiore.

L’attenzione all’innovazione è un altro fiore all’occhiello dell’eccellenza di Villa e Palazzo Aminta; da poco sono stati svolti dei lavori di ristrutturazione di alcune suite, che dispongono delle più moderne tecnologie e di un arredamento contemporaneo e ricercato.

Motivo d’orgoglio di questa scelta, la Suite Borromea (n.900), sita al quinto ed ultimo piano dell’ala Palazzo; la suite dispone di piscina jacuzzi nel grande terrazzo che si affaccia sulle isole, attrezzato di tavolo e sedie in ferro battuto, un’ampia zona giorno con vista prevede un arredamento ricercato sui toni del silver e del rosso, con ampie poltrone in velluto e tende ricamate.
La piscina jacuzzi situata nel terrazzo è coperta e gode di ottima privacy. Uno scrittoio in stile antico è dedicato ai più solitari che, ammirando la splendida vista della camera, si concedono ancora del tempo per scrivere lettere.

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Qui vi alloggiò un tempo la bellissima attrice, stiamo parlando della Liz Taylor Suite, due disponibili situate nell’ala Palazzo, una al terzo e l’altra al quarto piano. Le suites dispongono di un’ampia vista lago e superano i 120 mq. Un luogo magico che rievoca atmosfere passate.

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Facente parte dell’esclusiva ristrutturazione, la Suite dei Fiori sita al quarto piano della Villa: è disposta su due livelli, collegati da una scala interna. Lo spazio living si trova nella parte superiore della camera, la zona notte gode della vista lago. Un piccolo gioiello sui toni del lavanda e sulle sfumature del viola, un luogo dove ricercare relax immerso in un ambiente ricco di storia.

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Ed infine, altra figlia della rimodernizzazione delle più belle camere di Villa e Palazzo Aminta, per i più esigenti, Suite Belvdere, sui toni dell’azzurro e del blu cobalto, con dettagli gold e veneziani. L’ambiente è luminoso e dispone di tutti i servizi di comfort.

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Ma il Resort ha pensato anche di regalare uno spazio per gli amanti del buon vino e per degustare i migliori prodotti della zona, tra salumi e formaggi: la Winery. Un ambiente elegante in uno spazio nuovo dell’hotel, ove possibile prenotare per una cena esclusiva, un angolo dedicato al food e alle tradizioni locali, un’ala relax dove poter conversare in tutta tranquillità.

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Dalla “Belle Epoque” ad oggi, Villa e Palazzo Aminta rimane la struttura più ambita e lussuosa dei laghi, un angolo di paradiso sotto la direzione della famiglia Zanetta.

Per un soggiorno di vacanza, la Villa dispone inoltre di Area Fitness, Area Benessere con trattamenti personalizzabili e due ristoranti con menu differenti.

Scopri qui altri dettagli delle Suites di Villa e Palazzo Aminta:



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Villa e Palazzo Aminta, Stresa

(foto @Miriam De Nicolo’)

Malcolm & Marie, un litigio in bianco e nero


Malcom & Marie

Una coppia rientra in casa (la Caterpillar House in California all’interno di una riserva naturale, su un unico piano e pareti vetrate), dopo la première del film di cui lui è regista. Lei, Zendaya, in un meraviglioso abito lungo con spacco profondo in seta lamè cut-out con corpetto intrecciato sul seno, unico capo ad essere indossato per metà film (oggi anche in vendita in pre-ordine sul sito di Aliétte per 1200 dollari) è la prima a varcare la soglia di casa. Il nervosismo è nell’aria, mentre cucina in men che non si dica dei maccheroni al burro e formaggio, mentre lui euforico per il successo della serata e per qualche bicchiere ( di whisky?) vorrebbe solo festeggiare.


106 saranno esattamente i minuti dell’intero litigio (se questa è la durata minima di una discussione di coppia, mi chiedo perchè la vendita di pantoprazolo non sia aumentata) in cui dopo numerose insistenze del protagonista (il sexy ex giocatore di football americano John David Washington, ma d’altronde è figlio di Denzel) si scopre che Marie ce l’ha a morte con Malcolm perchè non l’ha citata tra i ringraziamenti; lei che è stata la musa ispiratrice della storia, ex tossicodipendente che ha abbandonato il sogno di diventare attrice per uscire dal dramma della droga.


E’ una battaglia in bianco e nero (certamente rende la fotografia più elegante e lascia che ci si concentri sui dialoghi) dove colpisce più profondamente chi affonda cattiverie, chi recrimina, chi offende, chi gioca sulla gelosia, chi umilia.
Lui, chiuso nell’orgoglio, lei in un malcelato masochismo, sembrano riappacificarsi a intermittenza con baci molto lontani da quella che potrebbe essere definita come “passione”.

Malcolm & Marie



Marie, catturata l’attenzione appena entrata nella stanza che sarà teatro di tutto il film (di intento godardiano basato sull’autenticità della coppia – autenticità parola ridondante nei dialoghi), si imbruttisce a mano a mano che va avanti la discussione (ha qualche attinenza con la relazione di coppia? Con il modo che lui ha di vederla?); dopo un bagno che avrebbe dovuto essere purificante, che avrebbe dovuto sciogliere le tensioni, Marie struccata, abbandonati i tacchi, l’abito da grande soirée e le lunghe ciglia artificiali, si scopre in tutte le sue debolezze: la gelosia nei confronti dell’attrice che il compagno ha scelto per il suo film, le scene di nudo che Malcolm ha voluto inserire, la delusione per non essere stata ringraziata davanti al pubblico; Marie piange e attacca, si dispera e affonda un’altra coltellata. Ma quella a soffrire di più è lei, questo lo si intuisce, dall’atteggiamento di Malcolm irritato quando lei incalza dopo un bacio, mentre lui vorrebbe solo divertirsi e godersi la serata (quante scene similari ha vissuto ciascuno di noi?!)

Zendaya in “Malcolm & Marie.”


Sam Levinson, regista di “Malcolm & Marie“, verso la fine si trastulla con altisonanti citazioni cinematografiche, vomita critiche agli addetti al settore che non capiscono a volte un film può essere semplice e solo esercizio di stile anziché cavilloso lavoro concettuale, ma questo non ci scandalizza, lo fanno in tanti. Piuttosto, riuscire a rendere un ping pong teatrale efficace, è assai arduo quando gli attori non sono poi così esperti; Zendaya non sempre risulta credibile, manca di pathos, peccato perchè a mantenere alto almeno il fuoco di alcune scene (come quelle delle presunte riappacificazioni) avrebbe reso l’insieme più magnetico, per lo meno per giocarsi al meglio la sua bellezza.
John David Washington è più interessante da muto a petto nudo, perchè forzato nelle battute in cui dichiara il suo amore, con ironia, con quel ritmo black della camminata e dei gesti.
La storia è interessante e ci obbliga all’immedesimazione, è un litigio come miliardi di altri litigi che avvengono ora nel mondo, lui che non capisce il malumore di lei, lei che nega fino all’esaurimento e che esplode quando ormai è troppo tardi.


Il picco di interesse sale quando finalmente Marie confessa la sua vera pena: è offesa perchè non è stata scelta come attrice protagonista dal suo compagno, che ha preferito una donna dalla corporatura diversa dalla sua, più femminile a suo dire, “lo so che genere di donna ti piace”. Ha perso in questo modo la possibilità di raccontare la “sua” storia, di dimostrare a se stessa e agli altri che anche lei può farcela, lei che ha tentato il suicidio, e che ora invece ha un motivo in più per farsi del male.
E’ in canottiera bianca e mutandine, capelli bagnati (ricorda molto la scena con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut) che si dirige a letto quando Levinson si tira la zappa sui piedi con un “Grazie” recitato da Malcolm. E ai registi dobbiamo ricordare che l’inizio e la fine sono le scene più importanti, come le prime e le ultime frasi di un libro, e che banalizzarle può rovinare un intero lavoro.

“Don’t look up” siete voi



Snervante quanto delle unghie che stridono su una lavagna, personaggi irritanti quanto un’orticaria, il regista di “Don’l look up” ha esasperato le caricature che più che macchiette diventano surreali.

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre che una gigantesca cometa colpirà il Pianeta Terra entro sei mesi provocandone l’estinzione; insieme al docente dell’Università del Michigan Dr. Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) decidono di correre dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) per comunicare la tragica notizia. Ad accoglierli, Janie Orlean, una Presidente molto più attenta alla pantomima politica piuttosto che alla salvaguardia del pianeta.
In questo contesto il capo di Gabinetto è ovviamente il figlio, impreparato alla carica, ignorante, superficiale e idiota da superare “Scemo & più Scemo” (tema le classi privilegiate che mandano avanti prole e parentado al comando?), un responsabile della comunicazione che stila discorsi politici prendendo a prestito frasi dai film tipo “Il Soldato Ryan”.

Al cospetto di tanto scempio e di fronte ad un teatrino che più che la Casa Bianca sembra una commedia di provincia, i due scienziati sono furibondi perchè inascoltati, beffeggiati e messi alla porta.
Sono gli unici sani al centro di una totale perdita d’intelletto dell’intero paese.



Cosa dilaga? Stupidità, la coppia di astronomi si rivolge poi ad un programma televisivo nella speranza che le autorità possano ascoltarli e intervenire per salvare il mondo, invece sbattono contro due personaggi, i presentatori, complici della nullità imperante. Lei, una Cate Blanchett fastidiosa come una strombazzata in pieno mattino, ridacchia alla notizia, trasforma tutto in battuta, paragone cristallino ai media americani, ma diciamo anche italiani, inglesi, giapponesi, trasformando così la giovane astronoma in uno zimbello del web, un meme virale su cui scagliare la propria ignoranza e frustrazione.

L’unica preoccupazione sembra essere l’indice di gradimento del web, una massa informe di teste vuote interessate solo a sapere se una pop star tornerà insieme al rapper che l’ha appena cornificata (hanno affibbiato il ruolo ad Ariana Grande, bella voce però – ma su corna e tira e molla del web, in Italia ne abbiamo da vendere). Nessuno si preoccupa ancora della cometa che impatterà sulla Terra, fino a quando la cometa sarà visibile a occhio nudo nel cielo.
La popolazione a quel punto si divide, c’è chi urla tradimento al Presidente che mente (riferimento ai No Vax?), c’è chi sostiene la donna perchè “non è una bomba sexy?” spinge il figlio durante l’elettorato.


I ruoli sono confusi, chi dovrebbe informare pensa solo all’ospite sexy, chi dovrebbe dirigere pensa solo a coprire gli scheletri nell’armadio (foto nude e scappatelle – riferimento a Clinton?). La scienza è messa alla porta, taciuta, spogliata del ruolo (la ragazza finisce per essere zittita, costretta a firmare l’abbandono alla missione e si ritrova a fare la commessa in un piccolo supermercato di periferia. Quante volte abbiamo sentito questa storia? Medici che scoprono antidoti a malattie mortali, scomparsi nel nulla, esiliati, morti in circostanze sospette).

Il professor Randall Mindy cede alla vanità della popolarità, si lascia trascinare dal turbinìo facile del denaro, mentre la moglie lo invita ad una passeggiata fuori lui è impegnato a rispondere alle critiche sui social network, cede alle avances della conduttrice scema che in un momento di intimità gli confida “sono stata a letto con due ex presidenti, sono nata dannatamente ricca, ma ho tre lauree e ho acquistato due Monet”, come se questa confessione fosse il più nobile dei pensieri, la più profonda dichiarazione di sé (ricorda vagamente la bella Isabella Ferrari de “La Grande Bellezza” quando dopo una notte d’amore si interessa di mostrare all’amante i suoi selfie). In risposta, il professore, per raccontarsi: “Quest’anno è morto il nostro cane e non c’è momento più doloroso che io ricordi”. (questa frase è indice che per il personaggio c’è ancora una speranza di salvezza).

Tra challenge idiote, capi della NASA ex anestesisti, masse di pecore che vivono sui cellulari, salta fuori la mente informatica, il fondatore dell’azienda ipertecnologica Bash, Peter Isherwell (Mark Rylance), magnate macchietta di un Steve Jobs, Bill Gates o Zuckerberg, ideatore di uno smartphone che capta il tuo umore e ti proietta “animaletti musetti” per farti sorridere. (ma sono davvero utili i cellulari? Cosa ci hanno regalato e cosa tolto? Le relazioni umane non sono forse sbriciolate da quando la tecnologia ha preso il sopravvento? Noi umani queste domande ce le poniamo, al contrario di questi esseri problematici, sociopatici, che sembrano avere solo risposte.)

E’ solo intorno alla tavola imbandita, famiglia raccolta, moglie con cui si è riappacificato, che l’astronomo comprende il valore della vita, gli affetti: “Noi abbiamo veramente tutto, se ci pensate”.


Le intenzioni erano buone, la deriva del nostro tempo, la pochezza palese sui social network, l’assenza di emozioni, l’esplosione dell’ego, la corsa al denaro, la presunzione dell’ignorante, peccato che Adam McKay abbia impegnato un cast colossale in parti di davvero poco conto (come al povero Timothée Chalamet a cui vengono affidate due battute inutili alla trama).



Don’t look up” è un filmetto con tanti bei faccioni, ma temo ce ne dimenticheremo.

E’ stata la mano di Dio

La fantasia e la creatività non servono a un cazzo, per fare cinema ci vogliono le palle o un dolore. Tu le palle non le hai, ce l’hai un dolore?

E’ questa la chiave del film di Paolo SorrentinoE’ stata la mano di Dio”, la frase che il regista Antonio Capuano urla all’alter ego del regista, Fabio Schisa, il ragazzo pelle e ossa e ricci che abbraccia un dolore troppo grande per avere le palle di raccontarlo. E lo fa ora, attraverso una pellicola autobiografica, intima, spoglia di orpelli, lo fa da adulto, lo fa da Paolo Sorrentino alla soglia dei 51 anni.

Come si può criticare un film quando racconta in maniera intimista di un taglio così profondo? Come si può giudicare un dolore? Come se il dolore possa in qualche modo essere classificato, nominato, numerato; che per ciascuno di noi il dolore che proviamo è sempre più grande di quello altrui, ma prenderlo in mano, guardarlo, riconoscerlo e mostrarlo al mondo, quello sì è un atto di coraggio. E allora Capuano aveva torto, perchè quel piccolo Paolo aveva sia palle che fegato. E un dolore da raccontare.

“Allora, tu un dolore ce l’hai? Hai una cosa da raccontare?”
“Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”

Sono i genitori di Fabio, morti per asfissia davanti ad un camino nuovo in quella casa a Roccaraso dove avrebbe dovuto esserci anche lui che invece la mano di Dio ha salvato, quel Dio che stava in campo a segnare dei rigori. E così Maradona e Sorrentino sono legati da un filo sottile ed eterno, quello della salvezza, del fato, della credenza e della superstizione, perchè senza quel biglietto dello stadio, il nostro amato regista non sarebbe tra noi.

la scena del film nel dialogo con Capuano



In una Napoli senza fronzoli, Sorrentino racconta le vicessitudini familiari, prima della tragedia, tra ilarità e grottesco, in una sorta di teatro eduardiano, dove i personaggi felliniani, un Fellini che cita e omaggia, vibrano nelle case borghesi ricche di suppellettili, di pipe, di perline di legno, colti nella loro volgarità più vera (chi non ha vissuto tra i napoletani non conosce questa rispondenza piena alla realtà, che rende certi personaggi amati tanto quanto la loro abbondanza di parolacce, amati perchè senza filtri). Una nonna in sovrappeso che indossa la pelliccia anche in estate sbrodolandosi con un cuore di latte, un vicino di casa problematico ma buono che disegna cazzetti sulle targhette delle porte ossessionato dalla pulizia per l’auto, una zia impazzita che finisce i suoi giorni in manicomio, in questo palcoscenico che alla critica sembra esageratamente freak, ma a cui dobbiamo ricordare che Napoli E’ esagerata, l’amore più sano e dolce arriva dal rapporto tra il protagonista e sua madre. Una mamma presente, che vede senza chiedere, che sente senza bisogno di parlare, una madre che chiede al figlio adolescente di giocare ancora a nascondino.

Una famiglia che trova momenti di pace nelle difficoltà che hanno tutti, nel dramma del tradimento, nella rozzezza della violenza, dove a ritrovarsi si è sempre tra le mura domestiche, o meglio tra le lenzuola, dove tutto sembra passare e diventare meno grave.

E’ stata la mano di Dio



Più vero che mai, il film di Sorrentino torna per come lo conosciamo con alcuni piani sequenza lunghi (due o tre al massimo) e dai lunghi silenzi, intervellati solo dal suono del mare, questo mare che fa “tuff, tuff, tuff”, quando è attraversato dagli offshore. E’ il mare a dettare il ritmo della pellicola, come ne “le onde” di Virginia Woolf con le sue parole; è tempestoso e chiassoso come la famiglia napoletana, e cupo, profondo e silenzioso come Fabio quando nasconde il suo dolore, quel dolore che ha imparato a tacere, perchè è dove si parla tanto, che si parla poco.

una scena del film

La figura di Diego Armando Maradona volteggia, ci sta sopra la testa, come un Dio, lo si sente nei dialoghi, lo si vede talvolta apparire nelle piccole tv senza telecomando, in quelle rettangolari cucine degli anni ’80 con le sedie in rafia e il bicchiere dell’acqua colorato di rosso. Il canale si cambia con un bastone perchè “si è comunisti”, se Maradona segna lo si festeggia in coro tra i balconi, se lo si vede per le strade di Napoli è sempre come un’immagine sacra, non si è mai certi che sia vero oppure no, come pure il “monaciello”, figura popolare dispettosa che ruba gli oggetti dalle case dei ricchi e che porta soldi in quelle dei bisognosi.

Maradona è la salvezza del protagonista, è la salvezza dei napoletani, è il mito che permea ancora per le strade del centro, ovunque sulle pareti, osannato sui manifesti, idolatrato nelle case.
Ma è il cinema che sottrarrà Fabietto alla disgrazia, un viaggio a Roma, lontano da quella Napoli amata e odiata, un saluto alla zia matta musa e desiderio, un abbraccio al fratello maggiore, uno zaino in spalla, gli alberi che si stagliano dal finestrino di un treno, e finalmente siamo anche noi partecipi della musica che Fabio ascolta nel walkman: “Napule è” mille culure di Pino Daniele

Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
Che saglie chianu chianu
E tu sai ca’ nun si sulo

78mo Festival del Cinema di Venezia – guerra e violenza nei film di denuncia

Reflection 

L’idea del film nasce da un fatto accaduto nella vita personale del regista, Valentyn Vasyanovych, che assiste assieme alla figlia allo schianto di un uccello sulla finestra di casa, una metafora, il passaggio dalla vita alla morte. 

Siamo nel 2014 nell’Ucraina orientale durante le prime fasi del conflitto Russia-Ucraina e assistiamo ad atroci torture, violenze e crimini realmente accaduti e documentati, le brutalità commesse dalle truppe filorusse sui prigionieri di guerra: strangolamenti, scariche elettriche, sevizie, torture medievali, trapani che lacerano carni ed ossa. 

Il protagonista, un medico catturato dalle forze militari russe, assiste e subisce le spaventose umiliazioni cui lo spettatore non riesce a sostenere, spesso lasciando la sala del Festival. Volutamente cruento nella prima fase, volutamente silenzioso nella seconda, nel momento in cui il protagonista riesce a sopravvivere alla guerra e cerca appunto nel silenzio di ricostruire i rapporti con la ex moglie e con la figlia, Reflection lancia in immagini/metafore le grandi riflessioni sulla vita. L’importanza dei rapporti umani, il valore degli affetti, il significato della vita. 

Non lasciare tracce – (Leave no trace)

Ricorda il caso di Stefano Cucchi, il giovane morto dopo un pestaggio sotto custodia cautelare sette giorni dopo l’accaduto, questa pellicola di Jan P. Matuszyński
E’ la storia vera di Grzegorz Przemyk (Mateusz Górski), figlio della poetessa e attivista Barbara Sadowska (Sandra Korzeniak), ucciso a calci nello stomaco dalla polizia comunista, la Milicja Obywatelska (era il 14 maggio del 1983).
Il giovane studente festeggia nella piazza del Castello di Varsavia la maturità, fermato dalla polizia rifiuta di esibire i documenti di identità e viene così portato in centrale, dove in pochi minuti avviene il pestaggio davanti agli occhi dell’amico, il protagonista del film che lotterà fino alla fine per ottenere giustizia. 
La verità verrà sotterrata con ogni mezzo dalle autorità ministeriali, con depistaggi che porteranno le accuse a infermieri innocenti, in un crescendo di rabbia e frustrazione e ingiustizia che incolla allo schermo lo spettatore in attesa della sentenza finale. 
Qui il male trionfa, la contraffazione dei fatti è così capillare che la stanchezza prende il sopravvento, anche sulla madre raggomitolata nel dolore e arresa; solo l’amico fidato dirà la verità in tribunale, fino all’ultimo spiraglio di speranza, ma il potere dei miliziani è troppo radicato e la violenza dello Stato mortalmente pericolosa. 
Noi possiamo solo parlarne e urlare la verità affinché il ricordo possa pulire tanto degrado. 

Vera sogna il mare 
di Kaltrina Krasniqi

Lei è un’interprete del linguaggio dei segni, lui, il marito, un giudice in pensione. La morte del marito, suicidatosi senza lasciare lettere di addio, apre infinite porte dove dietro si celano la dipendenza al gioco, le eredità sperperate, le proprietà che la malavita torna a riprendersi. 
Minacce, pedinamenti costanti, il rischio che la figlia venga uccisa, obbligano Vera a cedere alle ingiuste richieste. 
La storia svela una donna forte, che lotta per non cedere alla prepotenza ostile, corrotta, maschilista della società in Kosovo ai giorno nostri. 
Un film di denuncia e di orgoglio, di dignità e di arrendevolezza come unica soluzione per la sopravvivenza, dove le difficoltà vengono rappresentate sullo schermo attraverso la forza del mare, che si fanno sempre più soffocanti e violente quando Vera rischia di “annegare”. 

78 Festival del Cinema di Venezia – i film da non perdere

Freaks out 

Mirabolante! “Freaks out” di Gabriele Mainetti è una storia delicatissima di “diversi che senza circo sono solo dei mostri”, come afferma uno dei fantastici 4 personaggi dotati di superpoteri. C’è tanto della poesia de “La forma dell’acqua” nella rappresentazione dell’amore e della tenerezza verso il mostro, tanto dei personaggi strambi amati da Diane Arbus, la fotografa morta suicida la cui storia é stata interpretata da una Nicole Kidman che si innamora dell’uomo lupo. 2 anni di post-produzione per una pellicola che tiene incollati allo schermo, azione, storia, ironia, colpi di scena, fotografia ed effetti speciali. Anche qui il Festival del Cinema avvicina al crudele tema della guerra, durante il periodo fascista, e il cinema è il mezzo forse più veloce e potente per aprire cuori e menti.

Qui rido io 

Qui Rido io di Mario Martone è la storia vera di Eduardo Scarpetta, il più grande commediografo e attore comico del ‘900 italiano. Un uomo generoso con il pubblico e severo con la famiglia, a tratti egoista, un dongiovanni che coabitava con mogli ed amanti e rispettivi figli, quelli riconosciuti e quelli che lo chiamavano “zio”, Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo, che presero poi il cognome della madre. 
Per Scarpetta teatro e vita vera si mescolavano, la sua esistenza sfarzosa in palazzi imperiali lo portavano ad un atteggiamento imperioso che obbligava la sua cerchia ad una sudditanza “naturale”. Fino a quando l’episodio dannunziano, la messa in scena della parodia della “Figlia di Iorio”, l’opera di Gabriele D’Annunzio, lo vede accusato di plagio; sarà Benedetto Croce l’unico a sostenerlo, testimone di una malinconia che prende il sopravvento, di un mondo che muore e della nascita di un teatro nuovo. 
Toni Servillo ha letteralmente divorato il palcoscenico. 

Ezio Bosso. Le cose che restano 

Per Ezio Bosso, interprete, direttore d’orchestra e compositore, esiste una “Teoria delle 12 stanze in movimento”, l’ultima delle quali tornerà a noi come prima nel momento in cui impareremo a riconoscerci, per poter essere liberi, per sempre. 
Il docufilm di Gabriele Salvatores che in Ezio Bosso vedeva l’artista musicale che lui non è mai stato, è una finestra sul giardino dei mille volti che hanno avuto la fortuna di incontrare un grande comunicatore. Con la sete di sapere e la fame di musica che ha dall’età di quattro anni, Ezio Bosso è riuscito nell’intento di avvicinare “il popolo” alla musica classica, di portare la gente comune nei teatri; un film dalle infinite citazioni e dalla colonna sonora che Bosso ha regalato all’Italia intera, la direzione dei Carmina Burana all’Arena di Verona, le tre ore e mezza di musica e spettacolo nel Teatro Verdi di Busseto, in provincia di Parma, andato poi in onda su Rai3 in cui spiega Beethoven.
Una lunga storia d’amore e di dolore, quello che lo ha fermato e allontanato dalla musica, la malattia degenerativa che aveva da 2011. 
Le sue esibizioni non sempre erano perfette, lo ha dichiarato anche il suo ufficio stampa, ma non è forse l’imperfezione a renderci unici?!

Captain Volkonogov Escaped

Captain Volkonogov Escaped di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov è la storia di una redenzione.
Fedor Volionogov è il capitano del servizio di sicurezza nazionale russo, il suo compito è quello di catturare i “nemici dello Stato”, per lo più vittime innocenti che vengono seviziate e uccise per accuse inesistenti.
Uno spirito notturno, una spiritualità che si era sopita, lo avverte dell’Inferno imminente dandogli la speranza di un Paradiso eterno solo nel caso in cui almeno uno dei famigliari delle vittime da lui uccise, gli avesse concesso il perdono. 
Incontrerà un padre che aveva ripudiato il proprio figlio credendolo un traditor di patria; una moglie impazzita per aver perso il marito per sempre; una figlia che credeva il padre ancora vivo; un bambino che brucia gli oggetti del padre perchè “un traditore non può chiamarsi padre” e una figlia chiusa in soffitta, sull’orlo di morire, sarà lei il limbo per poter accedere all’alto oppure in basso…

Imaculat

Volutamente claustrofobico, volutamente lento, volutamente irritante, volutamente silenzioso, il film sceneggiato da Monica Stan racconta la sua dolorosa e reale storia, le vicende di una tossicodipendente in un centro di riabilitazione tra giochi di potere taciti e non.

Di Monica Stan e George Chiper

Versatile e preziosa la icon bag Paola Bonacina, must have dell’estate

La icon bag Paola Bonacina interpretata dalla talent Matilde Righi

E’ sulle sponde dell’Arno, in un elegante resort 5 stelle, che risalta la icon bag Paola Bonacina indossata da Matilde Righi, talent dal gusto raffinato, parisienne, e dall’allure romantica. 

Nell’Hotel Ville sull’Arno, antica dimora ottocentesca, cenacolo dei Macchiaioli e luogo di intellettuali dell’epoca, Matilde Righi interpreta la Xi Wallet – Turquoise Python, la pochette firmata Paola Bonacina divenuta bag iconica per la sua versatilità

Porta cellulare, maxi portafoglio, comoda pochette, la Xi Wallet si porta a mano o a tracolla grazie alla pratica e sottile catenella a croce in ottone finitura oro chiaro. 

L’influencer Matilde Righi sceglie di abbinarla ad un classico abito stile greco-romano, dello stesso tono turchese della pochette, perfettamente ambientata nella calda ed accogliente atmosfera dell’antica residenza. 

Gli ambienti, i toni, gli arredi, si sposano con la fantasia dell’icon bag Paola Bonacina, iridescente per colore e pregiata nella scelta dei materiali. 

Il brand si contraddistingue da sempre per l’attenzione dei particolari: la chiusura in metallo presenta il logo del marchio, gli interni sono in pelle e ogni prodotto possiede il suo certificato di garanzia e autenticità; Paola Bonacina è totalmente Made in Italye rappresenta a pieno il savoir-faire del nostro amato territorio. 

Eclettica, la icon bag Paola Bonacina è per tutte le donne e tutti gli stili che le rappresentano!
Di giorno con una giacca over e denim, la sera con un long dress, la Xi Wallet in pelle di pitone è il nuovo must have di questa stagione. 

Per necessità o per capriccio, non riuscirete più a farne a meno, rende ogni look più grintoso e regala un tocco di luce e colore grazie alla sua lavorazione iridescente. 

Paola Bonacina, fondatrice e creatrice dell’omonimo brand, è da sempre impegnata in collaborazioni nazionali ed internazionali e per questa stagione si vede protagonista del Super Trofeo Lamborghini Europe come Pink Partners del pilota italo-svizzero Kevin Gilardoni

Con i colori dell’Oregon Team, si è scelta la mini bag O-Clock Grace Paola Bonacina per il round del campionato previsto al Circuit Paul Ricard dal 28 al 30 maggio 2021. 

Tutti gli aggiornamenti delle nuove avventure Paola Bonacina sui suoi profili ufficiali: 
Paola Bonacina Instagram 

MYTHERESA PARTNER DEL CENTER POMPIDOU: WOMEN IN ABSTRACTION EXHIBITION





MYTHERESA PARTNER DEL CENTER POMPIDOU: WOMEN IN ABSTRACTION EXHIBITION
19 MAGGIO - 23 AGOSTO 2021
Il rivenditore online di moda di lusso Mytheresa è sponsor della mostra “Women in Abstraction”, nata per sostenere e dare riconoscimento alle artiste di tutto il mondo.
La mostra “Women in Abstraction”, che dovrebbe essere presentata al Centre Pompidou dal 19 maggio al 23 agosto 2021, offre una nuova visione della storia dell'astrazione - dalle sue origini agli anni '80 - e raccoglie i contributi di circa centodieci “artiste”.

“Gli amici del Centre Pompidou esprimono i loro più calorosi ringraziamenti a Mytheresa e al suo CEO, Michael Kliger, per il loro sostegno così generoso e l'impegno positivo per la mostra cardine Women in Abstraction, che si apre a maggio al Centre Pompidou ”, hanno commentato Floriane de Saint Pierre, presidente del consiglio di amministrazione e Serge Lasvignes, presidente del Centre Pompidou. 
“Siamo molto orgogliosi ed entusiasti di sponsorizzare questa straordinaria mostra, nel museo di fama mondiale come Le Centre Pompidou. Dare potere alle donne è una missione che sta a cuore a Mytheresa e questa mostra rivela l'importanza e l'impatto del lavoro artistico delle donne e dà loro il riconoscimento che meritano all'interno del movimento astratto su scala globale ", afferma Michael Kliger, CEO di Mytheresa. 

Christine Macel, curatrice capo, e Karolina Lewandowska, curatrice per la fotografia, rivisitano questa storia e mettono in luce i processi che hanno reso invisibili queste “artiste” attraverso un'indagine cronologica che combina belle arti, danza, fotografia, cinema e arti decorative. Facendo eco al titolo della mostra francese ("Elles font l'abstraction", ovvero, "They / She make (s) abstraction"), gli artisti sono presentati come attori e co-creatori del modernismo e delle sue conseguenze nella loro propria ragione. “Women in abstraction è una mostra che mira a mostrare come le artiste donne siano state importanti attori e co-creatrici della modernità e delle sue conseguenze, quanto abbiano contribuito alla multidisciplinarietà dell'astrazione e rompendo così il mantello dell'invisibilità che ancora copre molti dei loro contributi chiave ", ha commentato Christine Macel, capo curatore.

American artist Lynda Benglis works on a commissioned project for the University of Rhode Island, Kingston, Rhode Island, 1969. The work involves poured latex paint for an installation at the university. (Photo by Henry Groskinsky/The LIFE Picture Collection via Getty Images)
La mostra racconta le svolte decisive che hanno segnato la storia dell'Astrazione e ne esprime i canoni estetici senza ridefinirne uno nuovo. Va anche oltre l'idea di una storia dell'arte concepita come una successione di pratiche puramente pionieristiche. Dando alle "donne artiste" un nuovo posto in questa storia, la mostra ne sottolinea la complessità e la diversità.
Innanzitutto, fa un'incursione senza precedenti nell'Ottocento con la riscoperta dell'opera di Georgiana Houghton degli anni Sessanta dell'Ottocento, minando le origini cronologiche dell'astrazione riconducendola alle sue radici spiritualiste. Mette quindi in risalto le figure chiave attraverso mini monografie che mettono in luce artisti che sono stati poco mostrati in Europa o ingiustamente eclissati. Si concentra in particolare sui contesti educativi, sociali e istituzionali specifici che hanno circondato e incoraggiato o, al contrario, ostacolato il riconoscimento delle “artiste”. La mostra rivela perché molte "artiste" non hanno necessariamente cercato il riconoscimento. Considera le posizioni degli artisti stessi, con tutte le loro complessità e paradossi. Alcuni, come Sonia Delaunay-Terk, hanno adottato una posizione non di genere mentre altri, come Judy Chicago, hanno rivendicato un'arte femminile.

Questa versione femminile della storia sfida la limitazione dello studio dell'astrazione alla sola pittura, che è uno dei motivi per cui molte donne sono state escluse, poiché l'approccio modernista specifico rifiutava le dimensioni spiritualiste, ornamentali e performative dell'astrazione. La prospettiva è anche globale che include le modernità dell'America Latina, del Medio Oriente e dell'Asia, per non parlare degli artisti afroamericani le cui molteplici voci hanno beneficiato di una certa visibilità solo dai primi anni '70 in poi per raccontare la loro storia. La scenografia comprende spazi documentari dedicati alla fondazione di mostre, donne protagoniste dell'astrazione e critiche celebri, in particolare nell'ambito delle lotte femministe degli anni '70 e della loro interpretazione postmoderna. Anche la mostra “Women in Abstraction” solleva diversi interrogativi. La prima riguarda il termine stesso del soggetto: cos'è esattamente l'astrazione? Un altro affronta le cause dei processi specifici che hanno reso le donne invisibili nella storia dell'astrazione. Possiamo continuare a isolare "donne artiste" in una storia separata quando vorremmo che questa storia fosse polivocale e non di genere? Infine, la mostra stabilisce i contributi specifici degli artisti, pionieri o meno, ma in tutti i casi attori di questa storia particolare, originale e unica. La mostra “Women in Abstraction” sarà presentata al Guggenheim Museum di Bilbao, in Spagna, dal 22 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022 con la collaborazione del curatore Lekha Hileman Waitoller. Basata sulle collezioni del Musée National d’Art Moderne, un'altra versione aprirà nell'aprile 2022 al Centre Pompi-dou x West Bund Museum di Shanghai, in Cina.

Odi et Amo Spring Summer 2021

Odi et Amo, brand di abbigliamento e accessori dedicato alla donna contemporanea, lancia la collezione Spring Summer 2021 con capi sporty chic che osannano il Made in Italy.

L’azzurro della nostra bandiera, lo stemma dell’Italia, la qualità dei tessuti e il saper fare bene, tutto risalta la collezione Odi et Amo che è 100% Made in Italy. Ricami e lavorazioni sono prodotti dalle più avanzate tecniche che rendono il capo unico, riconoscibile e attuale.



Fiori, pois, stampe, per la primavera estate 2021 Odi et Amo gioca su un mix and match che sposa sapientemente capi apparentemente diversi.

Fashion-rock gli elementi borchie, pelle, il lettering, applicati su abiti, giacche o sulle gonne che regalano grande personalità a chi l’indossa e versatilità dei capi.

Urban jungle la sezione di tendenza animalier, per le più libere ed estrose con stampe leopardate e maculate in maxi dress, minigonne, per uno stile dalla femminilità esotica.


Romantica e trendy la donna Odi et Amo con gli abiti in pizzo, con maxi ruches dai toni pastello, dalle varianti del pink soft al pink fluo.

Primaverili chemisier damascati e spalline dagli eleganti fiocchetti, t-shirt elaborate ad abito con voluminosi volants, lo stile Odi et Amo è al contempo dolce e determinato.


Potete acquistare i capi Odi et Amo qui:

https://www.odietamoshop.com

Hot & Vintage, sogni che diventano realtà

Albert Einstein diceva che in mezzo alle difficoltà si nascondono le opportunità. Noemi Dimasi è la persona che conferma questa teoria: fondatrice di Hot & Vintage, ha creato il brand durante la prima pandemia nel marzo 2020!

Un lavoro perso, molti dubbi, le prime inquietudini di un grave momento per il mondo intero, tanto tempo a disposizione per riflettere sul proprio percorso e ritrovare la voglia di farcela. 
Nasce così Hot & Vintage, il brand di candele luxury e non solo, che rappresenta miti greci, armoniche figure corporee, eleganti conchiglie, ricercati elementi d’arredo.

Ma l’infinita creatività di Noemi non si ferma qui e, la sua grande passione per il vintage, la porta tra i mercatini d’antiquariato a recuperare coppe di champagne, contenitori in vetro dalle lavorazioni raffinate che si trasformano in contenitori per candele profumate, pronti ad arredare gli angoli della vostra casa. 

Sono lavorazioni uniche ed originali, pensate da Noemi e rifinite dalle mani esperte del fratello che l’aiuta in questa nuova avventura, complice di una clausura obbligata. 

Must have della collezione è “Lady Afrodite“, la bellissima candela che rappresenta la dea greca, simbolo di bellezza, amore e generazione, orgoglio della fondatrice e che sottolinea l’unicità del prodotto, oggi che la vendita di candele quali suppellettili è diventata una tendenza. 

A completare la collezione, sculture Art Deco’, set di candele a forma di nuvola o classiche a cubo; Hot & Vintage è la soluzione moderna per arredare un angolo di casa con un tocco femminile e per creare atmosfera con autenticità e singolarità. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Noemi che ci ha raccontato la sua bellissima storia, esempio di chi crede ancora nei propri sogni!


Com’è nato il brand “Hot & Vintage”?
 
Durante il primo lockdown sono rimasta a casa dal lavoro (ero assistente alle vendite in una boutique a Milano) e mi sono ritrovata a pensare al mio percorso di vita, al mio futuro, a cosa desiderassi profondamente. E ho pensato alla mia grande passione, il vintage, agli infiniti viaggi tra i mercatini d’antiquariato alla scoperta dei pezzi più inediti, più originali. Come potevo trasformarli? Li ho riempiti di cera di soia e ci ho fatto delle candele da collezione! 

Chi lavora al progetto appena nato “Hot & Vintage”?  
Io sono la fondatrice e l’ideatrice del progetto, è il mio gioiellino, ma devo ringraziare moltissimo la mia famiglia che mi supporta nelle questioni logistiche e mio fratello che rifinisce le candele a mano e mi aiuta a creare gli stampi in silicone, indispensabili per le lavorazioni. 
I contenuti del sito, le immagini e il customer service sono gestiti da me in prima persona: mi ci dedico anima e corpo. 

Da dove trai ispirazione per le figure delle candele?  
E’ la natura illuminata dal sole a ispirarmi, la luce del tramonto, i paesaggi floreali e la mitologia greca, che mi ha influenzato nella creazione di “Lady Afrodite“, l’oggetto a cui sono più emotivamente legata. 

Quali saranno le prossime creazioni “Hot & Vintage”? Puoi anticiparcele? 
Stiamo cercando di differenziarci oggi che l’uso delle candele come oggetti d’arredo è diventata una tendenza. 
Un anno fa la concorrenza su questo genere di figure era inferiore, per questo motivo vorrei offrire a chi sceglie “Hot & Vintage” sempre pezzi unici, piccole opere d’arte. 

E’ nata per questa ragione una collaborazione con un designer di modelli 3D che risponde a disegni ed idee realizzati interamente da me. 

In quali ambienti immagini gli oggetti “Hot & Vintage”? 
Adoro i colori tenui, neutri, le tonalità beige e crema, e credo il mood perfetto sia un ambiente semplice ma allo stesso tempo elegante, molto femminile e poetico. 
La luce è sempre molto importante, in una stanza, per far risaltare gli oggetti; l’atmosfera può crearla una finestra semi aperta, la luce calda di un tramonto, e perchè no, una dolce melodia come colonna sonora. 


Dove acquistare i prodotti “Hot & Vintage”? 
Sul nostro sito: www.hotandvintage.com o scrivendoci alla nostra pagina social IG


Perchè scegliere “Hot & Vintage” ?
Perché significa sostenere il Made in italy e supportare un piccolo business. 
Sono tutti pezzi unici, creati a mano con amore, con passione e con particolare cura per l’ambiente. 
Ora come non mai, credo sia molto importante scegliere e prestare attenzione a ció che compriamo e soprattutto ai valori e alla filosofia del brand. 
Tutte le nostre candele sono realizzate in cera di soia che é atossica quando viene inalata, completamente biodegradabile e vegana; vengono spedite in packaging in cartone 100% riciclabile e composto da 70% di materiali di recupero. 
Siamo una realtà piccola, nata da un sogno grand. In un momento di grande difficoltà, che purtroppo ricorderemo con grande dolore, noi siamo l’esempio di chi ci ha creduto e ce l’ha fatta! 

Gingegneria applicata” – tutto quello che c’è da sapere sui GIN italiani

Gingegneria applicata” – tutto quello che c’è da sapere sui GIN italiani 

Il giro d’Italia in 100 gin, raccontati dal gingegnere 

In un libro il viaggio da Nord a Sud a recuperare botaniche e imbottigliarle nel distillato più amato del momento, il gin 

Forse non tutti sanno che la nascita del gin è di casa nostra: già nel lontano 1555 un testo alchemico di Alessio Piemontese riportava ricette del noto distillato; e nell’ XI secolo i monaci italiani, uomini colti e dediti alla ricerca, distillavano insieme vino e bacche di ginepro aggiungendovi botaniche raccolte nei boschi e nelle campagne, realizzando così una bevanda dalle proprietà toniche e terapeutiche sorprendenti (testi tratti dal Compendium Salernitanum). E’ così che sono nati diversi distillati, che da curativi si sono trasformati in drink di piacere. 

Nella nostra bella Italia non dobbiamo dimenticare di avere ricchissime terre dove nasce e cresce il ginepro, come la Toscana e l’Umbria, e che i nostri paesaggi marini e montani sono floridi di erbe, fiori, frutti e piante da utilizzare quali botaniche per impreziosire i nostri gin. 

Se un tempo il gin veniva letto come drink da battaglia, oggi gli esperti, gli amateur e gli appassionati si fanno sentire, a partire dalla nascita delle Gintonerie o GinTonicherie. 

Ma come nasce il Gin Tonic? 

Il signor Franciscus de le Boe Sylvus, dottore olandese creatore del primo “Jenever”, l’antico gin bevanda curativa, aveva scoperto per l’appunto che il Chinino (contenuto nell’acqua tonica) era l’unico rimedio per la cura della malaria, ma essendo troppo amaro necessitava di essere diluito e si pensò al gin. Et voilà il primo gin tonic che curava tutti i mali. Non sarà certo il rimedio medico per eccellenza, ma possiamo confermare che un ottimo gin tonic può tirarci su il morale!



E’ un bel viaggio indietro sulla macchina del tempo insieme a Lorenzo Borgianni quello di “Gingegneria applicata” il libro che vi racconterà tutti i trucchetti del mestiere, quello del barman e tutte le chicche sui gin più deliziosi e introvabili che potrete assaggiare, perchè avrete nomi, indirizzi, link utili, terre da visitare. Tra i consigliati vi svela la storia di 25K Gin, un gin dalla ricerca circolare perchè completa, nata dalla passione di Simone e Riccardo per i viaggi, la cucina e i sapori. Rosmarino italiano, lavanda di provenza, cardamomo verde, anice stellato della Grecia, coriandolo e semi di finocchietto dell’Egitto, pepe nero del Marocco e i grandi e succosi limoni d’Amalfi! E la nota perfetta trovata in Calabria, la liquirizia, l’oro di Tropea!

Con una introduzione di Federico S. Bellanca (specialista in Marketing settore beverage, conduttore su Wine Tv in “Chiacchiere da bar” e organizzatore della Florence Cocktail Week), la collaborazione di Giacomo Iacobellis (giornalista enogastronomico e sportivo, autore de “Il Decocktailone), e le illustrazioni di Alfredo Del Bene in arte “TheAnimismus”, “Gingegneria applicata” vi lascerà con l’acquolina in bocca e tanta, tanta, tanta voglia di bere!