ALEX BELLI UNCENSORED

ALEX BELLI UNCENSORED



 

Ciao ragazzi,

oggi vi porto con me fino al sud della Sardegna, in una spiaggia meravigliosa: le Dune di PISCINAS.

Le Dune sono una delle più grandi distese di sabbia d’Europa, una location rimasta intatta dall’abbandono delle miniere di minerali da 40 anni.

Ho scelto questo luogo per scattare l’editoriale DUNES con i costumi di Flavia Cavalcanti, una promettente costumista italiana, un posto dove il tempo si è fermato e dove si trovano ancora carrelli sui binari ricoperti dalla sabbia.

Un’atmosfera magica per rappresentare abiti che evocano storia e ricerca, qui l’editoriale e degli scatti direttamente dal backstage!

 

Model: Maylin Aguirre

Make up/ Hair Alessandro Filippi 

Costumi Flavia Cavalcanti

Photo Alex Belli @AXB Factory 

 

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Foto backstage:

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ALEX BELLI UNCENSORED

La comunicazione politica tossica

Si fa un gran parlare su vari siti e blog, di comunicazione politica manipolata, di “suggeritori
occulti”, di complotti.
Seguono a ruota, per “restare sul pezzo” (selettivamente scelto) vari giornali e televisioni che
sfornano questo o quel commentatore che si esprime e dice la sui metodi altrui.
La comunicazione diventa “tossica” quando viene strutturata non tanto secondo “tecniche retoriche”
(che sono sempre esistite) ma da quando vengono utilizzati in maniera sistematica sistemi di
manipolazione e di costruzione del messaggio.
Un sistema organizzato di comunicazione tossica – e che esiste da una ventina di anni, ovvero
da quando la rete nel resto del mondo ha cominciato interattivamente a svilupparsi, in particolar
modo con list server, chat, gruppi di discussione e poi blog – segue piccole e semplicissime regole.


I temi trattati non possono essere “spontanei”, perché devono essere svolti in una direzione
precedentemente stabilita.
Per fare questo vanno “testati” – non solo per argomenti, ma anche nella scelta delle parole, nella
sintassi e nella semantica – affinché successivamente possano essere “aggreganti”.
È quello che su twitter è conosciuto come “hash tag” – che in maniera immediata individua e crea
un gruppo di discussione e un tema e aggrega le persone in un “luogo”.
Nello specifico, vengono creati dei “luoghi di discussione paralleli”, in cui lanciare temi ed argomenti, simili ma semanticamente declinati in modo differente.
Si comprende come e quale sia quello di maggiore aggregazione e soprattutto con maggiore
capacità aggregante, si formula un messaggio semplice, e lo si rilancia in maniera massiccia sul
“portale principale”.
Il “nuovo messaggio” parte dalla massa critica già raccolta di utenti che hanno partecipato
precedentemente, che in maniera consapevole (pochi e i primi) rilanciano, e gli altri, di
conseguenza, attraverso un sistema di sharing diretto (condividi sui social network ad esempio) o
indiretto (mi piace, retwitt, commento indicizzato…). I temi trattati diventano anche “parole tag a incrocio semantico”. Il che significa, nel linguaggio degli algoritmi usati dai motori di ricerca, dagli rss, dai feeds, e così
via, che su ognuno dei temi chiave avverrà l’incrocio immediato (per rilevanza, data da rilanci
condivisioni e commenti) tra il sito/blog/autore e il tema trattato.
Nello specifico, è immediato che sui temi caldi, e più sentiti dalle persone, e più ricercati in rete,
automaticamente apparirà che quel blog ne ha parlato in maniera rilevante.


Le dinamiche del processo di aggregazione sono tanto semplici quanto difficili da realizzare, e sono il vero motore dinamico e impagabile del “prodotto finale”.
Avere infatti un numero più o meno rilevante di soggetti attivi perché convinti, significa anche
avere un patrimonio di lavoratori non pagati, che diffonderanno un messaggio/contenuto
difendendolo come proprio, e contemporaneamente generando accessi e massa critica di messaggi e
interazioni.


1. le parole semplici e i sillogismi noi siamo buoni e onesti chi non è con noi non lo è
noi siamo per… chi non è con noi non lo è noi non apparteniamo a… chi non è con noi non lo è
attraverso questo primo messaggio di ottengono due risultati: risultato immediato – aggregare soggetti che anche se non si conoscono tra loro s riconoscono in macro categorie offrire una prima replica collettiva – se non appartieni a questo gruppo è perché sei “un diverso da me”, quindi un antagonista.


2. “vince chi da spazio”
Nei gruppi sociali “normali” cercano, antropologicamente, di emergere delle figure di leadership.
In una società esasperata e in cui “mancano spazi di sfogo” la tecnica del “lasciar parlare, lasciar fare, dare spazi gratis” ripaga perché aggrega chi vuole dire qualcosa, e candida un certo contenitore ad essere referente di “chi ha qualcosa che vuole dire e nessuno gli da spazio”.


3. evitare l’incontro diretto
che genera leadership e mette in discussione la piattaforma di dialogo – non che le persone non si debbano incontrare mai, ma lasciare che il non luogo digitale resti il principale luogo.
Più semplice da moderare, controllare e analizzare, il messaggio è “il web facilita le discussioni restando comodamente a casa propria, è facile e gratuito”.


4. evitare il dibattito orale
Una discussione è fatta di linguaggio verbale (10%) ma soprattutto di non verbale e para verbale – e questi fattori di comunicazione interpersonale sono gestibili si, ma non del tutto controllabili.
Esistono corsi specifici per le persone che devono (o vogliono) parlare in pubblico.


5. soft e hard skills
scegliere persone con poche competenze specifiche e “appeal mediatico” (anche più facilmente manipolabili).


6. evitare il confronto
in un confronto si entra nel merito e si verifica il metodo.
Ciò impedisce la gestione della comunicazione per messaggi semplici, e monologhi.
Implica un’interazione difficilmente gestibile a priori.
Implica il porre domande e dover rispondere.
Questi primi sei punti si raggiungono con altrettanti messaggi semplici da condividere in maniera non mediata. Facciamo qualche esempio.
“Chi ha una competenza specifica appartiene a una casta.”
“Se accettate il confronto nel merito legittimate l’avversario.”
“Nel confronto orale fate il gioco degli imbonitori di mestiere.”
“Nel dibattito loro vengono da anni di politica e fanno solo retorica.”


Il processo di difesa del gruppo
Un gruppo “da gestire” deve necessariamente essere tenuto “chiuso”.
Se il gruppo si apre, dal confronto nasce il potenziale “mettere in discussione il metodo”.
Per tenere un gruppo chiuso basta farlo sentire “sotto attacco”, e va tenuta sempre alta la tensione in
questo senso.
Un gruppo “sotto attacco” necessariamente (istinto di sopravvivenza) si stringerà su se stesso a
difesa – apparentemente di sé – di fatto del “capo”.
[non esistono ad esempio elezioni in tempo di guerra che abbiano cambiato un governo in carica]
Anche qui la regola della comunicazione semplice è quella vincente, proprio perché si parla ad una
“massa” diffusa ed eterogenea.
Ma il sistema va declinato in tre momenti complementari.
a. far sentire la pressione, e se non c’è, crearla o alimentarla
b. individuare dei nemici “generici” (es. giornalisti, professori, politici…) e indicare possibili
interazioni tra gruppi di nemici generici (teoria del complotto, “la casta”…)
c. fornire “armi semplici e immediate” di risposta collettiva
parlare di un generico clima d’odio serve a questo, che poi ci sia davvero è meno importante,
basta alimentarlo e “farlo percepire”;
i complotti sono un messaggio “facile” nella storia italiana, abituata a massonerie e accordi di
potere trasversali, dimostrarli in questo caso non è necessario, basta che “sia plausibile”;
ecco le risposte più comuni e facilmente utilizzabili in ogni occasione:
“ci attaccano per difendere i loro interessi”
“se ci attaccano è perché abbiamo ragione”
“se ci attaccano è perché ci temono”
“sono membri della casta che combattiamo”
“la macchina del fango”
se scrive un professore universitario “è il mondo dell’accademia e dei baroni”
se scrive uno di un partito di destra o di sinistra “è schierato”
se lo fa un giornalista “i monopolisti dell’informazione” o “pennivendoli”
se scrive un parlamentare “è della casta”
se è troppo vecchio “è vecchio”
se è giovane “è troppo giovane”…
se scrive uno indipendente … “e questo chi è…”
tuttavia l’effetto collaterale di “far chiudere un gruppo in se stesso” facendolo sentire sotto assedio,
necessitando di frasi “violente” (vaffanculo, vi seppelliremo vivi, siete finiti, siete morti..), genera
davvero nell’altro un sentimento “violento”.
La necessità di fare gruppo sul “noi siamo gli onesti” implica – sillogicamente – che per
definizione “tutti gli altri non lo siano”, e questa in sé è una “provocazione violenta”.


Il prodotto finale – che nel caso di un partito politico è il programma elettorale – alla fine risente di tutto questo processo e di questo sistema di comunicazione.
Titoli che altro non sono che l’elenco dei temi caldi di cui abbiamo parlato all’inizio.
Temi su cui, è ovvio, difficile se non impossibile (proprio per loro natura implicita) che la
stragrande maggioranza della società non può non riconoscersi.
Le differenze tra i partiti e i movimenti politici tuttavia non risiedono nel contenuto (per la
maggioranza dei casi) ma nel metodo.


Tutto questo, che può apparire un sistema “troppo semplice”, in realtà è molto complesso da
realizzare.
Occorre tempo, molto lavoro, e anni di “sociologia della rete”, di studio e sviluppo delle interazioni
e dei gruppi da aggregare, di semantica, oltre che di creazione di siti, blog, contenuti e contenitori
che in qualche modo, nel tempo, apparentemente tra loro isolati, costruiscono una macchina di
consenso unitaria.
Grande Fratello?
No, semplice “comunicazione tossica”.
Ed è virale e contagiosa.
Perché se porta risultati “utili” altri la imiteranno.
La sua origine?
Il vuoto politico dei vecchi partiti.
L’incapacità di essere spazi di dialogo, mediazione e ricezione delle istanze delle persone.
Che non incontrandosi più fisicamente e discutendo tra loro, finiscono con il ritrovarsi nel circuito di una comunicazione elettronica e mediata, costruita su linguaggi semplici, ancor più nell’unico
spazio che apparentemente “da spazio e voce ai cittadini”.
Conta poco che i sondaggi elettronici messi online siano assolutamente manipolabili.
Conta poco che tecnicamente puoi creare fake che modificano le presunte votazioni nei gruppi.
Conta poco che si usi il metodo Condorcet nelle presunte primarie.
Quello che conta è che hai creato una macchina in cui “appare” che le persone partecipino
attivamente, che abbiano la sensazione “a monitor” di essere attive, partecipi, protagoniste e che
qualcuno le ascolta.
E chiunque dica il contrario è un nemico.
Perché priva le persone del “sogno” di uno spazio in cui “esistere”, in un modo che questo spazio
non lo da…

Levi’s e Google: nasce il primo giubbotto smart

Il mondo sarà sempre più connesso grazie a Levi’s Commuter x Jacquard by Google Trucker Jacket, la giacca ideata da Levi’s in collaborazione con Google.

La partnership tra i due colossi americani, che risale al 2015, ha prodotto una giacca che rimane connessa allo smartphone e che consente a chi lo indossa, di poter rispondere alle telefonate, leggere gli sms oppure ricevere indicazioni stradali come un vero navigatore.

 

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Il giubbotto è stato sviluppato da Advanced Technology and Projects (la divisione di Google che si occupa dei progetti più innovativi dell’azienda), mentre il design e i materiali sono stati curati da Levi’s.

 

 

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Il dispositivo è rimovibile per la ricarica e per consentire il lavaggio del tessuto

 

 

Il polsino, è una specie di smartwatch collegato al dispositivo attraverso il Bluetooth. Questa novità, permetterà soprattutto a chi si sposta sulle due ruote, di percorrere le strade in piena sicurezza, evitando distrazioni che potrebbero causare incidenti anche gravi.

Il giubbotto è ancora in fase di perfezionamento e sarà disponibile solo a partire dalla primavera del 2017.

 

 

 

Rihanna designer per Dior

Tre scatti che portano la firma del fotografo Jean-Baptiste Mondino, annunciano l’imminente collaborazione tra Rihanna e Dior.

La cantante barbadiana vestirà i panni di designer per una collezione di occhiali da sole ispirati al personaggio di Geordi La Forge di Star Trek.

Tra RiRi e la maison di lusso francese, è ormai scoccata la scintilla. Dopo averla scelta come testimonial della campagna Secret Garden, la griffe si affida alla creatività della giovane star, che pare si voglia avvicinare al fashion biz non solo come testimonial, ma anche come stilista.

 

(fonte Jean-Baptiste Mondino)
(fonte Jean-Baptiste Mondino)

 

 

Rihanna, ha già avuto esperienze nel mondo della moda siglando per Puma, la collezione FENTY PUMA BY RIHANNA e per Manolo Blahnik, una serie di sandali e cuissards in jeans.

Sono ossessionata da sempre dagli occhiali da sole di La Forge. Quando sono andata da Dior e ho visto tutti i materiali con cui avrei potuto divertirmi tutto è venuto naturale. – Ha commentato Rihanna – Ho trascorso una giornata con il loro ufficio stile. Ho iniziato facendo ricerca negli archivi per vedere cosa avevano fatto in passato, e poi ho iniziato a prendere dimestichezza con i materiali. Così mi sono seduta e ho iniziato a disegnare fino a che il lavoro non mi ha soddisfatto, con l’aiuto del team di Dior. Durante lo stesso giorno abbiamo scelto i materiali e i colori, e una settimana dopo ho visto il primo prototipo”.

 

Rihanna designer per Dior (fonte Jean-Baptiste Mondino)
Rihanna designer per Dior (fonte Jean-Baptiste Mondino)

 

 

Il prezzo degli occhiali, oscillerà tra gli 890 dollari per il modello base e 1,950 per la versione luxury con dettagli in oro 24kt.

La collezione Dior By Rihanna, potrebbe essere disponibile nelle boutiques e nei negozi selezionati, a partire da giugno 2016.

 

 

 

Fonte cover Jean-Baptiste Mondino

ISIS la comunicazione del terrore

Da sigla quasi sconosciuta, e relegata a costola di al-Qaeda, oggi l’ISIS domina le pagine di tutti i giornali del mondo e “invade” – letteralmente – il web, ponendo mille interrogativi e generando qualsiasi teoria complottista e retroscenista.
Nel mio ebook “Isis, la comunicazione globale del terrore” quello che ho analizzato e il “modello comunicativo”, ossia l’evoluzione del modo con cui i movimenti jihadisti e qaedisti hanno deciso di comunicare, la loro strategia di creazione del modulo-mito e gli obiettivi strategici di questa nuova forma comunicativa.
Ma ho affrontato anche alcune delle “teorie del complotto” grazie alle quali il mito viene alimentato e rilanciato e crea una sorta di ulteriore “alone di mistero” utile a creare fascinazione, soprattutto all’estero.
Del resto si immaginano teorie del complotto e retroscena solo di fenomeni “rilevanti nella storia”, e per diventare “rilevanti nella storia” non c’è niente di meglio che alimentare e creare un complotto o un mito retroscenico oscuro che alimenti – ulteriormente – la ricerca e la discussione.
Non esiste infatti nulla di più attrattivo della partecipazione di un “mistero da svelare”, di una verità da scoprire, di un complotto da smascherare; e tutto questo, con un uso sapiente della rete, e mettendo insieme indizi che tra loro insieme non stanno, è anche possibile trasformare questa “ricerca della verità” in un vero e proprio “social game” interattivo, in cui ogni player, ogni navigatore, ogni lettore, finisce con il contribuire al puzzle della “rilevanza in rete” (anche solo un link interno ad un post o con un click che faccia salire il risultato nelle classifiche di Google).
Al di là del giudizio certo sul fatto che sia la più spietata organizzazione terroristica, ISIS si caratterizza per essere anche la più strutturata macchina di propaganda e arruolamento globale del terrore.


Se non ci fosse stata al-Qaeda, se non ci fossero stati attacchi così spettacolari negli anni, culminati con l’attacco alle torri gemelle, e se non ci fosse stata una così fitta campagna mediatica che – involontariamente e forse anche incautamente – ha creato “il mito” del martire che come Davide che sconfigge Golia “porta l’attacco nel cuore dell’occidente”, tutto quello che stiamo narrando come evoluzione non avrebbe avuto il suo nucleo fondamentale.
al-Qaeda è stata la fucina che ha forgiato in almeno due direzioni la nuova struttura del terrorismo estremista e fondamentalista.
Da un punto di vista organizzativo, la struttura a “cellule” tra loro scollegate ha tolto l’arma più potente nelle mani dell’occidente: l’intelligence e la capacità di ricostruzione delle strutture organizzative e degli alberi sociali delle strutture terroristiche.
Tutto il know-how di intelligence è stato letteralmente reso inutilizzabile, come hanno dimostrato anche i numerosi arresti e i tentativi di ottenere informazioni anche sotto tortura e con mezzi “non convenzionali”. Nessuno degli arrestati, anche quando deciso a collaborare, aveva notizie davvero importanti e rilevanti, men che meno capaci di assestare colpi decisivi alla struttura dell’organizzazione.
Da un punto di vista della comunicazione, ogni altra organizzazione terroristica e combattente conosciuta dalla seconda guerra mondiale in avanti (anche prima ovviamente) aveva come elemento essenziale di sopravvivenza la segretezza (o comunque riservatezza) sulle identità dei propri leader.
al-Qaeda inverte questo fattore e “crea miti” proprio viralizzando e mostrando volti e diffondendo discorsi audio e video, in primo luogo di Osama bin Laden.
Sfrutta “l’effetto Che Guevara” per favorire l’arruolamento in un’organizzazione che oltre ad un progetto jihadista offre protagonismo e visibilità.

≪Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro,i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me,e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata≫.
Sono i versi di The New Colossus, dedicato da Emma Lazarus alla Statua della Libertà, e scolpiti sul suo piedistallo, diventati un vero e proprio inno per le decine di milioni di immigrati che hanno trovato negli Stati Uniti la terra promessa.
È questa la parafrasi-nemesi che propone la comunicazione qaedista: trasformare persone anonime, ai margini delle società, in terre povere e devastate da guerre e conflitti, “persone senza speranza” in eroi e martiri.
In una forma “nuova” e più efficace di quella che avevamo conosciuto con l’intifada palestinese, in cui veniva offerta una “pensione” alla famiglia del kamikaze e manifesti “che avrebbero reso immortale l’eroe della jihad”.
Si va ben oltre il mito delle vergini in paradiso.
Quì la leva è il protagonismo, l’uscita dall’anonimato, la possibilità di diventare “leader e comandanti riconosciuti” di una guerra terrorista venduta mediaticamente come vendetta, come guerra di resistenza e liberazione.
Ne La Stanza Stupida – in un ragionamento circoscritto ai “gruppi social chiusi e ristretti” – scrivo:
“Prendete dei giovani, studenti, ragazzi che stanno entrando nel mondo del lavoro.
Metteteli in contatto tra loro, offrendo un mito, un esempio, un valore sociale alto cui ambire ed una
comunità che intende “eroicamente” realizzarlo. Usate il web per cementare questo rapporto di relazione grazie al fatto che – in rete – i numeri possono raggiungere le migliaia (le interrelazioni restano al massimo di un paio di centinaia). Avrete un esercito pronto a combattere ogni vostra battaglia, a testa bassa, con coraggio e senza risparmio di tempo e di risorse. Perché avrete creato l’alchimia perfetta in cui rientra praticamente tutta la piramide di Maslow.”
È solo partendo da questa considerazione sull’evoluzione della forma del messaggio e del cambiamento profondo dell’approccio mediatico che possiamo comprendere anche perché sia così
efficace la campagna di aggregazione, sostegno e arruolamento dell’ISIS.
Per la prima volta infatti – salvo sporadici episodi marginali – la jihad esce dai confini territoriali e
culturali di specifiche aree geopolitiche, e fa proseliti in occidente, presso ragazzi occidentali.
Di più, prende a piene mani da quelle esperienze e competenze comunicative per implementare e
sviluppare maggiormente l’efficacia della sua strategia comunicativa.
Secondo l’islamista Oliver Roy “All’inizio, il cosiddetto “Stato islamico” era un clone di Al-Qaida,
ma se ne e allontanato a causa del fallimento dell’organizzazione di Bin Laden. Il suo genio era stata
la creazione di una organizzazione non-localizzata, che era veramente globale nell’azione, nella
comunicazione e nel reclutamento. Al-Qaida è stata quindi in grado di sopravvivere a tutte le
campagne territoriali (Afghanistan, Iraq) lanciate dagli americani. Obama ha fatto qualche
progresso ‘deterritorializzante’ la risposta americana, prima di tutto rendendosi conto di non dover
cadere nella trappola di inviare truppe.
La formula di al-Qaeda si esaurisce perché non è riuscita a rinnovarsi ed eseguire azioni capaci di
“offuscare” l’undici settembre. È stato concluso che era necessario ‘ri-territorialize’ la lotta e allo
stesso tempo mantenere la sua dimensione internazionale: creando il “Califfato islamico”. Ciò
permette di reclutare più volontari rispetto al sistema di Al-Qaeda.


Uno degli aspetti più interessanti dell’organizzazione e della strutturazione dei sistemi informatici
dell’ISIS è che sono esattamente la dimostrazione di quanto i cyber-utopisti sbagliano, e di come le
legislazioni occidentali che hanno tenuto conto dei think-tank che proponevano l’onnipotenza
libertaria della rete si sono rivelate un boomerang.
Ne abbiamo parlato molto nell’articolata inchiesta pubblicata proprio su D-Art qualche mese fa.
L’idea per cui “internet è l’arma della libertà” che avrebbe abbattuto dittature e totalitarismi, già
naufragata nelle primavere arabe, ma resistita nonostante tutto soprattutto grazie a una certa
pubblicistica che non poteva ammettere di aver sbagliato, oggi mostra concretamente tutti i suoi
limiti.
Del resto questa idea di onnipotenza, e di capacità “a senso unico” come arma di esportazione di
libertà e democrazia, era utile alle potenti e ricche aziende della Silicon Valley, che richiedevano
“poche regole e molti fondi” per sviluppare i propri progetti.
Nel suo “L’ingenuita della rete” Evgeny Morozov scriveva gia nel 2011:
“Feticismo tecnologico e una richiesta continua di soluzioni digitali fanno inevitabilmente crescere la domanda di esperti di tecnologia. Questi ultimi, per quanto possano essere bravi nelle questioni riguardanti la tecnologia, raramente hanno familiarità con il complesso sociale e politico in cui le soluzioni che propongono sono da mettere in pratica. Ciò nonostante ogni qual volta i problemi non tecnologici vengono visti attraverso la lente della tecnologia, sono gli esperti di tecnologia ad avere l’ultima parola. …Molti visionari digitali vedono il web come un coltellino svizzero, buono per qualsiasi necessita. Raramente ci avvertono dei buchi neri informativi creati dalla rete. … Quasi tutti i guru della rete pongono domande scomode sugli effetti sociali e politici di internet. E perché mai dovrebbero porle se queste possono svelare che anch’essi hanno poca capacita di controllare la situazione? E per questo motivo che il tipo di futuro preannunciato da quei guru, che hanno bisogno di predirne uno plausibile per sostenere che la loro soluzione funzionerà davvero, raramente prende in considerazione il passato. I tecnologi, soprattutto i visionari tecnologi che invariabilmente saltano fuori a spiegare le tecnologie al grande pubblico, estrapolano ampiamente dal presente e dal futuro, ma mostrano un interesse dolorosamente limitato per il passato. […] E grazie a quegli annunci trionfali di una nuova rivoluzione digitale che cosi tanti guru di internet diventano consiglieri di quelli che hanno in mano il potere, compromettendo la loro stessa integrità intellettuale, e assicurando la presenza dell’internet-centrismo nella pianificazione politica per i decenni a
venire.”

Mai nulla fu così profetico, se cominciamo a leggere il presente senza preconcetti.
Lo psicologo tedesco Dietrich Doner nel suo “la logica del fallimento” (in cui descrive come i
pregiudizi psicologici innati in coloro che prendono le decisioni politiche possono aggravare i
problemi invece di risolverli) sostiene: “non è affatto chiaro quale fra “buone intenzioni più stupidita” o “pessime intenzioni più intelligenza” avrebbe causato maggior danno al mondo. … persone incompetenti armate di buone intenzioni raramente hanno i patemi d’animo che talvolta inibiscono le azioni di persone competenti con cattive intenzioni”.


È straordinario constatare che ISIS si muove in rete esattamente come se seguisse alla lettera un
teorico manuale del perfetto oppositore di un regime totalitario – in Cina quanto in Corea
del Nord – scritto da un cyber-utopista neo-con americano.
Chat criptate, area download di risorse per la criptazione delle mail, usare torrent per la condivisione
dei file, poggiare copie disponibili su “archivi cloud”.
Non possiamo cadere nell’errore delle “stanze stupide” dei consiglieri della Casa Bianca degli
anni cinquanta, quelli che consideravano i vietnamiti o i coreani semplici contadinotti analfabeti che
sarebbero stati schiacciati in pochi giorni e con facilità.
Non può essere la via della sottovalutazione del rischio quanto della reale forza (in questo caso
mediatica) in campo un indice di distacco, censura, rifiuto.
Noi abbiamo il dovere morale di comprendere innanzitutto che la globalizzazione della rete rende
globali i messaggi: sia che parliamo di una nuova auto, di una nuova bevanda, di un abbigliamento,
di una canzone o un film, sia che parliamo di comunicazione globale di un’idea: sia che ci piaccia
sia che sia la nostra sia che non ci piaccia sia che ci faccia orrore.
Pensare ancora che il web sia l’arma della libertà contro le dittature significa non aver minimamente compreso che – invece – molto spesso i regimi totalitari “vogliono” i social network, che mentre sono luoghi di aggregazione di idee, rischiano di diventare anche l’agenda personale della polizia repressiva, che entrando in un gruppo su Facebook in pochi minuti, oggi, riesce a mappare e schedare “tutti quelli che la pensano in un certo modo”.
Non contemplare questo effetto collaterale è non aver compreso quale sia il doppio taglio della
rete globale.
Esattamente – elevato all’ennesima potenza – il rischio che tutti quegli strumenti che le aziende
della new economy spacciano nel mondo come armi a disposizione degli oppositori dei regimi
oppressivi, oggi diventano strumento di camuffamento, di offuscamento e irrintracciabilità di questo
o quel gruppo jihadista.
Il rischio delle “stanze stupide” – in cui spesso guru dell’ultima ora si rinchiudono e chiudono i
politici che devono decidere anche per noi – è di vedere solo “il web che vogliamo vedere”, che ci
piace e che ci fa comodo. E che forse genera introiti per qualcuno. Per poi scoprire twittando della
coppa del mondo di calcio, che c’è qualcuno che gioca in strada usando come palla una testa
mozzata.
Per quanto possa apparire cruda questa idea, è ben lontana dalla durezza e dall’orrore che hanno
provato, in diretta, milioni di persone che questa idea non l’hanno letta o immaginata, ma se la sono
ritrovata su twitter, come foto o come video: adulti, adolescenti, bambini tifosi di calcio di tutte le
culture del mondo.


La globalizzazione del terrore, che ieri si è esercitata con al-Qaeda e che oggi ha il logo e il marchio
dell’ISIS, è solo un pezzo, quello forse primordiale, della nuova forma della comunicazione globale
dell’estremismo, che recluta in tutto il mondo, in tutte le fasce d’età ed in ogni lingua, e che diffonde
il suo messaggio senza alcun limite e confine territoriale, senza fasce protette, senza distinzioni di
sesso, razza, religione, colore, situazione, contesto.
E come ogni prodotto virale, come nei passaggi dalla comunicazione qaedista a quella del califfato,
l’unica regola è che “chi viene dopo” dovrà essere “più bravo, più virale, più strutturato” per
emergere, ma anche più crudo, più violento, più sanguinario e con ancora meno limiti, per emergere
come “soggetto nuovo” per evitare che “per il pubblico” sia qualcosa di “vecchio e già visto”.


Nel lungo viaggio che ho compiuto per la mia ricerca all’interno della rete fondamentalista per raccogliere materiali e informazioni da cui e su cui scrivere, devo confessare che io per primo ho avuto una nausea ed una crisi di rigetto profonda. Che in maniera quasi salvifica in certi casi mi ha fatto quasi pensare “adesso mi arruolo anche io per combatterli questi”. Ed anche se dall’altra parte, ed anche se io, con la mia cultura, le mie convinzioni, i miei principi ed i miei valori, non avrei mai fatto concretamente una scelta del genere, se questo pur momentaneo pensiero ha attraversato la mia mente, significa che la capacita di penetrazione del messaggio è davvero al di là ed al di sopra di quanto io stesso non sono certamente riuscito a comunicare in maniera efficace.
L’estremizzazione del messaggio fondamentalista e jihadista non è efficace solo se “tu scegli di
combattere da quella parte”, ma raggiunge un risultato anche se tu semplicemente scegli di
combattere quella guerra, perché in fin dei conti raggiunge l’obiettivo di farti schierare in prima
persona sul campo, che significa legittimazione come avversario, unico e definitivo. Che poi è
l’obiettivo politico globale dell’ISIS.


Guardando dall’esterno un giovane, un adolescente, che si imbatte in una qualsiasi delle nostre
periferie occidentali in una rete jihadista, non si immagina a quale bombardamento mediatico possa
venire sottoposto.
I video diffusi dall’ISIS sono strutturati per trasformare i videogiochi 2D di una normale consolle in
una possibile realtà “vera” 3D in cui essere player, protagonista, vincitore. A dispetto di quella realtà
“fuori la porta di casa” in cui tutto è “normale” ed in cui ci si perde nell’anonimato delle periferie
dell’opulenza.
Il bombardamento mediatico di “essere parte” di un gruppo, di fare la storia, di essere il bene che
piega il male, di essere “il nuovo”, di essere Davide che sconfigge Golia, di poter essere eroe, di
essere ricordato, diventare un martire di cui tutti parlano, essere “tu” il poster e per una volta
smettere di essere l’adolescente che appende il poster di un eroe in camera. Essere tua la foto, la
video intervista, il lungo articolo su un e-magazine, portato ad esempio “glorioso” di ragazzi come
te in tutto il mondo. La chance di uscire dall’anonimato e da una vita segnata per diventare “un
eroe”, un mito, un martire di Allah, di cui tutti parlano e di cui parleranno sui giornali.


Comprendere e chiarire a quale forma di lavaggio del cervello si viene sottoposti non è giustificare
o creare attenuanti a chi compie una scelta in tutto e per tutto folle, ma è dirsi con chiarezza a cosa
porta quella che in fondo, nella sua struttura base, è l’estremizzazione elevata all’ennesima potenza del marketing partecipativo del televoto, del “gioca da casa”, della brandizzazione commerciale come “status di appartenenza”, per cui se non hai un certo vestito di una certa marca o un certo zainetto per la scuola o un certo trucco, non sei bello, non sei trendy, non appartieni a un gruppo.
Questo è il nuovo “marketing partecipativo del terrore” che ti invita a essere parte di un gruppo che
fa la storia, che ti fa sentire parte di un progetto, che ti rende eroe e infondo la guerra è come un
videogame 3D e i campi di addestramento sono un grande campo estivo per ragazzi di tutto il
mondo. Le comunità qaediste e jihadiste sono come un gruppo di amici, con cui fai squadra, in cui ti
senti in famiglia, accettato, e cui puoi contribuire con un tweet, una foto, un messaggio, una
risposta, un account fake, qualche dollaro via Paypal…
Il messaggio di “noi adulti consapevoli”, che questo è un messaggio ed una comunità assassina e di
morte, non viene percepito, non è visibile… perché la morte, in questo eccesso continuo e costante e sovrabbondante, alla fine, è come se non esistesse, come se finisse con il non essere reale, come tutti quei nemici uccisi nel videogame o in un film hollywoodiano.


Elham Manea, una delle voci più coraggiose e brillanti dell’islam contemporaneo, ha scritto: ≪La verità che non possiamo negare è che l’Isis ha studiato nelle nostre scuole, ha pregato nelle nostre moschee, ha ascoltato i nostri mezzi di comunicazione … e i pulpiti dei nostri religiosi, ha letto i nostri libri e le nostre fonti, e ha seguito le fatwe che abbiamo prodotto. Sarebbe facile continuare a insistere che l’Isis non rappresenta i corretti precetti dell’islam. Sarebbe molto facile. Ebbene si, sono convinta che l’islam sia quel che noi, esseri umani, ne facciamo. Ogni religione può essere un messaggio di amore oppure una spada per l’odio nelle mani del popolo che vi crede≫.

H&M: Kenzo firma la capsule collection

In molti se lo chiedevano da tempo: chi sarà la griffe che collaborerà con H&M per l’annuale capsule collection?

La storia si ripete ormai dal lontano 2004 quando,  Karl Lagerfeld, prestò la sua creatività per il colosso di moda low cost svedese. Negli anni e in successione temporale si sono susseguiti: Stella McCartney, Elio Fiorucci, Solange Azagury-Partridge (2005), Viktor & Rolf (2006), Roberto Cavalli (2007), Rei Kawakubo e Comme des Garçons (2008), Matthew Williamson, Jimmy Choo, Sonia Rykiel (2009),Sonia Rykiel, Lanvin (2010), Versace (2011),  Versace, Marni, Maison Martin Margiela (2012), Isabel Marant (2013), Alexander Wang (2014) e Balmain (2015).

Per il 2016, saranno Carol Lim e Humberto Leon, designers di Kenzo, a firmare la nuova collezione che sarà in vendita a partire dal 3 novembre prossimo in 250 stores in tutto il mondo e sul sito ufficiale del brand.

 

 

 

 

 

Fonte cover H&M

“La Traviata” Di Valentino e Coppola

Ieri, 24 maggio 2016, è andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma, “La Traviata”: l’opera del maestro Giuseppe Verdi, rielaborata da Jader Bignamini sotto la regia di Sofia Coppola.

Presentata in anteprima ad un parterre selezionato il 22 maggio scorso, “La Traviata” si è aggiudicata il favore del pubblico, ma non ha convinto alcuni critici che vedono, secondo il loro punto di vista, un dramma depurato dalla sua natura sentimentalista.

 

Violetta Valery indossa un abito rosso disegnato da Valentino Garavani (® Yasuko Kageyama / Teatro dell'Opera di Roma)
Violetta Valery indossa un abito rosso disegnato da Valentino Garavani (® Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma)

 

Bozzetto disegnato da Valentino Garavani per "La Traviata"
Bozzetto disegnato da Valentino Garavani per “La Traviata”

 

Valentino Garavani, Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri (fonte www.telegraph.co.uk)
Valentino Garavani, Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri (fonte www.telegraph.co.uk)

 

 

Si apre il sipario: un lungo scalone bianco in primo piano. Sullo sfondo, un salone. Violetta, scende dall’alto e giunge sul pavimento e accende due candele posate su un tavolo: la sala viene rischiarata da una fioca luce. Inizia la festa.

Tutto è curato nei dettagli. L’ambiente è raffinato ed elegante, così come costumi di scena. Gli uomini, indossano una cravatta nera e le donne, lunghe vesti leggiadre. Violetta, interpretata magistralmente da Francesca Dotto, apre le porte della sua dimora parigina ai suoi invitati e ad Alfred Germont, interpretato da Antonio Poli. I tre atti, vengono interpretati fedelmente, ma forse la storia perde in parte il suo dramma.

 

Bozzetto abiti coro disegnati da Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli
Bozzetto abiti coro disegnati da Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli

 

Una scena de "La Traviata" (fonte d.repubblica.it)
Una scena de “La Traviata” (fonte d.repubblica.it)

 

 

La sofferenza di Violetta, che sussurra “Addio, del passato bei sogni ridenti” negli ultimi istanti della sua vita, è appena accennata. “La Traviata” di Sofia Coppola stride per alcuni versi con il libretto di Francesco Maria Piave, trascende dai sentimenti, quelli puri, raccontati una sera di domenica 6 marzo 1853, con la prima nel Gran Teatro La Fenice.

Che tanto clamore sia dovuto per gli abiti di scena Haute Couture firmati da Valentino Garavani e dagli stilisti Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli?

Violetta Valery indossa abiti di Alta Moda, lontani dai tradizionali costumi adottati per ogni pièce teatrale, solitamente confezionati con tessuti di bassa qualità.

 

Primo manifesta de "La Traviata" presentata al Teatro la Fenice di Venezia, domenica 6 marzo 1853 (fonte wikipedia)
Primo manifesta de “La Traviata” presentata al Teatro la Fenice di Venezia, domenica 6 marzo 1853 (fonte wikipedia)

 

Manifesto de "La Traviata" in scena al Teatro dell'Opera di Roma dal 24 maggio al 30 giugno (fonte Teatro dell'Opera)
Manifesto de “La Traviata” in scena al Teatro dell’Opera di Roma dal 24 maggio al 30 giugno (fonte Teatro dell’Opera)

 

 

Straordinario, l’abito nero con strascico verde petrolio del primo atto, come il vestito bianco con una liseuse de voile che Violetta indossa in campagna.  Esplosione di  rosso nella festa a casa di Flora nel secondo atto, con scollo abbondante chiuso da una spilla gioiello.

Il palcoscenico diventa una passerella di delicate ed eleganti creazioni. Di magnificenze sartoriali, create non solo dall’estro creativo degli stilisti, ma anche dalle mani laboriose delle sarte del Teatro dell’Opera.

Con un investimento di circa 1,8 milioni di euro, “La Traviata” ha segnato il suo primo record. Il sovraintendente del Costanzi, Carlo Fuortes ha dichiarato che già dal 20 maggio, il Teatro ha incassato 1,2 milioni di euro ricavati dalle prevendite.

Lo spettacolo sarà presentato con 15 repliche, fino al 30 giugno prossimo.

 

 

 

Fonte  cover ® Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma

Medicina narrativa: il racconto diventa una cura

Il racconto del proprio dolore come cura: è questo l’elemento principale della medicina narrativa o narrative based medicine (nbm). Chi soffre di una malattia cronica e incurabile, ma anche chi assiste un malato ha bisogno soprattutto di ascolto. Così tra gli anni ’80 e ’90 negli Stati Uniti è nato questo concetto medico che sta prendendo piede anche in Italia. Il presupposto è che la malattia non sia solo un insieme di dati oggettivi e sintomi fisici, ma anche esperienza soggettiva e percezione collettiva. Il racconto scritto e orale di sofferenze fisiche, psicologiche ed emotive costituisce un elemento prezioso sia per il paziente che per i medici, che possono così costruire un percorso di guarigione unico e personale, basato sull’esperienza soggettiva del singolo caso.


In Italia i primi a cogliere le potenzialità della medicina narrativa sono stati i medici del reparto di neurologia dell’ospedale civile di Alessandria. Dal 2013 nel reparto è presente una stanza adibita alla scrittura terapeutica, dove i pazienti (ma anche medici e infermieri) sono invitati a mettere per iscritto sensazioni, emozioni e pensieri provocati dalla malattia e dalle cure. La medicina narrativa, racconta con orgoglio il medico Antonio Maconi in un’intervista, «si concentra sul ruolo relazionale e terapeutico del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente e nella condivisione dell’esperienza, attraverso la narrazione, con il medico che lo cura». Il racconto assume valore terapeutico per il paziente, “costretto” a riflettere sulle reazioni del proprio corpo e della propria mente e ad interiorizzare quella “rottura biografica” che è il sopraggiungere di una malattia, che modifica la vita, le abitudini, i rapporti con gli altri. Ma scrivere e leggere queste storie è fondamentale anche per i familiari dei malati, e per medici e infermieri che ogni giorno si trovano a fronteggiare situazioni critiche. La scrittura terapeutica permette infatti diagnosi più precise e cure più mirate e personalizzate.


Tantissime sono le iniziative presenti in Italia per favorire la diffusione della medicina narrativa come metodo di cura e di ascolto del paziente. Di recente, infatti, è stato pubblicato il volume Storie Luminose, edito da 24Ore Cultura e realizzato da Novartis in collaborazione con la Fondazione ISTUD. Il libro raccoglie 50 storie di malati di sclerosi multipla, tra paura e speranza, disperazione e accettazione. La dottoressa Stefania Gori (Direttore dell’Oncologia Medica dell’Ospedale Don Calabria-Sacro Cuore di Negrar – VR) ha indetto un premio letterario dedicato a racconti di pazienti oncologici, dei loro familiari e dei professionisti a stretto contatto con il dolore. Allo stesso modo, l’Istituto Nazionale dei Tumori con Salute Donna onlus ha lanciato l’iniziativa Oncostories, mentre l’Ail in collaborazione con la scuola di scrittura Holden promuove i racconti di malati di leucemia. Un invito a scrivere è stato lanciato anche dall’ospedale civile di Alessandria con il concorso Racconta la tua storia, indetto dallo scrittore e giornalista Roberto Cotroneo, alessandrino, oggi direttore della Scuola di giornalismo della Luiss.

African Catwalk: il nuovo progetto editoriale di Per-Anders Pettersson

African Catwalk” è il nuovo progetto editoriale del pluripremiato fotografo di moda Per-Anders Pettersson, che racconta il continente africano in tutto il suo misterioso glamour.

 

Il glam della moda africana vista da Per-Anders Pettersson (fonte proof.nationalgeographic.com)
Il glam della moda africana vista da Per-Anders Pettersson (fonte proof.nationalgeographic.com)

 

Pettersson è affezionato al continente africano (fonte galleriacarlasozzani.org)
Pettersson è affezionato al continente africano (fonte galleriacarlasozzani.org)

 

 

Presso Galleria Carla Sozzani, martedì 31 maggio alle ore 19.00, verrà presentato il libro “African Catwalk” edito da Kehrer Verlag;  attualmente è in corso la mostra omonima, curata da Alessia Glaviano, photo editor di Vogue Italia e L’Uomo Vogue.

 

Kinshasa Fashion Week Congo (fonte galleriacarlasozzani.org)
Kinshasa Fashion Week Congo (fonte galleriacarlasozzani.org)

 

Johannesburg Fashion Week (fonte galleriacarlasozzani.org)
Johannesburg Fashion Week (fonte galleriacarlasozzani.org)

 

 

African catwalk esprime, attraverso le immagini, l’estro della moda africana, sempre più in fermento. È un excursus nella bellezza e nella complessità della moda Made in Africa, composta da magnifiche stampe che siglano le collezioni degli stilisti africani, sempre più attenti all’indagine sartoriale.

 

Backstage della DAKAR Fashion Week (fonte proof.nationalgiographic.com)
Backstage della Dakar (Senegal) Fashion Week (fonte proof.nationalgiographic.com)

 

Pettersson ha preso parte ad oltre 40 settimane della moda in tutta l’Africa (fonte peranderspettersson.com)
Pettersson ha preso parte ad oltre 40 settimane della moda in tutta l’Africa (fonte peranderspettersson.com)

 

 

Pettersson, già attivo durante la prima fashion week tenutasi a Johannesburg nel 2009, è tra i primi fotografi di moda che, con passione, ha immortalato una kermesse che fino a pochi anni fa era ritenuta piuttosto marginale e poco influente.

 

Il libro di Per-Anders Pettersson è edito da Kehrer Verlag (fonte galleriacarlasozzani.org)
Il libro di Per-Anders Pettersson è edito da Kehrer Verlag (fonte galleriacarlasozzani.org)

 

 

Il continente africano mostra tutto il suo glam grazie ai 75 scatti presenti in African Catwalk (fonte galleriacarlasozzani.org)
Il continente africano mostra tutto il suo glam grazie ai 75 scatti presenti in African Catwalk (fonte galleriacarlasozzani.org)

 

 

L’opera di Per-Anders mostra in tutto il suo splendore, il volto di un’Africa quasi del tutto sconosciuta ma patinata; un continente selvaggio e martoriato da numerose guerre civili e da una povertà quasi assoluta.

“African Catwalk”, raccoglie 75 immagini inedite, selezionate da Per-Anders Petterson in cinque anni di lavoro dal 2010 al 2015 in più di 15 diverse nazioni Africane.

 

 

 

Fonte cover Galleria Carla Sozzani

Youth Culture – GINNIKA l’expo di sneakers a Roma

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Appuntamento imperdibile per gli appassionati di sneakers nella capitale il prossimo 28 e 29 maggio 2016: Ginnika avrà luogo presso l’Ex Caserma di Via Guido Reni.
Definire la manifestazione expo di sneakers è si giusto, ma riduttivo. Ginnika è un grande contenitore di intrattenimento: nei due intensi giorni romani saranno messe in mostra le migliori sneakers degli ultimi trent’anni, oltre ad avvenire workshop esclusivi e manifestazioni.
Special guest di questa edizione sarà l’artista asiatico Mark Ong “SBTG”
, la cui estetica ibridazione di temi militari, horror e punk ha fatto scuola. L’artista durante Ginnika collaborerà con Diadora: saranno messe in vendita 12 sneakers da lui customizzate e i cui proventi andranno ad associazioni benefiche. Inoltre alla manifestazione prenderanno parte diversi artisti musicali: nella street culture si sa, la musica è un elemento imprescindibile.
Nella serata di sabato ci sarà il duo britannico Simian Mobile Disco a deliziare il pubblico con musica elettronica; mentre nella sala B la music selection prevede techno con i resident dj dello storico locale romano Goa.
Nella serata di domenica invece il genere musicale sarà l’hip-hop, con ospiti italiani e stranieri (Evil Needle, Danno e Baro per citarne alcuni).
Street culture significa anche sport: ci sarà un torneo di basket 3 VS 3 ed uno skate contest.
Inoltre sarà presente un grande market dove acquistare vinili, gadget e soprattutto sneakers.
L’estate romana inizia alla grande con questa manifestazione giunta alla terza edizione, il cui nome è ormai una consolidata realtà della scena street internazionale.


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Aston Martin Vanquish Zagato concept: stile a Villa d’Este

Aston Martin Vanquish Zagato Concept è il frutto di una collaborazione di notevole eccellenza tra la casa automobilistica Aston Martin e l’azienda milanese attiva nel design e nella produzione di carrozzerie, Zagato.

Il bolide creato da Andrea Zagato e Marek Reichman, è un prototipo one-off realizzato in occasione del concorso d’Eleganza di Villa d’Este, tenutosi a Como dal 21 al 22 maggio scorso.

 

Il design dell' Aston Martin Vanquish Zagato è stato curato in Italia da Zagato (fonte Aston Martin)
Il design dell’ Aston Martin Vanquish Zagato è stato curato in Italia da Zagato (fonte Aston Martin)

 

 

Con una scocca rivestita in fibra di carbonio, la Aston Martin Zagato Concept, rende omaggio all’Aston Martin One-77 per gli specchietti in dotazione e al modello Vulcan per i fanali posteriori; il tetto a doppia bolla, inoltre, richiama fortemente gli anni cinquanta.

 

L'auto è stata costruita in Inghilterra (fonte Aston Martin)
L’auto è stata costruita in Inghilterra (fonte Aston Martin)

 

 

Eleganza sopraffina e carattere sportivo, la Aston Martin Zagato Concept, premia i suoi 600 CV, con prestazioni da vera supercar.

Gli interni, curati nei particolari, sono stati realizzati in bronzo anodizzato, in fibra di carbonio e in pelle di pregiata qualità.

 

 

 

Fonte cover Aston Martin