Vivian Maier: l’incanto di una scoperta

Vivian Maier è nota soltanto da una decina di anni ed è attualmente una delle figure più affascinanti nell’ambito della fotografia, tanto da ispirare libri e documentari sulla sua vita. Oggigiorno, il fascino di quest’artista risiede sicuramente non soltanto nella sua opera, ma soprattutto nella sua vita non priva di difficoltà e nel ritrovamento quasi casuale della sua fotografia. Per tutto il corso della sua vita, accompagnò la passione per la fotografia derivata da un’amica della madre, all’attività da bambinaia per pagarsi da vivere.


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Ciò che affascina maggiormente della sua storia è la decisione di non rendere pubbliche le sue fotografie: molti dei suoi negativi restavano non sviluppati in vita. Sembra quasi che a lei bastasse il semplice atto del fotografare, senza la necessità di condividere il risultato dei suoi scatti. Allo stesso tempo, è evidente che non fosse interessata alle finalità commerciali dell’epoca.


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La scoperta della sua opera ha dell’assurdo: i suoi negativi sono stati scoperti nel 2007 dall’americano John Maloof. In occasione di una ricerca sulla città di Chicago, il ragazzo acquistò uno scatolone contenente gli oggetti più disparati, messo all’asta per 380 dollari e sottratto alla proprietaria in seguito alle sue gravi problematiche finanziarie. Tra i vari oggetti, ritrovò anche una cassa contenente dei negativi e dei rullini ancora non sviluppati.


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Le immagini di Vivian Maier sono il dipinto dell’America dei primi decenni del ‘900, il racconto di un popolo tramite sguardi, espressioni, luoghi e gestualità. Ciò che maggiormente colpisce osservando le sue fotografie è la spontaneità con cui cattura un’immagine o il suo ritratto allo specchio. E’ una fotografia non troppo ricercata, quasi casuale: è proprio questa spontaneità dell’atto fotografico ad impreziosire di fascino e mistero i soggetti ritratti. Negli occhi dei suoi autoritratti, è possibile scorgere una personalità ricca di luci ed ombre proprio come la sua fotografia.


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Nel 2009, Vivian Maier morì in seguito ad una caduta sul ghiaccio e al suo ricovero in ospedale. John Maloof, che pur voleva incontrare la donna del box che aveva acquistato per valorizzarne l’opera, non ebbe mai modo di conoscerla. Senza le sue ricerche, Vivian sarebbe rimasta impressa soltanto nella memoria dei bambini americani degli anni ’50 e ’60 che la conobbero nelle vesti da bambinaia.


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1954, New York, NY

Todd Hido: il fascino di strade, case e donne

Todd Hido è attualmente uno dei fotografi più noti ed apprezzati nel panorama artistico internazionale. Noto prevalentemente per fotografare case avvolte in contesti periferici foschi e oscuri, stupisce per lo stile personale che lo rende ben riconoscibile.


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Le sue immagini sono contraddistinte da atmosfere buie, dalla presenza di strade e case e dall’assenza della componente umana. Contrariamente a ciò che si può immaginare, è un tipo di fotografia che non ha nulla a che vedere con l’architettura; dalle finestre delle dimore nei quartieri americani spuntano spesso luci che segnalano un’implicita presenza umana.


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Il suo stile fotografico è pittorico e cinematografico tanto nei paesaggi notturni che nei suoi ritratti e nudi. In tutte le sue composizioni, è evidente una particolare attenzione verso l’atmosfera catturata: misteriosa e intima allo stesso tempo. Le donne ritratte, seppur nude, emanano sempre un grande fascino ed un’insolita eleganza di cui sembrano quasi esserne inconsapevoli; spesso, appaiono ritratte di sfuggita, di spalle o sdraiate in posizioni sensuali.


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Nei ritratti, Todd Hido pone tutta l’attenzione sullo sguardo e l’espressione del viso delle sue donne. Nella stanza, la luce circostante sembra abbracciarle dolcemente o in maniera più decisa, avvalorando la loro naturale bellezza.


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La fotografia di Todd Hido appare guidata dall’istinto e dalla solitudine: casualmente s’imbatte in una strada poca illuminata o si ritrova di fronte a situazioni ricche di fascino e mistero. E’ una fotografia descrittiva e narrativa contemporaneamente: un dettaglio come uno sguardo, un’insegna luminosa o un’auto parcheggiata è sufficiente per incuriosire l’osservatore e per indurlo a fantasticare. Le sue immagini sono il segno di un’indagine che va ben oltre le apparenze e che ricerca in maniera sottile e inusuale la storia di luoghi e persone


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http://www.toddhido.com/

Guy Bourdin: moda, provocazione e crudeltà

Guy Bourdin è stato sicuramente uno dei fotografi di moda e pubblicità più influenti del ventesimo secolo. Seppur meno noto rispetto al collega Helmut Newton, il suo stile ha profondamente cambiato il linguaggio pubblicitario della moda, tanto da influenzare molti dei fotografi successivi.


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Nacque a Parigi il 2 dicembre 1928 al 7 di Rue Popincourt. Abbandonato dalla madre all’età di un anno, fu Madame Maurice Désiré Bourdin che se ne prese cura e lo allevò affettuosamente. Sviluppò una particolare passione per la fotografia durante il servizio militare, a Dakar. Quando ritornò a Parigi, conobbe il grande Man Ray che incise indubbiamente sul suo stile conferendogli un tono inusuale. Nel 1961 sposò Solange Marie Louise Gèze, che morì suicida nel 1971. Dal 1955 al 1987 le sue immagini furono pubblicate su Vogue Paris; fu proprio un editore della rivista a presentare Guy Bourdin allo stilista Charles Jourdan, per il quale realizzò le campagne pubblicitarie delle sue calzature dal 1967 al 1981.


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Il fotografo parigino, che rifiutò nel 1985 il Grand Prix National de la Photographie, desiderava che le sue opere venissero distrutte dopo la morte. Durante il corso della sua vita, invece, rifiutò spesso di organizzare mostre o pubblicare libri. Si mantenne sempre ben lontano dalle lusinghe dei suoi tempi e sembra che fosse molto frustrato per la notorietà che aveva acquisito nel settore fotografico. Non fu soltanto un fotografo, ma anche un bravo artista: si dedicò alla pittura fino alla fine.


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Guy Bourdin ha sviluppato nel corso degli anni uno stile provocatorio, caratterizzato da immagini dai toni forti e da accostamenti surreali, in grado di spiazzare ed inquietare profondamente l’osservatore. I corpi femminili appaiono spesso sdraiati disordinatamente o frammentati; gambe che passeggiano, mani che si ripetono, corpi alienati ed elementi allusivi conferiscono una generale freddezza emotiva all’intera immagine che sfocia quasi nella crudeltà. Tale visione femminile deriva quasi probabilmente dal trauma infantile legato all’abbandono da parte dalla madre: sia con le donne a intorno a lui che con le modelle dei suoi shooting, si atteggiava con modi di fare spietati. Le modelle che egli seleziona, inoltre, sono quasi sempre dalla chioma rossa, dalla pelle chiarissima e truccate in maniera esagerata come la madre.


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La personalità enigmatica e ambigua di Guy Bourdin si riflette perfettamente nell’atmosfera onirica delle sue immagini, a tratti disturbante. E’ stato il primo fotografo a frammentare fino all’estremità il corpo della donna e a costruire un linguaggio ricco di metafore sensuali . L’artista francese è stato in grado di assorbire l’influenza di Man Ray e dei surrealisti Magritte e Balthus, creando uno stile complesso, provocatorio, stupefacente e difficile da decifrare nel settore pubblicitario della moda.


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Andrea Tomas Prato: Ghirri ha svelato quello che c’era e nessuno vedeva

Andrea Tomas Prato vive a Tortona, in provincia di Alessandria. La scoperta della fotografia avviene, per lui, in maniera del tutto casuale. Da quel momento, sarà la sua passione più grande, trasformandosi in un vero e proprio “gioco artigianale“.

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Come nasce la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?

La passione per la fotografia nasce per caso, per aver accompagnato un collega ad un corso base di fotografia nel 2011. L’aneddoto, invece, è che fotografavo da anni per lavoro le scene del crimine con uno schema, una metodologia,  che avrei usato lo stesso strumento con tanta passione e senza metodo, in maniera opposta.

Cosa c’è di autobiografico nella sua fotografia?

Il fatto stesso che la realizzo io.

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I dettagli del corpo femminile sono i veri protagonisti di molte sue immagini. Cosa intende comunicare tramite essi?

Non credo che dietro una immagine ci debba essere per forza un messaggio. Al contrario, credo di non voler comunicare proprio nulla. E’ solo una ricerca di ciò che io considero bello esteticamente; in questo caso, ricerco ciò che più bello ci sia negli aspetti armonici del corpo femminile. Vorrei solo precisare che i veri protagonisti delle mie immagini sono le persone che fotografo nella loro unicità, e quindi nei loro ritratti.

Come si pone verso la modella, mentre fotografa?

In modo riconoscente, educato ma informale. Ci tengo molto al fatto che la persona ritratta capisca che di fronte ha qualcuno che può risultare molto meno interessante delle proprie fotografie, ammesso che lo siano.

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La presenza umana sembra essere molto significativa nelle sue immagini. E’ anche un modo per sottolineare l’unicità del momento?

Certo, ma il momento è unico anche quando fotografo in assenza di soggetto; d’altronde, ogni secondo della nostra vita è unico.

Che posizione occupa l’istinto nella sua fotografia?

Un’importanza fondamentale, unitamente alla necessità di mettersi dietro l’obiettivo.

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E la tecnica?

Direi, l’ultima posizione. Alcune foto, tra quelle che più amo, le ho scattate con macchine usa e getta che anche mio nipote di 5 anni sa usare. Il senso dell’inquadratura ce l’abbiamo tutti fin da bambini. Lo schermo televisivo, quello di un cinema o di un quadro ci ha inconsciamente educato. Il gusto, invece, è personale e per questo vengono fuori foto differenziate, che qualcuno si arroga il diritto di giudicare; ma è evidente che non esistono dati oggettivi in fotografia.

Cosa le piace cogliere nei paesaggi che fotografa?

Mi piace muovermi nei nostri amati colli, quelli Tortonesi, e omaggiarli catturandoli in un’immagine.

Hai affermato di apprezzare Luigi Ghirri. Quali sono gli aspetti delle sue immagini che apprezzi maggiormente?

Ghirri ha svelato quello che c’era e che nessuno vedeva, facendolo con tanta eleganza ed in silenzio. Ora tutti quanti vedono di più attraverso i suoi occhi. Ha educato davvero tutti, da quel momento in poi.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perchè?

Gioco artigianale”, perché la fotografia che preferisco è quella che mi permette di acquistare bobine di pellicole, fare rullini, scattare, sviluppare e stampare in una piccola camera oscura; tutto questo fatto per gioco.

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La fotografia di Andrea Tomas Prato è la dimostrazione di come non sia necessario essere professionisti per creare una “buona fotografia”. Nelle sue immagini, il buongusto si unisce alla semplicità, dando vita ad un momento unico e irripetibile . Il risultato finale di ogni sua ricerca è una fotografia d’impatto, intima ed armoniosa.

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Marco Michieletto: siamo quello che fotografiamo

Nel corso della sua vita, Marco Michieletto ha fatto della fotografia la sua più grande passione. Egli non si limita soltanto a ritrarre incantevoli donne, ma mira ad imprimere in immagini molto di più: gesti, sguardi, fascino e personalità.


Cos’è per lei la fotografia?


Per me, la fotografia è come se fosse un figlio: gioia, dolori, molti pensieri e una spinta motivazionale continua. Non riesco a restare un solo giorno senza studiare una foto, sfogliare un libro o discuterne con gli amici. E’ una buona abitudine che quotidianamente mi crea interesse e arricchisce lo spirito.


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Come si pone verso l’errore?


L’errore fa parte delle mie foto; nonostante io sia un perfezionista nel lavoro, nella fotografia amo la spontaneità. Dunque, se apprezzo l’espressione, il momento, la luce, non mi soffermo troppo a guardare la mano tagliata o la piega del pantalone messa male. Personalmente, ritengo che i dettagli che contano nella buona fotografia siano differenti da quelli che comunemente si è portati a criticare.


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Quanto conta per lei la tecnica?


Personalmente, la tecnica non conta nulla. Non ho mai usato un flash in vita mia, così come non uso pannelli e post-produco il minimo indispensabile; se posso, lo faccio fare ad altri. Per me la fotografia è altro: prendere una modella, farle dimenticare che ho una macchina fotografica in mano ed entrare in stretto contatto con la sua personalità. Per me, la fotografia è tutto quello che riesce a trasmettermi con il viso o con il corpo, nel modo più naturale possibile; si può trattare di un gesto, una movenza o un pensiero. E’ in base a questo ragionamento che arrivo ad affermare che la tecnica, per me, non conta. Avrei risposto diversamente se non mi avesse chiesto “per lei”.


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Cosa c’è di autobiografico nelle sue immagini?


Tutto quanto. Sono un forte sostenitore della frase “siamo quello che fotografiamo“. Guardando una foto, spesso mi diverto a capire la personalità e l’educazione del fotografo che l’ha prodotta. Ho ben chiara la mia, ma mi fermo qui.


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Le donne che lei fotografa sono estremamente sensuali, pur rimanendo eleganti. Qual è l’aspetto che vuole catturare maggiormente in una donna?


La semplicità. Oggi le donne sono come un prestigiatore: vivono su Instragram e tentano di incantarti con tutti i filtri a disposizione. Io voglio prendere il loro cappello e guardare cosa c’è nel doppio fondo.


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Ha sempre affermato di aver voluto separare la fotografia dal suo lavoro. E’ contento di questa scelta?


Assolutamente sì. Conosco molte persone che hanno mollato il loro lavoro per diventare fotografi. Hanno gli stessi problemi e gli stessi problemi che ho io nel mio, con la differenza che non fotografano più per divertirsi. Io fotografo per puro piacere, quando, con chi e come voglio; il fatto di non dover render conto a nessuno di ciò che si fotografa è una libertà impagabile.


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Le sue modelle ricordano molto le dive di un tempo. C’è qualcuna di loro a cui s’ispira?


Jane Birkin.


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Se dovesse associare una sola parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe? Perchè?


Sarò banale e ripetitivo ma direi “semplicità”, poiché sono io attraverso i miei click.


C’è un fotografo che ammira particolarmente?


Indubbiamente, Jerry Schatzberg.


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Le è mai successo d’ispirarsi a un libro o ad un film mentre fotografa?


Credo che inconsciamente io lo faccia ogni volta. Sfoglio molti libri e divoro film come patatine; credo sia impossibile non essere influenzati da queste abitudini.


Osservando la fotografia di Marco Michieletto, è impossibile non notare la singolare eleganza delle sue donne che appaiono estremamente sensuali, grintose e semplici al tempo stesso. Le sue immagini si contraddistinguono, pertanto, per un linguaggio proprio, deciso e raffinato. Servendosi di esso, l’autore rappresenta il corpo femminile in maniera spontanea, senza troppi artefici e nel totale rispetto della personalità delle modelle.

Piero Gemelli: la fotografia di moda racconta un mondo e modi in “apparizione”

Attualmente, Piero Gemelli è considerato uno dei fotografi italiani più importanti a livello internazionale. È noto come fotografo di moda grazie alle innumerevoli campagne e immagini pubblicitarie che ha curato per marchi prestigiosi come Coveri, Shiseido, Revlon, Gucci e Ferrè. L’esperienza a Parigi, New York a Londra è stata particolarmente incisiva per la definizione e il maturare di un linguaggio proprio.


Le sue fotografie trasmettono un senso di solennità ed equilibrio. Qual è o quali sono gli aspetti a cui presta più attenzione mentre fotografa?


Solennità ed equilibrio sono due “sentimenti” che vorrei davvero mi appartenessero. Li sento miei anche se li inseguo e cerco in ogni mia visione e in ogni soggetto che si offre o che scelgo davanti ai miei occhi, ai miei desideri.
La mia formazione è nell’Architettura anche se, appena agli inizi della professione, è stata messa in disparte per la Fotografia; quest’ultima si è offerta come strumento più agile, di grande soddisfazione, di scoperta e racconto di sé.
Io credo che l’attenzione che dai al lavoro che fai debba essere naturale, istintiva e non troppo controllata. L’unico controllo che è giusto e doveroso operare è quello relativo all’esecuzione tecnica di ciò che si produce. Se l’idea ha un valore è anche grazie alla tecnica, corretta e controllata, con cui è prodotto.


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Quando e come nasce la sua passione per la fotografia? Ce ne può parlare?


Ho iniziato a fotografare da ragazzino per ricordare viaggi, momenti di festa, genitori, per poi passare al liceo, a fotografare compagni di scuola e le prime fidanzatine. In quei ritratti ho introdotto l’emozione e il coinvolgimento emotivo. Oggigiorno, anche nel lavoro più strettamente professionale, cerco di mantenere sempre quello stesso coinvolgimento affinché l’atto fotografico possa essere occasione di conoscersi e raccontarsi.


Quali sono i fotografi che attualmente reputa fonte d’ispirazione?


L’ispirazione credo che nasca da una sintesi di tutto quanto è visto e vissuto, e fare nomi di possibili artisti come fonte di ispirazione non credo sia esaustivo; alla fine, tutto e tutti possono ispirare così come nessuno può risultare fonte d’ispirazione. Ogni lavoro, ogni fotografia, così come ogni prodotto artistico anche di non fotografi, lavorano nel tuo inconscio, ma è solo la tua personale coniugazione che dà a loro un valore nuovo; allo stesso modo, il mio stesso lavoro è stato sin dagli inizi occasione di emozioni e suggestioni per molti che, in un meraviglioso gioco di ping-pong, poi diventano essi stessi fonte d’ispirazione per me ed altri.


Che posizione occupa la creatività nei suoi lavori?


Senza di essa, nessun lavoro potrebbe essere definito creativo.


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MONICA BELLUCCI vs MONICABELLUCCI



Che posizione occupano, invece, i dettagli nelle sue immagini?


L’opera, ossia il prodotto del proprio lavoro di creativo e di artista, contiene nient’altro che i dettagli che tra molti possibili sono stati selezionati ed enfatizzati per comporre il proprio personale racconto.


Come crede che sia possibile conciliare la libertà e la creatività con le richieste dei clienti?


Il valore del professionista dipende proprio dalla capacità di farlo; egli sa fare propria una commessa di lavoro e la sviluppa caratterizzandola con il proprio stile e la propria linguistica; diversamente, sarebbe solo un abile tecnico e un semplice, pur bravo, esecutore di creatività altrui. Infatti, non avrebbe alcun senso scegliere e pagare un professionista.


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ELISA SEDNAOUI



Il suo modo di concepire la fotografia è rimasto inalterato negli anni o ha subìto cambiamenti?


La fotografia, come ogni altra cosa della vita, è concepita in modo sempre dinamico perché la conoscenza, l’esperienza, le gioie, i dolori della vita fanno vedere e valutare ogni cosa in modo sempre diverso ed interessante. Tutto ciò è bello e difficile: coniugare chiarezza e coerenza di pensiero con nuove e diverse opinioni in un modo evolutivo e non condizionante.


Quanto hanno influito le sue esperienze all’estero nell’elaborazione di un linguaggio fotografico personale?


Voglio essere sincero: la mia fotografia, il mio linguaggio personale, la qualità del mio lavoro mi hanno offerto l’occasione di essere apprezzato all’estero, e quindi è forse più giusto dire quanto il mio lavoro e la credibilità professionale abbiano influito nel modo di vivere l'”estero”. Sicuramente molto.


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Dove si dirige l’attuale fotografia di moda?


La fotografia di moda, come tutta la fotografia non pedissequamente descrittiva, racconta un mondo e modi in “apparizione“. sa leggere i segnali del cambiamento, li cavalca e li comunica fino a diventare racconto di una realtà prossima, di nuovo gusto ed orientamento culturale. Così fa oggi e così farà sempre. L’unica vera evidente novità è che il digitale, gli smartphone, tablet vari hanno dato accesso alla fotografia a tutti, permettendole di divenire un nuovo linguaggio globale e senza eccessivi filtri; tutto ciò da una parte, comporta una valanga di immagini sovrapposte e spesso confuse e non sempre di alta qualità; dall’altra, ha dato però la possibilità di far emergere talenti, quando validi, e di offrire loro un modo migliore di farsi strada e conoscere. Personalmente, seguo i social come Facebook e Instagram poiché sono convinto della loro forza di aggregazione e informazione.


Quali sono i prossimi appuntamenti di questo 2017 che la vedranno protagonista?


Gli appuntamenti migliori sono spesso quelli al buio, dove la sorpresa si arricchisce dell’attesa. Il 23 ottobre, all’interno del programma “Archivi aperti“, ci sarà un evento organizzato da Rete Fotografia (http://www.retefotografia.it/) in occasione della settimana della fotografia a Milano, dal 23 al 29 ottobre.
Gli ultimi mesi di quest’anno saranno invece dedicati all’organizzazione e preparazione di eventi, mostre, interventi e talk che sono in calendario per il 2018. Per aggiornamenti su questi appuntamenti e non perdere le novità si può fare riferimento ai miei account sui social e ai comunicati stampa in rete.


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MARIAGRAZIA CUCINOTTA 1995



La fotografia di Piero Gemelli si contraddistingue per una straordinaria eleganza: in ogni sua immagine è, infatti, evidente la ricerca di equilibrio e geometria dettata dai suoi studi in Architettura. I suoi ritratti sono solenni e intimi al tempo stesso. Egli è creativo ma rispetta la tecnica, e ciò gli dà vanto affermando la sua impronta personale nel mondo della fotografia di moda internazionale.


http://www.pierogemelli.com/
https://www.facebook.com/Piero-Gemelli-1287913677984528/
https://www.instagram.com/pierogemelli/

Monica Cordiviola: la fotografia è una cosa seria



La fotografia di Monica Cordiviola è una fotografia tutta al femminile. Le donne che ritrae sembrano tutte quante atipiche: dotate di straordinaria personalità e charme.


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I soggetti delle sue immagini sono prevalentemente donne. Qual è l’aspetto su cui si sofferma?


Molto probabilmente amo ritrarre donne perché mi rivedo o tento di farlo in ognuna di esse. Mi soffermo soprattutto sui loro punti di forza e sulle loro debolezze per trarne al meglio l’immagine che maggiormente le rappresenta. Adoro soprattutto i dettagli dei loro corpi.


Le donne fotografate da lei sembrano tutte quante dotate di forte personalità e contemporaneamente molto emotive. Quanto c’è di autobiografico?


Credo che ognuno di noi nasconda in sé forza e debolezza; la mia fotografia ancora oggi è completamente autobiografica. Infatti, rivedo sempre qualcosa di me stessa mentre fotografo.


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Micol Rochi



Le donne nelle sue immagini sono piene di sensualità e carica erotica. Come pone in relazione fotografia ed erotismo?


L’erotismo in fotografia è molto soggettivo: in un’epoca in cui il nudo è all’ordine del giorno, trovo molto più erotiche le donne che si coprono e nascondono il proprio corpo. Io sono in controtendenza, da sempre. Ho studiato molto sul tema del corpo femminile nel corso degli anni, a livello antropologico e di cultura; oggi ritengo che sia una delle forme più dirette nella comunicazione e la fotografia, il suo mezzo.


Come si pone quando ritrae i suoi soggettI?


Quando ritraggo i miei soggetti cerco di mettere, per quanto possibile, a proprio agio le persone; non sempre ci riesco. Nel lavoro, come nella vita, non sempre abbiamo le famose affinità elettive e quando non vi sono, il risultato finale parla per noi.


Come è nata la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?


La fotografia è entrata nella mia vita circa quindici anni fa e in maniera molto particolare. In realtà, da spettatrice, sono sempre stata circondata dal mondo della fotografia. Da bambina mi dilettavo con le Polaroid ovunque mi trovassi, poi per molto tempo ritagliavo immagini dai magazine degli anni 80 come Harper’s Bazaar e Vogue e le raccoglievo meticolosamente in quaderni che ancora conservo. A trent’anni avevo talmente tante riviste che sfruttavo i loro fogli per ricavarci comodini e mobili in casa. Poi, intorno ai trentacinque anni, comprai la mia prima reflex semi-professionale e da lì è iniziato il mio vero e proprio percorso fotografico.



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Martina Colombari


Dove si dirige la sua fotografia?


La mia fotografia si dirige verso la ricerca dell’essenza del ritratto, sempre contestualizzato ma molto più intimo. Inoltre, sto pensando di iniziare a ritrarre anche gli uomini con la stessa identica intensità.


Se dovesse utilizzare una parola, quale riterrebbe più appropriata per definire la sua fotografia?


Una parola sola? Carnale.


Molte sue immagini sono in bianco e nero. Come giustifica questa scelta?


La scelta di produrre prevalentemente in bianco e nero deriva dal fatto che adoro la vecchia pellicola. Nonostante oggigiorno è sempre più difficile utilizzare l’analogico, ma amo editare le mie immagini con quel sapore. A livello emotivo, mi trasmettono molto di più le immagini in bianco e nero.


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Dove si sta dirigendo la fotografia attuale?


La fotografia attuale non la guardo troppo. A parte alcune eccezioni ovviamente, per me oggi la fotografia è violentata e dissacrata. Molto probabilmente ciò accade perché sta andando di pari passo con la nostra società. Non vorrei sembrare “catastrofista” o colei che è legata alla vecchia scuola, tutt’altro, ma purtroppo vedo un ambiente inflazionato e deprezzato dal suo vero valore. Abusata. Io dico spesso che la fotografia è una cosa seria.


Ci sono dei fotografi da cui si è sentita particolarmente ispirata durante il suo percorso fotografico?


Certamente. Per anni, mi sono nutrita di immagini di Helmut Newton, Dorothea Lange e Steven Meisel.


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Il corpo è il vero protagonista delle immagini di Monica Cordiviola. Esso è inevitabilmente il punto di partenza per comunicare e la fotografia è il mezzo di cui si serve per farlo. Ne deriva una visione della donna che si distanzia da quella proposta attualmente dalla società; sensualità, carattere e grande personalità risultano i caratteri peculiari delle sue donne.


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Flavio & Frank: “continuiamo a respirare musica e fotografia insieme”

Flavio & Frank rappresentano il connubio perfetto tra arte, musica e fotografia. Le loro immagini sono costruite attentamente a partire dall’equilibrio cromatico.

“Livography” è il nome dell’evento che avete presentato a Lecce, Milano e infine a Bari. DI cosa si tratta?

Liveography è il format che abbiamo immaginato pensando all’idea di un live della fotografia proprio come succede nella musica. Il nostro lavoro ci porta a passare intere giornate in studio, tant’è vero che lo consideriamo come fosse il nostro ambiente domestico; da qui l’idea di aprire le porte di casa ai nostri amici e conoscenti. Tra di loro ne individuiamo alcuni, ai quali scattiamo un ritratto che nell’arco della serata-evento viene stampato incorniciato ed appeso. I nostri ospiti prendono parte attiva ad una mostra che li vede allo stesso tempo attori e spettatori; l’ambiente è informale, fatto di divani, birre, vinili e mestiere. La prima data che ha avuto luogo a Lecce nel nostro quartier generale, ha generato un forte interesse. Ciò ci ha dato la possibilità’ di riproporre il nostro Livography a Bari e Milano. Nuove tappe sono in programma.

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La vostra ricerca fotografica, così come i vostri lavori, riguardano soprattutto il ritratto. Come vi ponete nei confronti del soggetto da ritrarre?

Instauriamo da subito un rapporto sul set con il soggetto, cercando di raggiungere l’intesa attraverso il dialogo che ci porta ad avere quelle informazioni fondamentali che ne definiscono i tratti essenziali della sua personalità. Crediamo profondamente che il mestiere del ritrattista non possa prescindere dal raggiungere prima di tutto la giusta complicità’ con il soggetto da fotografare, e quando questo accade, fa la differenza e ne andiamo fieri.

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Come nasce il vostro interesse per la fotografia? Raccontateci un aneddoto.

Non c’è stato un vero e proprio momento in cui è nato l’interesse verso questo mestiere, tutto si è evoluto in maniera naturale, siamo fratelli e figli di un fotografo, per noi era “normale” respirare fotografia sin da piccoli. Forse l’interesse vero e proprio è sorto quando terminati gli studi abbiamo affinato i nostri gusti estetici, trovato i nostri punti in comune e resi conto di avere chiare le idee sul nostro futuro lavorativo di coppia.

Come conciliate il lavoro in due?

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Con la stessa naturalezza con la quale 10 anni fa abbiamo iniziato a lavorare insieme. Sul set non facciamo differenza di chi sta dietro l’obbiettivo e il lavoro finale è sempre il frutto di una simbiosi perfetta. Siamo diversi ma complementari. Le nostre visioni ed approcci diversi, le differenze caratteriali convergono in una direzione comune, arricchiscono e danno al nostro risultato un valore aggiunto.

Musica e fotografia. In che modo questi due mondi si incontrano e trovano un punto di convergenza nella vostra fotografia?

La musica ha sempre accompagnato le nostre scelte e contaminato il nostro lavoro. Continuiamo a respirare musica e fotografia insieme. Molti dei nostri amici erano e sono tuttora musicisti e abbiamo mosso i nostri primi passi da ritrattisti fotografandoli. Ad oggi, quel percorso si è evoluto a tal punto da averci permesso di fotografare quasi tutti i musicisti del panorama italiano che continuano ad affidarsi al nostro occhio.



Social e fotografia. In che cosa la fotografia è stata influenzata dall’avvento dei social?

Sicuramente i social hanno contribuito ad un processo positivo che ha portato ad una sorta di democratizzazione fotografica. Noi stessi li adoperiamo quotidianamente nella fase di ricerca e “promozione”. Tuttavia, è innegabile che abbiano anche contribuito ad una sovrapproduzione di materiale visivo, con la conseguente perdita di valore intrinseco che la fotografia porta con sè sin dalla sua nascita.

Ci sono dei fotografi a cui vi ispirate o che hanno segnato il vostro cammino fotografico?

Rankin, senza dubbio ha lasciato un segno nel nostro quotidiano sin da quando abbiamo avuto l’opportunità di fare palestra sui suoi set. Eugenio Recuenco per gli stessi motivi. Guardiamo anche a chi ha fatto la storia: da David Bailey a Irving Penn, dalla Leibovitz ad Avedon, a Diane Arbus.

Bianco e nero. Che spazio occupa nelle vostre scelte fotografiche?

Abbiamo da sempre cercato di ottenere il giusto equilibrio cromatico, quindi il colore è alla base della nostra produzione fotografica. Negli ultimi tempi il bianco nero sta iniziando ad avere un ruolo significativo e tendiamo ad utilizzarlo sempre di più nel ritratto: lo stesso approccio che riserviamo al colore lo riproponiamo nelle sfumature di grigio del bianconero. Per quanto concerne il bilanciamento di luce e ombra, sia nel colore che nel bianconero adottiamo lo stesso modus operandi.

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Se doveste utilizzare una sola parola o immagine per definire la vostra fotografia, quale preferireste?

Poprock.

Ultima domanda. In che direzione intendete proseguire?

Ci definiamo attenti osservatori della realtà che innegabilmente ci influenza quotidianamente. Ne seguiamo attivamente il flusso cavalcandone l’onda cercando di mantenere integra per quanto possibile la nostra identità. Siamo anche noi curiosi di scoprire dove quest’onda ci porterà.

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La fotografia di Flavio & Frank è capace di tradurre attentamente in immagini la musica dei soggetti fotografati, dimostrando una peculiare attenzione verso il mood degli artisti ritratti. Attraverso la loro sensibilità fotografica e l’intesa che giorno dopo giorno hanno raggiunto, sono stati in grado di elaborare un linguaggio del tutto proprio. Non resta, quindi, che augurarli una carriera ricca di nuove sfide ed altri stimolanti traguardi.

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La fotografia di Riccardo La Valle: “una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale”

Il fotografo Riccardo La Valle nasce a Latina ma attualmente risiede a Milano. E’ conosciuto per i suoi editoriali e per le pubblicità che ha avuto modo di curare nell’ambito della moda. La sua è una fotografia fatta non soltanto di immagini, ma anche e soprattutto di parole. Ed è proprio la parola “eterea” che egli adora utilizzare per riferirsi alle proprie immagini. La pelle chiara, l’utilizzo di elementi simbolici, l’intimità e l’interiorizzazione della modella sono elementi caratteristici della sua fotografia.

Luoghi e soggetti fotografati. Nell’immagine, i corpi che lei ritrae sembrano quasi voler essere un tutt’uno con l’ambiente circostante. Ce ne può parlare?

Nel cercare l’interpretazione di un soggetto e ancora più a fondo, nel tentativo di raccontare una storia, bisogna inevitabilmente affrontare il contesto in cui si sceglierà di rappresentare la propria idea. Nel mio caso, ho deciso di far sì che l’ambiente diventi un tutt’uno con il soggetto al fine di trasportate l’interiorizzazione della modella a tutto ciò che la circonda, come se ogni cosa fosse presente e disposta per un preciso motivo. Potrei definirla una sorta di scelta pittorica. La più grande opportunità di questo percorso di rappresentazione è quella di poter connotare il soggetto con elementi simbolici, così da poter, in una certa misura, far dialogare la modella con chi osserva la foto.



Introspezione, scrittura e fotografia. Come s’incontrano nelle sue immagini?

In un contesto ormai così ampio e fuori controllo come la fotografia, l’unico modo per ripristinare un controllo sull’immagine e un contenuto nella rappresentazione è quello di far sì che le fotografie divengano rappresentazione di un concetto: un’idea che non sia una semplice visione di una scena, ma che in qualche modo sia la manifestazione tangibile di un sentire più profondo e vero. In questa maniera l’osservatore può venire trascinato in una nuova realtà. Le parole sono la base dell’immagine poiché è attraverso l’organizzazione dei pensieri che possiamo trovare nuove visioni. L’ispirazione che più mi travolge è proprio quella generata dalla scoperta di accostamenti di parole. Sono come un fiume ricolmo di immagini possibili, una musa, da cui devo solo attingere. Nelle mie immagini, trovano forma parole che ho avuto modo di scrivere in attimi che precedono la fase di scatto: anche solo per questo motivo, potrei direi che all’origine di una mia immagine vi è la parola che l’ha ispirata.

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Lei si approccia alla fotografia all’età di 21 anni. Si ritiene soddisfatto dei risultati che ha ottenuto finora?

La verità è che non potrei non esserlo, eppure sto cercando di cambiare tutto per poter nuovamente sentirmi soddisfatto come la prima volta che lo sono stato. Ciò che mi sono prefissato da quando ho scelto di trasformare la fotografia in lavoro, si è concretizzato nonostante gli imprevisti incontrati. Tutto ciò mi ha dato la convinzione che sia ancora possibile poter decidere della propria vita ed essere soddisfatti nel proprio operato. Il problema, sono i costanti nuovi stimoli che ti portano a guardare sempre più in là, e che di conseguenza ti costringono a stare in stretto contatto con l’insoddisfazione per il presente.

Ci sono dei fotografi ai quali crede di essersi ispirato?

Assolutamente, Tim Walker e Paolo Roversi, attraverso le loro opere ho potuto educare la mia immaginazione e così la mia capacità rappresentativa.

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Se dovesse rappresentare la sua attuale fotografia tramite un’immagine, quale userebbe?

Molto probabilmente sceglierei ciò che è più facile riconoscere come proprio dai miei occhi, e opterei per una delle foto in cui studio la rappresentazione del corpo: è in quelle figure piegate ed eteree, così pallide da sembrare eterne, che vado trovando profonda quiete nella loro irremovibile compostezza. Ciò che le rende così intime ai miei occhi è la sensazione di sacro che le avvolge, possiedono un fascino religioso.

Se dovesse associare una parola invece, quale indicherebbe e perché?

Etereo, perchè è ciò che cerco di rappresentare: una sorta di effimera eternità, così lieve da apparire irreale. Questa parola va al di là delle mie immagini. E’ un concetto fondante della mia percezione delle cose, un postulato della mia persona che provo ad infondere in tutto ciò che faccio.

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Le riesce più facile rappresentare le immagini che ha in testa tramite la fotografia o tramite la scrttura?

Direi attraverso le parole per quanto detto prima, ma anche per via dei miei limiti fotografici.

C’è stato mai un sogno che l’ ha ispirata fotograficamente?

Assolutamente si, ma per essere più precisi direi che quel sogno più che ispirato, mi ha proprio svelato la storia di un progetto. L’idea di base già era stata scritta, ma durante il sogno, ho potuto vedere tutte le scene svolgersi una di seguito all’altra, esattamente come fosse un film. E’ stato fortemente illuminante.

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In quale direzione va attualmente la sua fotografia?

Sto cercando di varcare la soglia del settore della fotografia artistica. E’ un processo che richiede molti sacrifici e compromessi con il presente, ma sono certo che lì potrei trovare la mia reale dimensione, nella quale potermi muovere più liberamente e iniziare così a creare le opere che ho sempre voluto.

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Ha dei progetti in cantiere? Può accennarci qualcosa?

Molti, ma preferisco non andare nel dettaglio perchè sono progetti a cui tengo molto e non vorrei snaturarli parlandone prima che siano conclusi.

Riccardo La Valle, nonostante la sua giovane età, è riuscito a costruire un proprio linguaggio. Sempre in bilico tra sogno e realtà, le sue immagini risultano agli occhi degli osservatori lievi ed eleganti. Tuttavia, egli è perennemente alla ricerca di se stesso e di un linguaggio che lo rifletta nel migliore dei modi. Non resta dunque che augurargli buon lavoro.

www.riccardolavalle.com

Giorgio Galimberti: la fotografia deve essere prima di tutto poesia

Giorgio Galimberti nasce a Como il 20 marzo 1980. Essendo figlio d’arte e crescendo in un ambiente particolarmente sensibile verso ogni forma d’arte, inizia ad appassionarsi fin da bambino alla fotografia. Dopo un periodo di sospensione durato una decina di anni, comincia nuovamente a fotografare con la maturità adatta per ricercare un linguaggio del tutto personale. La sua è, innanzitutto, una “fotografia di ricerca”. La parola “ricerca” è tanto amata da Giorgio Galimberti, che rifugge volentieri da etichette e accademismi.


Quanto hanno inciso gli anni di inattività?


L’inattività mi è servita molto. Il linguaggio fotografico si crea soprattutto guardando immagini e leggendo non solo volumi di fotografia, ma anche letteratura e arte. A me è servito allontanarmi dalla fotografia per “essere contaminato”.


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Se dovesse scegliere tre fotografi che l’ hanno influenzata, quali indicherebbe e perché?


Per la poesia dell’immagine: Mario Giacomelli.
Per la composizione, l’inquadratura, per l’avanguardia: Aleksandr Rodčenko.
Per la luce e il linguaggio: Fan Ho e Josef Sudek.


Se dovessi scegliere un fotografo che sento più vicino a me, sicuramente nominerei Giacomelli. I motivi sono vari: perché è italiano, perché l’ho conosciuto, per com’era lui. Ho passato una giornata straordinaria con lui e mio padre nel ’92, quando mi regalò una foto… un personaggio molto introverso. Lo adoro non solo per la poesia, ma anche perché ha sempre indagato la sua terra: mi piacciono i suoi paesaggi crudi, con queste campagne marchigiane raccontate in maniera vera, inalterata, senza modificarne i contenuti.
Giacomelli è stato sicuramente un grandissimo fotografo.


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Bianco e nero e fotografia. Il bianco e nero ha un ruolo predominante nelle sue immagini. Che funzione assume?


Quando scatto, non penso se a colori o bianco e nero. Ultimamente, scatto già in bianco e nero. Il tono conta poco.


Qual è l’elemento a cui presta più attenzione mentre scatta una foto?


Io mi concentro sull’immagine. Il tono è un’estetica. Non è il tono che fa l’immagine. Una buona immagine dipende da una buona composizione, una buona inquadratura, un buon contenuto.


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Com’è il suo rapporto con l’errore?


Non bisogna cadere troppo nell’accademico. Io mi lascio andare molto alle sensazioni. La fotografia che preferisco è quella più di pancia, quella più istintiva, quella più carica di pathos. Delle foto accademiche, perfette, ne siamo stanchi. E’ bello avere un’immagine un po’imperfetta, che lasci allo spettatore qualcosa da interpretare. Se un’immagine è perfetta, hai già detto tutto. Io credo anche nel destino.


Com’è attualmente il suo rapporto con la creatività?.


Spero, buono. E’ comunque in continua evoluzione. Come disse Italo Calvino: “La fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane“.


Il suo punto di partenza è la Street Photography. Qual è il suo approccio coi passanti?


Nullo. Non chiedo mai se posso scattare una foto; magari ci interagisco dopo lo scatto. Bisogna essere un po’ furbi e discreti, inseguire il passante e appena trovo la scena che mi piace, fare clic. Un po’ bisogna cercarsele le immagini.


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Il 2017 è stato finora un anno pieno di appuntamenti. Ci può anticipare qualcosa relativo ai prossimi?


Ci sono parecchie cose in programma. Sono contento perché sto facendo dei workshop: all’inizio sinceramente non mi convincevano, adesso mi piacciono perché in questo modo non solo mi tengo in allenamento, ma ho anche la possibilità di trasmettere quel poco che so a chi ha appena iniziato a fotografare o non ha ancora trovato il proprio linguaggio. Ho un workshop a Milano, poi un workshop a Bologna, un weekend a Bologna, poi sarò ospite in Sardegna e a Trieste Photo Days, partecipero’ inoltre alla mostra curata da Filippo Rebuzzini.


Qual è la direzione della sua fotografia?


Sto scattando dei paesaggi alla Giacomelli. Cerco sempre di mantenere il mio linguaggio e di continuare la mia ricerca. Voglio sicuramente restare nella fotografia di ricerca: ricerca del mio stile, sperando poi piaccia anche al pubblico.


Fin dai primi anni di vita, matura una grande passione per la fotografia e uno spirito particolarmente creativo. Può raccontarci un aneddoto?


Ricordo quando, da bambino, mi piaceva manipolare le polaroid. Ricordo le serate con mio padre: sono tutti ricordi di famiglia, indelebili, che porto nel mio cuore. Magari non diventerò un grande autore, ma la fotografia sarà stata senz’altro un pezzo fondamentale della mia vita.


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La fotografia di Giorgio Galimberti è dunque una fotografia sincera, alla ricerca (prima di tutto) di poesia e pathos. E’ un tipo di fotografia che non bada troppo alla tecnica, che si serve spesso del bianco e nero e di contrasti forti per raccontare delle storie.

Addio a Pierre Bergé: ex socio e compagno storico di Yves Saint Laurent

Lutto nel mondo della moda: si è spento, all’età di 86 anni, il celebre imprenditore francese Pierre Bergé. Malato da anni di miopatia, si è spento nella sua residenza a Saint Rémy-de-Provence, in Francia. A darne la triste notizia è stata la stessa fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent.

Bergé, nel 1961, è stato cofondatore della rinomata Casa Yves Saint Laurent Couture. Dopo la sua chiusura, è divenuto presidente della Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent. Oggigiorno, l’imprenditore francese viene ricordato soprattutto per la sua lunga relazione sentimentale con il socio Yves Saint Laurent. Anche dopo la sua fine, avvenuta in maniera ufficiale nel 1976, Bergé rimarrà al fianco del compagno fino alla sua morte avvenuta nel 2008 per colpa di un tumore al cervello. La sua passione per il grande couturier è durata innumerevoli anni, nonostante i vizi risaputi di YSL. In merito al suo amore folle, diceva: «Yves aveva bisogno di fare le esperienze anche estreme che si facevano nella Swinging London. A me diceva sempre che ero noioso, troppo preciso. Mi amava molto, su questo non ho mai avuto dubbi, però io non bevevo, non mi drogavo, facevo una vita molto normale».

Pierre Bergé è stato nel corso della sua vita un uomo provocatorio, amante dell’arte e della cultura. Egli stesso si autodefiniva un “artista mancato”. In occasione di un’intervista, durante la quale gli è stato domandato cosa avrebbe fatto se avesse avuto 20 anni, ha affermato: “Non lo so. Forse farei il terrorista. Poi guardo a quello che succede oggi e capisco l’inconsistenza di questa affermazione. Però ne apprezzo la provocazione. Viviamo in un’era di politically correct, termine odioso che per me rappresenta la morte dell’intelligenza. Bisogna tornare a essere radicali e a seguire le proprie convinzioni senza paure, fino in fondo”.

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In vita, si è molto battuto per la difesa dei diritti degli omosessuali, lottando sempre al fianco del compagno. Sempre durante un’intervista, egli ha dichiarato: “L’omosessualità è quello che è, non è una deviazione o una malattia. Yves aveva un po’ paura a parlare di questo, era un giovane timido venuto dall’Algeria. Ma io l’ho aiutato ad andare avanti per la sua strada. Volevo che diventasse il centro del mondo“.