Un astro nascente

Un fiore dal profumo inebriante sbocciato immediatamente. Questa potrebbe essere una delle definizioni più calzanti per la famosa attrice statunitense Jennifer Lawrence. In occasione dell’uscita nelle sale cinematografiche del nuovo film intitolato Joy, a partire da giovedì 28 gennaio, ripercorriamo le tappe fondamentali della breve, ma già intensa carriera di uno dei talenti più puri della scuderia hollywoodiana.

Jennifer Lawrence nasce a Louisville (Kentucky) il 15 agosto 1990. All’età di 14 anni convince i suoi genitori, Karen e Gray Lawrence, a condurla a New York per trovarle un agente ed intraprendere così la carriera di attrice.

L’esordio assoluto avviene con le serie tv TBS The Bill Engvall Show, grazie alla quale, per il ruolo interpretato, ottenne uno Young Artist Awards, e Cold Case – Delitti irrisolti.

Il 2008, invece, segna il debutto ufficiale sul grande schermo con le pellicole Garden Party e The Burning Plain – Il confine della solitudine, con Kim Basinger e Charlize Theron. In virtù di quest’ultima opera, la Lawrence riuscì ad aggiudicarsi il Premio Marcello Mastroianni in occasione della 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nello stesso anno comparve nel film The Poker House ed anche in questa circostanza fu premiata ai Los Angeles Film Festival.

Il successo è dietro l’angolo ed arriva puntuale a partire dal 2010. Il film Un gelido inverno consacra definitivamente il talento cristallino di un astro nascente del cinema in procinto di spiccare il volo nell’olimpo di Hollywood.

Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno
Jennifer Lawrence in una scena tratta dal film Un gelido inverno


Per aver ricoperto il ruolo della protagonista Ree Dolly, Jennifer Lawrence conseguì numerosi riconoscimenti dalla critica, tra cui il National Board of Review Award per la miglior performance rivelazione femminile, nonché una nomination all’Academy Award nella categoria “miglior attrice protagonista” nel gennaio 2011.

Il 23 marzo 2012 esce nelle sale Hunger Games, tratto dall’omonimo romanzo best-seller di Suzanne Collins, in cui la Lawrence recita al fianco di Josh Hutcherson, Liam Hemsworth e del cantante rock Lenny Kravitz.

Hunger Games
Hunger Games


Per interpretare al meglio la parte della protagonista Katniss Everdeen ,l’attrice americana si prodigò in un duro allenamento che prevedeva esercizi acrobatici, tiro con l’arco, arrampicate sugli alberi e le rocce, combattimenti, corsa, parkour, pilates e yoga. La pellicola fu un vero successo ed incassò ben 152,5 milioni di dollari in soli tre giorni.

La scalata verso la gloria continua con il ruolo di Mystica nel film X – Men – L’inizio, il prequel della celebre saga degli eroi mutanti degli X – Men, coadiuvata, tra gli altri, da James McAvoy e Michael Fassbender.

Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X - men - L'inizio
Jennifer Lawrence nel ruolo di Mystica per il film X – Men – L’inizio

 

Coppia fissa

Nel corso della sua brillante e vincente carriera, Jennifer Lawrence ha recitato più volte a fianco del noto attore statunitense Bradley Cooper.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence


È il caso, per esempio, dell’opera intitolata Una folle passione, uscita nelle nostre sale cinematografiche il 30 ottobre 2014 e tratta dal romanzo omonimo di Ron Rash, con la regia di Susanne Bier.

Scena tratta dal film Una folle passione
Scena tratta dal film Una folle passione


La fama internazionale, tuttavia, giunge nel novembre 2012 con Il lato positivo, grazie al quale si aggiudicò un Oscar, un Golden Globe e altri riconoscimenti come miglior attrice.

Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo
Bradley Cooper e Jennifer Lawrence in una scena del film Il lato positivo


Il suo sodalizio professionale con Bradley Cooper si rafforza e ne viene inaugurato un altro, quello con il regista David Owen Russell.

Il terzo film in compagnia di Bradley Cooper e il secondo con Russell in cabina di regia è American Hustle – L’apparenza inganna, con Christian Bale, Amy Adams e Jeremy Renner. La pellicola è uscita nelle sale italiane il 1° gennaio 2014.

Il cast di American Hustle
Il cast di American Hustle

 

Joy

A partire da giovedì 28 gennaio, grazie alla 20th Century Fox, sarà possibile prendere visione dell’ultimo film con protagonista Jennifer Lawrence, Joy, affiancata da Robert De Niro e, ovviamente, da Bradley Cooper e dalla regia di David O. Russell.

Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell "Joy"
Jennifer Lawrence nel nuovo film di David O. Russell “Joy”. Sullo sfondo Robert De Niro


La pellicola racconta la storia di Joy Mangano, una sorta di Cenerentola moderna sognatrice. Alle prese con la superba e prepotente sorellastra, la ragazza trascorre le sue giornate a pulire casa con uno straccio. Tuttavia, incredibilmente, sarà proprio il brevetto di un semplice e banale panno per pavimenti che condurrà Joy fuori dalla sua insignificante esistenza. Ma la strada per il successo si rivelerà irta d’ostacoli e problemi da superare, un costante slalom tra tradimenti, delusioni ed umiliazioni…

Joy è una commedia drammatica a tinte fiabesche caratterizzata da una voce fuori campo che accompagna lo spettatore nei meandri della vicenda. Se qualcuno dovesse etichettare la nuova fatica di David O. Russell come una soap opera non andrebbe molto lontano dalla realtà. Il linguaggio tipicamente televisivo, infatti, regna sovrano e la scena in cui il producer Neil Walker (Bradley Cooper) spiega a Joy (Jennifer Lawrence) il controverso mondo delle televendite funge da testimonianza principale.

Per questo motivo l’amalgama tra la favola della ragazza che non ha mai smesso di sognare e che riesce a costruire dal nulla un impero imprenditoriale, e l’immaginario collettivo cinematografico non trova una sostanziale coesione strutturale. Nonostante ciò, la prova attoriale di Jennifer Lawrence risulta, come sempre, di ottima fattura.

Il fiore del Kentucky continua a sbocciare…

Steve Jobs: la rivoluzione dell’informatica

Il 5 ottobre 2011 scomparve Steve Jobs, noto fondatore della Apple Inc., nonché inventore del mouse, delle icone, dell’iPhone, dell’iPod e dell’iPad. Un imprenditore visionario che ha saputo ispirare il genio creativo del regista inglese Danny Boyle. Nasce così Steve Jobs – Il film, fresco d’uscita nelle sale cinematografiche italiane grazie alla Universal Pictures. Un’opera biografica con un cast d’eccezione, in cui spicca Michael Fassbender nei panni del compianto informatico statunitense.
 

 
Siamo nel 1984 e il conto alla rovescia per il lancio del primo Macintosh è partito. Quattro anni più tardi toccherà al NeXT, mentre nel 1998 sarà la volta del iMac. Costantemente accompagnato dalla fedelissima Joanna Hoffman (Kate Winslet), Steve Jobs (Michael Fassbender) dovrà affrontare gli imprevisti dell’ultimo momento, i classici ed immancabili contrattempi che puntualmente fanno la loro comparsa sotto le sembianze di alcuni personaggi: Lisa, la figlia diciannovenne (Perla Haney-Jardine), Chrisann Brennan, madre di Lisa (Katherine Waterston), Steve Wozniak, il partner da sempre collaboratore fin dagli inizi di Los Altos (Seth Rogen), John Sculley, amministratore delegato della Apple (Jeff Daniels) ed Andy Hertzfeld, l’ingegnere del software (Michael Stuhlbarg).
 
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Il film di Danny Boyle (di cui ricordiamo Trainspotting, The Millionaire e 127 ore) è dotato di un’ottima ed intuitiva idea grafica. D’altra parte non poteva essere altrimenti, dato che stiamo parlando di un inventore informatico che ha fatto dell’anomalia il suo credo principale. Ispirato alla biografia di Walter Isaacson, Steve Jobs – Il film è altresì basato sul punto di vista del drammaturgo Aaron Sorkin, il quale, lungi dal raccontare la classica storia a tutti già nota del successo professionale affiancato dagli insuccessi nel campo privato, mischia le carte in tavola, mettendo in primo piano il successo umano ottenuto attraverso numerose fatiche e inanellando diversi momenti di decadenza personale, rappresentata da sogni andati in frantumi e addirittura da umiliazioni pubbliche. Tutto ciò non deve farci ingannare. Steve Jobs è un uomo caparbio, arrogante e anticonformista. Egli è altresì perfettamente consapevole dei suoi limiti e dei lati deboli del suo carattere, ma altrettanto saldo nei suoi difetti. Tuttavia, proprio grazie a queste qualità e a questi lati negativi della sua personalità, egli riuscì a creare prodotti imperituri e rivoluzionari. È proprio in questo contesto che Jobs viene dipinto come un leader a cui non interessa il gradimento della folla. Per lui ciò che conta è lasciare un segno indelebile nella storia. In fin dei conti il popolo, col passare del tempo, capirà, e Lisa, in rappresentanza della critica del volgo, farà lo stesso.
 
La pellicola è completamente ambientata dietro le quinte. Attraverso le lenti degli occhiali del protagonista Michael Fassbender, il pubblico prenderà visione di un artista le cui doti personali hanno fatto la differenza nel mondo dell’informatica. Steve Jobs era un mix di tecnica e capacità interpretativa, una sorta di direttore d’orchestra in grado di far suonare ogni singolo strumento in perfetta armonia con la propria concezione dell’arte.

 

Approfondimenti e curiosità
 

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Steve Jobs (24/02/1955 – 5/10/2011)

 
Steven Paul Jobs nacque a San Francisco il 24 febbraio del 1955. Egli fondò la Apple Inc. e la società NeXT Computer. Fu inoltre amministratore delegato di Pixar Animation Studios (prima dell’acquisto da parte della Walt Disney Company). Una delle sue invenzioni più importanti e rivoluzionarie fu l’”Apple Lisa”, il primo Pc dotato di mouse. Jobs fu uno dei primi informatici ad intuire le diverse funzionalità e potenzialità del mouse e dell’interfaccia a icone presenti sui Xerox Star arrivando a realizzare il Macintosh.
 
Il 2003 segna l’inizio della parabola discendente della salute di Steve Jobs. A causa di una rara forma di tumore maligno al pancreas da poco riscontrata, egli sviluppò il diabete di tipo 1, lasciando temporaneamente il posto di amministratore delegato di Apple a Tim Cook per circa due mesi.
 
Nell’aprile del 2009 Jobs subì un trapianto di fegato nel Tennessee.
 
Il 17 gennaio 2011 Apple annunciò che Jobs aveva richiesto un nuovo congedo medico.
 
Il 5 ottobre dello stesso anno, a soli 56 anni, Jobs morì a causa di una recrudescenza del carcinoma con conseguente arresto del sistema respiratorio.
 
Il 12 febbraio 2012, in occasione della cerimonia di consegna dei Grammy Awards, la National Academy of Recording Arts and Sciences insignì Steve Jobs con un’onorificenza ufficiale postuma per aver fortemente contribuito alla creazione di prodotti e tecnologie che hanno saputo trasformare le modalità di ascoltare la musica, guardare la televisione e i film e leggere i libri.

L’omosessualità ai giorni nostri

Proviamo a chiudere gli occhi per un istante ed immaginare una società priva di pregiudizi e preconcetti morali. Sarebbe un autentico paradiso terrestre, in cui ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero senza il timore d’incappare in assurdi giudizi, offese o accuse gratuite. Purtroppo però, una volta riaperti gli occhi, ecco di nuovo l’anacronistica e retrograda società civile odierna, densa d’ipocrisia, falsità, buonismo e prevaricazione. In un mondo come quello attuale una delle sfere messe maggiormente a repentaglio è sicuramente quella sessuale. È incredibile che ancora oggi, nel 2016, ci siano persone che intendono l’omosessualità come uno stato d’inferiorità o, in taluni casi, persino come una malattia da curare.

 

Riavvolgendo il nastro della storia, pongo alla vostra attenzione alcuni celebri personaggi che hanno saputo scrivere pagine indelebili nell’ambito della politica, della filosofia, dell’arte, della letteratura o della musica: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Socrate, Leonardo da Vinci, Oscar Wilde e Freddy Mercury. Per chi non lo sapesse, ognuno di loro era omosessuale. Sono tutti personaggi dotati di un talento immenso, ma chissà perché nel momento in cui si viene a sapere della loro identità sessuale qualcosa viene a mancare. Per carità, rimangono delle grandi figure, ma il loro apprezzamento da parte del volgo moderno diminuisce drasticamente. Immaginate una persona che, riferendosi ad esempio al grande Freddy Mercury, leader della storica rock band dei Queen, pronunci queste parole: “ Si, bravo cantante, grande carisma, però era gay…”. E quindi? Dov’è il problema? Come se essere gay andasse ad inficiare sulla personalità o sulle capacità proprie di una persona.

 

L’Italia, come sempre, non può mancare all’appello. Il nostro Paese vanta una nutrita schiera di bigotti e benpensanti. D’altra parte c’è il Vaticano. Come si può pensare ad un rapporto d’amore se non quello tra un uomo ed una donna. Tutto il resto è contro natura. Potremmo controbattere questa tesi affermando che, statistiche alla mano, circa il 70% degli appartenenti al clero di Roma è stato accusato di atti di pedofilia o omosessuali, ma questa è un’altra storia.

 

Il concetto chiave su cui occorre porre l’accento è che l’omosessualità non deve essere discriminata. Essa, invece, va intesa semplicemente come una condizione assolutamente privata (e perciò libera da giudizi) di chi prova piacere nell’amare una persona dello stesso sesso. Ci sono tanti modi di dimostrare i propri sentimenti e l’affetto nei confronti degli altri e questo è uno di quelli.

 

 

Tuttavia c’è un barlume di speranza. Nella realtà occidentale gli omosessuali, negli ultimi anni, hanno compiuto notevoli progressi, affermando con orgoglio e dignità la propria normalità e i propri diritti. Un esempio su tutti: la cattolica Spagna.

 

Purtroppo in Italia, così come in alcuni Stati dell’Asia, la situazione è ancora molto bloccata. L’ufficializzazione legale delle unioni di fatto al momento resta un’utopia. Quando si accetterà il principio laico secondo il quale un omosessuale è una persona uguale alle altre e con gli stessi diritti? Nell’attesa, non ci rimane che riaprire gli occhi e goderci questa moderna, aperta e civile società italiana.

 

CAROL,il film diretto da Todd Haynes è candidato a 6 premi Oscar

Cambiamo pagina e tuffiamoci nell’oceano del cinema. Riportiamo qui di seguito un approfondimento su una pellicola da poco uscita nelle nostre sale. Essa descrive la commovente storia di una coppia di donne decise a lasciare indietro il proprio passato in nome dell’amore. Un film drammatico ambientato in America durante la Guerra Fredda ed incentrato proprio sul tema quanto mai attuale e delicato dell’omosessualità, con protagoniste assolute Cate Blanchett e Rooney Mara. Ecco a voi Carol.

 

Cate Blanchett e Rooney Mara

 

La vicenda è ambientata a New York nel 1952. Therese Belivet è una ragazza impiegata in un enorme magazzino di Manhattan. La giovane è serratamente corteggiata da Richard Semco, che ha tutte le intenzioni di sposarla, e da Dannie McElroy, che non vede l’ora di baciarla. Tuttavia, Therese è innamorata di Carol Aird, un’elegante e distinta cliente affascinata ed attratta da un trenino elettrico in vendita. Grazie ad un guanto dimenticato e all’acquisto del tanto agognato trenino, Carol e Therese si prendono la licenza di andare a prendersi insieme un caffè in un bar. Davanti alle tazzine fumanti le due donne si aprono e si confessano: Carol ha un marito (Harge) da cui vuole divorziare e una figlia che vuole tenere e crescere, mentre Therese desidera scaricare l’insistente Richard e realizzarsi economicamente e professionalmente. Decidono così d’intraprendere un viaggio verso Ovest, verso nuovi orizzonti, lasciando per sempre il rigido inverno di New York e sfidando i pregiudizi morali e le convenzioni sociali dell’epoca. Carol e Therese scopriranno l’amore e la passione, in un Paese che considerava l’omosessualità come un disturbo psichico della personalità.

 

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla Lucky Red, Carol è un melodramma diretto da Todd Haynes (Lontano dal paradiso e Io non sono qui). Il regista statunitense propone il tema dell’omosessualità filtrandolo attraverso le gesta di Cate Blanchett (attrice australiana nota per opere quali Veronica Guerin – Il prezzo del coraggio, Babel e Cenerentola) e del suo personaggio che conferisce il titolo al film, e Rooney Mara (di cui ricordiamo Millenium – Uomini che odiano le donne, Effetti collaterali e Trash), nei panni della dolce Therese.

 

Nell’atmosfera avvolgente e romantica del periodo natalizio, Carol e Therese sono costrette a condurre una vita non loro, in nome delle regole sociali e del sistema di valori vigente. Allo stesso tempo, le due donne cercano di divincolarsi dagli schemi convenzionali imposti dall’America degli anni ’50 per poter vivere serenamente la loro reale natura sessuale. Tuttavia, in un’epoca e in una società dense di giudizi morali, i sentimenti rappresentano delle armi potenzialmente pericolose da maneggiare con cura nell’ambito di una storia d’amore apparentemente impossibile da coronare liberamente.

 

La relazione sentimentale fra le due protagoniste è sviluppata su due livelli: il piano sociale, in quanto Carol appartiene all’alta borghesia, mentre Therese alla “plebe”, e il piano di genere, dato che all’uomo è permesso scegliere, mentre alla donna no. All’interno di questa cornice concettuale, ciò che prende forma è la sofferenza. Carol infatti, ritenuta inidonea ad accudire la figlia per un’assurda “clausola morale”, deve rinunciare alla sua custodia e sottoporsi all’umiliazione di una serie d’invasivi controlli medici che eliminino la sua omosessualità. Il dolore e il tormento di questa tragica situazione sono ottimamente incarnati dal volto di una superba Cate Blanchett, sotto il cui sguardo caustico si cela il desiderio di amare Therese. Sull’altra sponda, ecco sbocciare il talento di Rooney Mara. Invaghita di una donna più grande di lei, la sua Therese sfoggia egregiamente una mimica facciale ed una fisionomia in cui ogni movenza è perfettamente sotto controllo. La crisalide che contiene il suo personaggio si schiude progressivamente sotto lo sguardo blu e glaciale di Carol, svelando un mistero da tenere ben nascosto sotto la superficie del pregiudizio.

 

Cate Blanchett incarna il cuore e il motore della pellicola. Una donna coraggiosa e determinata contro un’America infettata dalla crudeltà, dal razzismo e dalla paura per tutto ciò che viene considerato “diverso”. Haynes esplora e smaschera l’orrore del sistema, ribadendo l’estetica e il romanticismo della sua filmografia del passato tramite un semplice, ma significativo gesto: la mano che Carol poggia delicatamente sulla spalla di Therese, una dichiarazione d’amore in una società fatta di apparenze e convenzionalità.

Steven Spielberg e Tom Hanks: la coppia vincente

Da Salvate il soldato Ryan a Prova a prendermi, da The Terminal fino ad arrivare al recente Il Ponte delle spie. Nell’ambito cinematografico il duo composto da Steven Spielberg e Tom Hanks rappresenta indubbiamente una collaborazione professionale vincente e ben assortita.

 

Prima di analizzare i passaggi più importanti della filmografia realizzata in tandem, introduciamo brevemente i protagonisti di questo articolo con le loro rispettive biografie.

 

Steven Spielberg

 

Il celebre regista statunitense nasce a Cincinnati (Ohio) il 18 dicembre 1946 da genitori ebrei. Ritenuto all’unanimità uno dei cineasti più influenti di sempre, Steven Allan Spielberg agli albori della carriera fu un membro dei cosiddetti “movie brats”, una corrente artistica che contribuì fortemente alla nascita della Nuova Hollywood targata anni ’70, in compagnia dei colleghi ed amici Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma e George Lucas. Spielberg vinse due premi Oscar come miglior regista per il capolavoro Schindler’s List del 1993 e per il famoso Salvate il soldato Ryan del 1998 con protagonista Tom Hanks. Sempre nel 1993 conseguì il Leone d’oro alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre nel 1987 si aggiudicò il Premio alla memoria Irving G. Thalberg. Infine, fondò, insieme a Jeffrey Katzenberg e David Geffen, la Amblin Entertainment e la DreamWorks.

 

Tom Hanks

 

Il noto attore americano Thomas Jeffrey Hanks nasce a Concord (California) il 9 luglio del 1956. La fase embrionale della sua carriera prende forma a partire dagli anni ’80 in occasione della serie tv Henry e Kip (Bosom Buddies), grazie alla quale iniziò a farsi a conoscere. Da quel momento in poi, Hanks recitò in numerosi film, riscuotendo un enorme successo sia di pubblico sia di critica. Egli può vantare 5 nomination agli Oscar, vincendone due consecutivamente come miglior attore per Philadelphia del 1994 e Forrest Gump del 1995.

 

Le pellicole

Il primo film diretto da Steven Spielberg con protagonista Tom Hanks (nelle vesti del capitano John Miller) è Salvate il soldato Ryan (1998).

 

Tom Hanks ( capitano John Miller ) in Salvate il soldato Ryan (1998)

 

La storia è incentrata sullo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944. I primi 24 minuti dell’opera sono stati quelli più apprezzati dalla critica e dal pubblico in sala. In questa fetta di tempo il regista inscena in maniera diretta e senza fronzoli lo sbarco degli alleati sulle coste della Normandia, abbandonando l’enfatizzazione patriottica e l’esaltazione eroica dei precedenti lavori su questo tema. Salvate il soldato Ryan è stato co-prodotto da Spielberg ed Hanks e costò ben 120 milioni di dollari. Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, la pellicola ricevette 11 nomination all’Oscar, aggiudicandosene 5: miglior regia, fotografia, montaggio, sonoro ed effetti sonori.

 

Il secondo film frutto della coppia Spielberg-Hanks fu Prova a prendermi del 2002.

 

Prova a prendermi, 2002

 

L’opera narra le vicende di Frank Abagnale Jr., un truffatore che si spacciò pilota d’aereo, medico ed avvocato pur di poter vivere. Il personaggio è interpretato da Leonardo Di Caprio, mentre il ruolo dell’agente dell’FBI Carl Hanratty viene ricoperto da Tom Hanks, un esperto in frodi bancarie che farà di tutto pur di catturare il suo antagonista. La pellicola incassò ai botteghini la bellezza di 164 milioni di dollari e l’attore Christopher Walken (nei panni del padre di Frank) ottenne la nomination per l’Oscar come miglior attore non protagonista.

 

Nel 2004, invece, è la volta di The Terminal, con l’affascinante Catherine Zeta-Jones protagonista femminile.

 

The Terminal, 2004

 

In questo caso Tom Hanks è Viktor Navorski, personaggio ispirato alla storia del rifugiato iraniano Mehran Nasseri, il quale, nel 1988, visse per un certo periodo bloccato all’interno del terminal 1 dell’aeroporto di Parigi Charles de Gaulle. Tuttavia non mancano le modifiche: Spielberg, infatti, ambienta la vicenda a New York ed Hanks Navorski diventa un cittadino dell’Europa Orientale. Presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu girato in soli tre mesi.

 

Piccola curiosità. Nel 2009 Spielberg ed Hanks produssero la miniserie The Pacific. Basata sulle guerre del Pacifico, vede come protagonisti tre marines rimasti bloccati nel suddetto Oceano.

 

Il Ponte delle Spie

 

L’ultimo lavoro frutto della collaborazione tra Steven Spielberg e Tom Hanks è Il Ponte delle Spie, un serrato e teso spy-movie uscito ad ottobre 2015 che può vantare ben 6 candidature all’Oscar.

 

Il film è ambientato a Brooklyn nel 1957 e racconta la storia di Rudolf Abel, un pittore arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. Il clima ostile derivante dalla guerra fredda fra America ed Unione Sovietica non fa sconti a nessuno e l’uomo viene etichettato come un terribile nemico da condannare. Ma la democrazia esige che venga processato per ribadire i principi costituzionali americani. L’incarico della sua difesa viene affidato all’avvocato James B. Donovan, che fino a quel momento si era occupato di assicurazioni. Attirandosi lo scontento della moglie Mary, del giudice e dell’intera opinione pubblica, Donovan prende a cuore la causa. Nel frattempo però un aereo spia americano viene abbattuto dai militari sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero in Russia. Ecco che all’orizzonte s’intravede la possibilità di effettuare uno scambio e sarà proprio Donovan, incaricato dalla CIA, a gestire la delicata trattativa di negoziazione.

 

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla 20th Century Fox, Il ponte delle spie è un film thriller in cui le premesse narrative alla Hitchcock cedono progressivamente il posto ad uno sviluppo sempre più letterario. Lo svolgimento tematico, infatti, assume un carattere leggendario e il presente risulta quanto mai oscuro (emblematica in questo senso l’immagine tombale di Berlino).

 

Tom Hanks si trova perfettamente a suo agio nei panni dell’avvocato James B. Donovan. Sotto il suo cappotto e il suo ombrello (spesso sotto una pioggia battente) egli non incarna la giustizia, egli è giusto. Un uomo che onora il suo lavoro, ma che non vuole sapere veramente se il suo assistito è colpevole o innocente. A Donovan pare incredibile che il suo cliente Rudolf Abel (interpretato dall’attore inglese Mark Rylance, noto per pellicole quali Blitz, Anonymous e The Gunman, in uscita nel 2016 con Il gigante gentile, con la regia nuovamente affidata a Steven Spielberg) si disinteressi completamente circa il suo destino. Ma questo fa parte del suo mestiere. Alla fine a lui non importa tutto ciò, l’unica cosa che conta è cercare di assolvere la propria funzione, salvare la vita di una persona, a prescindere dal tipo di uomo che bisogna difendere. È proprio in quest’ottica che Donovan non reputa Abel come una spia sovietica o una minaccia, ma semplicemente come una persona che necessita del suo aiuto e della sua difesa. Nel corso dei giorni egli lo considererà come una sorta d’amico, individuando in lui un colore ed una profondità.

 

Una delle scene più significative è quella iniziale, dove Abel è intento a dipingere il suo autoritratto tramite l’utilizzo di uno specchio. L’immagine riflessa e quella impressa sulla tela riguardano la stessa persona, ma sono comunque differenti: la prima ritrae un’oggettività superficiale, mentre la seconda è il prodotto dello scorrere del tempo e dei pensieri che si sono susseguiti nelle ore dell’operazione, lasciando la traccia del suo autore. Il valore semantico intrinseco di questa scena è riassumibile nella frase pronunciata da Donovan al tenente Powers:

Non conta quello che di te penseranno gli altri, ma quello che sai tu”.

 

Per tutti questi motivi, Il ponte delle spie è un film straordinariamente attuale. In una società in cui regnano sovrani i sospetti, le intercettazioni e le false ed affrettate identificazioni di una persona col suo credo, il suo costume o la sua provenienza, l’opera di Steven Spielberg farà riflettere non poco il pubblico presente in sala.

 

TRAILER 

La Shoah nella storia del cinema

Il giorno della memoria. L’orrore dell’Olocausto e il dramma della deportazione della popolazione ebrea da parte dei nazisti hanno caratterizzato e influenzato in maniera netta e decisiva le rappresentazioni cinematografiche a partire dallo scorso secolo. Autori, registi, storici, esperti e critici si sono cimentati nel produrre svariate pellicole sul tema della Shoah, allo scopo di far rivivere un passato che non può e non deve essere cancellato dall’oblio.

 

La persecuzione e lo sterminio degli ebrei è stato riprodotto in modalità differenti nel corso degli anni. Alcuni registi, ad esempio, hanno voluto mettere in primo piano la cruda realtà del genocidio. Su questo percorso tematico, non possono non essere citati George Stevens e Steven Spielberg rispettivamente con Il diario di Anna Frank del 1959 e Schindler’s list del 1993. Stando a tempi più recenti, invece, troviamo Il pianista di Roman Polanski del 2002, Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber del 2005, Il nastro bianco di Michael Haneke del 2009, La chiave di Sara di Gilles Paquet-Brenner del 2010, In Darkness di Agnieszka Holland del 2011 e Anita B. di Roberto Faenza del 2014.

 

Altri autori invece hanno posto l’accento sulla deportazione e la realtà del lager. In questo senso, uno dei più importanti lavori del passato è senza dubbio Il viaggio dei dannati di Stuart Rosemberg del 1977, nonché il grande kolossal Olocausto dell’anno successivo, targato Marvin J. Chomsky. Ovviamente non poteva mancare La vita è bella di Roberto Benigni del 1998, così come l’opera d’oltralpe Train de Vie di Radu Mihaileanu del 1999, in cui è altresì percepibile una chiara deriva ironica per sdrammatizzare l’orrore. Incanalati all’interno del medesimo contesto tematico, ecco che trovano posto anche Il Falsario – Operazione Bernhard di Stefan Ruzowitzky del 2007, il celebre e più volte riproposto in tv Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman del 2008 ed infine Vento di primavera del 2010 diretto da Roselyne Bosch.

 

Alcuni registi hanno voluto inscenare il lato più battagliero e patriottico della situazione, schierandosi apertamente al fianco delle persone che hanno lottato, anche a costo della propria vita, pur di rimanere nella propria dimora e nel proprio Paese nonostante l’invasione nazista. Il tema della resistenza viene sviscerato ed esplorato in Arrivederci ragazzi di Louis Malle del 1987, Rosenstrasse di Margarethe von Trotta del 2003, La rosa bianca – Sophie Scholl di Marc Rothemund del 2005 e in Defiance – I giorni del coraggio del 2008, con Daniel Craig (James Bond) tra i protagonisti e la regia di Edward Zwick.

 

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La produzione cinematografica italiana non è stata certo a guardare. La persecuzione degli ebrei e le stragi naziste avvenute nel nostro Paese sono il leitmotiv de Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica del 1970, mentre in tempi più recenti ricordiamo Concorrenza sleale di Ettore Scola del 2001 e L’Uomo che verrà di Giorgio Diritti del 2009.

 

L’ironia utilizzata come arma contro l’orrore è il caposaldo de Il grande dittatore di Charlie Chaplin, superbo ed ilare capolavoro del 1940.

 

Il punto di vista delle vittime e degli spietati assassini che si sono macchiati di terribili omicidi viene analizzato da film quali Il maratoneta di John Schlesinger del 1976, L’ultimo metrò di Francois Truffaut del 1980 e il recente The Reader – A voce alta di Stephen Daldry del 2007.

 

La pellicola Vincitori e vinti di Stanley Kramer del 1961, invece, si fa notare per aver affrontato il tema spinoso dei processi dei criminali di guerra nazisti, mentre le opere intitolate Non dire falsa testimonianza di Krysztof Kieslowski del 1988 e Homicide di David Mamet del 1991 gettano la luce sulle tracce indelebili provocate dall’orrore dell’Olocausto.

 

Il labirinto del silenzio

 

 

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Uno degli esempi di cinema legato tematicamente al ricordo e alla rielaborazione della Shoah è il film, da poco uscito nelle sale, Il labirinto del silenzio, in cui la tragedia dell’Olocausto viene esaminata in maniera sobria ed efficace. Un film-dossier teso ed appassionante dai toni inquisitori e diretti.

 

La storia è ambientata a Francoforte (Germania) nel 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore idealista, ambizioso e ligio al dovere. Attraverso l’incontro con un giornalista poco incline alle regole e dallo spirito combattivo, Thomas Gnielka, Johann fa la conoscenza di Simon, un artista ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento di Auschwitz, le cui figlie gemelle sono state sottoposte ad una serie di crudeli test da parte del Dott. Josef Mengele. Simon riconosce nella figura di un insegnante di una scuola elementare uno degli aguzzini del campo di sterminio. Johann, rimasto colpito sia dalla sofferenza provata da Simon sia dalla tenacia di Thomas, decide di occuparsi del caso, ma la bocca cucita di coloro che vorrebbero dimenticare e di chi purtroppo non potrà mai affidarsi all’oblio, costringono il giovane procuratore a chiedere aiuto a Fritz Bauer, il procuratore generale, il quale gli consentirà di svolgere in piena autonomia e in totale libertà il proprio lavoro, infondendogli al contempo il coraggio di perorare la sua causa. Dopo aver ascoltato numerose testimonianze, Johann entrerà in contatto con l’orrore del passato recente della sua Germania ed avvierà il cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”.

 

Il labirinto del silenzio è un film drammatico tedesco del 2014, distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 14 gennaio grazie alla Good Films. Dietro la cinepresa troviamo il regista Giulio Ricciarelli, nato a Milano, ma naturalizzato tedesco, il quale, attraverso questa pellicola, fa slittare il piano visivo verso quello auditivo e il piano delle immagini verso quello verbale.

 

Il protagonista della vicenda è un biondo e baldanzoso procuratore che a distanza di 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau guida la propria Nazione verso la redenzione. Il 1958 diviene così l’anno spartiacque, in cui finalmente s’inizierà per la prima volta a far luce sui crimini di guerra e sui criminali nazisti.

 

Giulio Ricciarelli costruisce un film giuridico e drammatico perfettamente corretto da un punto di vista storiografico. Tale operazione viene eseguita amalgamando personaggi fittizi (Johann Radmann) e realmente esistiti (Thomas Gnielka e Fritz Bauer, a cui il film è dedicato).

 

Ne Il labirinto del silenzio il male assume le sembianze di un essere vivente dotato di un nome, un volto, un’età anagrafica e un recapito. Il giovane procuratore protagonista dell’opera prende sulle spalle la Germania, facendosi carico del suo ingombrante e sconcertante passato. I campi di sterminio non saranno più definiti (e giustificati) come “luoghi di detenzione privata”, ma verranno chiamati col loro vero e reale nome. Tuttavia, Johann, persuaso d’indagare su un omicidio, dovrà fare i conti con l’omertà delle persone e con la falsità delle loro dichiarazioni. A 20 anni di distanza dal processo di Norimberga, 22 criminali nazisti, di cui tuttavia solo 6 saranno condannati all’ergastolo, presenzieranno dinanzi al tribunale di Francoforte, in quello che è stato ribattezzato come il “secondo processo di Auschwitz”. Tale evento segnò un vero e proprio cambiamento di rotta: la Germania per la prima volta assunse il suo passato come un dovere morale. L’opinione pubblica e la magistratura iniziarono gradualmente a prendere coscienza e a sensibilizzarsi su ciò che accadde. L’oblio dell’Olocausto fu così scongiurato.

 

In questo film i mostri del passato verranno braccati e i gerarchi e i secondini saranno messi a confronto. Il silenzio degli aguzzini e delle vittime sarà spezzato ed interrotto da una serie di domande, le quali cercheranno di farsi largo nel loro dolore. Attraverso la figura di Simon, inoltre, Il labirinto del silenzio parlerà anche dell’isolamento dei sopravvissuti e dell’integrazione in Germania e in Israele, facendo riflettere chi ha ignorato e nascosto per troppo tempo la portata dello sterminio di massa.