GiuseppexJennifer capsule collection: 5 motivi per i quali dovremmo acquistarla

Dopo mesi di attesa dal primo lancio sul web della notizia, la collezione GiuseppexJennifer ha ottenuto la sua entrata gloriosa nel cuore delle amanti delle scarpe.
Giuseppe Zanotti firma la collezione di calzature ispirata alla popstar di origine portoricana Jennifer Lopez, conosciuta anche col soprannome di J.Lo.
Cantautrice, attrice, ballerina, imprenditrice e produttrice discografica statunitense, J.Lo è la protagonista di una collezione tutta al femminile che calzerà i piedi di moltissime donne.

Perché dovremmo acquistarla?

1. QUESTIONE DI “INTESA”

Si tratta, infatti, di una collezione ricca di intesa tra Zanotti e Jennifer Lopez, quindi implicito è il collegamento ad una diretta sintonia tra stilista e consumatore.
Jennifer è da sempre per me un’importante fonte di ispirazione, adoro il modo in cui indossa le mie scarpe… lavorare insieme è stata una conseguenza del tutto naturale“, spiega lo stilista.
Che si tratti di un red carpet o della mia vita privata, le scarpe giuste completano il mio outfit e mi fanno sentire bella, sexy e sicura di me. La collezione che Giuseppe ed io abbiamo creato rispecchia esattamente tutto quello che ci si aspetterebbe da entrambi: silhouette audaci, tanto carattere e un tocco di preziosi bagliori“, continua J.Lo.

2. LE DONNE & L’AMORE UNIVERSALE PER LE SCARPE

Come tutte le donne del pianeta, anche J.Lo ama indossare e comprare scarpe e accessori.
Così questo intenso e delirante amore viene reso perfetto e magnetico se a decifrarne il contenuto è proprio una donna, in questo caso la bella e attraente cantante.
Penso sia inutile dire che, come tutte le donne, adoro le scarpe“, scherza la popstar.
Eppure, noi, l’abbiamo presa molto seriamente.

3. È UNA COLLEZIONE TEMATICA

La collezione s’ispira agli aspetti caratteriali e della personalità delle donne, in particolare a quelli di J.Lo.
La collezione è come Jennifer: sensuale, sofisticata, moderna ma anche ironica”, spiega Zanotti.
Non vi sembra di rispecchiarvi in queste caratteristiche?
Sì, J.Lo, ci piaci perché siamo simili.

4. 5 DIVERSI STILI

La capsule collection comprende 5 diversi modelli e stili.
Insomma, a ognuno il suo.

I. The Leslie

Sandalo in raso con tacco alto.
Leslie, $895, giuseppezanottidesign.com

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II. The Jen

Stivaletti a listini in suede.
Jen, $1,250, giuseppezanottidesign.com

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III. The Emme High

Sandali gladiatore con stampa rettile.
Emme High, $1,295, giuseppezanottidesign.com

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IV. The Lynda

Stivaletti gioiello open toe con tacco alto.
Lynda, $2,995, giuseppezanottidesign

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V. The Tiana

Sneakers alte in suede.

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5. GAMMA CROMATICA E ACCESSORI

La gamma cromatica della capsule, perfettamente in sintonia con i colori moda della prossima stagione Primavera/Estate, comprende morbide tinte pastello, chiare tonalità di grigio e calde variazioni di beige.
Inoltre completeranno la collezione due modelli di borse.

La collezione sarà in vendita negli Stati Uniti presso Bergdorf Goodman, Saks Fifth Avenue, Neiman Marcus, Nordstrom, nelle boutique Giuseppe Zanotti Design, sul sito ufficiale della Maison giuseppezanottidesign.com e presso selezionati punti vendita in tutto il mondo.

Enrico Mentana risponde su Facebook e ammutolisce tutti: sapreste far di meglio?

Buon compleanno, Enrico Mentana.

I suoi 62 anni seguono i 25 dalla nascita del tg5 fondato dal giovane giornalista alle prese con servizi scadenti, tecnici mancanti e cassette che non partivano.
Così il 13 gennaio del 1992 nasceva il tg5 senza troppe pretese.
Sabato sera 14 gennaio, dopo C’è posta per te, il giornalista è tornato negli studi televisivi di Palatino per uno speciale condotto da Paolo Bonolis. Negli studi anche Clemente J. Mimun e Carlo Rossella.

Ma il ricordo della fondazione non poteva passare inosservato, Mentana gli ha infatti dedicato un lungo post su Facebook.
Il ricordo della prima puntata, la spinta rivoluzionaria che giocava sul differenziarsi dal tg1, la riduzione dei servizi sulla politica, la decisione di incrementare la cronoca, il timore della concorrenza, il rifiuto alla specializzazione, Bruno Vespa e l’aperto dissenso: parla a cuore aperto su Facebook Enrico Mentana.
Ecco il post che narra l’inizio di una gloriosa, anche se difficile, carriera:

Venticinque anni fa cominciai a dirigere e condurre un tg. Bene o male è quello che faccio tuttora. Adesso mi sembra tutto più facile, ma allora era tutto da inventare. Un ricordo.
Avevo il compito di creare dal nulla un nuovo tg, il sogno di qualsiasi giornalista. Avevo il compito di idearlo, di trovargli il nome, di scegliere il logo, la grafica, la sigla. Ma anche di cercare le persone adatte a farlo con me, senza vincoli, senza imposizioni.
Si sarebbe chiamato semplicemente tg5, in sfida diretta con i concorrenti della Rai, e avrebbe mirato proprio ai difetti dei telegiornali che fino a quel momento monopolizzavano il mercato dell’informazione tv. A cominciare dalla politica. L’arroccamento dei partiti s’era fatto ancora più evidente. Meno riuscivano a perforare l’aperto disincanto dell’opinione pubblica e più intasavano i notiziari della Rai con i loro leader, le loro riunioni, i loro slogan.
Bene, il tg5 avrebbe ridotto la pagina politica al minimo, in modo da mostrare nei fatti e da subito l’assenza di sudditanze e di faziosità, e liberare intanto spazio e tempo per il resto dell’attualità. La prova finestra tra noi e gli altri, tutti ingolfati di politica, avrebbe mostrato la differenza. Ma era una piccola rivoluzione, per cui serviva identificare chiaramente le scelte da fare.
Quali erano le notizie da privilegiare? E in quale forma bisognava darle? Questioni di sintassi televisiva. Parolona che vuole dire qualcosa di molto semplice: se c’è un fatto importantissimo ci si collega con il luogo in cui è avvenuto. Se è importante gli si dedicano una serie di servizi o un servizio e un commento. Se è di media importanza merita un solo servizio, se lo è un po’ meno una notizia dal vivo, letta dal conduttore. Se non è importante per niente, allora non se ne parla e basta.
Ovvio, vero? Mica tanto, perché in Rai spesso era il contrario. Mi ricordo di un giorno in cui non era successo niente di importante. Riunione al tg1 per decidere la scaletta. Non si sapeva come aprire, e consideriamo che l’apertura di uno dei principali telegiornali condizionava spesso anche le scelte dei quotidiani della mattina dopo. Ma facendo il giro dei capiredattori non si trovava una valida notizia d’apertura. E allora – con mio sbalordimento – si decise per un bel collegamento con Montecitorio con il classico pastone politico. Un intreccio di dichiarazioni, e così si dava il “la” a tutte le altre notizie. Una sorta di chiodo a cui appendere il notiziario. L’arma totale del collegamento, la risorsa delle grandi occasioni, usata per raccontare il nulla di una bolla politica.
Ebbene, il nuovo tg sarebbe stato diverso, avrebbe recuperato una gerarchia espressiva. Il fatto più importante, l’apertura doveva poter provenire da qualsiasi versante dell’attualità. E la politica? Meritava un servizio, e non più di uno, a parte naturalmente le occasioni eccezionali. Ci sarebbero stati giorni senza nemmeno un servizio di politica, e magari al momento il pubblico non se ne sarebbe neppure accorto, ma alla lunga si sarebbe affezionato a noi, gli unici a non somministrargli la politica come una medicina serale. Gli unici a trattarla come un settore tra i tanti. Anche per dar spazio alla grande assente, o quasi: la cronaca.
I fatti di cronaca erano ampiamente snobbati nei telegiornali e anche sui giornali. Non interessavano perché non riguardavano i poteri: erano storie accadute a persone senza nome, che nessuno conosceva, e quindi i giornalisti non se ne occupavano. Ebbene il Tg5 avrebbe fatto di questa Cenerentola dell’informazione il settore più importante di tutti. Quello grazie a cui avremmo portato alla ribalta i fatti insoliti, straordinari o gravi che riguardano la gente normale, con cui il telespettatore si identifica molto più che con le vicende delle élite, dei personaggi.
Stavamo del resto solo recuperando la grande tradizione della cronaca italiana, nata soprattutto sui giornali di provincia. Allora cercavo di spiegarne il senso ai miei primi collaboratori raccontando loro una storia vera. La notte dopo la morte di un Papa, il direttore di un giornale era rimasto fino alle ore piccole in redazione, a rifare la prima pagina. Prima di rincasare, ormai al mattino, passò dal bar vicino alla redazione, dove c’era già una copia fresca di stampa, in bella mostra sopra il frigo dei gelati, con il titolone a tutta pagina «È morto il papa».
Il direttore notò che una signora era attirata dal quotidiano appena sfornato e si mise a osservarla, per vedere se avrebbe apprezzato il suo sforzo. Ma lei, preso in mano il giornale, cominciò a sfogliarlo, rivolgendo pochissimo interesse alla prima pagina. Il giornalista allora le chiese quale notizia stesse mai cercando e la risposta fu: «I necrologi». Quello che le interessava erano i morti della sua zona. I “suoi” morti. Ecco, la cronaca è questo: sono le storie con cui la gente si identifica direttamente, senza schermi. Allo stesso modo volevo che nel nuovo tg ognuno potesse trovare le “sue” notizie. Non quelle del potente di turno.
Ebbi anche la possibilità di scegliere dove sarebbe sorta la redazione centrale, e scelsi Roma. Sono milanese, ma sapevo bene due cose: che a Roma c’era molta più possibilità di intercettare notizie e ospiti; e soprattutto che potendo scegliere era sempre meglio stare lontano dal quartier generale dell’editore. Ma in questo caso l’editore non era solo una presenza ingombrante. Voleva essere informato dei lavori in corso, e dare qualche consiglio. Molti sballati, uno almeno vincente.
Discutemmo a lungo dell’orario in cui sarebbe andato in onda in nuovo tg. La proposta di Berlusconi era audace: le 20. Io non volevo: perché dovevo farmi del male partendo lancia in resta contro il Tg1, che era forte di un avviamento di trent’anni? Ma Berlusconi non si fece convincere: «Guardi, se voi vi scontrate direttamente con il tg più forte in ciascuna fascia, quindi il tg2 alle 13 e il tg1 alle 20, ve la giocate bene. Perché comunque l’alternativa è forte, così come l’attesa. Secondo me questo è un telegiornale che può raggiungere il 25%». Per me era una follia, ma alla fine cedetti. E aveva ragione lui.
Scegliere i giornalisti, mettere insieme la squadra, fu la cosa più difficile e importante. Un embrione di redazione esisteva già: c’era Emilio Carelli, che avrebbe fatto da vice direttore, c’erano Cesara Buonamici e Cristina Parodi, c’erano alcuni altri validi giornalisti che erano lì fin dai tempi di Arrigo Levi e Paolo Garimberti, pionieri dei programmi informativi del Biscione. Ma ci voleva molto altro. Portai con me colui che sarebbe stato l’altro vice, Clemente Mimun, e quello che invece sarebbe stato insieme a me il conduttore dell’edizione principale, Lamberto Sposini. Poco più tardi ci avrebbe raggiunto un formidabile uomo di macchina, Massimo Corcione. Tutti loro, e molti altri, destinati a una bella carriera.
A trentasei anni, sarei stato davvero un direttore molto giovane. Scelsi quindi parecchi giovanissimi, i più curiosi e preparati che trovai. Dovevano avere la spinta dell’entusiasmo e la capacità di adattamento che esigeva la fase di lancio del giornale. Dovevano essere disponibili a imparare ruoli e mansioni diverse, a fare collegamenti e lavoro di cucina redazionale, a stare in studio e in regia. Volevo creare professionalità eclettiche, perché saremmo stati in pochi e avremmo dovuto tutti recitare più parti. Cominciavamo la nostra avventura in cinquanta giornalisti appena, tra Roma, Milano e il resto d’Italia. Eravamo Davide contro Golia.
E dovevamo dare ai telespettatori un servizio continuo e aggiornato. Feci partire per primo il rullo di Prima Pagina, pensato per dare l’informazione fondamentale, i titoli di giornale e il meteo ogni quarto d’ora nella finestra di tempo in cui l’Italia attiva si alzava. E poi le tre edizioni essenziali, quelle dell’ora di pranzo, dell’ora di cena e della notte (più tardi sarebbe arrivata anche l’edizione del mattino). Sette giorni alla settimana, per stringere il patto tacito con il telespettatore che stava alla base del nostro lavoro: mentre lui viveva la sua vita, avrebbe potuto sempre contare sull’appuntamento fisso con la nostra informazione, nei momenti chiave della sua giornata.
E poi, tanto per cambiare, bisognava metterci la faccia, e la voce. Chi studia le materie scientifiche lo sa: i conduttori sono quei materiali in grado di trasportare una quantità di energia da un punto A a un punto B senza provocare dispersione. Il conduttore televisivo per me aveva lo stesso compito: non far disperdere l’energia della notizia nel passaggio diretto tra la sua fonte e il telespettatore. Tanto per cominciare significava rinunciare al gobbo elettronico, quell’aggeggio che uno legge facendo finta di improvvisare, con il grave difetto di parlare sempre con lo stesso tono e la stessa velocità, spesso non avendo nessuna idea di cosa sta dicendo. Proibito anche leggere, nei limiti del possibile, per non dare mai l’idea del telegiornale preconfezionato. Il conduttore doveva raccontare le notizie come le aveva in mente, senza burocratizzarle, senza renderle più involute con il gergo giornalistico. Meglio impappinarsi, conoscere qualche momento di incertezza, che raggelare notizie e pubblico con una freddezza da speaker.
Impostai il lavoro di preparazione dei redattori secondo precise linee guida. Sapete già della mia mania per il “parla come mangi”. Volevo un’esposizione più chiara possibile, periodi secchi, servizi e argomenti alla portata di ogni tipo di telespettatore. La Rai si era fatta una brutta nomea al riguardo, soprattutto al nord, dove un boato di disapprovazione accompagnava ogni occasione in cui – quotidianamente – si parlava di “borza” per il mercato azionario. In ogni apertura di anno scolastico si vedeva un istituto di Roma, a ogni elezione compariva in video un seggio della Capitale, gli esperti interpellati erano al novanta per cento di un ateneo romano. Inerzie, il maggior simbolo del distacco dal pubblico vero, tutto il Paese. Noi dovevamo essere esplicitamente alternativi.
E c’era soprattutto da dare un segno chiaro di libertà. Nessun argomento da evitare, nessun tema o personaggio capace di metterci in imbarazzo. Il tg5 poteva parlare di tutto. Non esistevano verità ufficiali e indiscutibili. Una posizione che avremmo poi sempre conservato, lungo tutti gli anni di quel lavoro comune, esercitando la nostra autonomia in mille occasioni. E che avrà poi il suo esempio più forte nove anni dopo, il 20 luglio del 2001, quando sarà il nostro telegiornale a squarciare il velo sui fatti di Genova, smentendo la versione delle autorità sulla morte del dimostrante Carlo Giuliani.
Un tg rispettoso dei suoi telespettatori doveva essere inattaccabile, al di sopra per esempio di ogni sospetto di “marchette”, insomma quei servizi o interviste che servono a lanciare un prodotto, particolarmente nei settori dell’auto e della moda, o le presentazioni di impianti o manifestazioni di aziende. Niente di niente, soprattutto per i marchi vicini alla nostra proprietà. E i nostri giornalisti non utilizzavano per i viaggi di servizio nessun passaggio aereo, nessun viaggio gratis in occasioni di grandi avvenimenti, nessuna facilitazione dagli sponsor. Un codice etico non scritto ma rigidissimo, che funzionò per tutti i tredici anni della mia direzione.
I giornalisti del neonato Tg5 avrebbero trovato altre gratificazioni: dato che erano davvero pochi: ci sarebbe stata – nelle intenzioni – gloria per tutti. Non c’erano inviati di ruolo, perchè ognuno poteva essere mandato a coprire un avvenimento. E poi consideravo le specializzazioni un male da evitare a tutti i costi. Uno spreco delle professionalità e un lusso che non potevamo permetterci, oltre che un cattivo esempio.
Avete presente? Giornalisti di cinema, che parlano solo di film, e vivono nel triangolo Oscar-Cannes-Venezia, ossessionati dal rischio di saltare una prima. Redattori di calcio, che per tutta la settimana discutono solo di partite e allenatori. Cronisti politici, che piombano nel lutto se non hanno l’accredito a Montecitorio. Giornaliste di moda, coccolate di regali, viaggi premio, cene e feste. Tutti questi, e altri come loro, vivono perennemente impaniati in una rete di addetti stampa. Ne dovevamo e ne potevamo fare a meno.
Queste e altre decisioni, la preparazione della nostra avventura, costellò quattro mesi intensissimi. A settembre avevo preso servizio, con l’anno nuovo partì il Tg5. Era il 13 gennaio 1992: avevamo studiato ogni cosa meticolosamente, gli spot promozionali pensati dal direttore di Canale 5 Giorgio Gori, che oggi fa il sindaco a Bergamo, avevano creato una forte attesa tra il pubblico della rete, i giornali avevano ampiamente trattato la nuova sfida giornalistica attirandoci ulteriori attenzioni, noi eravamo caricati a mille… E come da tradizione andò tutto storto.
Un minuto prima delle otto di sera i titoli. Poi la sigla. Iniziai sciolto e tranquillo, lanciando il primo servizio da Genova, che non partì, poi il secondo da Firenze, che non partì. Non era pronto niente. Mi scusai, alzai la fatidica cornetta, e dissi “Davvero una simpatica situazione”. Si erano emozionati in regia, dove non riuscivano a mettere in onda nessuna registrazione, e si era emozionato anche Sposini, che stava accanto a loro e non mi aveva avvertito di nulla.
Mentre i disguidi si scioglievano, e il giornale cominciava a ingranare, mi immaginai le risate del direttore del Tg1, che sicuramente stava sbirciando i nuovi concorrenti. Rise di certo molto meno la mattina dopo, quando scoprì che per la prima volta nella piccola storia della tv italiana un altro tg aveva avuto più spettatori del suo. A proposito, quel direttore era Bruno Vespa
“.

Ancor più note sono le sue risposte pungenti ed esilaranti agli utenti di Facebook, il giornalista non fa sconti se si tratta delle sue opinioni contraddette.
Ecco una serie di risposte virali – secondo l’huffingtonpost – ai suoi follower.

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Pitti Uomo 91, la mostra sensoriale che omaggia Ciro Paone

Dal 10 al 13 gennaio 2017 si tiene il Pitti Immagine Uomo 91, la rassegna tutta al maschile delle ormai consolidate Fashion Week.
In questa occasione, un tributo speciale è reso a Ciro Paone, fondatore della sartoria industriale e casa di moda napoletana Kiton.

La maison Kiton procede per unicità dagli anni della sua nascita, produce infatti abiti esclusivi ed artigianali che variano il loro prezzo dai 5.000 ai 15.000 dollari.
Ogni abito – ne vengon prodotti solo 18.000 l’anno – è cucito e curato da un team di 45 sarti.
Uno dei modelli più celebri di casa Kiton è quello del K-50 che richiede 50 ore di lavoro e possiede un prezzo di 50.000 dollari.

La mostra all’interno del Pitti dedicata a Ciro Paone s’intitola “Due o tre cose che so di Ciro“, ad opera di Angelo Flaccavento che ne ha curato il progetto espositivo.
La mostra tocca diversi simboli della moda italiana cuciti sulla figura di Ciro Paone e sulla sua passione per il buon vestire, si tratta infatti di un percorso sensoriale condotto attraverso sei stanze dedicate a sei temi differenti: Famiglia, +1, Napoli, Sartoria, Indossaggio, Qualità.
Installazioni, citazioni, suggestioni e ironici giochi di opposti, tra tradizione e contemporaneità, la mostra è un percorso tra i valori e le motivazioni senza tempo che muovono il marchio.
L’idea è quella di avvicinare e coinvolgere fisicamente gli spettatori, offrendo a ciascuno l’occasione di un click personale e irripetibile.
Si trasferisce in una esperienza spaziale ed emozionale la sensazione di leggerezza e di perfezione che si potrebbe avere indossando una giacca Kiton, la cui unicità non è mai visibile a occhio nudo, ma si rivela nell’uso.

Raffaello Napoleone, amministratore delegato di Pitti Immagine, sostiene: “Per noi di Pitti Immagine, Ciro Paone è sempre stato un riferimento di simpatia, eleganza, visione e coraggio e il suo lavoro un esempio di ricerca e al tempo stesso di salvaguardia della tradizione. Rappresenta il meglio della sartoria contemporanea, e al tempo stesso uno degli imprenditori più illuminati della moda italiana: una storia che parte da Napoli e da qui va alla conquista del mondo. Due o tre cose che so di Ciro sarà un’immersione nel gusto, nella passione e nell’indefessa dedizione alla causa del bello, che attraversano la vita e la carriera di Ciro Paone. Un ringraziamento dovuto a lui e alle persone che con lui condividono questa storia aziendale, per quanto hanno fatto e faranno in futuro“.

Aggiunge Antonio De Matteis, Ceo di Kiton:”Da parte mia e di tutta la famiglia Paone confermo che questa mostra dedicata a mio zio è un onore immenso, perché Ciro Paone è la persona che più di ogni altra ha influito sulla nostra vita, sul nostro modo di pensare e ci ha insegnato con dedizione e passione il suo credo. Ringraziamo Pitti Immagine, tra le manifestazioni internazionali leader per la moda Uomo, per aver creduto in Kiton dagli esordi e per averci offerto uno scenario così prestigioso. Il modo in cui Pitti ha saputo rinnovarsi negli ultimi anni conferma che chi la gestisce ha fatto un lavoro davvero eccezionale“.

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La mostra, inaugurata il 10 Gennaio 2017, è aperta al pubblico l’11 e il 12 Gennaio dalle 11:00 alle 19:00.

Pitti Uomo, 10 nuove tendenze dallo street style

La 91esima edizione del Pitti Uomo investe in tendenze dal gusto bon ton, intellettuale, aristocratico.
Vediamo insieme le novità dello street style più in voga nel panorama moda uomo.

1. L’ABITO

Celebrato come capo cerimoniale o d’occasione, l’abito padroneggia le strade fiorentine in una rivisitazione glamour che vede l’uomo protagonista della sua lussureggiante vita.
L’immagine più condivisa rappresenta la figura del dandy, dell’uomo di successo.
La galanteria è il mood della 91esima edizione promossa da alcune eccezioni nell’indossare l’abito, simbolo d’eleganza maschile.
Monotema blu con risvolto sui pantaloni, camicia rigorosamente bianca, cravatta a fantasia e pochette colorata.

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2. LA SCIARPA A FANTASIA

Lasciata cadere morbida sulla giacca, annodata al collo o appesa alla borsa, la sciarpa a fantasia è un must al Pitti Uomo.
Di diversi colori, con trame sovrapposte, la sciarpa è declinata secondo fantasie floreali, optical e geometriche.

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3. I GUANTI NEL TASCHINO DELLA POCHETTE

Non il fazzoletto da taschino ma i guanti.
Per combattere il freddo, basterà portare con sé un paio di guanti neutri da infilare nel taschino superiore della giacca.

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4. IL CAPPELLO BORSALINO, TRILBY

Il trilby prevede una tesa corta leggermente incurvata verso l’alto che percorre l’intera circonferenza della testa puntando leggermente verso il basso nella parte anteriore del cappello.
Al Pitti un vero gentiluomo indossa il cappello.

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5. IL COLORE POTTER’S CLAY

Pantone ha stilato la classifica dei colori dell’autunno/inverno 2016, tra questi il potter’s clay.
Simile al colore “terra di Siena”, si presenta al pitti in color block.

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6. IL TOTAL DENIM

Mai dimenticato, torna in auge il total denim: il tessuto di jeans.
Fa da colore nel caso del cappello e della camicia, ma è utilizzato per la giacca e per la lunga pashmina ricavata da pezzi differenti di tessuto di jeans cuciti tra loro.

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7. PALETTE PASTELLO

Nessun indugio per la palette pastello in stile Wes Anderson.
Il Pitti Uomo è anche colore, estro, creatività e armonia.

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8. COAT

Tra i modelli visti al Pitti Uomo, emerge il chesterfield coat: lungo fin sotto al ginocchio, è spesso e largo. Si presenta in due versioni: doppiopetto e monopetto.
Popolare anche il montgomery e il polo coat.

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9. LA CARTELLA DA UOMO

Fa tanto school life ma è un utile accessorio.
Al Pitti la cartella da uomo si presenta in bianco candido, puro, elemento di ghiaccio in contrasto col total black.
Abbinato alle calzature anch’esse bianche.

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10. LE CALZATURE SIGLATE

Non solo sulle Louis Vuitton, anche le scarpe posseggono – se si vuole – la sigla del proprio nome o, addirittura, il nome per intero.

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“Mettersi i vestiti del partner salverà il mondo”, Vivienne Westwood alla LFWMen’s

Co-ed anche per l’istrionica Vivienne Westwood che torna sulle passerelle londinesi con una collezione unificata.
Come molti suoi colleghi, anche la stilista si è lasciata trasportare dall’esigenza di dar vita all’unisex mantenendo quello stile stravagante ed eccentrico che da sempre la contraddistingue.

Mettersi i vestiti del partner salverà il mondo“, sostiene Westwood.
Scambiatevi i vestiti con i vostri partner: unisex vuol dire questo, vuol dire acquistare di meno, vuol dire scegliere bene vestiti che dureranno di più“.
La provocazione mira a un progetto più grande: una moda ecosolidale che stia bene a tutti, che non abbia differenze di genere e che migliori la vestibilità col passare del tempo (che tu sia uomo o donna poco importa).
Nasce in quest’ottica Ecotricity, la collezione che chiude la London Fashion Week Men’s e che sancisce il ritorno in patria dell’elettrica stilista.

In passerella uomo e donna indossano le stesse cose e lanciano un messaggio politico ben preciso: è giunto il momento di porsi contro il cambiamento climatico.
Corone di carta, t-shirt che comunicano il punto di vista della stilista, tute stampate, tutto declinato secondo un vintage mood che fa tanto ‘passato’.
Ecotricity racconta la storia di una/un intellettuale, figlia della borghesia, che riunisce in sé il senso della bellezza, della poesia, del far bene per un mondo migliore.
E non ha paura di mostrarsi e mostrare i propri ideali, le proprie virtù e le proprie debolezze.

Il termine “ecotricity” si rifà al nome di una società di energia britannica con sede a Gloucestershire specializzata in emissioni di energia verde.
Per tutta la collezione aleggia “IOU” che sta per Investor-Owned Utility e indica un tipo di business che fornisce prodotti di utilità gestiti da privati.
Così, la stilista non fa che rimarcare la sua idea: ciò che è un bene per il pianeta è un bene per l’economia.

I sempre costanti messaggi politici lanciati in passerella sono l’esempio di un utilizzo di un medium di massa come la moda che sappia toccare i suoi fruitori su una scala universale.
Buy less, choose well, make it last“, è così che parla anche questa volta l’irriverente Vivienne Westwood.

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E’ morto Zygmunt Bauman – la lettera dei sociologi dell’Università del Salento

Si è spento all’età di 91 anni il sociologo Zygmunt Bauman.

Noto per le sue teorie sulla “società liquida“, è stato definito il teorico della postmodernità per eccellenza.
A lui si devono gli studi sull’accoglienza e sui migranti ai quali si è sempre mostrato favorevole, gli studi sulla sfera pubblica e sull’atrocità dell’Olocausto.

Le teorie di Bauman si muovono a partire dalla fine delle grandi narrazioni dello scorso secolo, fine che ha causato una fase di straniamento e disorientamento e che ha condotto alla perdita totale di alcune certezze del passato.
Si è giunti così a un presente senza nome costituito dalla crisi di Stato, dal crollo delle ideologie e dei partiti.
Lo sviluppo della società moderna, basata sul ritardo della gratificazione, ha dato vita all’etica del lavoro che premia il lavoro fine a se stesso e all’etica del consumo che, invece, utilizza la procrastinazione a proprio favore.

Date le sue origini ebraiche, il sociologo ha inoltre condotto gli studi sull’Olocausto in maniera ancor più profonda pur non avendolo vissuto personalmente.
Il volume “Modernità e Olocausto” si presenta come rimedio alle lacune dei sociologi accusati da Bauman di non aver approfondito in maniera critica il tema dello sterminio degli ebrei.
L’Olocausto ha da dire sullo stato della sociologia più di quanto la sociologia, nella sua forma attuale, sia in grado di contribuire alla nostra comprensione dell’Olocausto“, scrive.
Secondo il sociologo l’Olocausto è stato causato dall’antisemitismo che ha individuato negli ebrei l’elemento estraneo e dalla ricerca della perfezione, dall’aspirazione di una società perfetta che poneva le proprie basi sulla razionalità e sull’organizzazione metodica di un sistema burocratico impeccabile.
Così la burocratizzazione ha condotto alla disumanizzazione degli oggetti dell’attività burocratica stessa, ovvero gli uomini divenuti ormai numeri.
Lo sterminio è stato inoltre favorito dal totale consenso psicologico alla persecuzione da parte degli ebrei, “gli ebrei fecero il gioco dei loro oppressori, facilitarono il loro compito, avvicinarono la propria fine“.

Bauman si è esposto in maniera esplicita nei confronti dell’immigrazione sostenendo soluzioni che toccano da vicino il dramma della natura umana: “I problemi globali si risolvono con soluzioni globali. Scaricare il problema sul vicino non servirà a niente. La vera cura va oltre il singolo paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una folta assemblea di nazioni come l’Unione europea. Bisogna cambiare mentalità: l’unico modo per uscirne è rinnegare con forza le viscide sirene della separazione, smantellare le reti dei campi per i “richiedenti asilo” e far sì che tutte le differenze, le disuguaglianze e questo alienamento autoimposto tra noi e i migranti si avvicinino, si concentrino in un contatto giornaliero e sempre più profondo. Con la speranza che tutto questo provochi una fusione di orizzonti, invece di una fissione sempre più esasperata“.
L’appello alla solidarietà non fa che eleggere il professor Bauman a simbolo di una postmodernità sempre più in crisi, “l’umanità è in crisi. E l’unica via di uscita da questa crisi catastrofica sarà una nuova solidarietà tra gli umani”.

Di seguito la lettera dei sociologi dell’Università del Salento al professor Bauman:

“Carissimo professor Bauman,
noi non abbiamo paura delle parole.
È una delle cose che lei ci ha insegnato, e che noi abbiamo imparato dalle pagine dei suoi libri.
Lei non ha mai alzato la voce, non ha mai urlato: eppure non per questo è stato meno udibile e meno ascoltato.
Dalle sue opere emergono analisi impietose sullo stato della nostra società, sui suoi rapporti sociali ineguali, sulle sue sperequazioni.
E anche, cosa persino più preziosa, emerge un pensiero coraggioso sullo stato della nostra memoria collettiva, sulla sua enorme difficoltà di fare i conti con gli slanci e gli orrori del Novecento.
Ebbene, lei è stato tra quelli che hanno parlato senza temere le parole e il loro effetto.
Noi le diciamo – senza timore né piaggeria – che lei è per noi una persona importante.
Noi le dobbiamo rispetto e gratitudine.
Le dobbiamo rispetto per i temi che ha sollevato, posando sulle vicende della modernità uno sguardo inedito.
Lei è andato oltre la crisi della nostra disciplina, e ha spinto il mondo ad accorgersi che l’indagine sociale ha significati capaci di universalizzarsi.
E che uno sguardo ampio sulla società è necessario, perché spinge la società a interrogarsi su se stessa, a ridiscutersi, forse persino a rimettersi in gioco.
Dire che la società è liquida è diventato un luogo di tutti, ma per arrivare alla metafora della liquidità bisogna aver usato vari microscopi analitici, aver guardato dentro il ribollire dei fenomeni sociali vecchi e nuovi, aver visto accadere la globalizzazione, l’esplosione del lavoro precario, il controverso moltiplicarsi dei media sociali, l’emergenza ecologica.
Lei ha analizzato questa messe di fenomeni dall’interno del loro stesso manifestarsi.
Un compito difficile ma indispensabile se si concepisce la scienza sociale come un’esplorazione che prefigura la condivisione della conoscenza.
Lei ha avviato una relazione importante con altri settori delle scienze storico-sociali, e ha promosso l’idea che si possano apportare contributi sociologici, tanto solidi quanto vitali, senza mai disconoscere il valore di chi osserva il mondo a partire da altre premesse, con altre metodologie.
Anzi, le opere saggistiche sulla società che riescono a caratterizzare un’epoca – come nel caso di molti suoi lavori – dialogano spontaneamente con diversi altri approcci, producendo ancora una volta condivisione intellettuale.
La sua opera è stata cucita con pazienza e perseveranza.
I suoi lavori editoriali, come i suoi studenti, si sono moltiplicati.
Il suo modo di scrivere e di esprimersi sociologicamente sono presenti non solo agli studiosi e agli studenti di scienze sociali, ma anche a un numero considerevole di lettori, appassionati all’idea di comprendere la società e come essa “accada” negli individui.
Con il suo lavoro recente ha ottenuto almeno due risultati per noi, come sociologi, molto importanti: il primo risultato è che con lei la sociologia ha ripreso a parlare a un pubblico di non specialisti.
Le sue opere sono tradotte in tante lingue e ovunque diventano casi editoriali dimostrando che la sociologia, quando è in grado di guardare la realtà da una prospettiva autonoma e lucida, serve ai cittadini per capire i caratteri della società attuale e i suoi possibili sviluppi.
Il secondo risultato è che lei ha dimostrato come un uso intelligente delle categorie classiche e post-classiche che la sociologia ha elaborato rappresenti uno strumento potente per comprendere la realtà, per molti versi aggrovigliata e incomprensibile, che il mondo occidentale sta vivendo.
Grazie alla sua produzione noi sociologi riacquistiamo fiducia: ricominciamo a parlare un linguaggio che comunica anche ai non sociologi e ricominciamo a dialogare con i nostri concetti, applicandoli ad un mondo che cambia.
Sarebbe per noi impossibile anche solo sintetizzare la vastità dei temi che lei ha trattato nei lunghi anni della sua carriera.
Ciò che ci sembra importante segnalare è che con forza analitica lei ha messo in evidenza la dimensione spesso ambivalente del moderno, senza temere di entrare nel merito dei suoi tratti più cupi: l’Olocausto, ad esempio, e con esso la feroce assurdità di una razionalità vocata allo sterminio.
Lei ha dato anche nuovo vigore alla figura del sociologo, inteso non come consigliere del principe o come fautore dell’ordine, ma come garante della diversità, dei diritti, dell’inclusione dell’altro.
E ha dato vigore alla scrittura sociologica, non una scrittura tecnica ma una scrittura densa, carica di implicazioni, evocativa, in questo senso politica e liberatoria.
Caro professor Bauman, per tutti questi motivi i sociologi dell’Università del Salento esprimono gratitudine nei suoi confronti e sono orgogliosi di far parte di un Ateneo che ha deciso di riconoscere al massimo grado l’attualità e la forza del suo pensiero.
Grazie di cuore a nome di tutti noi“.

Lettera dei sociologi dell’Università del Salento al prof. Zygmunt Bauman in occasione della sua laurea honoris causa (2015)

fonte foto: La Notizia Giornale.it
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fonte foto: ined21.com
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Sì, viaggiare: 5 hotel fuori dal comune

Sì, viaggiare” cita Battisti.

VIAGGIARE: [viag-già-re] v.intr. (aus. avere; ind.pres. viàggio ecc., fut. viaggerò ecc.)
• [sogg-v]
1) Spostarsi da un luogo a un altro compiendo un percorso, spec. di lunga durata; fare viaggi: amo molto v.; spesso con la specificazione del mezzo usato: v. in aereo
2) fig. Compiere voli con l’immaginazione: v. con la fantasia; nel gergo della droga, avere allucinazioni
• [sogg-v-prep.arg] Detto di mezzi di trasporto, compiere un percorso in un certo tempo, a una certa velocità, secondo certe modalità: il diretto viaggia con mezz’ora di ritardo, a 120 chilometri all’ora; detto di merce, essere trasportata in un certo modo: la merce viaggia in treno.

Viaggiare vuol dire in primis, quindi, “spostarsi“.
Lasciare la propria casa, i propri affetti per dedicarsi a un percorso esperienziale che porti alla conoscenza non solo di nuovi posti, nuovi luoghi, ma anche di nuove lingue, nuove abitudini, nuovi modi d’intender la vita e le cose del mondo.
Certo, però, per condurre un viaggio all’insegna dell’inaspettato e della sorpresa, basterà lasciarsi andare all’imprevedibile e pernottare in uno di questi 5 strambi hotel.

1. V8 Hotel, Stoccarda, Germania

Se siete appassionati di auto, non potete farvi mancare un’esperienza di questo tipo.
L’albergo a 4 stelle, situato nell’area di Böblingen, offre una comoda sistemazione e connessione Wi-Fi.
Tutte le camere sono arredate secondo un gusto e uno stile Bauhaus e seguono decorazioni e installazioni che ricordano il mondo automobilistico.

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2. Georgian House, Londra, Regno Unito

Immaginate: magia, streghetti, Hogwards.
E invece no, è Londra.
Il Georgian House Hotel, costruito nel 1851, offre una struttura comoda, è situato a 800 metri dalla Stazione di Londra Victoria e dista circa 3 km da Hyde Park.

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3. The Library Hotel, New York, Stati Uniti

Amanti della lettura, qui gli occhi.
Questo hotel, ubicato a 2 minuti a piedi da Bryant Park e dal Grand Central Terminal, oltre alla connessione Wi-fi gratuita offre anche una biblioteca contente migliaia e migliaia di libri.

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4. Panda Inn, Emeishan, Cina

Quanto ci piacciono i panda?
In questo hotel tutto, davvero tutto, è dedicato all’orsetto più amato dai bambini (e dagli adulti).

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5. iRooms, Roma, Italia

Soggiorno romano? Perché non pernottare in un hotel a tema?
Ubicato nel centro storico di Roma, a 5 minuti di cammino dal Pantheon e da Piazza Navona, l’iRooms Pantheon & Navona offre camere con connessione WiFi, iPad e minibar gratuiti.

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David Bowie avrebbe compiuto 70 anni, ecco come viene ricordato

Buon compleanno, David Bowie.

Se il duca bianco fosse ancora in vita, sarebbe questo il coro da dedicargli per i suoi 70 anni compiuti ieri 8 gennaio 2017.
In onore del suo compleanno è stato pubblicato un nuovo EP “No Plan” contenente tre nuove tracce registrate per il musical Lazarus: “No Plan”, “Killing a Little Time” e “When I Met You”.

L’omaggio a Bowie non ha rivali e non vede alternative se non quella di ricordarlo nei giorni che intercorrono tra il suo compleanno e la sua scomparsa avvenuta il 10 gennaio 2016.
Così già ieri a Londra si è tenuta una reunion di amici e colleghi in memoria di Ziggy Stardust nella 02 Academy Brixton, mentre Sky ha preparato un programma di eventi e spettacoli per salutare ancora una volta in maniera nostalgica il Duca Bianco.

Dalle 21.15, infatti, Sky Arte HD ha mandato in onda il documentario “Bowie – The man who changed the world” con una serie di interviste esclusive e approfondimenti, il docu-film “Ziggy Stardust and the Spiders From Mars“, per poi concludere la serata con l’episodio di “Video Killed The Radio Star” a lui dedicato.

Anche Premium ha reso omaggio al cantautore con il film su PremiumComedy “Il mio west” nel quale interpretava la parte di un pistolero senza scrupoli.
Dopo i successi de “I laureati” e “Il ciclone”, Pieraccioni decise di mettere in scena nel 1998 una mega produzione western in pieno stile-Sergio Leone.
Il film girato in Garfagnana non ottenne il consenso del pubblico e venne presto dimenticato.

Ma Bowie rimane e rimarrà nel cuore di tutti quelli che lo hanno apprezzato ed amato ed è per questa ragione che questo 10 gennaio VH1, il canale musicale di Viacom International Media Networks Italia (canale 67 del digitale terrestre) manderà in onda la David Bowie Anniversary Night, una notte di intera produzione su Bowie.
E ancora Studio Universal (canale 337 di Mediaset Premium) contribuirà ad alimentare il ricordo del Duca Bianco con il fantasy “Labirynth – Dove tutto è possibile“.

Nel frattempo basterà cliccare sull’hashtag #DavidBowieNight per seguire da vicino l’intero programma.

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David Bowie sits holding a cigarette in Cannes, May, 1983. (AP Photo)
David Bowie sits holding a cigarette in Cannes, May, 1983. (AP Photo)

Choker Necklace da uomo, tendenza A/W ’17

Il choker è tornato – e non solo per le donne.
L’accessorio più amato dalle donne per tutto il 2016 avrà nuova vita sul collo degli uomini che lo useranno e lo usano già da questo inverno.
Si tratta di #MaleEmpowerment e sembra non avere confini per quel che riguarda l’accessorizing.
Già Asos e Topman lo hanno messo in vendita per un prezzo che varia a partire dai nove dollari, un prezzo alla portata di tutte le tasche.

Anche se presentati la scorsa estate durante le sfilate di Louis Vuitton a Parigi e di Raf Simons a Firenze, i choker necklace (perché si parla di una collana, ndr) non erano ancora apparsi su colli che non posassero o non cavalcassero una passerella.
Non erano, insomma, ancora mai usciti dal contesto moda di un fashion show fin quando Matt Lauer non ha deciso di indossarne uno sul cartaceo TODAY.

Mentre però i men’s choker sembrano acquisire visibilità, a perderne è il concetto ultimo di “uomo” considerato un manichino di prove che rispondono alla fatidica domanda: “quanto uomo e donna possono assomigliarsi?“.
Messo per un attimo da parte l’esistenzialismo di questo quesito, sarebbe bene far caso alla necessità della nostra società di categorizzare anche l’incategorizzabile, ovvero di definire in maniera specifica una tal cosa o un tal oggetto.
Già definire il choker “choker da uomo“, rende evidente la fragilità del concetto stesso di “uomo”. Basterebbe anche solo chiamarlo “choker”, ovvero girocollo.
Se il fine è quello di avvicinare sempre più il mondo femminile a quello maschile, far sì che s’incontrino e si mescolino, dov’è l’esigenza di specificare il genere di un accessorio? O più in generale di un bene, di un oggetto?

Ma tendenza è e di tendenza si parla, destinata a rimanere nel cuore di alcuni e dimenticata da molti altri.
Così, come trend del momento, il chocker da uomo è apparso durante il fashion show di Bobby Abley durante la London Fashion Week Men’s.
Il choker in vernice, nonostante possedesse comunque un tono stridente, ha avuto la capacità di smorzare l’eccentrica collezione dedicata ai Power Rangers.

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London Fashion Week Men’s: Topman è nostalgia adolescenziale 90’s

Mood adolescenziale per l’uomo Topman.
L’autunno/inverno ’17 non è che un richiamo nostalgico, malinconico, carico di suggestioni che ricorda amori in frantumi, speranze da coltivare, passioni, melodico rock e camerette piene di libri e riviste.

Il look si presenta colorato, fresco e appariscente: i toni pastello ben si proporzionano a lunghe e calde felpe logate, frange e pellicce s’alternano a pelle e bomber jacket androgini.

È il ritorno nostalgico degli anni ’90, è il racconto dell’amore vissuto a piccoli passi, delle prime esperienze cantate e risuonate come vecchie canzoni di Kurt Cobain.
La collezione sembra ispirarsi esplicitamente ai toni dei pub e dei club culturali degli anni ’90 in Gran Bretagna tanto da riprenderne una varietà e una diversità formale, la silhouette e i colori.
Un soft mood dato dai toni pastello riecheggia per tutta la collezione accompagnato da stampe psichedeliche, cappelli a secchio e loghi laddish.
Per un brand come Topman che sostiene da sempre una solida connessione con la musica, non poteva esser d’ispirazione un periodo e uno stile diverso da quello degli anni ’90.
Ma a Topman di questi 90’s piace soprattutto la cultura rave che si esplica sotto forma di bianchi calzini sportivi, pendenti con crocifisso e giacche a vento in nylon.
E ancora, come memoriale, a ricordare il periodo di massimo splendore della techno music sono le morbide maglie e i pantaloni neon in pelle da motocross.

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Il passaggio di generazione è stato affidato al figlio di Liam Gallagher (l’ex frontman del gruppo Oasis), Lennon Gallagher, del quale si è detto molto orgoglioso.
Il debutto di Lennon Gallagher avvenuto durante la settimana della moda maschile londinese ha il suo perché nello show di Topman, show che diviene così una dedica al sound 90’s.
Nato nel 1999 dall’unione di Liam Gallagher e Patsy Kensit, egli prende il nome da Jhon Lennon.
John Lennon significa tutto per me. Non potrei dire che è migliore di McCartney, direi che sono diversi, ma entrambi grandi. Mi piace di più la roba di Lennon perché è più bella, è più pazza“, ha spiegato Liam nel 2012.

I Vip dicono sì a Obama per la cerimonia d’addio, no a Trump

Volge al termine l’era Obama che si conclude con una cerimonia d’addio alla Casa Bianca.
Gli americani s’apprestano a salutare il primo presidente di colore in attesa di un ufficiale passaggio di consegne che vedrà l’insediamento del nuovo presidente Donald Trump.

Nel frattempo si è tenuto alla Casa Bianca il party per dire addio a Obama, party al quale sono stati invitati diversi attori, cantanti, vip, divi dello spettacolo e del settore dell’editoria.
Se l’invito di Obama non può esser rifiutato, declinare l’invito di Trump sembra essere diventato di tendenza.
Questa cerimonia d’insediamento non s’ha da fare, forse, vista la scarsa partecipazione di ospiti e la fatica del nuovo presidente nel trovarne altri disposti ad esibirsi.
Secondo alcune indiscrezioni pare che Trump, vedendosi senza soluzioni immediate, abbia affidato l’esecuzione dell’inno americano a una (quasi) sconosciuta adolescente di nome Jackie Evancho.
Celebri i nomi dei vip che hanno detto “no” al nuovo presidente, basti pensare ad artisti del calibro di Andrea Bocelli, Céline Dion e Elton John.
Mentre Trump è alla ricerca di inviti da stampare, tavoli da imbandire e musica da scegliere, Obama stila e compila la lista degli ospiti alla sua cerimonia d’addio.

Tra gli artisti ipotizzati hanno partecipato il cantante Usher, l’attore Samuel L. Jackson, la presentatrice Oprah Winfrey, l’attore Bradley Cooper, la popstar Beyoncé con il marito Jay Z, Stevie Wonder, George Lucas, J.J. Abrams.

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