Intervista a Fabrizia Milia: Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia, e d’amore per la fotografia

Fabrizia Milia nasce in un’Isola della Sardegna nel marzo del 1984. Raggiunti i dodici anni inizia a scrivere i suoi pensieri su fogli di carta. Quando la tecnologia avanza Fabrizia ha 18 anni e sostituisce così la carta con i blog. Nel 2008 pubblica il suo primo libro “Pensieri fragili tra pareti di vetro” che è, appunto, una raccolta di tutti i suoi pensieri scritti negli anni. In quello stesso anno si avvicina alla fotografia per non abbandonarla.


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Quale significato personale attribuisce all’autoritratto?


Per me è stato, ed è, nient’altro che un mondo a parte. Un mondo che era, ed è, rifugio, dove il bello – estetico od emotivo – resta per sempre, intoccabile e pulito.


Come si sente mentre immortala la sua stessa immagine?


Ho sempre fotografato me stessa sentendomi altro, come una interpretazione di una femminilità che mi affascina, raramente me stessa o una donna soltanto, bensì una donna che potrebbe essere chiunque. Spesso di altri tempi.


Coglie delle differenze tra l’autoritratto e fotografare altri soggetti?


Per riuscire a provare soddisfazione nel fotografare gli altri dovrei conoscere queste persone almeno da trentacinque anni. Ma non si ha mai abbastanza tempo per conoscersi, mai abbastanza per poterle fotografare sentendo tutto di loro, le loro emozioni, la loro poesia.


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Quale sentimento preferisce cogliere nelle sua fotografia?


La malinconia. La trovo poetica.


Ci sono dei fotografi che ammira particolarmente? Quali?


Ci sono tante immagini che mi catturano. Tante fotografie che mi rubano gli occhi. Una marea. Un infinito cielo.


Amore e fotografia. In che relazione sono nella sua vita?


In comune hanno la costanza. Non vivo d’altro che d’amore e di fotografia e d’amore per la fotografia.


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Quale parola assocerebbe alle sue immagini?


Semplicità. Non c’è niente dietro alle mie fotografie, se non l’amore, appunto, per la luce che trasforma tutto in bello.


Come si reputa cambiata, fotograficamente parlando, dagli inizi?


Non direi in meglio, ci sono fotografie del mio passato che amo oggi più di ieri. Cambia solo la tecnica, alla fine, non credo di essermi allontanata troppo, né evoluta troppo. E’ come quando amo un film o una canzone, li riguardo e riascolto per ore, per giorni, per mesi, per anni senza stancarmi. E’ come quando ami qualcuno e lo ami per sempre.


Cosa preferirebbe non fotografare?


Non fotografo mai niente oltre ciò che amo fotografare. Non ne comprenderei il senso e non ne proverei piacere.


Come affronta i periodi di calo creativo?


Con la consapevolezza che capitano, con la consapevolezza che passano.


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Intervista a Gian Paolo Barbieri: la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana

Gian Paolo Barbieri nasce nel centro di Milano, da una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze inerenti la fotografia di moda. Muove subito i primi passi nell’ambito teatrale diventando attore, operatore e costumista; in seguito, gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti. Ed è proprio il cinema noir americano ad incuriosirlo sulla gestione della luce e il senso di movimento, che rende gli attori e i personaggi ancora più affascinanti e dotati d’immensa autorità. A Parigi, inoltre, assiste il celebre fotografo di Harper’s Bazaar, Tom Kublin. Le campagne commerciali di Barbieri contribuiscono a definire la moda degli anni ’80 e ’90 dei marchi più famosi: Yves Saint Laurent, Chanel, Givenchy e Vivienne Westwood, Gianni Versace, Valentino, Giorgio Armani, Gianfranco Ferré.

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I suoi ritratti si differenziano per una naturale e straordinaria eleganza. Cos’è, per lei, l’eleganza?

L’eleganza si può paragonare alla bellezza. L’eleganza è cultura. I greci dicevano: “Dove nasce la bellezza nasce la cultura”. L’iconografia della bellezza si fonde sulla visione radicale della libertà. La libertà come la bellezza, non si concede, si prende. Come diceva A. Camus, “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni”. Noi abbiamo esiliato la bellezza; i greci hanno preso le armi per essa.

Tra le donne che ha ritratto vi è anche la raffinata Audrey Hepburn. Cosa ricorda di lei?

Era il 1969 quando ho fotografato Audrey Hepburn. Eravamo a Roma nello studio di Valentino per Vogue Italia. Lei era molto gioiosa, mi disse che si era appena sposata con il Dott. Andrea Dotti. E’ arrivata con delle pantofole perché così, mi disse, non avrebbe sporcato il fondale bianco. Mi ricorderò sempre della sua estrema eleganza, quell’arte che nasceva dai suoi studi di danza, prima di approdare nel teatro e nel cinema.

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Le sue immagini spiccano per un grande rigore formale. Come si pone rispetto all’errore?

Da ogni errore vedo un’opportunità, infatti, molte delle mie fotografie più belle nascono dai miei stessi errori.

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Come nasce il suo interesse per la fotografia?

Attratto dal cinema e dal teatro sono andato a Roma. Per pagarmi la pensione, facevo i test ai ragazzi di Cinecittà con la mia prima macchinetta fotografica, poi sviluppavo la pellicola. Nella pensione mi davano il permesso di usare il bagno di notte, dove stampavo le mie foto e al mattino seguente le consegnavo dopo averle posizionate sotto il letto per farle asciugare. Poi un conoscente di mio padre, Gustave Zumsteg, nonché proprietario dell’azienda Abraham di tessuti di Zurigo, mi chiese di fargli vedere le mie fotografie, anche se erano totalmente amatoriali, gliele ho fatto vedere e mi disse: “Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la moda”. Io sono rimasto allibito, non sapendo nemmeno cosa fosse la moda. Dal momento che in Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Da lì, andai a Parigi per lavorare con Tom Kublin: un’esperienza che segnò decisamente l’inizio della mia carriera come fotografo.

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Qual è l’aspetto a cui presta più attenzione mentre ritrae in particolare una donna?

Una donna deve essere estremamente femminile, non importa se presenta dei difetti poiché il più delle volte aiutano la fotogenia. Deve attrarre e sedurre chi osserva l’immagine. Lo sguardo è molto importante per me.

Creatività e fotografia di moda. Come si conciliano nei suoi lavori?

Tutte le arti influiscono sulla creatività fotografica. Una buona conoscenza della pittura, scultura ma anche cinema e letteratura, aiutano sicuramente il fotografo a conciliare la moda con la creatività. Per me non esiste la fotografia senza la propria capacità di invenzione. Molti pittori hanno influenzato la mia creatività unendola al mondo della moda come Gauguin, Michelangelo, Hockney, Holbein, Bacon e Rothko.

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L’avvento dei social quanto ha influenzato la fotografia di moda?

Completamente. La fotografia di moda, intesa come lo era qualche anno fa, non esiste più in seguito all’avvento dei social. Con essi, infatti, si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. E’ cambiato anche lo stile, non essendoci più la moda come era concepita una volta, ossia con dei temi ben precisi che la fotografia rispecchiava. Con i social oggi, ognuno fa quello che gli pare; non viene più rappresentato uno stile, un’eleganza o un modo di essere.

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Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe?

Metafore della visione.

Fotograficamente parlando, si reputa soddisfatto di ciò che ha ottenuto finora?

Mi reputo abbastanza fortunato perché la fotografia è una profonda testimonianza della condizione umana. Fotografare è guardare in faccia la vita e fare della propria esistenza un’opera d’arte, come citava D’Annunzio.

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Ci può accennare i suoi prossimi rendez-vous fotografici?

Sto lavorando su un nuovo progetto fotografico ispirato al poeta inglese Shakespeare, proprio in occasione della celebrazione dei 400 anni dalla sua morte. Prendo infatti ispirazione dalle più famose tragedie e dai sonetti del drammaturgo britannico, per poi trascriverle attraverso il mio occhio.
Inoltre, da quest’anno, è stata costituita la Fondazione Gian Paolo Barbieri; si tratta di un’istituzione culturale no-profit che promuove l’arte, la fotografia e ogni forma di espressione culturale nelle sue diverse realizzazioni attraverso workshop, collaborazioni con istituzioni e attività formative. (www.fondazionegianpaolobarbieri.it).

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Gian Paolo Barbieri, tramite la sua sapiente fotografia, la collaborazione a riviste di grande importanza come Vogue America, Vogue Paris e Vogue Germania e grazie ai suoi eccellenti contributi a Vogue Italia con le campagne pubblicitarie dei marchi più noti, ha rinnovato profondamente la fotografia di moda italiana. Il senso di equilibrio, proporzione ed estrema armonia di derivazione classicistica sono il punto di forza del suo linguaggio personale e il riflesso di uno spirito di ricerca artistica, dovuto ad un’incessante curiosità. La sua Fondazione, costituita nel 2016 dallo stesso artista, è un’istituzione culturale che opera nel settore delle arti visive e che persegue finalità di promozione della figura artistica del Fondatore, delle sue opere fotografiche, dell’attività artistico-creativa nonché, più in generale, di promozione della fotografia storica e contemporanea.

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Todd Hido: il fascino di strade, case e donne

Todd Hido è attualmente uno dei fotografi più noti ed apprezzati nel panorama artistico internazionale. Noto prevalentemente per fotografare case avvolte in contesti periferici foschi e oscuri, stupisce per lo stile personale che lo rende ben riconoscibile.


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Le sue immagini sono contraddistinte da atmosfere buie, dalla presenza di strade e case e dall’assenza della componente umana. Contrariamente a ciò che si può immaginare, è un tipo di fotografia che non ha nulla a che vedere con l’architettura; dalle finestre delle dimore nei quartieri americani spuntano spesso luci che segnalano un’implicita presenza umana.


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Il suo stile fotografico è pittorico e cinematografico tanto nei paesaggi notturni che nei suoi ritratti e nudi. In tutte le sue composizioni, è evidente una particolare attenzione verso l’atmosfera catturata: misteriosa e intima allo stesso tempo. Le donne ritratte, seppur nude, emanano sempre un grande fascino ed un’insolita eleganza di cui sembrano quasi esserne inconsapevoli; spesso, appaiono ritratte di sfuggita, di spalle o sdraiate in posizioni sensuali.


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Nei ritratti, Todd Hido pone tutta l’attenzione sullo sguardo e l’espressione del viso delle sue donne. Nella stanza, la luce circostante sembra abbracciarle dolcemente o in maniera più decisa, avvalorando la loro naturale bellezza.


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La fotografia di Todd Hido appare guidata dall’istinto e dalla solitudine: casualmente s’imbatte in una strada poca illuminata o si ritrova di fronte a situazioni ricche di fascino e mistero. E’ una fotografia descrittiva e narrativa contemporaneamente: un dettaglio come uno sguardo, un’insegna luminosa o un’auto parcheggiata è sufficiente per incuriosire l’osservatore e per indurlo a fantasticare. Le sue immagini sono il segno di un’indagine che va ben oltre le apparenze e che ricerca in maniera sottile e inusuale la storia di luoghi e persone


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http://www.toddhido.com/

Guy Bourdin: moda, provocazione e crudeltà

Guy Bourdin è stato sicuramente uno dei fotografi di moda e pubblicità più influenti del ventesimo secolo. Seppur meno noto rispetto al collega Helmut Newton, il suo stile ha profondamente cambiato il linguaggio pubblicitario della moda, tanto da influenzare molti dei fotografi successivi.


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Nacque a Parigi il 2 dicembre 1928 al 7 di Rue Popincourt. Abbandonato dalla madre all’età di un anno, fu Madame Maurice Désiré Bourdin che se ne prese cura e lo allevò affettuosamente. Sviluppò una particolare passione per la fotografia durante il servizio militare, a Dakar. Quando ritornò a Parigi, conobbe il grande Man Ray che incise indubbiamente sul suo stile conferendogli un tono inusuale. Nel 1961 sposò Solange Marie Louise Gèze, che morì suicida nel 1971. Dal 1955 al 1987 le sue immagini furono pubblicate su Vogue Paris; fu proprio un editore della rivista a presentare Guy Bourdin allo stilista Charles Jourdan, per il quale realizzò le campagne pubblicitarie delle sue calzature dal 1967 al 1981.


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Il fotografo parigino, che rifiutò nel 1985 il Grand Prix National de la Photographie, desiderava che le sue opere venissero distrutte dopo la morte. Durante il corso della sua vita, invece, rifiutò spesso di organizzare mostre o pubblicare libri. Si mantenne sempre ben lontano dalle lusinghe dei suoi tempi e sembra che fosse molto frustrato per la notorietà che aveva acquisito nel settore fotografico. Non fu soltanto un fotografo, ma anche un bravo artista: si dedicò alla pittura fino alla fine.


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Guy Bourdin ha sviluppato nel corso degli anni uno stile provocatorio, caratterizzato da immagini dai toni forti e da accostamenti surreali, in grado di spiazzare ed inquietare profondamente l’osservatore. I corpi femminili appaiono spesso sdraiati disordinatamente o frammentati; gambe che passeggiano, mani che si ripetono, corpi alienati ed elementi allusivi conferiscono una generale freddezza emotiva all’intera immagine che sfocia quasi nella crudeltà. Tale visione femminile deriva quasi probabilmente dal trauma infantile legato all’abbandono da parte dalla madre: sia con le donne a intorno a lui che con le modelle dei suoi shooting, si atteggiava con modi di fare spietati. Le modelle che egli seleziona, inoltre, sono quasi sempre dalla chioma rossa, dalla pelle chiarissima e truccate in maniera esagerata come la madre.


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La personalità enigmatica e ambigua di Guy Bourdin si riflette perfettamente nell’atmosfera onirica delle sue immagini, a tratti disturbante. E’ stato il primo fotografo a frammentare fino all’estremità il corpo della donna e a costruire un linguaggio ricco di metafore sensuali . L’artista francese è stato in grado di assorbire l’influenza di Man Ray e dei surrealisti Magritte e Balthus, creando uno stile complesso, provocatorio, stupefacente e difficile da decifrare nel settore pubblicitario della moda.


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Andrea Tomas Prato: Ghirri ha svelato quello che c’era e nessuno vedeva

Andrea Tomas Prato vive a Tortona, in provincia di Alessandria. La scoperta della fotografia avviene, per lui, in maniera del tutto casuale. Da quel momento, sarà la sua passione più grande, trasformandosi in un vero e proprio “gioco artigianale“.

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Come nasce la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?

La passione per la fotografia nasce per caso, per aver accompagnato un collega ad un corso base di fotografia nel 2011. L’aneddoto, invece, è che fotografavo da anni per lavoro le scene del crimine con uno schema, una metodologia,  che avrei usato lo stesso strumento con tanta passione e senza metodo, in maniera opposta.

Cosa c’è di autobiografico nella sua fotografia?

Il fatto stesso che la realizzo io.

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I dettagli del corpo femminile sono i veri protagonisti di molte sue immagini. Cosa intende comunicare tramite essi?

Non credo che dietro una immagine ci debba essere per forza un messaggio. Al contrario, credo di non voler comunicare proprio nulla. E’ solo una ricerca di ciò che io considero bello esteticamente; in questo caso, ricerco ciò che più bello ci sia negli aspetti armonici del corpo femminile. Vorrei solo precisare che i veri protagonisti delle mie immagini sono le persone che fotografo nella loro unicità, e quindi nei loro ritratti.

Come si pone verso la modella, mentre fotografa?

In modo riconoscente, educato ma informale. Ci tengo molto al fatto che la persona ritratta capisca che di fronte ha qualcuno che può risultare molto meno interessante delle proprie fotografie, ammesso che lo siano.

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La presenza umana sembra essere molto significativa nelle sue immagini. E’ anche un modo per sottolineare l’unicità del momento?

Certo, ma il momento è unico anche quando fotografo in assenza di soggetto; d’altronde, ogni secondo della nostra vita è unico.

Che posizione occupa l’istinto nella sua fotografia?

Un’importanza fondamentale, unitamente alla necessità di mettersi dietro l’obiettivo.

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E la tecnica?

Direi, l’ultima posizione. Alcune foto, tra quelle che più amo, le ho scattate con macchine usa e getta che anche mio nipote di 5 anni sa usare. Il senso dell’inquadratura ce l’abbiamo tutti fin da bambini. Lo schermo televisivo, quello di un cinema o di un quadro ci ha inconsciamente educato. Il gusto, invece, è personale e per questo vengono fuori foto differenziate, che qualcuno si arroga il diritto di giudicare; ma è evidente che non esistono dati oggettivi in fotografia.

Cosa le piace cogliere nei paesaggi che fotografa?

Mi piace muovermi nei nostri amati colli, quelli Tortonesi, e omaggiarli catturandoli in un’immagine.

Hai affermato di apprezzare Luigi Ghirri. Quali sono gli aspetti delle sue immagini che apprezzi maggiormente?

Ghirri ha svelato quello che c’era e che nessuno vedeva, facendolo con tanta eleganza ed in silenzio. Ora tutti quanti vedono di più attraverso i suoi occhi. Ha educato davvero tutti, da quel momento in poi.

Se dovesse associare una parola alla sua fotografia, quale userebbe? Perchè?

Gioco artigianale”, perché la fotografia che preferisco è quella che mi permette di acquistare bobine di pellicole, fare rullini, scattare, sviluppare e stampare in una piccola camera oscura; tutto questo fatto per gioco.

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La fotografia di Andrea Tomas Prato è la dimostrazione di come non sia necessario essere professionisti per creare una “buona fotografia”. Nelle sue immagini, il buongusto si unisce alla semplicità, dando vita ad un momento unico e irripetibile . Il risultato finale di ogni sua ricerca è una fotografia d’impatto, intima ed armoniosa.

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Marco Michieletto: siamo quello che fotografiamo

Nel corso della sua vita, Marco Michieletto ha fatto della fotografia la sua più grande passione. Egli non si limita soltanto a ritrarre incantevoli donne, ma mira ad imprimere in immagini molto di più: gesti, sguardi, fascino e personalità.


Cos’è per lei la fotografia?


Per me, la fotografia è come se fosse un figlio: gioia, dolori, molti pensieri e una spinta motivazionale continua. Non riesco a restare un solo giorno senza studiare una foto, sfogliare un libro o discuterne con gli amici. E’ una buona abitudine che quotidianamente mi crea interesse e arricchisce lo spirito.


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Come si pone verso l’errore?


L’errore fa parte delle mie foto; nonostante io sia un perfezionista nel lavoro, nella fotografia amo la spontaneità. Dunque, se apprezzo l’espressione, il momento, la luce, non mi soffermo troppo a guardare la mano tagliata o la piega del pantalone messa male. Personalmente, ritengo che i dettagli che contano nella buona fotografia siano differenti da quelli che comunemente si è portati a criticare.


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Quanto conta per lei la tecnica?


Personalmente, la tecnica non conta nulla. Non ho mai usato un flash in vita mia, così come non uso pannelli e post-produco il minimo indispensabile; se posso, lo faccio fare ad altri. Per me la fotografia è altro: prendere una modella, farle dimenticare che ho una macchina fotografica in mano ed entrare in stretto contatto con la sua personalità. Per me, la fotografia è tutto quello che riesce a trasmettermi con il viso o con il corpo, nel modo più naturale possibile; si può trattare di un gesto, una movenza o un pensiero. E’ in base a questo ragionamento che arrivo ad affermare che la tecnica, per me, non conta. Avrei risposto diversamente se non mi avesse chiesto “per lei”.


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Cosa c’è di autobiografico nelle sue immagini?


Tutto quanto. Sono un forte sostenitore della frase “siamo quello che fotografiamo“. Guardando una foto, spesso mi diverto a capire la personalità e l’educazione del fotografo che l’ha prodotta. Ho ben chiara la mia, ma mi fermo qui.


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Le donne che lei fotografa sono estremamente sensuali, pur rimanendo eleganti. Qual è l’aspetto che vuole catturare maggiormente in una donna?


La semplicità. Oggi le donne sono come un prestigiatore: vivono su Instragram e tentano di incantarti con tutti i filtri a disposizione. Io voglio prendere il loro cappello e guardare cosa c’è nel doppio fondo.


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Ha sempre affermato di aver voluto separare la fotografia dal suo lavoro. E’ contento di questa scelta?


Assolutamente sì. Conosco molte persone che hanno mollato il loro lavoro per diventare fotografi. Hanno gli stessi problemi e gli stessi problemi che ho io nel mio, con la differenza che non fotografano più per divertirsi. Io fotografo per puro piacere, quando, con chi e come voglio; il fatto di non dover render conto a nessuno di ciò che si fotografa è una libertà impagabile.


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Le sue modelle ricordano molto le dive di un tempo. C’è qualcuna di loro a cui s’ispira?


Jane Birkin.


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Se dovesse associare una sola parola alla sua fotografia, quale sceglierebbe? Perchè?


Sarò banale e ripetitivo ma direi “semplicità”, poiché sono io attraverso i miei click.


C’è un fotografo che ammira particolarmente?


Indubbiamente, Jerry Schatzberg.


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Le è mai successo d’ispirarsi a un libro o ad un film mentre fotografa?


Credo che inconsciamente io lo faccia ogni volta. Sfoglio molti libri e divoro film come patatine; credo sia impossibile non essere influenzati da queste abitudini.


Osservando la fotografia di Marco Michieletto, è impossibile non notare la singolare eleganza delle sue donne che appaiono estremamente sensuali, grintose e semplici al tempo stesso. Le sue immagini si contraddistinguono, pertanto, per un linguaggio proprio, deciso e raffinato. Servendosi di esso, l’autore rappresenta il corpo femminile in maniera spontanea, senza troppi artefici e nel totale rispetto della personalità delle modelle.

Monica Cordiviola: la fotografia è una cosa seria



La fotografia di Monica Cordiviola è una fotografia tutta al femminile. Le donne che ritrae sembrano tutte quante atipiche: dotate di straordinaria personalità e charme.


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I soggetti delle sue immagini sono prevalentemente donne. Qual è l’aspetto su cui si sofferma?


Molto probabilmente amo ritrarre donne perché mi rivedo o tento di farlo in ognuna di esse. Mi soffermo soprattutto sui loro punti di forza e sulle loro debolezze per trarne al meglio l’immagine che maggiormente le rappresenta. Adoro soprattutto i dettagli dei loro corpi.


Le donne fotografate da lei sembrano tutte quante dotate di forte personalità e contemporaneamente molto emotive. Quanto c’è di autobiografico?


Credo che ognuno di noi nasconda in sé forza e debolezza; la mia fotografia ancora oggi è completamente autobiografica. Infatti, rivedo sempre qualcosa di me stessa mentre fotografo.


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Micol Rochi



Le donne nelle sue immagini sono piene di sensualità e carica erotica. Come pone in relazione fotografia ed erotismo?


L’erotismo in fotografia è molto soggettivo: in un’epoca in cui il nudo è all’ordine del giorno, trovo molto più erotiche le donne che si coprono e nascondono il proprio corpo. Io sono in controtendenza, da sempre. Ho studiato molto sul tema del corpo femminile nel corso degli anni, a livello antropologico e di cultura; oggi ritengo che sia una delle forme più dirette nella comunicazione e la fotografia, il suo mezzo.


Come si pone quando ritrae i suoi soggettI?


Quando ritraggo i miei soggetti cerco di mettere, per quanto possibile, a proprio agio le persone; non sempre ci riesco. Nel lavoro, come nella vita, non sempre abbiamo le famose affinità elettive e quando non vi sono, il risultato finale parla per noi.


Come è nata la sua passione per la fotografia? Ci racconta un aneddoto?


La fotografia è entrata nella mia vita circa quindici anni fa e in maniera molto particolare. In realtà, da spettatrice, sono sempre stata circondata dal mondo della fotografia. Da bambina mi dilettavo con le Polaroid ovunque mi trovassi, poi per molto tempo ritagliavo immagini dai magazine degli anni 80 come Harper’s Bazaar e Vogue e le raccoglievo meticolosamente in quaderni che ancora conservo. A trent’anni avevo talmente tante riviste che sfruttavo i loro fogli per ricavarci comodini e mobili in casa. Poi, intorno ai trentacinque anni, comprai la mia prima reflex semi-professionale e da lì è iniziato il mio vero e proprio percorso fotografico.



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Martina Colombari


Dove si dirige la sua fotografia?


La mia fotografia si dirige verso la ricerca dell’essenza del ritratto, sempre contestualizzato ma molto più intimo. Inoltre, sto pensando di iniziare a ritrarre anche gli uomini con la stessa identica intensità.


Se dovesse utilizzare una parola, quale riterrebbe più appropriata per definire la sua fotografia?


Una parola sola? Carnale.


Molte sue immagini sono in bianco e nero. Come giustifica questa scelta?


La scelta di produrre prevalentemente in bianco e nero deriva dal fatto che adoro la vecchia pellicola. Nonostante oggigiorno è sempre più difficile utilizzare l’analogico, ma amo editare le mie immagini con quel sapore. A livello emotivo, mi trasmettono molto di più le immagini in bianco e nero.


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Dove si sta dirigendo la fotografia attuale?


La fotografia attuale non la guardo troppo. A parte alcune eccezioni ovviamente, per me oggi la fotografia è violentata e dissacrata. Molto probabilmente ciò accade perché sta andando di pari passo con la nostra società. Non vorrei sembrare “catastrofista” o colei che è legata alla vecchia scuola, tutt’altro, ma purtroppo vedo un ambiente inflazionato e deprezzato dal suo vero valore. Abusata. Io dico spesso che la fotografia è una cosa seria.


Ci sono dei fotografi da cui si è sentita particolarmente ispirata durante il suo percorso fotografico?


Certamente. Per anni, mi sono nutrita di immagini di Helmut Newton, Dorothea Lange e Steven Meisel.


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Il corpo è il vero protagonista delle immagini di Monica Cordiviola. Esso è inevitabilmente il punto di partenza per comunicare e la fotografia è il mezzo di cui si serve per farlo. Ne deriva una visione della donna che si distanzia da quella proposta attualmente dalla società; sensualità, carattere e grande personalità risultano i caratteri peculiari delle sue donne.


http://www.monicacordiviola.com/